La via verticale - Aracne editrice

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Paolo De Lucia
La via verticale
Dalla dissoluzione dell’umanità
al ritorno ai valori
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ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
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via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978–88–548–2967–1
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: gennaio 2010
Ai confidanti
Sommario
9 Introduzione
13 Parte I
Le quattro eclissi
15 Capitolo I
Il tramonto della religione
1. Chiarificazioni preliminari – 2. Variazioni sull’assoluto
33 Capitolo II
La morte della patria
1. Il senso del problema – 2. Il mondo–spazzatura. Critica dell’americanismo globale
49 Capitolo III
Le metamorfosi della famiglia
1. Dottrina dell’uomo – 2. La famiglia e i suoi nemici
69 Capitolo IV
L’estinzione del lavoro
1. Il lavoro e il suo significato filosofico – 2. Valenze e declino – 3. Le degenerazioni
e l’esito
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Sommario
89 Parte II
La restituzione della teoresi a sé stessa
91 Capitolo I
Il pensiero come autoposizione e come autosvolgimento
1. L’intenzionalità ontologica – 2. La concrezione sistematica – 3. Ragione e
fondamento. Per la ripresa del problema
107 Capitolo II
La realtà come struttura
1. La distinzione originaria – 2. La materialità, la divenienza, l’organicità
125 Capitolo III
La vita come esistenza
1. Tra il male e il bene – 2. Dialettica del negativo – 3. Dialettica del positivo
145 Capitolo IV
L’assoluto come sovraesistenza
1. L’esigenza del fondamento – 2. La configurazione ontologica – 3. La natura teologica
163 Conclusione
La ricostruzione verticale
1. L’inversione della rotta – 2. Il ritorno del lavoro – 3. La ricomposizione della famiglia – 4. La restituzione della patria – 5. La rinascita della religione
Introduzione
La crisi nella quale versa l’uomo contemporaneo tende nientemeno
che alla dissoluzione dell’umanità, e può essere intesa come la nullificazione dei valori che provengono dalla Tradizione dell’Occidente, frutto
della straordinaria confluenza di rivelazione ebraico–cristiana, pensiero
greco e diritto romano: la religione, la patria, la famiglia, il lavoro.
Il secolo Ventesimo ci ha presentato una scienza che ha rivoluzionato per molti aspetti l’immagine del mondo e dell’universo, e la filosofia si è in buona misura convertita in riflessione sulla scienza. Ora,
in questo insieme di proposte, in questo universo che viene mutando
per opera degli scienziati e dei filosofi che interpretano gli scienziati
e che modificano l’immagine del mondo, che cosa ci può dire la filosofia a proposito del mondo e di quel soggetto che si interroga sul
mondo che è l’uomo? La domanda si converte in un’altra domanda, cioè nell’interrogativo che si chiede se la filosofia della Tradizione
classico–cristiana è compatibile con un mondo che ha mutato pelle,
se può dirci ancora qualcosa, e se può darci ancora un punto di vista
assoluto sul mondo.
Secondo Martin Heidegger, parlare oggi di filosofia cristiana equivale a dire «ferro di legno», cioè equivale a dire qualcosa che non ha
senso. Allora possiamo porre il problema in questi termini: come deve
essere pensato il mondo affinché una visione sul mondo e sull’uomo,
in prospettiva classico–cristiana, sia ancora possibile. Necessariamente, già una prima risposta postula un recupero di terreno della filosofia
rispetto alle scienze umane, ed alla scienza in generale.
Che cosa è diventata oggi la scienza? Una specie di strumento preparatorio della tecnologia. La tecnologia “prolunga” l’uomo: è come
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Introduzione
se gli desse delle protesi, se gli moltiplicasse gli occhi, le orecchie,
le mani, ma tutto questo ha una valenza puramente strumentale, puramente incrementativa dell’avere e non dell’essere (quando si parla
della coppia avere/essere, tutti pensano ad Erich Fromm, cioè ad uno
studioso di discipline seconde e non della disciplina prima che è la
filosofia teoretica; ma la coppia avere/essere è una coppia innanzitutto schopenhaueriana, riproposta nel Novecento da Gabriel Marcel).
Anzi, le cronache paiono testimoniare che questo proliferare di strumenti soffoca l’io profondo dell’uomo. Quando si viene a sapere che
in una certa città, una studentessa di 16 anni è finita sotto una corriera,
la ruota della corriera le ha staccato la testa e i compagni di scuola si
sono limitati, ridacchiando, a filmare la scena con i telefonini, allora
ci si può chiedere se la generazione che a sei anni ha il telefonino e a
otto anni il computer non sia una generazione senz’anima, se cioè la
tecnologia non abbia “divorato” l’anima.
Parlare di “divorare” le anime, significa evocare una figura che la
Tradizione cristiana ha chiamato il demonio, il maligno. Nel film Angel Heart – Ascensore per l’Inferno, di Alan Parker (1987), uno splendido Robert De Niro interpreta Satana: un Satana che mangia un uovo,
simbolo archetipico dell’anima (l’uovo possiede una valenza simbolica straordinaria; tutti gli uomini nascono da un ovulo, cioè da un
uovo). Dai rischi della tecnologia non ci si salva tornando indietro,
cioè rinunciando a pezzi di tecnologia, ci si salva recuperando l’anima.
E attraverso quale via si può recuperare l’anima?
Alcuni anni fa, Franco Rella ha scritto un volume dal titolo singolarissimo: Negli occhi di Vincent1. Dal dibattito che ne è scaturito, sono
emerse varie considerazioni, ed altre possono emergere. Van Gogh
era un uomo povero, a cui piaceva dipingere; non poteva permettersi
le modelle, perché non le poteva pagare. Si metteva davanti allo specchio e ritraeva sé stesso. È autore di una quantità incredibile di autoritratti. Se io guardo un’altra persona per riprodurla sulla tela, che
cosa vedo? Vedo il suo sguardo, e sulla tela riproduco il suo sguardo
come è percepito da me. Ma se io invece guardo me stesso, guardando
me stesso io vedo il mio sguardo come visto da me che vedo me che
guardo me in una serie di rimandi che conducono all’infinito. Perché
1. F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998.
Introduzione
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– allora – gli autoritratti di Van Gogh riescono ad incantarci tanto?
Non solo perché conosciamo le vicende esistenziali di questo tragico
pittore che approdò al suicidio, ma perché si gioca negli autoritratti
di Van Gogh l’infinità dello sguardo… Un grande pensatore cristiano,
Italo Mancini, scomparso prematuramente nel 1993, lanciò nell’ultima
fase della sua speculazione una specie di grido, con un volumetto:
Tornino i volti2. Ci permettiamo di aggiungere: affinché tornino i volti
è necessario che tornino gli sguardi, e affinché tornino gli sguardi,
profondi e significativi come quello di Van Gogh, è indispensabile che
si torni a una pratica desueta, la contemplazione. La grande cultura
greca è durata più di 1300 anni, giacché i poemi omerici si fanno risalire al lontano IX secolo a.C., e la fine della filosofia antica al 529 d.C.,
quando l’imperatore Giustiniano ordina la chiusura delle scuole filosofiche pagane. Ora, qual è il messaggio spirituale della Grecità, che
cosa ci consegna nel 529 la Grecità morente, come frutto di 1300 anni
di percorso speculativo? Ci consegna il principio secondo il quale la
creatività non deriva dall’azione, ma dalla contemplazione; appunto
la ripresa della contemplazione appare fondamentale per il recupero
dello sguardo e per il recupero dell’uomo.
Nella visione del grande sistematizzatore del sapere antico, Aristotele, l’uomo va definito secondo due modalità: “animale avente il
logos” — concetto dal significato duplice: “la parola” e “il pensiero”
—, e “animale politico”: l’uomo è costituito dal rapporto con gli altri,
con quell’alterità personale che — contemporaneamente — lo limita
e lo libera dall’ipertrofia di sé stesso. Conseguentemente, un recupero
dell’autenticità umana non può non passare per un recupero del senso
della compresenza.
La riflessione filosofica degli ultimi tempi ha recuperato il significato della compresenza, per esempio in relazione a quell’ultimo atto
della vita che è la morte; si pensi a certe considerazioni di Virgilio
Melchiorre. Il morire non ha nessun senso se non è un morire a qualcuno, perché un morire che non è un morire a qualcuno è una semplice cessazione delle funzioni vitali. Ma l’intero vivere è un vivere–a–
qualcuno. Heidegger dice che l’essere dell’uomo è un “Mit–sein”, un
“Essere–con”, per cui la stessa solitudine è una modalità negativa del
2. I. Mancini, Tornino i volti, Marietti, Genova 1989.
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Introduzione
“Mit–sein”, dell’“Essere–con”. Ebbene, occorre essere consapevoli
del fatto che non esiste la possibilità di un’autentica compresenza se
non alla luce di una presenza assoluta nel cui orizzonte siamo costituiti. Questo crea una comunanza di destino. E il destino è ciò che sta,
ciò che è stabile, rispetto al fluire degli eventi e delle cose.
Il destino, per chi sa porsi in ascolto della Parola che viene dalla
Tradizione, assume un volto. Un volto talmente potente da costituire
il principio rispetto al quale gli altri soggetti si qualificano. È dall’«Io
sono» di Esodo 3, 14, che deriva la possibilità, per ciascuno di noi, di
dire «io sono», è dal fuoco che deriva la condizione di possibilità delle
singole fiammelle.
Il discorso su Dio richiama naturalmente il tema della religione.
Nelle pagine che seguono, attraverseremo i percorsi compiuti da quella che abbiamo indicato come la nullificazione dei valori che provengono dalla Tradizione dell’Occidente: appunto la religione, la patria,
la famiglia, il lavoro. Toccherà poi al pensiero filosofico puro, alla teoresi restituita a sé stessa, il compito di riprendere da capo la costruzione di un punto di vista sul mondo, che, a partire dal rinvenimento
del volto assoluto di Dio, si protenda a restituire pienezza di senso al
nostro faticoso ed oscuro pellegrinare sulla terra.
Questo libro è dedicato Ai confidanti, vale a dire a coloro che confidano nella possibilità che si realizzi un auspicio fondamentale, formulabile con le parole di Pietro Prini; l’auspicio, cioè, che non credenti e
credenti siano accomunati dal non tradire, gli uni la fede nel filosofare,
gli altri il filosofare nella fede.
Parte I
Le quattro eclissi
Capitolo I
Il tramonto della religione
1. Chiarificazioni preliminari
In sintonia con la sensibilità contemporanea, affrontiamo il tema
che ci siamo dati chiarendo innanzitutto i termini che adoperiamo. È
corretto parlare di tramonto a proposito della religione? E che cos’è la
religione? Sono note le considerazioni di Giambattista Vico sulla stretta connessione che sussiste tra il processo di civilizzazione dell’umanità, e l’affermazione dei culti religiosi, della sepoltura dei morti, e del
matrimonio come atto cerimoniale, rituale, giuridico e sociale. Tali
considerazioni conducono per forza di cose ad un giudizio nettamente
negativo circa le condizioni odierne della civiltà occidentale, che — in
quanto punta avanzata della civiltà mondiale — tende irresistibilmente ad una compiuta e definitiva identificazione con quest’ultima. Una
civiltà protesa alla folclorizzazione progressiva delle forme del sacro e
del santo, al declino dell’inumazione come forma normale, accettata e
pacifica di restituzione alla terra di quella creatura che dalla terra è costituita (homo da humus, secondo una ricostruzione filologica scientificamente non impeccabile, ma teoreticamente di grande significato),
in favore di quella cremazione–personalizzazione dei resti del defunto
nella quale si gioca una inquietante sintesi tra nichilismo e sentimentalismo, e alla impostazione della vita affettiva e sessuale all’insegna
di uno spontaneismo individualistico nel quale è difficile non riconoscere i segni di una accelerata regressione alla condizione animale,
reca tutte le caratteristiche di una corruzione dissolutoria che avvia la
civiltà medesima al rovesciamento nel suo contrario: la barbarie.
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Parte I – Le quattro eclissi
Forse si può considerare la religione, in generale, come quel portato della Tradizione, in virtù del quale l’enigmatica condizione umana
viene inserita in un discorso esplicativo che la colloca in un riconoscibile orizzonte di senso. Vanno ricordati, a tale proposito, quegli
appelli, provenienti da pensatori cristiani di particolare intensità e di
considerevole seguito — si pensi ad esempio a Luigi Giussani — a
non considerare il cristianesimo come una religione, giacché esso non
si pone, nella prospettiva del suo Fondatore, come una via per giungere all’assoluto, al divino, a Dio, bensì come l’inaudita pretesa, avanzata a chiare lettere da Gesù Cristo, di essere egli stesso tanto la via,
quanto la meta divina a cui la via conduce.
L’argomento merita una riflessione approfondita, e per la sua autonoma rilevanza, e per il fatto che dalla chiarificazione di esso dipendono in buona misura l’organicità e la compiutezza del nostro discorso.
È il cristianesimo una religione, o va definito in altri termini? Se si
guarda alla storia, si coglie nel cristianesimo un originario, radicale ed
incessante tentativo di leggere l’intera vicenda del cosmo e dell’uomo
alla luce dell’evento cristico, di ricapitolare tutte le cose in Cristo, per
echeggiare Paolo di Tarso, al quale la Chiesa delle origini dovette quel
distacco dalla Sinagoga che la costituisce, pur se esso si configura non
come una rottura irreversibile, bensì come un superamento–conservazione, una Aufhebung di romantica ed idealistica memoria, che non
può non postulare la ricomposizione–riarmonizzazione dell’antico e
del nuovo Israele. La croce appare, a ben vedere, come un simbolo
di insuperabile pregnanza, giacché sembra indicare quella perpetua
riconduzione ed elevazione della totalità (braccio orizzontale) alla trascendenza (braccio verticale), nella quale si può agevolmente ravvisare la cifra dell’attivo pellegrinare dei cristiani sulla terra. Allora, il
cristianesimo è certamente una religione, che tuttavia non costruisce
in virtù di uno sforzo creativo i mezzi per l’assolutizzazione–divinizzazione dell’uomo, ma riconosce nell’uomo e nel mondo una vocazione
divina all’altezza della quale l’uomo ed il mondo sono perpetuamente
chiamati.
Così intese, in che senso la religione in generale, e quella religione
in particolare nella quale onestà intellettuale vuole che si riconosca il
vertice dell’esperienza religiosa — il cristianesimo —, tramontano e
possono tramontare? Nel senso che allorché l’uomo decide — con un
1. Il tramonto della religione
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atto nel quale si gioca la libertà totale che lo costituisce come uomo
— di conferire rilevanza e di prestare ascolto alle pulsioni di natura istintuale e materiale che costituiscono il versante inferiore della
sua struttura ontologica, la vocazione metafisica all’elevazione della
sua totalità in direzione della trascendenza costituentesi come fonte
di senso, viene come compressa, ma, essendo ineliminabile, radicale
ed intensa, l’uomo attribuisce ad essa un altro termine di riferimento,
al quale conferisce quella assolutezza, spettante in realtà alla sola trascendenza (che d’ora in poi indicheremo come l’“Oggetto”). È così
che si articola — a partire dall’inizio dell’età moderna in Europa, dal
secolo Diciannovesimo in America, e dal secolo Ventesimo nel resto
del mondo — ciò che abbiamo indicato come il “tramonto della religione”, accompagnato dall’assolutizzazione indebita di altri termini
dell’esperienza umana.
2. Variazioni sull’assoluto
2.1. Gramsci
Sulla base di quanto si è osservato, occorre notare che a ripartire
gli uomini non è la distinzione tra coloro che credono nell’Oggetto
e coloro che rifiutano l’assoluto, bensì è la distinzione tra coloro che
credono nell’Oggetto e coloro che conferiscono l’assolutezza ad altri
termini di riferimento.
Risulta ormai evidente, agli occhi della coscienza culturale e filosofica comune, che la visione del proletariato, della società senza classi
e del comunismo, elaborata da Karl Marx, costituisce il frutto di un
radicale processo di laicizzazione e di immanentizzazione, a cui il filosofo tedesco sottopone i capisaldi della fede ebraica: il popolo eletto, la Gerusalemme celeste, il Regno di Dio. Parallelamente, lo stesso
Marx e vari pensatori che a lui si richiamano, si sono attivamente impegnati in un’opera di decostruzione del cristianesimo, vale a dire di
riconduzione della religione cristiana al ruolo di fattore che esprime
e copre — in forme più o meno mistificatorie — istanze ed interessi
di vario genere. Si è potuto così parlare di decostruzione ideologica
a proposito di Marx, di decostruzione storico–sociale a proposito di
Engels, di decostruzione biblica a proposito di Bloch, di decostruzio-
18
Parte I – Le quattro eclissi
ne politica a proposito di Antonio Gramsci1. Vale la pena soffermarsi
su quest’ultimo pensatore, in ragione della rilevanza delle sue analisi,
che lo rendono — anche, e forse soprattutto oggi — un punto di riferimento di prima grandezza nel panorama culturale mondiale.
Nella prospettiva di Gramsci, il fenomeno più rilevante che la
Chiesa cattolica è chiamata a fronteggiare in epoca contemporanea,
vale a dire successivamente alla Rivoluzione francese, è costituito dal
distacco di intere masse dalla visione religiosa del mondo. Allo scopo
di porre un freno a tale macroscopico fenomeno, la gerarchia dà vita
all’Azione Cattolica, vale a dire ad una forma di organizzazione (ma
anche — entro certi limiti — di irregimentazione) del laicato credente; ora, dinanzi alla palese insufficienza di uno strumento pur efficace
come l’Azione Cattolica, nei confronti di un fenomeno epocale come
la scristianizzazione di massa, si impone agli occhi della Chiesa il più
generale problema della linea “politica”, in rapporto ad una contemporaneità sempre più ostile ed estranea. Da questo orizzonte problematico, sorgono — secondo Gramsci — le tre “tendenze organiche”
del cattolicesimo contemporaneo, che si concretano in altrettante fazioni, ciascuna delle quali lotta aspramente contro le altre due, allo
scopo di far sì che la propria linea politica divenga l’asse portante della cultura e della prassi dell’intera Chiesa: si tratta dell’integralismo, di
stampo conservatore, del modernismo, di stampo progressista, e del
gesuitismo, di stampo moderato.
In questa dialettica, interna alla Chiesa cattolica, tra conservatorismo, progressismo e moderatismo, in quale posizione si colloca il pensatore di punta della filosofia cattolica moderna, vale a dire Vincenzo
Gioberti? Secondo Gramsci, al fine di rispondere a questa domanda
occorre stabilire — in via preliminare — la natura progressiva o meno
del suo pensiero. Per certe prospettive, sembra inclinare alla tendenza progressista, ad esempio allorché attribuisce alla partecipazione
delle donne alla causa nazionale italiana, lo status di sintomo della
raggiunta maturità civile della nazione stessa2. Ma se il contenuto di
1. Cfr. T. La Rocca, La decostruzione marxista della religione, in Aa. Vv., Filosofia della
religione. Storia e problemi, a cura di P. Grassi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 117–155.
2. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V.
Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 20073 (d’ora in poi: QC), Vol. II, Quad. 7, Par. 65, pp.
902–903.
1. Il tramonto della religione
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una riflessione filosofica deriva dal particolare punto di vista dal quale
essa riflette la realtà, il valore della medesima riflessione dipende dalla
direzione e dalla rilevanza delle modifiche che questa opera nell’evoluzione del pensiero filosofico generalmente inteso3. Tenendo conto
di ciò, il giudizio da formulare su Gioberti non può che essere di segno negativo, giacché la sua dottrina filosofica, unitamente a quella di
Giambattista Vico e a quella di Bertrando Spaventa, ha contribuito
ad orientare la lettura italiana di Hegel, formulata principalmente da
Benedetto Croce e da Giovanni Gentile, in chiave del tutto astratta
ed anti–realistica. «È da vedere» — osserva Gramsci in una pagina di
grande intensità — «se il movimento da Hegel a Croce–Gentile non
sia stato un passo indietro, una riforma “reazionaria”. Non hanno essi
reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica? e non è invece proprio di questa parte che solo la
filosofia della praxis, in certi limiti, è una riforma e un superamento?
E non è stato proprio l’insieme della filosofia della praxis a far deviare
in questo senso il Croce e il Gentile, sebbene essi di questa filosofia si
siano serviti per dottrine particolari? (cioè per ragioni implicitamente
politiche?) Tra Croce–Gentile ed Hegel si è formato un anello [...]
Vico–Spaventa–(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel? Hegel non può essere pensato senza la Rivoluzione
francese e Napoleone con le sue guerre, senza cioè le esperienze vitali
e immediate di un periodo storico intensissimo di lotte, di miserie,
quando il mondo esterno schiaccia l’individuo e gli fa toccare la terra,
lo appiattisce contro la terra, quando tutte le filosofie passate furono
criticate dalla realtà in modo così perentorio? Cosa di simile potevano
dare Vico e Spaventa?»4.
In realtà, secondo Gramsci, il ruolo di Gioberti nell’Italia dell’Ottocento è stato analogo al ruolo di Croce nell’Italia del Novecento;
Croce, cioè, ripeterebbe nel secolo Ventesimo la funzione sociale svolta da Gioberti nel secolo Diciannovesimo, consistente in un’opera di
legittimazione e di accreditamento — e qui, evidentemente, non è in
questione la buona o la mala fede — di una lettura della grande lezio3. Cfr. P. Salvucci, Sul concetto gramsciano di storia della filosofia, in Istituto Antonio
Gramsci, Studi gramsciani (Atti del Convegno – Roma, 11–13 Gennaio 1958), a cura di F. Ferri,
Premessa di R. Bianchi Bandinelli, Editori Riuniti, [Roma] 1958, pp. 253–257.
4. QC, Vol. II, Quad. 10, Par. 41, pp. 1316–1317.
20
Parte I – Le quattro eclissi
ne speculativa di Hegel, volta a contrarne la carica di dirompente novità nei termini di un virtuosismo verbale quasi di stampo scolastico.
Onestà intellettuale, tuttavia, impone a Gramsci di riconoscere che
a Croce si deve una imponente opera di “essenzializzazione” della
cultura nazionale, perseguita mediante un lungo processo di sprovincializzazione e di depurazione di essa dalle superfetazioni retoriche
di stampo risorgimentalista; il crocianesimo, a sua volta, va depurato
— a giudizio del pensatore sardo — da ogni effetto ottico sulla base
del quale esso possa risultare come una sorta di serena e imparziale
contemplazione dell’umana contingenza storica5. Secondo Gramsci,
tale imparzialità non regge alla prova della storia, la quale travolge
ogni velleità di mediazione, e sospinge irresistibilmente l’intellettuale
che la coltiva a schierarsi con la più forte delle parti in lotta: ciò è valso
per Croce nel Novecento, ed è valso per Gioberti nell’Ottocento6.
A proposito di quest’ultimo, la posizione di Gramsci va espressa
in termini ulteriormente articolati, compito al quale assolviamo con
l’ausilio del più letto dei libri di Augusto Del Noce: Il suicidio della
rivoluzione, opportunamente riedito nel 2004 per le amorevoli cure
di Giuseppe Riconda7. Cerchiamo allora di raccogliere e valorizzare
le intuizioni delnociane ivi contenute, circa le relazioni tra Gramsci e
Gioberti.
A tale proposito, nell’opera in questione, Del Noce arriva a parlare
addirittura di un giobertismo di Gramsci, alla luce di un ragionamento
che può essere ricostruito articolandolo nei seguenti punti:
a) Gramsci vede, negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, i segni inequivocabili di quel processo di dissoluzione di
una civiltà plurisecolare, che — dalla prospettiva di Del Noce
— avrebbe raggiunto il punto di rottura nel fatidico 1968;
b) al Partito Comunista Italiano, il filosofo sardo assegna a chiare
lettere il compito di promuovere, attraverso l’ascesa delle classi
operaie alla posizione dominante, il superamento, in Italia, della crisi che quella dissoluzione porta con sé;
5. Cfr. QC, Vol. II, Quad. 10, Par. 41, pp. 1326–1327.
6. Cfr. QC, Vol. III, Quad. 15, Par. 36, pp. 1790–1791.
7. Cfr. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Postfazione di G. Riconda, Aragno, Torino 20042; il passo riportato è alle pp. 170–171.
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