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Note sull’arrembaggio del New Realism.
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(da un diario estivo del 2011)
di Noemi Paolini Giachery
Ora che il “nuovo realismo” ha invaso tutti gli spazi del dibattito culturale attuale per lo più attraverso proclamazioni dogmatiche, potrà avere forse qualche
interesse riconsiderare, nei panni di un testimone sfavorevolmente colpito
dall’evento, la prima irruzione, nei mesi estivi del 2011, fra i temi della stampa
italiana, del dibattito tra “realismo” e “postmoderno”, dibattito nel quale, a dire
il vero, il contestato “postmoderno” reagiva piuttosto abbacchiato. Riproporrò a
questo scopo alcune mie note quasi diaristiche, inedite, di carattere passionalmente risentito. Voglio solo informare che queste prime impressioni sono state in
me confermate dalla successiva lettura del Manifesto del nuovo realismo e di altri
testi di Maurizio Ferraris.
Nel giro di pochi giorni due articoli della “Repubblica” e uno del “Corriere della Sera” confermavano l’impressione che un pragmatismo presuntuoso e totalizzante avesse ormai preso il posto della filosofia, almeno di quella per me degna di
questo nome, continuando a chiamarsi filosofia, anzi «pensiero forte».
Il ritorno al pensiero forte. Dalla Germania all’Italia la nuova filosofia realista è il titolo (che percepisco nella lettura come gridato da uno “strillone”) di un
articolo di Maurizio Ferraris su “Repubblica” dell’8 agosto, che celebrava la fine
del postmoderno, identificato con il “pensiero debole” e in particolare con il relativismo dell’ermeneutica che aveva portato a estreme conseguenze nichilistiche
l’affermazione di Nietzsche che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Come nuovo «pensiero forte» si salutava il ritorno del realismo e si annunciava
un convegno intitolato “New Realism” che si sarebbe tenuto a Bonn la primavera
seguente. Che cosa si dirà nel convegno è per me difficile prevederlo. Mi auguro
solo che in esso non si convalidino le interpretazioni che del nuovo realismo
propone qui Ferraris. Per lui «a far scricchiolare le certezze dei postmoderni
[certezze delle non certezze] ha contribuito prima di tutto la politica. L’avvento
del populismo mediatico, – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria
– ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo, senza
parlare poi dell’uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica
“imperiale” da parte di Bush che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove
[…]». L’immediata reazione del lettore è la domanda: che c’entra tutto questo?
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Una riflessione di Noemi Paolini Giachery di cui ricordiamo gli intelligenti contributi in particolare su Ungaretti, Svevo, Dolores Prato e l’ultimo volume da Edilet, Le ragioni dell'ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli,
Ungaretti, Montale) sullo pseudo nuovo realismo, a seguito di un dibattito estivo che coinvolge il mondo culturale oltre la contingenza.
L’immediata reazione del lettore è la domanda: che c’entra tutto questo? Bisogna
arrivare a scoprire questi casi politici per contestare gli eccessi nichilistici e le
contraddizioni interne di certa ermeneutica? E siamo proprio sicuri che dopo il
convegno sul nuovo realismo i nuovi Bush si vergogneranno a dire bugie?
Ma quel che è peggio per me è che si torni a contestare una concezione filosofica chiamandone in causa i possibili effetti negativi sull’andamento della società.
Il “pensiero debole” sarebbe da rifiutare per la sua presunta ripercussione sulla
pratica politica? Il pensiero forte sarebbe quello che sceglie la verità cui aderire in
ragione non della sua fondatezza teoretica ma della sua funzionalità pratica? Addio autonomia del pensiero, addio filosofia.
Scopriamo poi che è considerato «pensiero forte» quello che annuncia con
trionfalismo di recuperare l’ontologia (termine ritenuto fino a oggi assai impegnativo) accontentandosi di fatto del riconoscimento che «il mondo ha le sue leggi e
le fa rispettare»: sembra che addirittura si attribuisca un valore ontologico a quelle
“qualità” dell’oggetto legate alla percezione sensoriale che Galilei – e non era certo il primo – distingueva dalle “quantità”. Basta riconoscere che «l’acqua bagna e
il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che non lo sappia, indipendentemente da
linguaggi e da categorie».
Credevo che, in una prospettiva filosofica, l’ontologia avesse proprio a che fare
con la gnoseologia e con il suo rapporto con una ipotizzabile verità sostanziale. La
filosofia è nata per cercare oltre le apparenze. Il “nuovo realismo” ammette, è vero, che «c’è qualcosa che ci resiste» e che Ferraris chiama «inemendabilità» ma
con questo termine il pensiero si ferma sull’ostacolo pratico costituito da questo
quid, in sé poco interessante, mostrandosi indifferente al limite conoscitivo che
era considerato, per esempio, nella Ragion pura kantiana, se non vogliamo risalire
addirittura ai sofisti. Ben più complessa ed equilibrata mi è sembrata finora la posizione di Umberto Eco, che riconosce l’esistenza di uno “zoccolo duro” inconoscibile (non solo “inemendabile”) al di là delle nostre interpretazioni, lontano sia
dall’estremismo nichilistico di certa ermeneutica, sia da ogni superficiale realismo: contrario, per esempio, in fatto di linguistica, al facile realismo ontologico di
Chomsky. «Stat rosa pristina nomine: nomina nuda tenemus».
La seconda sconcertante sorpresa era stata poi per me la risposta di Gianni
Vattimo a Ferraris in un dibattito comparso in “Repubblica” il 19 agosto. Vattimo,
condividendo la concezione strumentale della filosofia, si riconosceva anche lui
deluso dal pensiero postmoderno per «la persistente resistenza della “realtà”» in
quanto è per lui verità incontestabile che la verità sia solo «una questione di potere» per cui al filosofo non resta altro che rinunciare a pensare e darsi alla pratica
seguendo il facile criterio di agire sempre solo per contestare ciò che il potere vorrebbe attuare o semplicemente proporre. Vattimo propone una perenne rivolta “adolescenziale” ma ha il buon gusto di ammettere simpaticamente che lui come filosofo può considerarsi «emerito» (e questo riconoscimento lo innalza nel rapporto dialogico).
Anche la filosofia in questo panorama si può considerare “emerita” se un pensatore come Hilary Putnam, impegnato per decenni a cercar di definire la verità
oggettiva, dopo la proposta di un «realismo metafisico», è arrivato alla fine ad accontentarsi di ripiegare sul «senso comune». Sarebbe mai nata la filosofia se alcuni greci particolarmente intelligenti si fossero accontentati del senso comune?
So anche, per qualche diretta esperienza di lettura – e, a dire il vero, di scarsa
condivisione – che la ricerca degli intellettuali qui citati, è sempre stata sostenuta
da una vasta cultura, ma proprio per questo mi domando: perché offrire al lettore
comune una sintesi così povera e paradossale del loro pensiero?
Un’interessante sincronia con questo indirizzo mi pareva di cogliere nel dibattito sulle arti figurative riportato sul “Corriere della sera” dell’8 e del 9 agosto, in
cui emergevano aporie interessanti per la loro capacità di aprire domande, di insinuare dubbi e ripensamenti e il lettore particolarmente sensibile a questo problema
poteva intravedere pericoli analoghi per l’autonomia dell’arte intesa ancora da
qualcuno (Francesco Bonami, ma con lui tutta una corrente) come «strumento che
ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Dall’altra parte
anche molta arte del Novecento e oltre, contestata dal noto critico Jean Clair (che
però contrapponeva come modelli positivi autori come Freud legati a uno scontato
realismo espressionistico), limitando la creatività alla performance, al puro gesto
estetico, mentre sembrava rivendicare l’autonomia dell’estetica, impoveriva la
singola opera della sua valutabilità in sé e per sé concentrando l’attenzione sulla
poetica (se si accettavano una poetica o un autore se ne accettavano automaticamente tutte le singole opere) e le varie poetiche si confrontavano quasi sempre per
le loro, più o meno emergenti, implicazioni politiche.
Passati alcuni giorni il 31 agosto Emanuele Severino sul “Corriere della Sera” è
finalmente intervenuto con molta energia denunciando «una certa leggerezza piuttosto occhieggiante» e riconoscendo come difetto «comune al “nuovo realismo” di
Ferraris e al “pensiero debole” di Vattimo» l’aver messo «in primo piano l’istanza
politico-morale».
So che nel frattempo il dibattito si era esteso e altri importanti interventi erano
apparsi, tra l’altro, sul “Foglio” e su “Micromega”.
A questo punto oso rendere pubbliche le mie riflessioni – quasi paginette di
diario limitate a un tempo breve e destinate a chiarire a me stessa le mie reazioni –
come testimonianza dell’interesse che dibattiti come questo possono avere anche
per chi non è filosofo di professione e, come me, si aggiorna prevalentemente sui
giornali e sulle riviste. Può confortare il mio pianto per l’annunciata fine del pensiero veramente filosofico la grande partecipazione di pubblico ai convegni di filosofia che si svolgono in alcune piazze d’Italia?
Noemi Paolini Giachery
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