PENSIERO DEBOLE E NUOVO REALISMO: IL DIBATTITO CHE DIVIDE I FILOSOFI Il ritorno al pensiero forte di Maurizio Ferraris Il dibattito tra Ferraris e Vattimo, Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" L’idolatria dei fatti di Pier Aldo Rovatti Dibattito tra pensiero debole e new realism, Intervista a Gianni Vattimo di Corrado Ocone Dal pensiero debole al nuovo realismo di Dante Argeri PENSIERO DEBOLE. All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso alcuni filosofi italiani, tra cui G. Vattimo (1936) e P. A. Rovatti (1942), hanno proposto di distinguere tra “pensiero forte”, che si ritiene in grado di giungere a delle certezze assolute, a delle verità definitive, a dei significati forti, e “pensiero debole”, che rinuncia a queste pretese ma non alla ricerca accettandone la precarietà e rimanendo aperto a cercare nuove vie, nuovi campi d’indagini, ad accettare la diversità, la molteplicità dei punti di vista. NUOVO REALISMO. Scritto nel 2012 da M. Ferraris (1956) Il Manifesto del nuovo realismo è stato preceduto a partire dall’estate del 2011 da un lungo dibattito, avvenuto anche sui mass media (da cui sono tratti i testi). Il nuovo realismo, accusando il pensiero debole di ridurre la verità a interpretazioni, ritiene che occorra ritornare a porre al centro della riflessioni i fatti intesi come puri dati oggettivi che stanno al di là delle diverse interpretazioni. IL RITORNO AL PENSIERO FORTE di Maurizio Ferraris in La Repubblica, 08, agosto, 2011 Uno spettro si aggira per l' Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare "New Realism", e che dà il titolo a un convegno internazionale che si terrà a Bonn la primavera prossima e che ho organizzato con due giovani colleghi, Markus Gabriel (Bonn) e Petar Bojanic (Belgrado). Il convegno, cui parteciperanno figure come Paul Boghossian, Umberto Eco e John Searle, vuole restituire lo spazio che si merita, in filosofia, in politica e nella vita quotidiana, a una nozione, quella di "realismo", che nel mondo postmoderno è stata considerata una ingenuità filosofica e una manifestazione di conservatorismo politico. La realtà, si diceva ai tempi dell' ermeneutica e del pensiero debole, non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri pensieri e dai nostri sensi. Oltre che filosoficamente inconsistente, appellarsi alla realtà, in epoche ancora legate al micidiale slogan "l' immaginazione al potere", appariva come il desiderio che nulla cambiasse, come una accettazione del mondo così com' è. A far scricchiolare le certezze dei postmoderni ha contribuito prima di tutto la politica. L' avvento dei populismi mediatici - una circostanza tutt' altro che puramente immaginaria - ha fornito l' esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo, senza parlare poi dell' uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica e "imperiale" da parte dell' amministrazione Bush, che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove dell' esistenza di armi di distruzione di massa. Nei telegiornali e nei programmi politici abbiamo visto regnare il principio di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni", che pochi anni prima i filosofi proponevano come la via per l' emancipazione, e che in effetti si è presentato come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva. Si è scoperto così il vero significato del detto di Nietzsche: "La ragione del più forte è sempre la migliore".È anche per questo, credo, che a partire dalla fine del secolo scorso si sono fatte avanti delle rivendicazioni di realismo filosofico. Il New Realism nasce infatti da una semplice domanda. Che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero, o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po' come 1 quando si dice che siamo entrati nel mondo dell' immateriale e insieme coltiviamo la sacrosanta paura che ci cada il computer. Da questo punto di vista, un primo gesto fondamentale è consistito nella critica dell' idea che tutto sia socialmente costruito, compreso il mondo naturale, e sotto questa prospettiva il libro di Searle La costruzione della realtà sociale (1995) è stato un punto di svolta. In Italia, il segnale è venuto da Kant e l' ornitorinco di Eco (1997), che vedeva nel reale uno "zoccolo duro" con cui necessariamente si tratta di fare i conti, portando a compimento un discorso avviato all' inizio degli anni Novanta con I limiti dell' interpretazione. Lo stesso fatto che, sempre in quegli anni, si sia tornati a considerare l' estetica non come una filosofia dell' illusione, ma come una filosofia della percezione, ha rivelato una nuova disponibilità nei confronti del mondo esterno, di un reale che sta fuori degli schemi concettuali, e che ne è indipendente, proprio come non ciè possibile, con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o cambiare i colori degli oggetti che ci circondano. Questa maggiore attenzione al mondo esterno ha significato, anche, una riabilitazione della nozione di "verità", che i postmoderni ritenevano esaurita e meno importante, per esempio, della solidarietà. Non considerando quanto importante sia la verità nelle nostre pratiche quotidiane, e quanto la verità sia intimamente connessa con la realtà. Se uno va dal medico, sarebbe certo felice di avere solidarietà, ma ciò di cui soprattutto ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si trova nel mondo esterno, cioè, nella fattispecie, nel suo corpo. È per questo che in opere come Paura di conoscere (2005) di Paul Boghossian e Per la verità (2007) di Diego Marconi si è proceduto a argomentare contro la tesi secondo cui la verità è una nozione relativa, e del tutto dipendente dagli schemi concettuali con cui ci accostiamo al mondo. È in questo quadro che si definiscono le parolechiave del New Realism: Ontologia, Critica, Illuminismo. Ontologia significa semplicemente: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare. L' errore dei postmoderni poggiava su una semplice confusione tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c'è e quello che sappiamo a proposito di quello che c' è. È chiaro che per sapere che l' acqua è H2 O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie. Ma l' acqua bagna e il fuoco scotta, sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, è indipendentemente da linguaggi e da categorie. A un certo punto c' è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamo "inemendabilità", il carattere saliente del reale. Che può essere certo una limitazione ma che, al tempo stesso, ci fornisce proprio quel punto d' appoggio che permette di distinguere il sogno dalla realtà e la scienza dalla magia. Critica, poi, significa questo. L' argomento dei postmoderni era che l' irrealismo e il cuore oltre l' ostacolo sono emancipatori. Ma chiaramente non è così, perché mentre il realismo è immediatamente critico ("le cose stanno così", l' accertamento non è accettazione!), l'irrealismo pone un problema. Se pensi che non ci sono fatti, solo interpretazioni, come fai a sapere che stai trasformando il mondo e non, invece, stai semplicemente immaginando di trasformarlo, sognando di trasformarlo? Nel realismo è incorporata la critica, all' irrealismo è connaturata l' acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno. Veniamo, infine, all' Illuminismo. La storia recente ha confermato la diagnosi di Habermas che trent' anni fa vedeva nel postmodernismo un' ondata anti-illuminista. L' Illuminismo, come diceva Kant, è osare sapere ed è l'uscita dell' uomo dalla sua infanzia. Da questo punto di vista, l' Illuminismo richiede ancora oggi una scelta di campo, e una fiducia nell' umanità, nel sapere e nel progresso. L' umanità deve salvarsi, e certo mai e poi mai potrà farlo un Dio. Occorrono il sapere, la verità e la realtà. Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l' alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore: seguire la via del miracolo, del mistero e dell' autorità. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/08/il-ritorno-al-pensieroforte.html 2 IL DIBATTITO TRA FERRARIS E VATTIMO Ferraris e Vattimo discutono il manifesto del "New Realism" che propone di riportare i fatti concreti al centro della riflessione in La Repubblica, 19 agosto 2011 Siamo ancora postmoderni o stiamo per diventare "neo realisti", ritornando al pensiero forte? Il dibattito filosofico è aperto. Grazie anche al convegno che si terrà a Bonn il prossimo anno sul "New Realism" a cui parteciperanno, fra gli altri, Umberto Eco e John Searle. Il dialogo con Vattimo (che lanciò in Italia il pensiero debole con Pier Aldo Rovatti guardando al postmoderno come ad una chiave per la democratizzazione della società, diffondendo pluralismo e tolleranza) cerca di affrontare i punti principali della questione. FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio? VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti? FERRARIS Per come la metti tu il potere, anzi la prepotenza, è la sola cosa reale al mondo, e tutto il resto è illusione. Ti proporrei una visione meno disperata: se il potere è menzogna e sortilegio ("un milione di posti di lavoro", "mai le mani nelle tasche degli italiani" ecc.), il realismo è contropotere: "il milione di posti di lavoro non si è visto", "le mani nelle tasche degli italiani sono state messe eccome". È per questo che, vent’anni fa, quando il postmoderno celebrava i suoi fasti, e il populismo si scaldava i muscoli ai bordi del campo, ho maturato la mia svolta verso il realismo (quello che adesso chiamo "New Realism"), posizione all’epoca totalmente minoritaria. Ti ricorderai che mi hai detto: "Chi te lo fa fare?". Bene, semplicemente la presa d’atto di un fatto vero. VATTIMO Se si può parlare di un nuovo realismo questo, almeno nella mia esperienza di (pseudo)filosofo e (pseudo)politico, consiste nel prender atto che la cosiddetta verità è un affare di potere. Per questo ho osato dire che chi parla della verità oggettiva è un servo del capitale. Devo sempre domandare "chi lo dice", e non fidarmi della "informazione" sia essa giornalistico-televisiva o anche "clandestina", sia essa "scientifica" (non c’è mai La scienza, ci sono Le scienze, e gli scienziati, che 3 alle volte hanno interessi in gioco). Ma allora, di chi mi fiderò? Per poter vivere decentemente al mondo devo cercare di costruire una rete di "compagni" – sì, lo dico senza pudore – con cui condivido progetti e ideali. Cercandoli dove? Là dove c’è resistenza: i no-Tav, la flottiglia per Gaza, i sindacati anti-Marchionne. So che non è un verosimile programma politico, e nemmeno una posizione filosofica "presentabile" in congressi e convegni. Ma ormai sono "emerito". FERRARIS Per essere un resistente, sia pure emerito, la tua tesi secondo cui "la verità è una questione di potere", mi sembra una affermazione molto rassegnata: "la ragione del più forte è sempre la migliore". Personalmente sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l´acqua, sia la base per ristabilire la giustizia. VATTIMO Io direi piuttosto: prendiamo atto del fallimento, pratico, delle speranze post-moderniste. Ma certo non nel senso di tornare "realisti" pensando che la verità accertata (da chi? mai che un realista se lo domandi) ci salverà, dopo la sbornia ideal-ermeneutica-nichilista. FERRARIS Non si tratta di tornare realisti, ma di diventarlo una buona volta. In Italia il mainstream filosofico è sempre stato idealista, come sai bene. Quanto all’accertamento della verità, oggi c’è un sole leggermente velato dalle nuvole, e questo lo accerto con i miei occhi. È il 15 agosto 2011, e questo me lo dice il calendario del computer. E il 15 agosto del 1977 Herbert Kappler, responsabile della strage delle fosse Ardeatine, è fuggito dal Celio, questo me lo dice Wikipedia. Ora, poniamo che incominciassi a chiedermi "sarà poi vero? chi me lo prova?". Darei avvio a un processo che dalla negazione della fuga arriverebbe alla negazione della strage, e poi di tutto quanto, sino alla Shoah. Milioni di esseri umani uccisi, e io garrulamente a chiedermi "chi lo accerta?". VATTIMO È ovvio (vero? Bah) che per smentire una bugia devo avere un riferimento altro. Ma tu ti sei mai domandato dove stia questo riferimento? In ciò che "vedi con i tuoi occhi"? Sì, andrà bene per capire se piove; ma per dire in che direzione vogliamo guidare la nostra esistenza individuale o sociale? FERRARIS Ovviamente no. Ma nemmeno dire che "la cosiddetta verità è un affare di potere" mi dice niente in questa direzione, al massimo mi suggerisce di non aprire più un libro. Ci vuole un doppio movimento. Il primo, appunto, è lo smascheramento, "il re è nudo"; ed è vero che il re è nudo, altrimenti sono parole al vento. Il secondo è l’uscita dell’uomo dall’infanzia, l’emancipazione attraverso la critica e il sapere (caratteristicamente il populismo è a dir poco insofferente nei confronti dell’università). VATTIMO Chi dice che "c’è" la verità deve sempre indicare una autorità che la sancisce. Non credo che tu ti accontenti ormai del tribunale della Ragione, con cui i potenti di tutti i tempi ci hanno abbindolato. E che talvolta, lo ammetto, è servito anche ai deboli per ribellarsi, solo in attesa, però, di instaurare un nuovo ordine dove la Ragione è ridiventata strumento di oppressione. Insomma, se "c’è" qualcosa come ciò che tu chiami verità è solo o decisione di una auctoritas, o, nei casi migliori, risultato di un negoziato. Io non pretendo di avere la verità vera; so che devo render conto delle mie interpretazioni a coloro che stanno "dalla mia parte" (che non sono un gruppo necessariamente chiuso e fanatico; solo non sono mai il "noi" del fantasma metafisico). Sul piovere o non piovere, e anche sul funzionamento del motore dell’aereo su cui viaggio, posso anche essere d´accordo con Bush; sul verso dove cercare di dirigere le trasformazioni che la post-modernità rende possibili non saremo d’accordo, e nessuna constatazione dei "fatti" ci darà una risposta esauriente. FERRARIS Se l’ideologia del postmoderno e del populismo è la confusione tra fatti e interpretazioni, non c´è dubbio che nel confronto tra un postmoderno e un populista sarà ben difficile constatare dei fatti. Ma c'è da sperare, molti segni lo lasciano presagire, che questa stagione volga al termine. Anche l’esperienza delle guerre perse, e poi di questa crisi economica, credo che possa costituire una severa lezione. E con quella che affermo apertamente essere una interpretazione, mi auguro che l’umanità abbia sempre meno bisogno di sottomettersi alle "autorità", appunto 4 perché è uscita dall’infanzia. Se non è in base a questa speranza, che cosa stiamo a fare qui? Se diciamo che "la cosiddetta verità è un affare di potere" perché abbiamo fatto i filosofi invece che i maghi? VATTIMO Dici assai poco su dove cavare le norme dell’agire, essendo il modello della verità sempre quello del dato obiettivo. Non hai nessun dubbio su "chi lo dice", sempre l’idea che magicamente i fatti si presentino da sé. La questione della auctoritas che sancisce la veritas dovresti prenderla più sul serio; forse io ho torto a parlare di compagni, ma tu credi davvero di parlare from nowhere? http://giannivattimo.blogspot.it/2011/08/laddio-al-pensiero-debole-che-divide-i.html L’IDOLATRIA DEI FATTI di Pier Aldo Rovatti, in La Repubblica, 26 agosto 201 Il pensiero debole, nato 30 anni fa grazie a un reading curato da Gianni Vattimo e da me, ha avuto una imprevedibile diffusione internazionale. Certo, anche le sciocchezze possono andare in giro per il mondo e trovare ascolto. Non so se questo sia il caso, e comunque non mi affretterei a darlo per morto. In autonomia dallo stesso Vattimo, con il quale tuttora condivido lo stile, la funzione e il senso di questo modo di pensare, e soprattutto la sua potenzialità emancipatoria, ci ho lavorato sopra da allora, puntando sui temi del gioco e del paradosso, senza di cui credo che si possa capire poco della difficile realtà in cui viviamo (e spesso ci dibattiamo). L'amico Ferraris lavorava gomito a gomito con me e con Vattimo, poi ha ritenuto opportuno andare per la sua strada che oggi chiama "nuovo realismo". Ho letto con molta attenzione il suo dialogo con Vattimo e sono rimasto – come molti – alquanto perplesso. Vi ho trovato un'eccessiva semplificazione. Come accade quando si vuole tirare troppo la coperta dalla propria parte, si rischia di deformare un poco le cose. Innanzi tutto, pensiero debole e postmodernità non possono essere sovrapposti. Forse la postmodernità ha fatto il suo tempo, mentre il pensiero debole era e rimane una maniera di leggere l'intera filosofia, mettendovi decisamente al centro la questione del potere. Nasceva infatti come uno strumento di lotta contro ogni violenza metafisica e di conseguenza sospettava di ogni fissazione oggettivistica della Verità (con la iniziale maiuscola). Non si presentava come un semplice discorso teorico, aveva una valenza esplicitamente "politica", e il carattere di una mossa etica che Vattimo chiamava pietas (cioè, sostanzialmente, un ascolto del diverso) e che per me era un contrasto tra pudore e prepotenza per guadagnare uno spazio di gioco nelle maglie strette dell'uso dominante della teoria. Quando, oggi, si riduce tutto ciò a una querelle semplificata tra fatti e interpretazioni, si corre il pericolo di evacuare proprio questa sostanza etico-politica e di ridurre il pensiero debole a una specie di barzelletta. Non esistono fatti nudi e crudi che non abbiano a che fare con qualche interpretazione, questo è un fatto, così come sono fatti (duri e provvisti di effetti) le singole interpretazioni. Che oggi ci sia il sole o piova non mi dice niente sulla realtà in cui stiamo vivendo e nella quale temiamo di soccombere. Anzi, c'è da chiedersi perché qualcuno abbia bisogno di costruirsi questo paraocchi lasciando fuori dalla vista le cose più importanti. Il pensiero debole nasceva, poi, in una particolare consonanza con il pensiero critico di Michel Foucault e con le sue analisi del potere microfisico e della società disciplinare. Ora, che abbiamo potuto conoscere meglio le sue ultime ricerche, il debito si è allargato, e non è un caso che Foucault non trovi nessuna cittadinanza nel cosiddetto new realism di Ferraris. Un punto fa da spartiacque, e riguarda la verità. Foucault ci ha insegnato, con un gesto nietzschiano, che la storia (sì, la storia!) è un susseguirsi di giochi di verità, il che significa che i valori del vero e del falso si trasformano, sono la posta in gioco di 5 un pesante e determinato conflitto, vengono di volta in volta innalzati sulle bandiere dentro una lotta di posizioni e per ottenere vantaggi. Dal dispositivo di potere (reale) non si evade con un semplice colpo di filosofia, e quando si eternizzano le categorie, cercando di fissare cosa è veramente reale, non si fa altro che assumere una posizione dentro il dispositivo, che lo sappiamo oppure no. Mi chiedo cosa abbia da dire il nuovo realismo a questo riguardo, una volta che si sia sgombrato il campo da contrapposizioni un po' di scuola e un po' artificiose, dato che nessuno dubita che la realtà abbia una consistenza e produca effetti. Sicuramente non lo dubitano coloro che hanno trovato nel pensiero debole molti attrezzi per la loro cassetta. http://temi.repubblica.it/micromega-online/lidolatria-dei-fatti/ DIBATTITO TRA PENSIERO DEBOLE E NEW REALISM Intervista a Gianni Vattimo di Corrado Ocone Il Mattino, 17 novembre 2011 Si discute molto in queste settimane sul postmoderno, anche perché una mostra londinese (è al Royal and Albert Museum) ne ha decretato la fine. Ma cosa è il postmoderno? Quale è stato il tempo del suo dominio? Esprimeva un’esigenza ancora viva o appartiene inesorabilmente a un tempo che non è più? Per affrontare queste e altre questioni, un colloquio con Gianni Vattimo, che del movimento è stato uno dei più importanti rappresentanti a livello mondiale, è quanto mai opportuno. A maggior ragione considerando il fatto che Garzanti proprio in questi giorni manda in libreria una nuova edizione de La fine della modernità (192 pagine, 11 euro), l’opera in cui Vattimo nel 1985 illustrava la sua versione di postmoderno: il cosiddetto “pensiero debole” “Di postmoderno in verità - osserva Vattimo - si cominciò a parlare in un vasto ambito, dalle arti alla società, alla filosofia, da quando nel 1979 uscì un fortunato pamphlet di Lyotard intitolato La condition postmoderne.” D. Quale era la tesi? “Quello di Lyotard era un rapporto sul sapere contemporaneo. In esso si prendeva atto della fine delle metanarrazioni, cioè della crisi delle dottrine che avevano cercato di affermare una visione unitaria della realtà, soprattutto l’illuminismo, l’idealismo e il marxismo. Di fronte alla frammentazione e alla pluralità dei linguaggi e dei saperi che ne scaturiva il suo atteggiamento era positivo, non di chiusura.” D. E lei accettò subito questa impostazione? “Non solo. In linea con le mie ricerche cercai di dare uno sfondo filosofico, o meglio storico-ontologico, a questa situazione, soprattutto mostrando come la mia interpretazione di Nietzsche e Heidegger fosse solidale con il nuovo orizzonte. Già nel ‘36 Heidegger aveva definito il nostro tempo 'l’epoca delle immagini del mondo'. E altrettanto nota è l’affermazione nietzschiana che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni.” D. Qualcuno come Maurizio Ferraris, che è stato suo allievo ma poi ha elaborato una visione neorealista, osserva che senza ancoraggio ad in’idea forte di realtà e verità, anche in politica, si può dire ogni cosa senza darne conto a nessuno. Cosa risponde? “Rivoltando l’argomento. Se io credo che la realtà sia scritta da sempre in un linguaggio determinato e che nostro compito sia solo quello di individuare la grammatica del mondo e analizzare i linguaggi quotidiani per chiarificarli e riportarli all’ordine dato, non posso pormi nemmeno il problema di cambiare la realtà e umanizzarla. Devo accettarla e basta.” D. Ammetterà però che, lungi dal verificarsi una crescita delle possibilità di emancipazione e degli spazi di libertà, in questi anni si sia assistito al trionfo selvaggio del neoliberismo? 6 “In effetti, noi ci eravamo illusi che fossero finite le metanarrazioni, ma non avevamo considerato che quella basata sugli interessi proprietari, e quindi sul consumismo e l’omologazione dei mercati, sarebbe sopravvissuta e avrebbe trovato il campo libero per dominare in modo assoluto. Anche se, da questo punto di vista, devo dire che già un critico molto fine come Jameson, che aveva definito il postmoderno la cultura del tardo capitalismo, ci aveva avvertito.” D. Anche Habermas aveva criticato il postmoderno e lo avevo visto come una sorta di resa della ragione al presente, riproponendo il “progetto incompiuto della modernità” “Con un rischio però, di costruire una nuova metafisica o metanarrazione, quella dei diritti umani. I quali, come molti casi concreti di giustizia internazionale o di cosiddetti interventi umanitari stanno a dimostrarci, può diventare a sua volta causa di nuove discriminazioni, neocolonialismo e imperialismo occidentale.” D. Crede oggi che il postmoderno sia fallito? “No, non lo credo affatto: semplicemente non è riuscito, non ha funzionato. La liberazione della comunicazione che auspicavamo, ad esempio, è stata ostacolata. La liberazione è qualcosa che si può fare, anche se c’è qualcosa che resiste.” D. Oggi lei si è riavvicinato a Marx e al comunismo? Non è un ritorno ad una concezione forte? “Il mio è un rivoluzionarismo anarchico. Non credo affatto nel comunismo interpretato in modo rigido come una concezione generale del corso storico, come una meta da realizzare che un giorno ci renderà tutti felici. La riconciliazione non ci sarà mai, ma ad essa bisogna tendere. Credo in una sorta di rivoluzione permanente.” D. Nella polemica fra neorealisti e postmodernisti mi ha impressionato il fatto che sia lei sia Ferraris avete saltato del tutto la tradizione dell’idealismo: come se questo momento del pensiero non ci fosse mai stato. “Da parte mia non c’è stato dolo. Anzi le dirò di più: oggi mi sento particolarmente vicino alle posizioni di Benedetto Croce. D’altronde, l’ho detto più volte anche a proposito dell’affermazione “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”: per capirne il senso bisogna pensare allo ‘spirito oggettivo’ di Hegel. Quella che chiamiamo realtà non è affatto qualcosa di inesistente, ma è la trama delle culture, delle tradizioni e dei sistemi di pensiero e di linguaggio ereditate. Una trama frutto delle azioni dei tanti individui che ci hanno preceduto e che cambierà ulteriormente con le nostre nuove azioni. Non era stato forse il filosofo vostro concittadino a dire che lo spirito assoluto era ciò che è morto, mentre quello oggettivo era ciò che rimaneva vivo in Hegel?” http://giannivattimo.blogspot.it/2011/11/dibattito-tra-pensiero-debole-e-new.html DAL PENSIERO DEBOLE AL NUOVO REALISMO di Dante Argeri Per contestualizzare la spiritosa invenzione del “pensiero debole” di Gianni Vattimo, conviene riferirsi a un saggio di J.F.Lyotad del 1976, in cui l’autore estendeva alla filosofia il concetto di post-moderno nato in seno all’architettura. Il post-moderno filosofico sarebbe caratterizzato dal venir meno delle grandi narrazioni della modernità trionfante, dal progressismo illuministico, all’idealismo romantico, al marxismo. Esse si sono spente e non hanno più presa su di noi. In questo vuoto fa nuovamente irruzione il radicale prospettivismo di Nietzsche, secondo il quale non vi sono fatti ma solo interpretazioni (e anche questa è una interpretazione!) . Non solo ma col venir meno del mondo vero, sovrasensibile, da Platone a Kant, è sparito anche il suo contrario, il mondo apparente. In questa situazione nichilistica, dove manca un perché e uno scopo, si può sperare solo in un ritorno dello spirito dionisiaco , capace di suscitare l’oltre-uomo che sopporta l’eterno ritorno 7 dell’eguale. D’altra parte, accanto a Nietzsche, per il quale la verità è solo il prevalere di una volontà di potenza sulle altre, soprattutto nel clima francese (ma pure italiano) si esplora anche Heidegger, in tutte le fasi della sua meditazione. Come è noto, in Essere e Tempo (Sein und Zeit ,1927), Heidegger aveva respinto la concezione della verità già aristotelica (ma con premesse platoniche) della adeguazione del pensiero alle cose, in nome di una più radicale apertura al mondo, coincidente con la nostra libertà. Del resto il Dasein cioè la nostra esistenza si rivela come un progetto-gettato, consegnato a se stesso e cioè sul proprio fondamento , ossia non padrone a casa propria e tuttavia afferrabile come un tutto nella decisione angosciata dell’essere per la morte, cioè nella anticipazione radicale della nullità di ogni nostro progetto. Solo così si può sondare il senso dell’essere come tempo, anzi come attimo che proiettandosi verso il futuro, ricade sul passato, facendo consistere il presente. . . . Questo sottrarsi dell’essere suscita il nostro oblio, e infine l’oblio dell’oblio, cioè una tecnicizzazione (riduzione a ente manipolabile ) della stessa esistenza . Nella impossibilità di proseguire in un modo determinato un pensiero così idiosincratico gli epigoni e i continuatori hanno battuto due vie. La prima, che con qualche approssimazione possiamo indicare col nome di Derrida, consiste nel rendere ancora più selvaggio e impenetrabile il bosco heideggeriano (che pure si apriva d’un tratto a una radura in cui traspariva un lucore ) così che l’essere non si dà in alcuna presenza, neppure labile, ma solo come traccia, o traccia di tracce, senza alcuna impronta originaria, e la differenza tra essere ed enti è talmente impalpabile che può solo essere nominata con uno scarto o deviazione del dire, cioè come differenza ( e in francese i due termini si pronunciano allo stesso modo senza alcuna differenza …). Pertanto il discorso è già sempre in ritardo di fronte al mutismo della traccia ma in esso ogni parola rimanda ad altre parole sicché non c’è mai un fuoritesto. La seconda via, riassumibile nel nome di Gadamer, è quella di uno storicismo ermeneutico che urbanizza la selva heideggeriana, dove l’essere gettati significa appartenere già da sempre a una tradizione che si offre al nostro interpretare. La conclusione è opposta a quella di Derrida, “L’essere ,che può essere compreso, è linguaggio”. Vattimo, interprete di Heidegger, ma anche di Nietzsche, ha battuto una via intermedia fra le due sopra nominate, passando da una esaltazione del filosofo della volontà di potenza, a un accostamento a Gadamer. Comunque l’inventore del pensiero debole ha ancora recentemente insistito che non abbiamo mai un contatto diretto con una realtà che ci offrirebbe il vero, ma sempre abbiamo a che fare con schemi concettuali, strutture epistemiche e presupposti radicalmente umani e storicamente determinati, che configurano un pensiero privo dell’arroganza di chi pensa di possedere la verità. Così al posto della ricerca del vero indipendente dall’uomo, abbiamo la carità e la benevolenza verso gli altri in una apertura religiosizzante, senza dogmi, ma animata da una pietas che coinvolge dei compagni di viaggio. . . . Voglio insistere sul recente (Della realtà, 2012) saltellare di Vattimo su tutte o quasi le forme di antirealismo sia continentali che anglosassoni, con una disinvoltura e una spregiudicatezza che potrebbero sembrare strane per un pensiero debole, a meno che non si dimentichi che la debolezza è una modalità negativa della forza, di cui è parassita. Comunque Vattimo si è via via riferito ai paradigmi di Khun, alla fabbricazione di mondi di Goodman, all’anarchismo metodologico di Feyerhabend . . Ma procediamo con ordine: come è noto Khun ha insistito che la scienza non avanza per lento accumulo di dati, ma attraverso vere e proprie rivoluzioni o mutamenti di paradigma Il caso più famoso di tale mutamento è stato quello del passaggio dal cosmo aristotelico--.tolemaico a quello copernicano. E un paradigma non è una teoria, ma semmai una matrice di possibili teorie e il passaggio da uno all’altro avviene in modo rapido, come un cambiamento gestaltico o addirittura una conversione. Ma si potrebbe dire che ci si confronta sempre con lo stesso mondo di 8 stelle e corpi celesti del tutto estranei alle nostre manipolazioni. Già, ma facciamo l’esempio (Goodman) della costellazione dell’Orsa maggiore. Innanzi tutto “costellazione” è un costrutto umano, le stelle non si riuniscono da sole in costellazioni. Peggio ancora per l’Orsa che è una etichetta convenzionale .E tuttavia, si può insistere, il cielo stellato sopra di noi, che commuoveva Kant, è senza dubbio indipendente dalle nostre “macchinazioni”. E tuttavia: come ha fatto notare l’anarchico metodologico Feyerhabend, per il quale non ci sono regole del metodo, ma tutto va bene, purché funzioni , il concetto di stella di Aristotele è del tutto diverso da quello galileiano, o Newtoniano, per cui si potrebbe dire che un tolemaico e un copernicano abitano mondi diversi e vedono diversi soli. . . . E’ chiaro che a questo punto non poteva mancare una reazione. Per rimanere in Italia, Maurizio Ferraris, già discepolo di Vattimo e coautore de “Il pensiero debole” (1983),si è ribellato al maestro e ha di recente pubblicato il “ manifesto del nuovo realismo” ( 2013 ), dove ha denunciato le fallacie del pensiero debole e in generale delle concezioni pan-costruttivistiche del conoscere e in particolare la fallacia dell’essere-sapere, dell’accertare-accettare e del sapere-potere. Non intendo qui riportare le argomentazioni di Ferraris, ma solo riferire il suo efficace esperimento ideale “della ciabatta”. Se sono seduto in un angolo della mia stanza e al centro c’è una ciabatta che voglio avere, debbo lasciare perdere schemi concettuali e paradigmi, alzarmi e andare a prenderla. Se poi entra nella stanza un amico, benché abbia alcuni schemi neurali diversi dai miei, non avrà nessuna difficoltà a portarmi la ciabatta. Se infine avessi addestrato il mio cane a portarmi gli oggetti che desidero, nonostante abbia un cervello globalmente diverso dal mio, mi porterà la ciabatta. Facciamo ancora uno sforzo e supponiamo che nella stanza ci sia un verme, ebbene se questo incontrerà la ciabatta dovrà o cercare di salirvi sopra o aggirarla (a questo proposito si direbbe che Ferraris ignori quanto complessi siano gli organi sensori di un lombrico). Volgiamoci ora dal regno animale a quello vegetale e supponiamo che un’edera si arrampichi lungo un muro; se incontrerà un ostacolo, cambierà direzione. Del resto tutti sappiamo del moto dei girasoli, della venere carnivora, dell’accartocciarsi della sensitiva. Non solo, se una rosa viene attaccata da un parassita, emette una sostanza atta a ucciderlo, e ,probabilmente con messaggi feromonici ,“avverte” del pericolo tutto il roseto. A questo proposito voglio segnalare un agile saggio: Daniel Schamovitz, “Quel che una pianta sa”, (2013) dove si mostra che i vegetali hanno dei sensori complessi paragonabili alla nostra vista, tatto e olfatto, nonché una sorta di memoria, mentre le radici possono essere paragonate, dal punto di vista funzionale, al nostro sistema nervoso. . . . In particolare il realismo metafisico interpreta il senso come qualcosa che altri ci ha imposto e che precedendoci, dobbiamo adeguare. Per questo il realista metafisico si pensa come incluso in una realtà precostituita al suo vivere e cui deve corrispondere. Viceversa, l’antirealismo nichilistico à la Vattimo esprime una oscillare tra la pretesa di creare un senso e un suo latente annullamento. Per questo se coloro che reificano il senso si pensano come inclusi in una totalità precostituita dell’essere, quelli che pretendono di crearlo, pensano il mondo come posto dalla loro attività. http://www.cittafutura.al.it/web/_pages/detail.aspx?GID=36&DOCID=15190 A questo indirizzo puoi trovare altri materiali sul dibattito tra pensiero debole e nuovo realismo http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/il_neorealismo_sini.html In questo video Gianni Vattimo si interroga sui motivi d’esistenza del nuovo realismo. http://giannivattimo.blogspot.it/2014/01/ermeneutica-o-nuovo-realismo.html 9