A11 474 Paolo De Lucia La via verticale Dalla dissoluzione dell’umanità al ritorno ai valori Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978–88–548–2967–1 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: gennaio 2010 Ai confidanti Sommario 9 Introduzione 13 Parte I Le quattro eclissi 15 Capitolo I Il tramonto della religione 1. Chiarificazioni preliminari – 2. Variazioni sull’assoluto 33 Capitolo II La morte della patria 1. Il senso del problema – 2. Il mondo–spazzatura. Critica dell’americanismo globale 49 Capitolo III Le metamorfosi della famiglia 1. Dottrina dell’uomo – 2. La famiglia e i suoi nemici 69 Capitolo IV L’estinzione del lavoro 1. Il lavoro e il suo significato filosofico – 2. Valenze e declino – 3. Le degenerazioni e l’esito 7 8 Sommario 89 Parte II La restituzione della teoresi a sé stessa 91 Capitolo I Il pensiero come autoposizione e come autosvolgimento 1. L’intenzionalità ontologica – 2. La concrezione sistematica – 3. Ragione e fondamento. Per la ripresa del problema 107 Capitolo II La realtà come struttura 1. La distinzione originaria – 2. La materialità, la divenienza, l’organicità 125 Capitolo III La vita come esistenza 1. Tra il male e il bene – 2. Dialettica del negativo – 3. Dialettica del positivo 145 Capitolo IV L’assoluto come sovraesistenza 1. L’esigenza del fondamento – 2. La configurazione ontologica – 3. La natura teologica 163 Conclusione La ricostruzione verticale 1. L’inversione della rotta – 2. Il ritorno del lavoro – 3. La ricomposizione della famiglia – 4. La restituzione della patria – 5. La rinascita della religione Introduzione La crisi nella quale versa l’uomo contemporaneo tende nientemeno che alla dissoluzione dell’umanità, e può essere intesa come la nullificazione dei valori che provengono dalla Tradizione dell’Occidente, frutto della straordinaria confluenza di rivelazione ebraico–cristiana, pensiero greco e diritto romano: la religione, la patria, la famiglia, il lavoro. Il secolo Ventesimo ci ha presentato una scienza che ha rivoluzionato per molti aspetti l’immagine del mondo e dell’universo, e la filosofia si è in buona misura convertita in riflessione sulla scienza. Ora, in questo insieme di proposte, in questo universo che viene mutando per opera degli scienziati e dei filosofi che interpretano gli scienziati e che modificano l’immagine del mondo, che cosa ci può dire la filosofia a proposito del mondo e di quel soggetto che si interroga sul mondo che è l’uomo? La domanda si converte in un’altra domanda, cioè nell’interrogativo che si chiede se la filosofia della Tradizione classico–cristiana è compatibile con un mondo che ha mutato pelle, se può dirci ancora qualcosa, e se può darci ancora un punto di vista assoluto sul mondo. Secondo Martin Heidegger, parlare oggi di filosofia cristiana equivale a dire «ferro di legno», cioè equivale a dire qualcosa che non ha senso. Allora possiamo porre il problema in questi termini: come deve essere pensato il mondo affinché una visione sul mondo e sull’uomo, in prospettiva classico–cristiana, sia ancora possibile. Necessariamente, già una prima risposta postula un recupero di terreno della filosofia rispetto alle scienze umane, ed alla scienza in generale. Che cosa è diventata oggi la scienza? Una specie di strumento preparatorio della tecnologia. La tecnologia “prolunga” l’uomo: è come 9 10 Introduzione se gli desse delle protesi, se gli moltiplicasse gli occhi, le orecchie, le mani, ma tutto questo ha una valenza puramente strumentale, puramente incrementativa dell’avere e non dell’essere (quando si parla della coppia avere/essere, tutti pensano ad Erich Fromm, cioè ad uno studioso di discipline seconde e non della disciplina prima che è la filosofia teoretica; ma la coppia avere/essere è una coppia innanzitutto schopenhaueriana, riproposta nel Novecento da Gabriel Marcel). Anzi, le cronache paiono testimoniare che questo proliferare di strumenti soffoca l’io profondo dell’uomo. Quando si viene a sapere che in una certa città, una studentessa di 16 anni è finita sotto una corriera, la ruota della corriera le ha staccato la testa e i compagni di scuola si sono limitati, ridacchiando, a filmare la scena con i telefonini, allora ci si può chiedere se la generazione che a sei anni ha il telefonino e a otto anni il computer non sia una generazione senz’anima, se cioè la tecnologia non abbia “divorato” l’anima. Parlare di “divorare” le anime, significa evocare una figura che la Tradizione cristiana ha chiamato il demonio, il maligno. Nel film Angel Heart – Ascensore per l’Inferno, di Alan Parker (1987), uno splendido Robert De Niro interpreta Satana: un Satana che mangia un uovo, simbolo archetipico dell’anima (l’uovo possiede una valenza simbolica straordinaria; tutti gli uomini nascono da un ovulo, cioè da un uovo). Dai rischi della tecnologia non ci si salva tornando indietro, cioè rinunciando a pezzi di tecnologia, ci si salva recuperando l’anima. E attraverso quale via si può recuperare l’anima? Alcuni anni fa, Franco Rella ha scritto un volume dal titolo singolarissimo: Negli occhi di Vincent1. Dal dibattito che ne è scaturito, sono emerse varie considerazioni, ed altre possono emergere. Van Gogh era un uomo povero, a cui piaceva dipingere; non poteva permettersi le modelle, perché non le poteva pagare. Si metteva davanti allo specchio e ritraeva sé stesso. È autore di una quantità incredibile di autoritratti. Se io guardo un’altra persona per riprodurla sulla tela, che cosa vedo? Vedo il suo sguardo, e sulla tela riproduco il suo sguardo come è percepito da me. Ma se io invece guardo me stesso, guardando me stesso io vedo il mio sguardo come visto da me che vedo me che guardo me in una serie di rimandi che conducono all’infinito. Perché 1. F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998. Introduzione 11 – allora – gli autoritratti di Van Gogh riescono ad incantarci tanto? Non solo perché conosciamo le vicende esistenziali di questo tragico pittore che approdò al suicidio, ma perché si gioca negli autoritratti di Van Gogh l’infinità dello sguardo… Un grande pensatore cristiano, Italo Mancini, scomparso prematuramente nel 1993, lanciò nell’ultima fase della sua speculazione una specie di grido, con un volumetto: Tornino i volti2. Ci permettiamo di aggiungere: affinché tornino i volti è necessario che tornino gli sguardi, e affinché tornino gli sguardi, profondi e significativi come quello di Van Gogh, è indispensabile che si torni a una pratica desueta, la contemplazione. La grande cultura greca è durata più di 1300 anni, giacché i poemi omerici si fanno risalire al lontano IX secolo a.C., e la fine della filosofia antica al 529 d.C., quando l’imperatore Giustiniano ordina la chiusura delle scuole filosofiche pagane. Ora, qual è il messaggio spirituale della Grecità, che cosa ci consegna nel 529 la Grecità morente, come frutto di 1300 anni di percorso speculativo? Ci consegna il principio secondo il quale la creatività non deriva dall’azione, ma dalla contemplazione; appunto la ripresa della contemplazione appare fondamentale per il recupero dello sguardo e per il recupero dell’uomo. Nella visione del grande sistematizzatore del sapere antico, Aristotele, l’uomo va definito secondo due modalità: “animale avente il logos” — concetto dal significato duplice: “la parola” e “il pensiero” —, e “animale politico”: l’uomo è costituito dal rapporto con gli altri, con quell’alterità personale che — contemporaneamente — lo limita e lo libera dall’ipertrofia di sé stesso. Conseguentemente, un recupero dell’autenticità umana non può non passare per un recupero del senso della compresenza. La riflessione filosofica degli ultimi tempi ha recuperato il significato della compresenza, per esempio in relazione a quell’ultimo atto della vita che è la morte; si pensi a certe considerazioni di Virgilio Melchiorre. Il morire non ha nessun senso se non è un morire a qualcuno, perché un morire che non è un morire a qualcuno è una semplice cessazione delle funzioni vitali. Ma l’intero vivere è un vivere–a– qualcuno. Heidegger dice che l’essere dell’uomo è un “Mit–sein”, un “Essere–con”, per cui la stessa solitudine è una modalità negativa del 2. I. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989. 12 Introduzione “Mit–sein”, dell’“Essere–con”. Ebbene, occorre essere consapevoli del fatto che non esiste la possibilità di un’autentica compresenza se non alla luce di una presenza assoluta nel cui orizzonte siamo costituiti. Questo crea una comunanza di destino. E il destino è ciò che sta, ciò che è stabile, rispetto al fluire degli eventi e delle cose. Il destino, per chi sa porsi in ascolto della Parola che viene dalla Tradizione, assume un volto. Un volto talmente potente da costituire il principio rispetto al quale gli altri soggetti si qualificano. È dall’«Io sono» di Esodo 3, 14, che deriva la possibilità, per ciascuno di noi, di dire «io sono», è dal fuoco che deriva la condizione di possibilità delle singole fiammelle. Il discorso su Dio richiama naturalmente il tema della religione. Nelle pagine che seguono, attraverseremo i percorsi compiuti da quella che abbiamo indicato come la nullificazione dei valori che provengono dalla Tradizione dell’Occidente: appunto la religione, la patria, la famiglia, il lavoro. Toccherà poi al pensiero filosofico puro, alla teoresi restituita a sé stessa, il compito di riprendere da capo la costruzione di un punto di vista sul mondo, che, a partire dal rinvenimento del volto assoluto di Dio, si protenda a restituire pienezza di senso al nostro faticoso ed oscuro pellegrinare sulla terra. Questo libro è dedicato Ai confidanti, vale a dire a coloro che confidano nella possibilità che si realizzi un auspicio fondamentale, formulabile con le parole di Pietro Prini; l’auspicio, cioè, che non credenti e credenti siano accomunati dal non tradire, gli uni la fede nel filosofare, gli altri il filosofare nella fede. Parte I Le quattro eclissi Capitolo I Il tramonto della religione 1. Chiarificazioni preliminari In sintonia con la sensibilità contemporanea, affrontiamo il tema che ci siamo dati chiarendo innanzitutto i termini che adoperiamo. È corretto parlare di tramonto a proposito della religione? E che cos’è la religione? Sono note le considerazioni di Giambattista Vico sulla stretta connessione che sussiste tra il processo di civilizzazione dell’umanità, e l’affermazione dei culti religiosi, della sepoltura dei morti, e del matrimonio come atto cerimoniale, rituale, giuridico e sociale. Tali considerazioni conducono per forza di cose ad un giudizio nettamente negativo circa le condizioni odierne della civiltà occidentale, che — in quanto punta avanzata della civiltà mondiale — tende irresistibilmente ad una compiuta e definitiva identificazione con quest’ultima. Una civiltà protesa alla folclorizzazione progressiva delle forme del sacro e del santo, al declino dell’inumazione come forma normale, accettata e pacifica di restituzione alla terra di quella creatura che dalla terra è costituita (homo da humus, secondo una ricostruzione filologica scientificamente non impeccabile, ma teoreticamente di grande significato), in favore di quella cremazione–personalizzazione dei resti del defunto nella quale si gioca una inquietante sintesi tra nichilismo e sentimentalismo, e alla impostazione della vita affettiva e sessuale all’insegna di uno spontaneismo individualistico nel quale è difficile non riconoscere i segni di una accelerata regressione alla condizione animale, reca tutte le caratteristiche di una corruzione dissolutoria che avvia la civiltà medesima al rovesciamento nel suo contrario: la barbarie. 15 16 Parte I – Le quattro eclissi Forse si può considerare la religione, in generale, come quel portato della Tradizione, in virtù del quale l’enigmatica condizione umana viene inserita in un discorso esplicativo che la colloca in un riconoscibile orizzonte di senso. Vanno ricordati, a tale proposito, quegli appelli, provenienti da pensatori cristiani di particolare intensità e di considerevole seguito — si pensi ad esempio a Luigi Giussani — a non considerare il cristianesimo come una religione, giacché esso non si pone, nella prospettiva del suo Fondatore, come una via per giungere all’assoluto, al divino, a Dio, bensì come l’inaudita pretesa, avanzata a chiare lettere da Gesù Cristo, di essere egli stesso tanto la via, quanto la meta divina a cui la via conduce. L’argomento merita una riflessione approfondita, e per la sua autonoma rilevanza, e per il fatto che dalla chiarificazione di esso dipendono in buona misura l’organicità e la compiutezza del nostro discorso. È il cristianesimo una religione, o va definito in altri termini? Se si guarda alla storia, si coglie nel cristianesimo un originario, radicale ed incessante tentativo di leggere l’intera vicenda del cosmo e dell’uomo alla luce dell’evento cristico, di ricapitolare tutte le cose in Cristo, per echeggiare Paolo di Tarso, al quale la Chiesa delle origini dovette quel distacco dalla Sinagoga che la costituisce, pur se esso si configura non come una rottura irreversibile, bensì come un superamento–conservazione, una Aufhebung di romantica ed idealistica memoria, che non può non postulare la ricomposizione–riarmonizzazione dell’antico e del nuovo Israele. La croce appare, a ben vedere, come un simbolo di insuperabile pregnanza, giacché sembra indicare quella perpetua riconduzione ed elevazione della totalità (braccio orizzontale) alla trascendenza (braccio verticale), nella quale si può agevolmente ravvisare la cifra dell’attivo pellegrinare dei cristiani sulla terra. Allora, il cristianesimo è certamente una religione, che tuttavia non costruisce in virtù di uno sforzo creativo i mezzi per l’assolutizzazione–divinizzazione dell’uomo, ma riconosce nell’uomo e nel mondo una vocazione divina all’altezza della quale l’uomo ed il mondo sono perpetuamente chiamati. Così intese, in che senso la religione in generale, e quella religione in particolare nella quale onestà intellettuale vuole che si riconosca il vertice dell’esperienza religiosa — il cristianesimo —, tramontano e possono tramontare? Nel senso che allorché l’uomo decide — con un 1. Il tramonto della religione 17 atto nel quale si gioca la libertà totale che lo costituisce come uomo — di conferire rilevanza e di prestare ascolto alle pulsioni di natura istintuale e materiale che costituiscono il versante inferiore della sua struttura ontologica, la vocazione metafisica all’elevazione della sua totalità in direzione della trascendenza costituentesi come fonte di senso, viene come compressa, ma, essendo ineliminabile, radicale ed intensa, l’uomo attribuisce ad essa un altro termine di riferimento, al quale conferisce quella assolutezza, spettante in realtà alla sola trascendenza (che d’ora in poi indicheremo come l’“Oggetto”). È così che si articola — a partire dall’inizio dell’età moderna in Europa, dal secolo Diciannovesimo in America, e dal secolo Ventesimo nel resto del mondo — ciò che abbiamo indicato come il “tramonto della religione”, accompagnato dall’assolutizzazione indebita di altri termini dell’esperienza umana. 2. Variazioni sull’assoluto 2.1. Gramsci Sulla base di quanto si è osservato, occorre notare che a ripartire gli uomini non è la distinzione tra coloro che credono nell’Oggetto e coloro che rifiutano l’assoluto, bensì è la distinzione tra coloro che credono nell’Oggetto e coloro che conferiscono l’assolutezza ad altri termini di riferimento. Risulta ormai evidente, agli occhi della coscienza culturale e filosofica comune, che la visione del proletariato, della società senza classi e del comunismo, elaborata da Karl Marx, costituisce il frutto di un radicale processo di laicizzazione e di immanentizzazione, a cui il filosofo tedesco sottopone i capisaldi della fede ebraica: il popolo eletto, la Gerusalemme celeste, il Regno di Dio. Parallelamente, lo stesso Marx e vari pensatori che a lui si richiamano, si sono attivamente impegnati in un’opera di decostruzione del cristianesimo, vale a dire di riconduzione della religione cristiana al ruolo di fattore che esprime e copre — in forme più o meno mistificatorie — istanze ed interessi di vario genere. Si è potuto così parlare di decostruzione ideologica a proposito di Marx, di decostruzione storico–sociale a proposito di Engels, di decostruzione biblica a proposito di Bloch, di decostruzio- 18 Parte I – Le quattro eclissi ne politica a proposito di Antonio Gramsci1. Vale la pena soffermarsi su quest’ultimo pensatore, in ragione della rilevanza delle sue analisi, che lo rendono — anche, e forse soprattutto oggi — un punto di riferimento di prima grandezza nel panorama culturale mondiale. Nella prospettiva di Gramsci, il fenomeno più rilevante che la Chiesa cattolica è chiamata a fronteggiare in epoca contemporanea, vale a dire successivamente alla Rivoluzione francese, è costituito dal distacco di intere masse dalla visione religiosa del mondo. Allo scopo di porre un freno a tale macroscopico fenomeno, la gerarchia dà vita all’Azione Cattolica, vale a dire ad una forma di organizzazione (ma anche — entro certi limiti — di irregimentazione) del laicato credente; ora, dinanzi alla palese insufficienza di uno strumento pur efficace come l’Azione Cattolica, nei confronti di un fenomeno epocale come la scristianizzazione di massa, si impone agli occhi della Chiesa il più generale problema della linea “politica”, in rapporto ad una contemporaneità sempre più ostile ed estranea. Da questo orizzonte problematico, sorgono — secondo Gramsci — le tre “tendenze organiche” del cattolicesimo contemporaneo, che si concretano in altrettante fazioni, ciascuna delle quali lotta aspramente contro le altre due, allo scopo di far sì che la propria linea politica divenga l’asse portante della cultura e della prassi dell’intera Chiesa: si tratta dell’integralismo, di stampo conservatore, del modernismo, di stampo progressista, e del gesuitismo, di stampo moderato. In questa dialettica, interna alla Chiesa cattolica, tra conservatorismo, progressismo e moderatismo, in quale posizione si colloca il pensatore di punta della filosofia cattolica moderna, vale a dire Vincenzo Gioberti? Secondo Gramsci, al fine di rispondere a questa domanda occorre stabilire — in via preliminare — la natura progressiva o meno del suo pensiero. Per certe prospettive, sembra inclinare alla tendenza progressista, ad esempio allorché attribuisce alla partecipazione delle donne alla causa nazionale italiana, lo status di sintomo della raggiunta maturità civile della nazione stessa2. Ma se il contenuto di 1. Cfr. T. La Rocca, La decostruzione marxista della religione, in Aa. Vv., Filosofia della religione. Storia e problemi, a cura di P. Grassi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 117–155. 2. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 20073 (d’ora in poi: QC), Vol. II, Quad. 7, Par. 65, pp. 902–903. 1. Il tramonto della religione 19 una riflessione filosofica deriva dal particolare punto di vista dal quale essa riflette la realtà, il valore della medesima riflessione dipende dalla direzione e dalla rilevanza delle modifiche che questa opera nell’evoluzione del pensiero filosofico generalmente inteso3. Tenendo conto di ciò, il giudizio da formulare su Gioberti non può che essere di segno negativo, giacché la sua dottrina filosofica, unitamente a quella di Giambattista Vico e a quella di Bertrando Spaventa, ha contribuito ad orientare la lettura italiana di Hegel, formulata principalmente da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile, in chiave del tutto astratta ed anti–realistica. «È da vedere» — osserva Gramsci in una pagina di grande intensità — «se il movimento da Hegel a Croce–Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma “reazionaria”. Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica? e non è invece proprio di questa parte che solo la filosofia della praxis, in certi limiti, è una riforma e un superamento? E non è stato proprio l’insieme della filosofia della praxis a far deviare in questo senso il Croce e il Gentile, sebbene essi di questa filosofia si siano serviti per dottrine particolari? (cioè per ragioni implicitamente politiche?) Tra Croce–Gentile ed Hegel si è formato un anello [...] Vico–Spaventa–(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel? Hegel non può essere pensato senza la Rivoluzione francese e Napoleone con le sue guerre, senza cioè le esperienze vitali e immediate di un periodo storico intensissimo di lotte, di miserie, quando il mondo esterno schiaccia l’individuo e gli fa toccare la terra, lo appiattisce contro la terra, quando tutte le filosofie passate furono criticate dalla realtà in modo così perentorio? Cosa di simile potevano dare Vico e Spaventa?»4. In realtà, secondo Gramsci, il ruolo di Gioberti nell’Italia dell’Ottocento è stato analogo al ruolo di Croce nell’Italia del Novecento; Croce, cioè, ripeterebbe nel secolo Ventesimo la funzione sociale svolta da Gioberti nel secolo Diciannovesimo, consistente in un’opera di legittimazione e di accreditamento — e qui, evidentemente, non è in questione la buona o la mala fede — di una lettura della grande lezio3. Cfr. P. Salvucci, Sul concetto gramsciano di storia della filosofia, in Istituto Antonio Gramsci, Studi gramsciani (Atti del Convegno – Roma, 11–13 Gennaio 1958), a cura di F. Ferri, Premessa di R. Bianchi Bandinelli, Editori Riuniti, [Roma] 1958, pp. 253–257. 4. QC, Vol. II, Quad. 10, Par. 41, pp. 1316–1317. 20 Parte I – Le quattro eclissi ne speculativa di Hegel, volta a contrarne la carica di dirompente novità nei termini di un virtuosismo verbale quasi di stampo scolastico. Onestà intellettuale, tuttavia, impone a Gramsci di riconoscere che a Croce si deve una imponente opera di “essenzializzazione” della cultura nazionale, perseguita mediante un lungo processo di sprovincializzazione e di depurazione di essa dalle superfetazioni retoriche di stampo risorgimentalista; il crocianesimo, a sua volta, va depurato — a giudizio del pensatore sardo — da ogni effetto ottico sulla base del quale esso possa risultare come una sorta di serena e imparziale contemplazione dell’umana contingenza storica5. Secondo Gramsci, tale imparzialità non regge alla prova della storia, la quale travolge ogni velleità di mediazione, e sospinge irresistibilmente l’intellettuale che la coltiva a schierarsi con la più forte delle parti in lotta: ciò è valso per Croce nel Novecento, ed è valso per Gioberti nell’Ottocento6. A proposito di quest’ultimo, la posizione di Gramsci va espressa in termini ulteriormente articolati, compito al quale assolviamo con l’ausilio del più letto dei libri di Augusto Del Noce: Il suicidio della rivoluzione, opportunamente riedito nel 2004 per le amorevoli cure di Giuseppe Riconda7. Cerchiamo allora di raccogliere e valorizzare le intuizioni delnociane ivi contenute, circa le relazioni tra Gramsci e Gioberti. A tale proposito, nell’opera in questione, Del Noce arriva a parlare addirittura di un giobertismo di Gramsci, alla luce di un ragionamento che può essere ricostruito articolandolo nei seguenti punti: a) Gramsci vede, negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, i segni inequivocabili di quel processo di dissoluzione di una civiltà plurisecolare, che — dalla prospettiva di Del Noce — avrebbe raggiunto il punto di rottura nel fatidico 1968; b) al Partito Comunista Italiano, il filosofo sardo assegna a chiare lettere il compito di promuovere, attraverso l’ascesa delle classi operaie alla posizione dominante, il superamento, in Italia, della crisi che quella dissoluzione porta con sé; 5. Cfr. QC, Vol. II, Quad. 10, Par. 41, pp. 1326–1327. 6. Cfr. QC, Vol. III, Quad. 15, Par. 36, pp. 1790–1791. 7. Cfr. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Postfazione di G. Riconda, Aragno, Torino 20042; il passo riportato è alle pp. 170–171.