REGISTRAZIONE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA, 19 OTTOBRE 1995 N° 514; SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% FILIALE DI ROMA anno V • numero 1 • 2000 SPECIALE ORAZIO COSTA numero 1 3 Anna Magnani in Maya di Gantillon regia di Orazio Costa La scomparsa di Orazio Costa è stata accompagnata da un mezzo silenzio mediatico (annunci sommessi, commenti ristretti, compianti di circostanza) che non deve sorprendere. Oltre alla ormai comprovata indifferenza del sistema per eventi e personaggi sui quali non siano stati accesi i riflettori della notorietà totale o del pettegolezzo cronistico, sta di fatto che la figura del regista e pedagogo era, al contrario, un modello di rigore e sobrietà silenziosi. Pur tuttavia, colpisce come si sia fin qui concordemente rinunciato a lumeggiare a fondo e a far vivo il ritratto di un uomo di teatro che, oltre a lasciare impronte profonde in oltre un sessantennio di vita dello spettacolo, aveva formato alcune generazioni di attori e registi col suo magistero. Uomo di rigide discipline e segreti fervori, teorico e fautore di un teatro guidato dalla necessità di fondare su basi etiche (per usare le parole di Luca Ronconi) il rapporto con la scena, creatore di un metodo formativo che coniugava la filologia, la spiritualità e il recupero del patrimonio di capacità espressive e mimiche che in ogni individuo solitamente si disperde dopo la fine dell’infanzia, geloso custode della propria indipendenza da ogni condizionamento esterno, sia politico che commerciale, con- vinto assertore della decisiva importanza della formazione artistica e culturale dell’attore, al quale non si stancava di ricordare la sua missione di rivelatore della verità e dell’essenza dell’uomo, Costa ha pieno diritto, oggi che la sua presenza è affidata alla memoria collettiva, a una rinnovata attenzione storico-critica che individui e precisi nella sua figura e nella sua opera un capitolo fondante del teatro contemporaneo. Gli scritti raccolti a cura dell’Eti (che di Orazio Costa fu fiancheggiatore e partecipe in più di una circostanza) in questo fascicolo monografico, vorrebbero sfuggire al criterio dell’”omaggio” per quel tanto di deferente e quasi convenzionale che è all’interno di questa parola. Essi vorrebbero rappresentare piuttosto un concreto contributo, non certo esaustivo ma già indicativo, alla miglior conoscenza di una figura e di un’opera intorno alle quali mancano quasi totalmente studi e analisi soddisfacenti. Un primo e frammentario approccio, dunque: in attesa della ricognizione approfondita da svolgere in quel grande zibaldone di pensieri, argomenti e ricordi che sono i Quaderni, entro i quali è racchiuso il percorso artistico, culturale ed esistenziale di un uomo verso il quale, come giustamente viene rammentato in uno di questi scritti, il teatro italiano ed europeo ha contratto un debito che in gran parte attende ancora di essere onorato. IL CORAGGIO DI UNA SCELTA ETICA ORAZIO COSTA REGISTA numero 1 4 numero 1 DI ORAZIO COSTA (DA ALCUNE LETTERE DI SILVIO D’AMICO) di Alessandro d’Amico elle estati del 1936 e del 1937 ad allestire i quattro spettacoli della Biennale (Baruffe, Ventaglio, Bugiardo, Romeo e Giulietta) si trovarono insieme – anche se a livelli assai diversi – il neoregista Renato Simoni, il “tecnico” Guido Salvini, il giovane apprendista Orazio Costa. Costa aveva 26 anni ed aveva appena conseguito il diploma in regia (con un testo subìto più che scelto: In portineria di Verga) all’Accademia d’Arte Drammatica fondata e diretta da Silvio d’Amico. Di quel suo primo tirocinio in terra veneziana tenne al corrente in alcune lettere d’Amico, con il quale aveva già un rapporto privilegiato, iniziato dieci anni prima, quando s’era presentato, ragazzo, accompagnato dalla madre, a chiedere d’essere ammesso alla Scuola di Recitazione “Eleonora Duse”, diretta da Franco Liberati e dove d’Amico insegnava Storia del Teatro; rapporto fondato su profonde affinità mai intaccate dai momenti di disaccordo. La prima lettera da Venezia è dell’8 luglio 1936, durante le prove delle Baruffe e del Ventaglio. «Caro Professore, se tardo a scriverLe è perché le cose interessanti da dirLe non sono molte. Le prove sono già molto avanzate, essendo stati attaccati tutti e tre gli atti delle commedie successivamente, senza preoccupazione alcuna di completare e fissare una parte prima di passare alle altre, con i risultati malfermi che non è difficile immaginare. La regia di Simoni, come Lei sa benissimo, si fonda sulla interpretazione veristica del mondo goldoniano; e non si può negare che le Baruffe pur con il loro sottostrato di ben architettate combinazioni, possano inquadrarsi in una cornice veristica. Ma tale interpretazione rivela le sue debolezze quando, nelle ballettistiche vicende del Ventaglio il regista trovandosi di fronte allo svenimento di Evaristo è tentato di abolirlo e in ultima analisi, ridotto di alcune battute caratteristiche, è costretto a modificarlo per non disturbare l’andamento dell’azione. N il pensiero di riuscire a far di loro qualche cosa di veramente profondo: sarà già moltissimo se si riuscirà a farli fare qualche cosa col più esteriore ed imposto atteggiamento; ma quanto all’espressione dei sentimenti attraverso la parola, in modo che essi acquistino un rilievo, temo che non varrà nemmeno la pena di richiedergliela: qualunque nostro allievo è diecimila volte spiritualmente più trattabile dei migliori fra questi». Ricordo che gli attori che suscitano queste reazioni si chiamavano Benassi e Cervi, Andreina Pagnani e Evi Maltagliati, tutti apprezzati in altri luoghi del carteggio. Non era dunque in discussione la loro qualità, ma la disponibilità a essere “spiritualmente trattabili”. Costa era già acceso dall’intenzione manifestata da d’Amico di organizzare una compagnia formata esclusivamente da ex allievi dell’Accademia. E appena poche settimane prima, a Padova, aveva vissuto un’anticipazione di quella formula partecipando all’allestimento del Mistero firmato da Tatiana Pavlova (ma secondo Costa fu opera di d’Amico), in cui disciplina e duttilità avevano vinto su tecnica e virtuosismo. Quanto al “non metodo” di Simoni, che procedeva dal particolare al generale, costruendo per improvvise intuizioni, era troppo lontano dal già ferreo ordine mentale di Costa. La cui attenzione era del resto volta agli attori più che al regista. Prosegue infatti la lettera: «Lei sa che io rinuncerei immediatamente al teatro se dovessi contentarmi di creare spettacoli puramente visivi, sia pure nel miglior senso della parola. E poiché ogni mio sforzo tenderà a rinnovare il tono delle parole ed il senso delle battute, pongo ogni mia attenzione nel modo con cui quelle sono oggi parlate e queste superficialmente intese. A furia di osservare riuscirò, spero, a identificare con precisione quella orribile cadenza teatrale retaggio di chi sa chi, che per quasi tutti gli attori è oggi l’unica intonazione della battuta e che per quei due o tre che creerebbero una propria intonazione ad ogni battuta è una indimenticabile forma che falsa ogni migliore intenzione. Ma non sarà questo, sebbene difficilissimo, il più duro compito: v’è quello di riuscire a trovare la maniera di dare all’attore la coscienza del compito suo e di fargli comprendere che la buona accentazione della battuta non è affatto il massimo a cui deve tendere ma il minimo che si ha il dovere di pretendere da lui; che una delicata dizione e una raffinata appoggiatura non sono null’altro che materialissimi mezzi, dei quali deve sapersi servire per rivelare, sulla guida razionale delle parole, il sublime irrazionale intuìto dal poeta. Per questo a me pare che manchi un poco nella nostra scuola uno studio più interiore che non sia quello puramente tecnico, e che potrebbe essere dato dallo studio della psicologia (o della Psicologia) e soprattutto dall’interpretazione della poesia. Per questo credo anche che agli allievi, specialmente ai più giovani, dovrebbe essere proibito anziché reso gratuito l’ingresso ai teatri (d’Amico aveva ottenuto questo privilegio per gli allievi dell’Accademia in tutti i teatri di Roma), mentre ai più preparati potrebbe essere consentito soltanto con l’obbligo della più minuziosa critica, 5 Orazio Costa REGISTA IL TIROCINIO In verità poi l’interpretazione veristica assunta in partenza, subisce qualche modifica e addirittura delle trasformazioni di compromesso nella concertazione musicale della pantomima del Ventaglio e qua e là in altre scene delle due commedie. Simoni ha avuto occasione di difendere calorosamente la sua interpretazione con il pittore Selvatico, sostenitore delle necessità stilistiche, gridando che lo stile goldoniano non esiste, che è un’invenzione dell’Ottocento che vedeva il Settecento secondo l’interpretazione dei De Goncourt. I quali avevano sott’occhio le pitture di Fragonard e dimenticavano o non conoscevano quelle di Longhi… È d’altra parte strano che con intenzioni così realistiche la regia non si sia interessata più a fondo alla creazione dei caratteri anche se appena accennati, anche se inesistenti, per giustificarsi e materiarsi. Ma la più curiosa delle interpretazioni goldoniane è quella dei comici veneziani, i quali, eredi di chi sa quale imbastardita tradizione, avendo recitato molte volte le Baruffe son venuti riempiendole di soggetti, di lazzi, di frizzi di antichissima, certo, origine, ma così discordanti con lo stile goldoniano; talora così fuori d’ogni preoccupazione di tempo e d’ambiente; e quasi sempre così estranei al personaggio che li deve eseguire, che è un vero orrore. Non si arriva a comprendere come essi abbiano creduto non solo opportuno, ma necessario infarcire in tal modo quelle scene già così vivaci di tanto bestiali scempiaggini. E bisogna vedere come ci tengono e come soffrono quando Simoni abolisce quelle… creazioni che a loro paiono più sacrosante del testo del Vangelo e a tal punto che, batti e ribatti, qualcuna son riusciti a farla passare, e temo che si ripromettano di farne passare ancor di più nei giorni di rappresentazione». È un Simoni colto nel momento di avviare una riforma, di affrontare nella concretezza della scena la questione fin allora dibattuta in ambito letterario (e alquanto confusamente) sul “realismo” di Goldoni. E di affrontarla anche sul terreno più ostico: il Goldoni deformato dagli attori veneti. L’anno successivo fu la volta del Bugiardo. Altro resoconto di Costa a d’Amico (7 luglio 1937). «Il tono generale delle prove di quest’anno mi pare, forse mi sbaglio, un po’ inferiore a quello dell’anno passato: Simoni è sempre quel sentimentale spirito entusiasta ricco di intuizioni e di trovate, ma assolutamente privo di metodo. Pensi, tanto per dirne una, che non ha nemmeno una volta letto la commedia agli attori: e soltanto accidentalmente gli capita di chiarire l’interpretazione che ne fa e lo spirito dei personaggi. Quello che a tratti e saltuariamente egli viene dicendo sarebbe stato più che sufficiente a inquadrare senza pericolo di sviamenti dal lavoro una prima volta per sempre; ma così, mi pare, che non faccia altro che creare impaccio alle tonde menti dei comici distolti ogni momento dalla non assimilatrice loro digestione. Quando mi trovo vicino agli attori perdo sempre un poco di quel tanto entusiasmo e coraggio che ho e che mi sento, pensando quanto sia utopistico numero 1 6 In questa foto vediamo un giovanissimo Orazio Costa attore in uno spettacolo goldoniano realizzato nel ‘37 dalla Scuola Eleonora Duse non tanto delle forme esteriori della regia, abbastanza facile, ma dei toni particolari e più ancora di quel famoso tono generale difficile da identificarsi». Sull’Accademia, della quale non fa più momentaneamente parte né come allievo né come docente, Costa ha idee non sempre concordanti con quelle di d’Amico. A cominciare dalla scelta di Tatiana Pavlova come insegnante di regia, della quale non condivideva lo pseudostanislavskismo e tanto meno certe manifestazioni di gusto. Venezia era stata un’esperienza utile ma non esaltante per chi, nonostante la giovane età, aveva coscienza delle insufficienze teoriche e pratiche della scena italiana. Fu certo questa evidente insoddisfazione nell’allievo che sentiva più vicino alla sua concezione del teatro, a spingere d’Amico nell’autunno del 1937 a una decisione rivoluzionaria per i tempi: quella di inviarlo con una borsa di studio all’estero. Fu scelto Jacques Copeau, anche per l’amicizia che lo legava a d’Amico. Copeau non aveva più una scuola ma accolse il giovane italiano (perfettamente bilingue) consentendogli di assistere a tutte le prove dell’Asmodée di Mauriac che stava mettendo in scena alla Comédie. Fu un incontro decisivo che si prolungò in Belgio, dove Copeau tenne una serie di letture di classici, e dove Costa poté avere frequenti dialoghi col maestro sull’arte, la letteratura e il teatro. Di tutto ciò informò come al solito d’Amico in una lettera del marzo 1938 (pubblicata ora nel n.42 di “Ariel”), nella quale si intravedono alcune componenti primarie del futuro regista e didatta: lo studio della fonetica e della tecnica respiratoria, l’interpretazione basata su una rigorosa esegesi del testo, le letture pubbliche di testi poetici e drammatici, la passione per il canto gregoriano. Di ritorno in Italia lo attendeva il progetto di d’Amico per la Compagnia dell’Accademia entrato nella sua fase realizzativa. Qui l’accordo con il maestro fu perfetto: sui criteri guida, sul repertorio (salvo Alfieri, amato da Costa e mal sopportato da d’Amico), sugli attori e i registi, tutti ex allievi della scuola. Anche se per Costa la prevista autarchia della formazione avrebbe dovuto essere totale e riguardante tutti i settori, compresi gli scenografi e i costumisti, e addirittura gli elettricisti: ogni volta che il tema ricorre nella corrispondenza con d’Amico – il quale aprì a delle eccezioni: per esempio scritturò Tino Carraro, non proveniente dall’Accademia – Costa si inalbera in una strenua difesa del “territorio” da ogni estraneo (“basteremo noi stessi”; “non abbiamo bisogno di nessuno”). Posizione estrema, ma anche coscienza di un pericolo reale, che infatti si verificò: gli spettacoli esemplari della Compagnia dell’Accademia - Donna del Paradiso, Re Cervo, Questa sera si recita a soggetto - furono tutti nella prima stagione, 193940; quando l’anno successivo d’Amico cedette la direzione all’”estraneo” Corrado Pavolini, perse immediatamente la sua identità. A Costa non restò che iniziare una carriera di regista al servizio di enti o compagnie. Nel 1941 la Biennale di Venezia gli commissiona la regia del Poeta fanatico: un Goldoni in lingua e in gran parte in versi, una commedia fra le meno note e lodate. Scrive a d’Amico (22 luglio) che tutto nell’organizzazione va di traverso salvo… gli attori che «si sono dimostrati verso di me pieni di attenzione di cortesia e perfino d’una almeno apparente gratitudine. Mi pare che Ninchi [Annibale] vada bene e così anche la Palmer (se non fosse la poca avvenenza) specialmente per quel che riguarda il movimento. E tutti gli altri seguono abbastanza bene l’insieme, tranne forse, per ora almeno, il nostro Crast che ho dovuto prendere per la parte di Lelio e alla quale non si sente portato. Non vi ho detto di Baseggio perché veramente merita un posto a parte, anche per l’interessamento particolare che mette nel lavoro. Certo se vi sarà un successo [che ci fu, e notevole] lo si dovrà in grandissima parte alla sua maschera [Brighella]. Ho inventato per lui, e lui stesso ha portato un certo contributo alle invenzioni, moltissime cose che lui realizza sempre, bisogna riconoscerlo, come se fossero partite dalla sua fantasia. Ho avuto delle prove veramente divertenti in cui gli attori hanno messo tanta volontà e felicità di fantasia che è stato per me un vero grande piacere compiere il mio ufficio di suscitatore di idee e di discriminatore di effetti». Insomma: un idillio, inatteso: il solo a far le bizze fu proprio un compagno d’Accademia, Antonio Crast. Il carteggio con d’Amico naturalmente continua. Forse gli accenni più interessanti son quelli relativi a progetti restati tali. Come un film sulla Vita di Cristo tratto dal libro dell’abate Ricciotti, che Costa immagina di girare nella campagna romana, con tutti non attori (1941); o un Aminta con la Morelli-Silvia: «non è quella descritta dal satiro (ah no!) ma è brava e può somigliare ad un’aspra piccola Diana» (1942); o un Filippo di Alfieri “adattato” e subito respinto da d’Amico (1944). 16 marzo 1944. Roma occupata, Costa è a Comunanza, presso Ascoli Piceno, nella casa di campagna di una cognata: «Come usciremo da questa tragedia, se ne usciremo? E come avremo la forza di metterci al lavoro enorme della ricostruzione e di ritornare al lavoro più facile e felice che abbiamo così inopinatamente interrotto? Quando si pensa che ormai la ricostruzione non potrà più essere relativa al solo nostro paese ma dovrà riguardare gli uomini come un tutto unico, viene da tremare al pensiero che a tutti noi incomba un compito così vasto. Io sono da sei mesi ormai in esilio. Non so se ho fatto bene a isolarmi. Talvolta penso persino di ritornare a Roma, poiché il peso della solitudine in cui mi trovo m’è quasi insopportabile. Ma poi penso che non saprei resistere a quello della visibile schiavitù e continuo a restare qui dove leggo e scrivo e m’illudo di preparare lavoro per quando sarà possibile. Studio Ibsen, Alfieri e Cechov. Mi sono letto le raccolte di teatro sacro del De Bartholomaeis e del Bonfantini. Ho trovato questo teatro (salvo le “laude” e qualche sparsa grazia lirica perduta qua e là) insopportabile e stramorto. Eppure il teatro sacro dovrebbe essere domani l’unico teatro. Ma bisogna rifar tutto daccapo, poiché la nostra irreligiosità d’oggi ha bisogno di ben altra forza». Cosa esattamente intendesse con queste ultime parole si troverà spesso a spiegarlo; e nel modo più chiaro quando (1960) contestò «l’insanabile incompatibilità fra “sacro” e “teatro”» sostenuta da Chiaromonte. Intanto gli anni dell’apprendistato paiono già un lontano ricordo. (Le lettere qui citate sono conservate nel Fondo d’Amico presso il Civico Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, che ringrazio) numero 1 7 Flora Carabella e Rossella Falk durante le prove di Sei personaggi in cerca d’autore L’ARCANGELO CON LE SCARPE VIBRAM di Luigi Squarzina on è tempo di analisi, è tempo di elegia per l’artista appena scomparso che ha saputo far fronte come pochi al dettame del maestro di tutti noi, “dovete amare il teatro e non voi stessi nel teatro”, un viatico nutriente ma di aspro sapore per un pellegrinaggio lungo e difficile. Silvio d’Amico era maestro di Costa e anche suo compagno di banco nel senso spirituale, del comune ascolto prestato alla voce di Copeau; così intimamente coesi che nella fase di consuntivi Orazio ha potuto muovere a Silvio un rimprovero di fondo che per essere stato da lui stesso affettuosamente definito “infantile” non rimane meno netto: “Quando ho deciso di fare teatro io stavo andando verso il cinema. Colpa anche di d’Amico di non aver capito”. Ma io vorrei parlare da testimone ancora investito dal ricordo di alcuni degli spettacoli che ho visto. Li ritrovo nel numero speciale dedicato a Costa dalla rivista “Comunicazioni Sociali”, luglio settembre 1998, a cura di Alessandra Ghiglione e Gaetano Tramontana, con una teatrografia meritoria (nella quale sorprende veder recitare Eros Pagni nel 1942 in Fermenti: anche se è l’inno di O’Neill all’adolescenza, Pagni si diplomerà all’Accademia nel 68/69). Delicata è la questione che potrebbe sorgere dalla cronologia delle stagioni cruciali 1943/44 e 1944/45; “Comunicazioni Sociali” (come la bella voce “Orazio Costa” della Enciclopedia dello Spettacolo) colloca con esattezza nel febbraio e nel giugno ‘43 Il piccolo Eyolf al teatro Quirino e Hedda Gabler all’Eliseo, poi nel giugno ‘45 all’Eliseo l’accoppiata Merimée - De Musset. Se con i due Ibsen del ‘43 Costa ritmava i mesi che preparavano l’armistizio del clima di disfatta incombente che già si era sentito dopo Stalingrado attorno all’Opera da tre soldi, saggio dell’Accademia (insegnante di regia Guido Salvini) con cui si diplomava Vito Pandolfi e in cui agitavamo tutti, futuri attori e futuri registi, da Gassmann a Salce a Mazzarella alla Padovani a chi scrive, nel ‘45 con lo spettacolo dell’ Ottocento francese egli partecipava in prima linea alla rivoluzione culturale che rinnovava la nostra scena dopo la Liberazione, nel momento fatato del teatro-come-vita. Si dirà: volevi parlare di elegia, dunque di poesia, e cominci con la filologia? Ma, pochi anni dopo gli spettacoli che ho nominato, questa seconda si sarebbe manifestata anche da noi come filologia anche dello spettacolo contemporaneo, dimostrandosi indispensabile alla prima al punto di fare da levatrice a un teatro di contaminazione e di citazione, teatro-sul-teatro. Conservo in me immagini vivide e tuttora stimolanti sia dello Eyolf che di Hedda, messinscene, in una Italia dell’oscuramento a lungo scusa dalle correnti guida, ben all’altezza della regia europea tanto più avanzata della nostra; per Hedda, dopo il suicidio di Sarah Ferrati e l’accordo agghiacciante della tastiera su cui crollava e il cinismo della battuta finale di Giulio Stival, “Queste cose non si fanno!”, noi allievi registi del primo anno potevamo discutere tra noi se lo spettacolo intendesse presentare un’eroina in lotta impari contro i pregiudizi del suo tempo o la sconfitta di un estetismo superomistico che alludeva al totalitarismo vacillante. Nei toni di bianco verde e oro di scene e costumi (Tullio e Valeria Costa) il palcoscenico era al tempo stesso ipnotico e straniante, ambiguità rivelatrice per la quale nel gennaio ‘45 noi fummo in grado di ammirare senza gridare al miracolo inatteso gli epocali Parenti terribili di Visconti. Non mi ero formato sotto il suo magistero eppure Costa fu il primo a darmi lavoro appena finita l’Accademia. Nel 1945 il diploma di regia era più un pericoloso identikit che un passaporto. Né Guido Salvini né Ettore Giannini a cui mi ero proposto come assistente avevano niente per me; Costa mi disse di sì e partìi ipso facto per Milano. Su suo consiglio Orazio Costa REGISTA N numero 1 8 Una scena del Don Giovanni di Molière Compagnia Piccolo Teatro della Città di Roma più da fratello maggiore che paterno, gli copiai le inconfondibili scarpe Vibram con le suole di gomma dura a carro armato, provvidenziali nella poltiglia invernale di quella Milano 1945 quasi senza riscaldamento né mezzi di trasporto. Andava in scena il secondo spettacolo della Compagnia Borboni - Randone - Carnabuci Cei di cui Costa era direttore, Vento notturno di Ugo Betti. Il primo era stato un grande successo milanese, Giorni senza fine di O’Neill, un O’Neill alla ricerca di Dio giocato su uno sdoppiamento, lo scrittore John Loving e il suo cattivo dèmone, Randone e Carnabuci. Io ero assistente non alla regia - non ce n’era nessuno - ma alla Compagnia. Randone mi parve eccelso nella parte bettiana dell’anziano solitario che comunica a distanza con un’altra solitudine. I due spettacoli che avevo il compito di seguire in tournée ottennero a Firenze lusinghiere recensioni da parte di Eugenio Montale, critico teatrale (competentissimo!) del quotidiano di Firenze che riprendeva le pubblicazioni. Scrisse Montale sulla “Nazione del Popolo”: “Orazio Costa, uno dei migliori nostri registi e dei più colti, ha tratto eccellenti effetti dal nuovo lavoro di O’Neill, facendo centro naturalmente sul personaggio sdoppiato”. Quanto a Betti, Montale giudicò “la commedia.....certo fra le sue migliori”, la regia “abile e intonata” e Randone “attore fra i nostri migliori”. Le scenografie consistevano di alcuni tralicci per O’Neill, verniciati di bianco su un panorama di panno nero, e di una parapettata di tela per Betti; i tramonti li facevo io girando lentamente a mano un paio di padelloni. Da raccontarla, quella tournée del pri- missimi dopoguerra, un misch masch di piazze che ci portava a recitare una sera a Faenza e la sera dopo ad Asti viaggiando su treni affollati all’inverosimile (se un passeggero o una passeggera erano colti da un bisogno ce li dovevamo passare di spalla in spalla fino alla toilette, senza potercene lamentare come i festaioli romani del Capodanno 2000); nei convogli in penombra che correvano su ponti di fortuna del Genio militare, invisibili ai viaggiatori, ci sentivamo librati nel vuoto, come le scelte artistiche di Costa al di sopra delle contingenze sfavorevoli che non potevano inficiarne la validità; e di una di quelle scelte ci inorgogliva essere latori. Dopo aver allestito altri due spettacoli, una commedia irlandese diretta da Vito Pandolfi (dove recitai anch’io) e un Pirandello messo insieme dalla Borboni, la Compagnia si numero 1 Parenti terribili viscontiani, coetaneo e collega d’ Accademia. Venne poi in via Vittoria, sull’esempio di via Rovello a Milano, l’avventura del Piccolo Teatro della Città di Roma, non riconosciuto tale né dal Comune né dal Sottosegretariato allo Spettacolo. I cattolici al potere nello Stato e nella capitale aiutavano poco un regista sinceramente e dichiaratamente religioso che a onor del vero ben poco gli somigliava; non fu sufficiente l’influenza di Silvio d’Amico, il quale d’altronde non poteva avere solo quel pensiero tanto più che con Costa l’Accademia procedeva sulla giusta strada: non bastarono la compattezza della Compagnia quasi tutta di ex allievi, un ensemble bellissimo (anche per le grazie delle giovani attrici), il più prossimo che Costa sia riuscito a riunire alla sua concezione, 9 Orazio Costa REGISTA sciolse assai prematuramente finendo senza eutanasia per improvviso forfait del capocomico. Era tipico della intransigenza di Costa avere proposto un repertorio austero in una Italia che desiderava solo tirare il fiato, ed è storicamente da rimarcare - a correzione di certi luoghi comuni sulla regia che sarebbe venuta imponendosi a suon di allestimenti - che il nuovo stava nascendo soprattutto dal rigore, dalla tensione, dalla convinzione di offerte rischiose; questo a pochi mesi dal momento in cui lo stesso Costa a Roma avrebbe potuto disporre di mezzi sufficienti per una raffinata Carrozza del SS. Sacramento accoppiata a un elegante e commovente Candeliere dove a fianco di Andreina Pagnani si rivelava Giorgio De Lullo attor giovane, confrontandosi nello stesso Teatro Eliseo con l’Antonio Pierfederici dei scrisse Giorgio Prosperi, “tra l’ordine monastico e il sodalizio medievale” - ma erano ragazzi allegri e innamorati; e quanto più sorprendenti e ispirati erano stati i Sei Personaggi del ‘48 con i giovanissimi Rossella Falk (quelle gambe lunghissime e tornite che uscivano dal “vestitino” nero aderentissimo mentre cantava da sciantosa sul pianoforte), Tino Buazzelli, Gianrico Tedeschi, Giancarlo Sbragia, su un palcoscenico presentato a rovescio, rispetto alla pur autorevole messinscena di un anno e mezzo prima con tanto di Ferrari, Pilotto e Tofano; non bastò la serietà del repertorio. È stato notato che la metodologia mimetica di Costa, su cui non è mio compito soffermarmi, sembrava trasparire dai suoi spettacoli meno chiaramente di altre, storicistica, epica, critica, di gruppo, di immagine, di strada, di cantina, neodadaista, neobarocca, decostruzionistica, di metateatro, di contaminazione, povera, provocatoria, crudele e tante ancora, del cui avvicendarsi però si dovrà pur discutere altrettanto in termini di maggiore o minore aderenza delle messinscene ai presupposti teorici. Privilegiando il momento emotivo del ricordo voglio citare due uscite del Piccolo Teatro passato da via Vittoria a via Sicilia, dal teatrino dell’Accademia al Teatro delle Arti: Le Colonne della società (1951), l’Ibsen, ispiratore di molta drammaturgia moderna, con al cento un formidabile Tino Buazzelli la cui ammissione di responsabilità, isolata in un cono di luce, non è dimenticabile, e due anni prima (1949) il capolavoro alferiano di Costa, Mirra, affidata a una lacerata lacerante Anna Proclemer inguainata in un corpetto da cui stentava a prorompere la femminilità, ancorata a un tormentoso coulisson, forse il miglior costume mai disegnato da Valeria Costa (l’ascetico Orazio era un più che sapiente valorizzatore della bellezza muliebre) - Anna, uscita più dalla ribalta del GUF o delle Arti di Bragaglia che non da Piazza della Croce Rossa eppure vicinissima fin dall’esordio allo spirito dell’Accademia, protagonista, con la Falk, anche della Dodicesima notte, 1950, dove campeggiavano il Malvolio di Randone e il Festa di Tedeschi. Via Rovello gli dette spazio. Nel maggio 1955 io ero alla prima di Processo a Gesù. Era una delle volte in cui Fabbri aveva scritto con convinzione; Costa, con Teresa Franchini (“Lasciateci Gesù!”), Antonio Crast e Augusto Mastrantoni seppe rendere convincentissima, al limite, aureo in quel caso, della mozione degli affetti, la pur scontata assoluzione finale del Messia. Non ho visto, anche se oggi mi sembra strano, nessuno degli spettacoli in cui Costa dispiegava la sua vocazione all’uso del coro, ambito in cui l’eccellenza gli veniva riconosciuta fino alla benevola o invidiosa presa in giro; la coralità era patrimonio dell’Accademia; ma da quel Processo a Gesù, retto da attori di grande professionismo, emanava una musicalità vocale d’insieme e un contrappunto di gesti (alcuni proprio “suoi”, esorcistici) che solo un mago dei cori poteva conseguire. numero 1 10 DRAMMATURGIA SCENICA DELL’INVISIBILE di Claudio Meldolesi I Dialoghi delle Carmelitane di George Bernanos uno degli spettacoli storici di Orazio Costa numero 1 ilvio d’Amico doveva aver intuito la riluttanza della regia a farsi materia d’insegnamento quando, nei primi anni Trenta si preparava a fondare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica a Roma. Appare sintomatico il fatto che chiese di farsene professori, prima, a Copeau e, poi, alla Pavlova, che supponeva S iniziata al metodo Stanislavskij, dato che da vent’anni ormai fallivano in Italia i tentativi d’importare quella risorsa, benché non fossero mancati suoi notevoli esploratori ingenui. Comunque, se la scelta della Pavlova si rivelò inadeguata, bastò a fornire i primi necessari orientamenti al talento di Orazio Costa. Ma fu poi questo allievo d’eccezione, perfezionatosi a Parigi alla scuola copeauiana, a farsi fondatore dell’insegnamento registico italiano e guida artistica globale di quell’istituzione. Il suo cattolicesimo era diverso da quello, essenzialmente francescano, del presidente dell’Accademia e la sua personalità era troppo forte perché non si determinasse qualche imprevedibile corto circuito con lui; ma direzione istituzionale e direzione artistica furono da loro esemplarmente combinate, naturalmente grazie anche agli attori maestri di recitazione, in qualche caso ancora segnati dal magistero della Duse. Come fosse una compagnia, questa scuola era un luogo di differenze intime, a distanza dalla normativa fascista. Si potrebbe dire, a questo punto, delle svolte che l’Accademia d’Arte Drammatica conobbe e trasmise al teatro italiano di metà secolo, come del ruolo avuto allora dagli uomini di teatro cattolici nella disgregazione del trasformismo ideologico del regime, avendo agito Costa su ambedue questi terreni da protagonista; ma più strategico si sarebbe rivelato il suo merito nella precisazione della novità artistico culturale che si andava formando in Italia. Etico fu infatti il suo Gestus di fondatore, cresciuto al contatto della fede come dell’organicità scenica appresa in Francia. Non a caso, al contrario di tanti nuovi dirigenti culturali cattolici, Costa, per la particolarità del suo percorso non fu mai protetto dai governi democristiani, fin dal tempo in cui il Piccolo Teatro della Città di Roma da lui fondato nel 1948 fu costretto a precoce chiusura. Non sorprende così che le sue realizzazioni degli anni Cinquanta risultino alla distanza dialettiche con quelle del comunista Visconti per fermenti prossimi all’esistenzialismo. Ma una non mediata assunzione di responsabilità anche istituzionali tendeva poi a qualificare i suoi incontri da artista con il testo. E se Alessandro d’Amico ha espresso qualche dubbio sulla definizione di “regia a spettacolo unico”, con cui chi scrive ha cercato di fissare questa segreta concordanza con Visconti e, in parte, con l’Eduardo regista, resta comunque il senso di questa singolare contemporaneità di ricerche, segnata da marcanti coinvolgimenti individuali. In Costa bastavano le ambientazioni corali, le verticalizzazioni dei nodi drammatici o le modalità di partizione drastica della partitura testuale (prossime a quelle di Stanislavskij) a creare delle sintomatiche continuità di spettacolo in spettacolo. Sembrava gareggiare allora la forma ricorrente dei suoi spettacoli con la varietà delle scritture e degli ordini dialogici: si trattava di una ricerca comparabile con quella originaria che aveva indotto Copeau a optare per una scena unica, ospite di Orazio Costa REGISTA 11 numero 1 ilvio d’Amico doveva aver intuito la riluttanza della regia a farsi materia d’insegnamento quando, nei primi anni Trenta si preparava a fondare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica a Roma. Appare sintomatico il fatto che chiese di farsene professori, prima, a Copeau e, poi, alla Pavlova, che supponeva S iniziata al metodo Stanislavskij, dato che da vent’anni ormai fallivano in Italia i tentativi d’importare quella risorsa, benché non fossero mancati suoi notevoli esploratori ingenui. Comunque, se la scelta della Pavlova si rivelò inadeguata, bastò a fornire i primi necessari orientamenti al talento di Orazio Costa. Ma fu poi questo allievo d’eccezione, perfezionatosi a Parigi alla scuola copeauiana, a farsi fondatore dell’insegnamento registico italiano e guida artistica globale di quell’istituzione. Il suo cattolicesimo era diverso da quello, essenzialmente francescano, del presidente dell’Accademia e la sua personalità era troppo forte perché non si determinasse qualche imprevedibile corto circuito con lui; ma direzione istituzionale e direzione artistica furono da loro esemplarmente combinate, naturalmente grazie anche agli attori maestri di recitazione, in qualche caso ancora segnati dal magistero della Duse. Come fosse una compagnia, questa scuola era un luogo di differenze intime, a distanza dalla normativa fascista. Si potrebbe dire, a questo punto, delle svolte che l’Accademia d’Arte Drammatica conobbe e trasmise al teatro italiano di metà secolo, come del ruolo avuto allora dagli uomini di teatro cattolici nella disgregazione del trasformismo ideologico del regime, avendo agito Costa su ambedue questi terreni da protagonista; ma più strategico si sarebbe rivelato il suo merito nella precisazione della novità artistico culturale che si andava formando in Italia. Etico fu infatti il suo Gestus di fondatore, cresciuto al contatto della fede come dell’organicità scenica appresa in Francia. Non a caso, al contrario di tanti nuovi dirigenti culturali cattolici, Costa, per la particolarità del suo percorso non fu mai protetto dai governi democristiani, fin dal tempo in cui il Piccolo Teatro della Città di Roma da lui fondato nel 1948 fu costretto a precoce chiusura. Non sorprende così che le sue realizzazioni degli anni Cinquanta risultino alla distanza dialettiche con quelle del comunista Visconti per fermenti prossimi all’esistenzialismo. Ma una non mediata assunzione di responsabilità anche istituzionali tendeva poi a qualificare i suoi incontri da artista con il testo. E se Alessandro d’Amico ha espresso qualche dubbio sulla definizione di “regia a spettacolo unico”, con cui chi scrive ha cercato di fissare questa segreta concordanza con Visconti e, in parte, con l’Eduardo regista, resta comunque il senso di questa singolare contemporaneità di ricerche, segnata da marcanti coinvolgimenti individuali. In Costa bastavano le ambientazioni corali, le verticalizzazioni dei nodi drammatici o le modalità di partizione drastica della partitura testuale (prossime a quelle di Stanislavskij) a creare delle sintomatiche continuità di spettacolo in spettacolo. Sembrava gareggiare allora la forma ricorrente dei suoi spettacoli con la varietà delle scritture e degli ordini dialogici: si trattava di una ricerca comparabile con quella originaria che aveva indotto Copeau a optare per una scena unica, ospite di Orazio Costa REGISTA 11 numero 1 12 Shakespeare come di Eschilo o Dostoevskij. Ambedue sembravano aver cercato nel “prima” l’identità artistica dei loro scavi. Costa essenzializzava il corso testuale distinguendo fra i portatori di azioni e gli altri, in modo che questi agissero come un coro informale, anche se poi egli dirigeva lo spettacolo con modalità complesse, da regista internazionale come da specialista della drammaturgia in lingua italiana. Un italianista pronto a ogni sconfinamento viene da pensarlo oggi, e filologicamente agguerrito dal bisogno di precisione che la scena richiede a tutti i suoi specialisti consapevoli: a lui in particolare perché appassionato a investigare gli ultimi lembi di sapere strappati all’inconoscibile, essendo quest’ultimo un elemento distintivo dello spessore delle sue messinscene. Le decantazioni corali e le acquisizioni filologiche - quasi sempre di prima mano - venivano da lui giuocate direttamente sul terreno dell’espressivismo per connotare quel vuoto: che il pudore della fede rendeva passibili di significazioni ulteriori da parte di ciascun spettatore. Una presenza silenziosamente attiva sgorgava dalla serie dei richiami sacri e collegava le partiture di spettacolo in spettacolo, nonostante Costa non avesse comunicato di perseguire questo intendimento nemmeno agli interpreti. Dove non cedeva a resistenze convenzionali, agiva infatti come un officiante di un rito maggiore, non commensurabile alla natura dei presenti, anche dopo il distacco dalle prove. Dal loro interno, così, queste dinamiche rappresentative tendevano a surdeterminazioni espressioniste, e a questa condizione naturalmente si collegava il metodo mimico, con i suoi richiami primordiali ad alberi, tempeste, scimmie, eserciti contrapposti e sangue. In tal senso sembra fondarsi la definizione di “regia a spettacolo unico” riguardo a Costa; e anche se essa fosse poco accolta, questi richiami continuerebbero a richiedere una concettualizzazione in sede saggistica. Si potrebbe parlare, anche, di “drammaturgia scenica dell’invisibile”. Inquietante era la bellezza che producevano le dinamiche rappresentative di Costa, anche se potevano trovare solo in forme di spaesamento il loro spazio in rapporto al dialogo. Ciò lo fa pensare quale regista storico nella distanza italiana; e questa collocazione trova conferma nella radicalità delle sue realizzazioni sceniche maggiori, che erano tali da rifug- gire dalle teorizzazioni scritte. Pur essendo un uomo di scena dal raro sapere e un letterato come pochi competente delle drammaturgie segrete del teatro italiano, Costa ha pubblicato pochissimo sul suo lavoro. Preferiva elaborare le sue idee in quaderni privati; e non solo per non avallare l’immagine diffusa nell’ambiente che lo voleva eccessivamente studioso. Fin dai primi anni da professionista si era dato il costringimento di non creare con intelligenza estetica, e ciò aveva fatto trasparire tratti di duplicità nelle sue messinscene, restando un creatore della scuola di Copeau. Sembrava così organicamente predisposto al lavoro sui frammenti testuali, per cui non ci si sorprese che diventasse poi inventore di inconfondibili spiazzamenti nei testi che rappresentava; ma la sua immagine al lavoro finiva così per distanziarsi da quella del regista comunemente noto e apprezzato. Chi scrive lo ricorda nei primi anni Sessanta intento ad esperimenti estremi di messinscena con i suoi allievi, all’Accademia; sicché drammi poco più che naturalisti di Fabbri o di Muñoz, per scatti grotteschi di senso, sembravano riformularsi al suo contatto; mentre poi negli spettacoli restavano solo dei segni discontinui di tale interferenza drammaturgica del regista. Era questo soprattutto un modo di restare presente in incognito nelle messinscene, che già Copeau aveva praticato. Mentre originale era il suo modo di far rivedere la vita in scena attraverso una particolare distanza. L’umanità rappresentata da Costa si presentava così al pubblico già predisposta al tragico, e lo spettacolo dal suo punto di vista consisteva in sforzi di fede per plasmare cristianamente questa condizione. Insofferente al limite del prevedibile, anche in senso confessionale, Costa cercava di scoprire scoprendosi a se stesso, coinvolgendosi nella storia del teatro occidentale, fino a sembrare un messaggero del vuoto di cui parlavamo, in Adelchi come nel Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore e ne I Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos come in Spiritismo nell’antica casa di Betti, che portò in scena anche da interprete. E poiché le sue regie vivevano di forti codificazioni, tanto da sembrar prossime a certi esiti orientali, questo fermento debordava anche nei suoi spettacoli da Ibsen e O’Neill, da G. B. Shaw e Cechov, come da Molière e Metastasio, da Goldoni e Alfieri, potevano produrre esiti di segno originario anche in contesti spettacolari tradizionali. La disposizione ad attraversare i testi che gli erano affini più e più volte, col tempo, lo portò poi a creare dei topoi trasversali di temi e strutture linguistiche che istituivano veri e propri filoni nel suo repertorio; ed è questa trasversalità che oggi molti suoi spettatori rimpiangono, anche fra quelli estranei al suo bisogno di far mondo con la fede. L’intima, radicale coerenza dei suoi scavi non ha però avuto il seguito cui sembrava destinata sulle nostre scene, nemmeno nel lavoro dei suoi allievi. Tuttavia, al fianco dei creatori rimasti prossimi al suo scavo - come Claudia Giannotti, Paolo Giuranna, Roberto Herlitzka o Pino Manzari -, sono incomprensibili fuori dal suo magistero certi approdi di Ronconi o di Barberio Corsetti. Ciò rimanda alla fondazione della drammaturgia registica italiana che Costa operò insieme a Visconti, per sintomatici eccessi interpretativi: anche se la formazione filologica in Costa tendeva a riassimilarli al dettato testuale; a queste transizioni, del resto, egli si era dedicato fin dalla sua tesi di laurea in Lettere sui dialoghi nei Promessi Sposi, discussa sessantatre anni or sono, cui fece immediatamente seguito la corrispondente trasposizione drammatica. E lungo tutta la sua attività egli valorizzò le frontiere del teatro, anche all’inverso, facendo sentire “romanzesco” Shakespeare e “lirico” Calderòn. Gli bastava fare incontrare con purezza ritmo testuale e tono interpretativo per acquisire alle scene queste scritture come fossero apolidi. E il senso di queste ibridazioni può oggi essere rintracciato nei suoi scritti pubblicati da Giacomo Colli in “Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di Orazio Costa” (Roma, Bulzoni, 1989). Ma il lettore dovrà integrare le sue parole con il senso di luminosità che traspariva talvolta dal suo ostinato fare scenico. Un’altra immagine da I Dialoghi delle Carmelitane «Inquietante era la bellezza che producevano le dinamiche rappresentative di Costa - dice Meldolesi - anche se potevano trovare solo in forme di spaesamento il loro spazio in rapporto al dialogo» Orazio Costa REGISTA numero 1 13 numero 1 14 I due suonatori in costume in Ipazia di Mario Luzi numero 1 15 SINTESI Un momento della Vita nuova Per Luzi «la potenza drammatica chiusa nelle perfette forme di quell’opera giovanile di Dante venne tutta in luce come drammaturgia nuda e sapiente» MEMORIALE DI UN’AMICIZIA di Mario Luzi icostruisco con meraviglia il corso della mia amicizia con Orazio Costa Giovangigli. Constato che, per quanto sembrasse sempre esistita aveva nella cronologia oggettiva una data abbastanza recente. In questa materia il paradosso è di casa. Ciò che appare a noi e cioè la durata interiore soggettiva conta più di quella stabilita dalle misure convenzionali del tempo. Così non mi veniva mai pensato – e credo neanche a Orazio – che la nostra frequentazione fosse nata da pochi anni. Conobbi Orazio quando nei suoi programmi didattici di drammatizzazione di testi letterari decise di affrontare con i suoi allievi la Vita nuova di Dante. Ero stato fino ad allora contrario per principio alle conversioni teatrali di opere nate in altra forma e struttura. Quella recita a cui Orazio mi chiese di assistere mi indusse a cambiare parere: la potenza drammatica nascosta negli eventi interiori e chiusa nelle perfette forme di quell’opera giovanile di Dante venne tutta in luce come drammaturgia nuda e sapiente. Fu una rivelazione nuova di un libro a cui ero molto devoto. Da allora cominciammo a tenerci al corrente, di noi, del nostro lavoro. Nel 1978 Orazio mi comunicò che avendo adottato nella sua scuola come testo di quell’anno la mia Ipazia, desiderava concludere il corso con un saggio di recitazione pubblica e mi chiedeva il consenso e la collaborazione. Quel saggio tenuto in un salone dell’Educandato della SS. Annunziata a Poggio Imperiale divenne poi la prima ufficiale all’Istituto del Dramma Popolare a San Miniato. Non avevo mai scritto per il teatro se non molti anni prima, antefatto dimenticato, pietra oscura. Neanche scrivendo Ipazia secondo una morfologia drammaturgica avevo pensato davvero a una possibile rappresentazione. Ebbi allora modo di ammirare la sua lettura affilata, aderente, precisa: questa offriva e questa esigeva dagli attori; da là doveva sprigionarsi l’energia della recitazione. Dalla intelligenza effettiva doveva nascere il pathos. E su questo mi pareva implacabile. Qualche attore di grido sopportava male la sua regia. Tuttavia lo ammirava. Del resto era stato il maestro di quasi tutti all’Accademia. Ci ritrovammo poi affiancati nella preparazione di Rosales per il teatro di Genova che esordì però al Maggio fiorentino, nel 1983, alla Pergola. Ci furono poi occasioni innumerevoli di collaborazione a partire dalle letture dantesche nella chiesa di Badia che curò meticolosamente per anni. Anche io lessi qualche canto della Commedia davanti a quel pubblico, in quella atmosfera. Ci furono anche vagheggiamenti, sogni che rimasero tali. Un desiderio inappagato di Orazio fu che io mi cimentassi con Emmaus. Era un tema vertiginoso di cui si parlò più volte. Ma io non lo sentivo in forma drammaturgica, ma piuttosto come un assoluto simbolico. Lui però insisteva e io non rinunziai del tutto al progetto, intanto gli anni passavano. Il fatto è che Orazio era, sì, un grande uomo di teatro e aveva insegnato il teatro a tutta la mia generazione e alle seguenti, ma lo era in una visuale più ampia e certa di poesia. Era dottissimo nella letteratura poetica di ogni età e la composizione di poesie occupò non poca parte del tempo che l’attività teatrale gli lasciava libero. In anni recenti scelse con l’aiuto di Sauro Albisani alcuni gruppi delle sue poesie e ne fece un volume cospicuo a cui stesi una breve prefazione. Con un fermo risentimento stilistico soggettivo passavano in quelle pagine parecchie delle fasi di ricerca della poesia novecentesca in Italia e in Europa. La sua aristocrazia naturale e ben coltivata traspariva subito. Di essa poteva accorgersi anche chi lo ascoltasse leggere i testi prediletti. Era d’una efficacia sobria ma molto incisiva. Ricordo che durante un grande raduno di giovani a Palazzo Vecchio in cui si parlò di Dante e di Rimbaud si riuscì a tirarlo su dalla platea dove si trovava per curiosità o per caso e io lo persuasi a leggere l’ultimo canto del Paradiso. Aveva problemi di voce, corde vocali allentate, era ancora in terapia. Ma quella lettura roca e tesa, intellettivamente vibrante, soggiogò quell’affollatissimo uditorio e rimase nella risonanza interiore dei presenti quando si disciolsero. Orazio Costa REGISTA R numero 1 16 SIAMO STATI IRRICONOSCENTI VERSO ORAZIO di Luca Ronconi ia per mancanza di tempo e di abitudine, sia soprattutto per una certa qual sfiducia nelle mie qualità di scrittore, da sempre mi riesce difficile mettere su carta i miei pensieri: per lo più - e certo se così non fosse nella mia vita non mi sarei trovato a fare il regista - preferisco ricorrere al teatro per parlare di chi o di quanto mi sta a cuore; quando però dall’Ente Teatrale Italiano mi è arrivato l’invito a stendere un breve contributo in ricordo di Orazio Costa a poche settimane dalla sua morte, vincendo d’acchito tutte le mie più profonde remore nei confronti dell’esercizio diretto della scrittura, ho subito accettato la proposta nonostante la circostanza fosse quanto mai “a rischio”: non di rado infatti, specie in un “autore” inesperto quale io sono, al di là di ogni buona intenzione la sincera volontà di dar voce al dolore per la scomparsa di una persona cui si era legati, mantenendone vivo il ricordo, finisce, fissandosi in discorso, con l’impantanarsi tra le secche delle facili frasi fatte - non per nulla, ma è già questo un luogo fin troppo comune, si sa che spesso di fonte all’enormità e all’eccezionalità di un evento come la morte, l’unico possibile commento è il silenzio. Fatti tutti questi preamboli, perché dunque - e io per primo me lo sono chiesto - non ho esitato un istante nel rispondere alla sollecitazione del professor Tian? La prima ovvia risposta è che per chiunque in Italia ami il teatro, sia come “fruitore” sia come “operatore”, rendere omaggio a Orazio Costa all’indomani della sua scomparsa, era sicuramente un atto dovuto. Non sono uno storico della scena e non spetta quindi a me render conto in dettaglio dei debiti che buona parte dei protagonisti del teatro italiano del dopoguerra hanno contratto nei confronti di Costa, ma credo sia sotto gli occhi di tutti l’importanza dell’apporto che Costa ha dato alla crescita della civiltà teatrale italiana nella seconda metà del secolo che si è appena concluso. Compagno di strada di Silvio d’Amico e allievo assistente di Jacques Copeau, promotore e protagonista S numero 1 17 Orazio Costa REGISTA Il giovane Luca Ronconi attore in Candida di G. B. Shaw «Con Costa - dichiara oggi il regista ho condiviso la passione per la parola-in-scena. In fondo alle origini della mia visione del teatro come momento di conoscenza c’è anche l’idea costiana del teatro come “misura dello spirito”» numero 1 18 della “rivoluzione” teatrale, che a partire dai tardi anni Trenta segna l’avvento sui palcoscenici patri della figura del “regista” - parola e figura nei confronti della quale egli, d’altra parte, conservò un’ironica “distanza” per tutta la vita -, pedagogo di non comune carisma impegnato con rara abnegazione nelle più diverse avventure didattiche - dal pluridecennale insegnamento in Accademia a quello presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, dalla creazione del Centro di Avviamento all’Espressione di Firenze all’apertura della Scuola di Teatro di Bari -, maestro a vario titolo di quasi tutti i più acclamati interpreti della nostra scena (e non solo), da Tino Buazzelli a Nino Manfredi, da Paolo Panelli a Glauco Mauri, da Monica Vitti a Rossella Falk, da Umberto Orsini a Giammaria Volonté, da Gianrico Tedeschi a Giancarlo Sbragia o a Gabriele Lavia - per non citare che alcuni nomi a caso dallo sterminato registro dei suoi allievi -, Costa ha lasciato una traccia indelebile nel panorama teatrale italiano degli ultimi decenni. Probabilmente considerazioni di questo genere già sarebbero sufficienti a spiegare in assoluto il desiderio, o forse meglio la necessità di ricordare il lungo viaggio attraverso la scena di Costa, ma non bastano a far luce sui motivi più veri che mi hanno spinto a scrivere queste righe. Abbandonando il punto di vista generale a vantaggio di una prospettiva più personale, devo subito cominciare con l’ammettere che per primo appartengo alla gran massa degli numero 1 uomini di teatro italiani che non possono negare i propri obblighi di riconoscenza nei confronti di questo grande Maestro. Nel biennio 1951-52 /1952-53 ebbi Costa come insegnante di recitazione in Accademia e in quegli anni mi trovai pure a seguire le sue lezioni di regia; subito dopo il mio debutto come attore sotto la guida di Squarzina in Tre quarti di luna nel 1953, proprio diretto da Orazio Costa mi trovai poi a cimentarmi nella mia seconda prova d’attore in una messa in scena di Candida di George Bernard Shaw prodotta dal Teatro Stabile di Roma nel 1954. Il successivo appuntamento professionale - ma questa volta a ruoli invertiti - col mio ex insegnante risale a una ventina d’anni dopo la messa in scena shawiana appena ricordata, quando volli cioè Orazio come attore nella versione televisiva di Orlando furioso. Al di là delle profonde differenze di gusto e di orientamento culturale che ci hanno separati, non posso e non voglio nascondere che Costa ha ricoperto un ruolo determinante nella mia formazione teatrale. Certo non mi sono mai riconosciuto nel metodo Costa, ma da Costa ho imparato la necessità di fondare su basi etiche (più ancora che mistiche) il rapporto con la scena, il piacere di analizzare le questioni interpretative risolvendole di volta in volta secondo le loro irriducibili specificità nell’ambito di una robusta “quadratura” intellettuale e, pur se forse sulla base di diversi presupposti estetici, con Costa ho condiviso la passione per la parola-in-scena. In fondo alle origini della mia visione del teatro come momento di conoscenza c’è anche l’idea costiana del teatro come “misura dello spirito”, alle radici del mio approccio empirico all’esperienza registica ci sono i ricordi di certe lezioni di Costa e di certi suoi suggerimenti su come “scartocciare” - mi si passi il termine logicamente i problemi di senso; forse il mio rispetto quasi maniacale del testo non poggia sulla fede nel logos, ma sicuramente la cura attenta che cerco di dedicare alla restituzione teatrale della parola non è troppo lontana dal rigore con cui Costa “leggeva in scena” Ibsen o Molière, Goldoni o Alfieri o i classici del teatro religioso medioevale. È proprio per questa via, ossia attraverso un aperto riconoscimento di quanto ho appreso da Orazio Costa, che posso arrivare a parlare del senso autentico di queste mie frammentarie note. A fronte della sincera ammissione dell’influenza che Costa ha avuto sul mio percorso teatrale, influenza che a dire il vero non ho mai voluto negare o celare, c’è da parte mia un’acuta percezione dell’ingratitudine che, di fatto, ho riservato, e forse in questo non sono ahimé stato il solo, a questo grande uomo di teatro. Sia chiaro che chiamando in causa la società teatrale italiana - o quanto meno parte di essa - nel mio discorso non intendo sottrarmi a quelle che sono e so essere le mie personali responsabilità, né, men che meno, voglio accusare qualcuno in particolare, ma sforzandomi di essere il più possibile lucido vorrei cercare di rendere il giusto riconoscimento a Costa, tentando, per quanto possibile, di trarre anche da un avvenimento doloroso come la sua scomparsa un insegnamento o per lo meno un motivo di riflessione. Credo sia fuor di dubbio che, fatte alcune debite eccezioni, il teatro italiano, di cui torno a dire io per primo faccio parte, si sia mostrato nei fatti, anche se certo non per deliberata cattiva intenzione, irriconoscente verso Orazio Costa, che proprio al teatro italiano ha consacrato l’intera esistenza: l’isolamento in cui non si può negare Costa abbia vissuto negli ultimi anni della sua vita è lì a dimostrarlo, costringendoci a prendere posizione su quale sia l’essenza dei nostri costumi teatrali. Sicuramente Costa per primo, con quel suo inconfondibile e un po’ aristocratico distacco ha contribuito in un certo qual modo a creare la situazione che ho appena denunciato, ma lungi dall’essere una giustificazione dell’operato di chi, come me, non ha saputo o voluto dimostrare appieno la propria gratitudine ad un tale maestro, proprio quest’ultima osservazione ci fornisce nuovi soggetti di meditazione. In una società teatrale dominata da una certa “scioltezza”, da una certa affettazione di cordialità, i modi severi e austeri di Costa, certo talvolta fors’anche un po’ pedanti, ma sempre rispettosi e dettati da un solidissimo codice morale, non sono stati mai più di tanto accettati e capiti. Ma una società teatrale di questo tipo può darsi una “tradizione”? E ancora: può esistere una vera civiltà teatrale in mancanza di una tradizione? E in ultimo: Costa non ha forse cercato per tutta la sua vita di fondare a suo modo proprio una “tradizione”? Ma allora che risultati hanno prodotto i suoi sforzi? Certo questi interrogativi non possono non lasciare in chi li pone una profonda amarezza, ma in questa sorda inquietudine, in questa insoddisfazione che essi provocano, sta la loro necessità, la loro urgenza. Ed è anche perché ci ha aiutato a porci simili domande che dobbiamo ringraziare Orazio Costa, questo maestro un po’ distante ma sempre generoso, che con la signorile eleganza e la discrezione che gli sono state proprie per l’intera vita, ci ha da poco lasciati per sempre, trasmettendoci come sua preziosa eredità, più ancora che un modello di teatro, un esempio di vita. Orazio Costa REGISTA 19 «Costa non è stato solo un modello di teatro ma anche un esempio di vita» numero 1 20 IL RESPIRO MISTICO DEL POVERELLO di Paolo Emilio Poesio ell’estate del 1950, l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato decise di commemorare Jacques Copeau, il grande regista spentosi in Francia il 20 ottobre dell’anno precedente. L’omaggio non intendeva onorare solo la memoria di uno dei maggiori innovatori della scena moderna, ma anche ricordare che a lui, a Copeau, si era ispirata la pattuglia di intellettuali cattolici che aveva fondato l’Istituto nel 1947, con l’intento di mettersi al servizio di “un’arte cristiana e popolare nel senso più augusto dei due vocaboli”, come ebbe a scrivere Silvio d’Amico. In molti, per di più, ricordavano gli spettacoli di Copeau a Firenze negli anni dell’anteguerra: la celeberrima Santa Uliva nel 1933 nei mistici chiostri di Santa Croce, il Savonarola di Rino Alessi in piazza della Signoria (1935), l’As you like it di William Shakespeare (il cui titolo era stato tradotto da Paola Ometti nel toscanissimo Come vi garba), nel Giardino dei Boboli (1937). In quest’ultima occasione Copeau aveva voluto al suo fianco il giovane Orazio Costa, che, oltre a diplomarsi in regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, aveva anche voluto recarsi in Francia per lavorare con Copeau e i suoi allievi. Ciò detto è facile capire come e perché l’Istituto del Dramma Popolare, una volta deciso che l’omaggio al Maestro scomparso si sarebbe concretato nella rappresentazione di uno dei non molti suoi testi drammatici - e precisamente l’ultimo in ordine cronologico, Il Poverello (Francesco d’Assisi) -, ne affidò la regia a Costa, iniziando così una collaborazione che sarebbe poi durata, fra alti e bassi, parecchi anni. Lo spettacolo doveva andare in scena il primo giorno di settembre; e nell’ultimo scorcio di agosto (per quanto non toccasse a me di recensire l’avvenimento per il giornale in cui allora lavoravo) non seppi resistere alla tentazione di andare a salutare Costa impegnato nelle prove finali. Ricordo di quei giorni i N brevi ma interessanti colloqui con il regista così come ricordo nitidamente le emozioni suscitate in me dalla rappresentazione, emozioni delle quali trovo traccia nelle sgualcite pagine di un taccuino. Nella piazza antistante il duomo e il palazzo vescovile si levava una gigantesca struttura che richiamava alla mente le “macchine” e gli “ingegni” delle sacre rappresentazioni. Struttura nuda, ideata dalla sorella di Orazio, Valeria, e portata a compimento dal Santonocito: ma suggerita, io penso, da Orazio stesso che nei diversi piani voleva si snodasse la storia di Francesco e dei suoi seguaci, i fraticelli non sempre consci di quanto fosse alta la prova alla quale erano chiamati. Nei piani bassi si svolgeva la vita quotidiana, nei piani alti era la dimora celeste degli angeli. Cielo e Terra: a coniugarli, direi meglio a fonderli in un’atmosfera e in una tensione quali di rado si raggiungono in teatro pensava la lucida, vigorosa regia di Costa, che non disponeva di attori di grido (con l’eccezione di Evi Maltagliati già famosa nel teatro italiano), ma disponeva di un fitto gruppo di giovani (molti dei quali destinati a raggiungere traguardi eccellenti, da Rossella Falk a Giancarlo Sbragia, da Nino Manfredi a Enrico Maria Salerno, da Ignazio Bosic a Renzo Giovampietro, da Renato De Carmine a Glauco Mauri, da Edmonda Aldini a Marina Bonfigli), giovani che, in buona parte, erano stati suoi allievi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Così come lo era stato quell’Antonio Pierfederici che si era rivelato nei Parenti terribili di Cocteau con regia di Visconti e che ora si trovava ad affrontare il personaggio di Francesco d’Assisi e sulle cui spalle riposava il peso dell’intero dramma in una fluviale abbondanza di parole. Ho detto dramma, ma in effetti il testo del Poverello è più il testo di un poema che non quello di un fatto prettamente destinato alla rappresentazione; Costa si era dunque trovato a risolvere un doppio problema: da un lato il rispetto assoluto e totale dello spirito e della parola di Copeau, il rifiuto di ogni e qualunque superfetazione scenografica, la rinuncia alle facili scappatoie iconografiche e dall’altro la necessità di trasmettere allo spettatore il grande respiro mistico capace di creare quella “comunione” che è il fine desiderato di un’arte cristiana e popolare. È vero che Copeau si era premurato di lasciare la più ampia libertà di azione a chi un giorno avrebbe messo in scena Il Poverello, ma la devozione - mai venuta meno - di Costa verso il suo Maestro poneva limiti invalicabili e impediva ogni sia pur minimo intervento materiale sul testo originale. Di qui la rinun- zia a effettuare drastici tagli alla fin troppo lussureggiante verbosità, di qui la necessità di “riscrivere” registicamente la vicenda umana e sovrumana di Francesco. Il che ha significato innanzi tutto contrapporre alla staticità di un testo poetico, ma anche incline all’eloquenza per l’eloquenza, una visione dinamica degli accadimenti, trovando un ritmo serrato, un continuo dipanare discorsi e azioni, tanto da dare l’impressione che non ci fossero pause, anche quando in realtà la sola voce di Francesco bastava a dare la sensazione che persino la natura concorresse a colmare con il frusciare delle foglie e i refoli rapidi di un vento non più estivo i silenzi interiori del piccolo folto popolo di personaggi stupiti e sconvolti. Non so come Costa fosse riuscito a insufflare negli attori una sorta di febbre, un bisogno quasi rabbioso di scolpire le parole e di supportarle con una gestualità generosa e controllata insieme, ma so che si ebbe l’impressione di trovarci dinanzi ad una compagnia di eccezionale compattezza nell’adesione completa non alla necessaria disciplina, ma addirittura alla più segreta vena creativa del regista. In assenza dei tradizionali “effetti” destinati ad assicurare la positiva disposizione d’animo nel pubblico facilitando l’applauso, Costa aveva fatto ricorso ad un uso intensivo del suono in tutte le sue varianti: due cori, uno drammatico e uno liturgico, avvolgevano in un alone gioioso e mistico il succedersi degli eventi: dalla predica agli uccelli agli incontri e scontri del Santo con Satana o con i fraticelli in vena di insofferenza per la durezza della Regola, via via sino al solenne, commosso finale del trapasso di Francesco dalla vita terrena a quella celeste. E poi il suono delle voci, del singolo e dell’assieme, voci che chiudevano in perfetta misura il gesto nel rapporto costante con la parola. Ma la cosa più sorprendente era il senso di genuina freschezza emanante dallo spettacolo proprio come emana dalle pagine dei Fioretti, una freschezza che ci faceva avvertiti dell’intima adesione e di Copeau e di Costa al richiamo francescano per un ritorno alla parola del Cristo, con il conseguente rigetto di ogni forma di asservimento ai beni materiali. Penso che buona parte del pubblico fosse venuta quella sera a teatro pensando di assistere a una sceneggiatura della vita di Francesco d’Assisi: e se dapprima vi fu dello stupore, a poco a poco l’emozione, la commozione, l’entusiasmo ebbero il sopravvento, dimostrando quanto fosse vero l’asserto di Costa secondo il quale “il teatro è l’unica forma di attività umana rimasta a parlare dell’uomo all’uomo, mediante la realtà dell’uomo”. numero 1 21 Orazio Costa REGISTA Orazio Costa legge Il Poverello di Jacques Copeau numero 1 22 osta ha sempre considerato la Pergola un luogo familiare, tanto da scegliere di venirci a vivere, dopo una lunga, anche se discontinua, frequentazione artistica. L’aveva inaugurata dopo la ricostruzione successiva alla guerra con i Sei personaggi in cerca d’autore e l’aveva a più riprese utilizzata per preparare alcuni dei suoi spettacoli, dai primi allestimenti per il Festival di San Miniato fino al Rosales di Mario Luzi. Sentiva così di contribuire a mantenere viva quella che riteneva fosse la vocazione originaria del luogo: teatro sperimentale, spazio ideale per la ricerca e l’invenzione di nuove forme teatrali, come, secondo lui, dimostrava la storia, dall’invenzione del melodramma alla ricerca di Craig e della Duse su Ibsen per la nascita del teatro moderno. L’“aura” del Teatro ben si accordava con la sua idea di sacralità dell’evento teatrale, tanto che spesso, dopo aver visto spettacoli che non gradiva, esprimeva apertamente il suo disappunto chiedendo che lo si “riconsacrasse”. Probabilmente è per questo che alla fine degli anni Settanta, in quegli anni straordinari che videro a Firenze le presenze di Gassman, Kantor, Eduardo, quando, dopo aver insegnato per alcuni decenni ad attori in Accademia, decise di propagare il suo Metodo Mimico, scelse la Pergola come punto di partenza ideale per la realizzazione del progetto: negli uffici situati sopra l’atrio del teatro il Centro di Avviamento all’Espressione cominciò la sua attività d’informazione sul Metodo nel ’79. Informazione e non formazione, centro di avviamento e non scuola. Queste le finalità di una struttura che, grazie all’ospitalità dell’Eti, fra il ’79 e il ’92 realizzò oltre 250 corsi, per più di 4.000 allievi, in tutti i quartieri di Firenze e in molte altre città della Toscana e di altre regioni, con una diffusione tanto capillare, che si può senz’altro considerare una delle esperienze pedagogiche in campo teatrale fra le più significative degli ultimi anni. Per lui fu comunque solo un punto di partenza, un modo per ricominciare, ancora una volta, a interessarsi dell’uomo a prescindere dal teatro. Come Copeau, di cui si considerava indegno allievo, il suo unico, vero interesse era quello di formare uomini, non attori. Col recupero, l’esercizio, l’affinamento dell’istinto mimico, riconoscere, liberare, perfezionare, le forme, le forze, le interazioni organiche dell’espressività naturale e riscoprirne il coerente armonico confluire nella parola vivente e in ogni altro linguaggio in cui si manifesta l’inesauribile incontro dell’uomo con la realtà. Questa la sua scoperta, non invenzione, un metodo - non metodo, applicabile a qualsiasi campo dell’espressività umana, attraverso il quale giocava a interpretare tutto: il mondo come un gran teatro determinato, inventato, plasmato dall’uomo sotto la spinta del suo istinto primario, quello di “farsi altro da sé”, l’impulso alla trasformazione, al cambiamento, al “mettersi nei panni di” che ogni forma C ORAZIO COSTA E IL TEATRO DELLA PERGOLA di Marco Giorgetti Orazio Costa prova un cappello a Flora Carabella durante le prove di Sei personaggi in cerca d’autore di vita possiede innato e di cui “informa” tutta la propria esistenza. Era la sua sola certezza, che coltivava come il possesso di una chiave che poteva aprire tutte le porte e di cui propagava generosamente l’utilità, come un bene prezioso alla portata di tutti, e per la quale, anche se non si definiva Maestro, continuava a vedere giovani aspiranti attori, a consigliarli o a sconsigliarli, con la sincerità di cui molti lo hanno poi ringraziato. Una volta conclusa l’esperienza del Centro, fin dal ’93, sempre alla Pergola dove ormai abitava, continuò a lavorare a progetti che sempre di più, secondo quanto gli tornava da Copeau, ponevano al centro di un percorso formativo il neofita, non l’attore. Fino a quello ultimo, perseguito fino a pochi giorni prima di morire, di una compagnia di dilettanti che, partendo dalla lettura di Dante, giungesse alla realizzazione di un Amleto corale, nella sua nuova traduzione. Nelle rare occasioni che aveva di tornare sul palco leggeva. Aveva scoperto che la “lettura a voce alta” poteva offrire al pubblico altrettanto che una messa in scena completa. «Riaprire il libro di Pirandello per ricominciare a leggere». Questo raccomandava ripetutamente. Leggere come unica possibilità di ricominciare a fare il teatro. È probabilmente per questa convinzione che ha dato vita, sempre col Centro di Avviamento a molti cicli di letture: “Lecture Dantis” che ripristinavano la tradizione iniziata da Boccaccio nella Chiesa della Badia Fiorentina, letture di autori contemporanei in collaborazione col Gabinetto Vieusseux, drammatizzazioni con un forte elemento oratoriale. Ed è senz’altro per questa convinzione che ha scritto e pubblicato poesie, anch’esse presentate in lettura alla Pergola, durante una serata alla quale hanno partecipato molti suoi ex allievi attori. Pochi giorni prima di morire aveva ancora molti straordinari progetti, vivi, reali, e nel ripercorrere a memoria testi drammatici o poetici era sempre prodigo di straordinarie rivelazioni, di illuminazioni che aprivano direzioni impensate all’interpretazione di ogni autore, il cui merito attribuiva non a sé ma al suo Metodo. Progetti, idee, che restano alla Pergola, negli stessi locali in cui, dopo l’attività del Centro, viveva, dove ha voluto lasciare il patrimonio inestimabile dei documenti di oltre sessant’anni di teatro, premi, menzioni, riconoscimenti giunti da ogni parte del mondo, che non aveva mai esposto e di cui non parlava volentieri. Considerava i premi la consacrazione di un risultato finale, mentre riteneva di dover ancora raggiungere il risultato iniziale del suo percorso artistico. L’unico premio che avrebbe considerato tale, rispondeva a chi gli offriva l’occasione di una serata d’onore, sarebbe stato quello di tornare sul palcoscenico a leggere Alfieri per un pubblico di bambini. Solo una delle molte cose a cui ha lavorato con straordinaria lucidità fino al suo ultimo istante di vita. numero 1 23 Orazio Costa E IL TEATRO DELLA PERGOLA Roberto Herlitzka in una scena della Vita nuova numero 1 24 Un’immagine di Venezia salva di Massimo Bontempelli dai Quaderni di Orazio Costa Gli esercizi di scrittura dei registi di teatro solitamente si limitano alla pratica ordinaria delle “note” dettate per illustrare e giustificare il proprio spettacolo. Più di rado accade che un regista rifletta in modo metodico e continuativo sul proprio e l’altrui lavoro, proponendo in maniera più distaccata una “idea del teatro”, una visione prospettica e consapevole di un mestiere che abbraccia l’intero orizzonte del palcoscenico. Orazio Costa Giovangigli cominciò a tenere il suo diario a 35 anni, quando era da poco terminata la seconda guerra mondiale, e da allora a pochi giorni prima della sua scomparsa ha continuato a registrare pensieri, propositi, osservazioni, memorie, riflessioni, polemiche e sogni, accumulando per poco più di mezzo secolo quarantasei “Quaderni” numerati, tuttora inediti, vergati a mano con calligrafia rapida e instancabile. Diario di lavoro culturale ed esistenziale: un flusso così costante e disteso non lo ritroviamo in nessuno dei grandi registi del ‘900, eccezion fatta per colui che Costa considerò il suo maestro, Jaques Copeau, autore di quei “Registres” che tuttora costituiscono fonte preziosa per la conoscenza e la comprensione del teatro contemporaneo. Le pagine che qui pubblichiamo sono quelle scritte nelle ultime settimane di vita di Costa dal 29 agosto al 4 novembre 1999. Della fine imminente non vi è alcun presagio; se non forse quelle singolarissime frasi in cui lo scrivente dice che “prova a contarsi”: una specie di ricognizione precisa e simbolica di varie parti del corpo enumerate più con il ricordo e la visione che non con la percezione diretta. Questa ricapitolazione di alcuni luoghi della persona fisica sembra quasi il tentativo di raccogliersi e conoscersi in vista di un traguardo certo, anche se non ancora visibile: una voglia di “espandersi nell’oltre” che è anche un’attesa. Questo presentimento di un evento imminente e decisivo non frena il bisogno di interrogarsi, spiegarsi e raccogliersi che è il filo conduttore di tutti i Quaderni. Dieci giorni prima della sua scomparsa, Costa scrive una frase che potrebbe essere il motto di ogni sperimentazione: “ho provato: ma devo verificare”. La frase concerne un tema di lavoro che è stato centrale negli ultimi anni di vita del regista: “verificare al più presto uno stile più compatto in una definitiva versione dell’ Amleto”. Renzo Tian dai Quaderni di Orazio Costa Q 46 (1) Oggi 29 agosto inauguro questo Q 46, mentre continuo a usare il lento Q 45, che spero dedicare un po’ definitivamente all’Amleto.... Q 46 (2) Forse potrà valere la pena di verificare le più recenti osservazioni intorno al metodo mimico e particolarmente su “Il verso dell’uomo”, cominciando da un elenco, sul quale ritornare: Q 46 (3) 2.IX.99 Nel ricordo intenso di rapporti anche non durati c’è una verità, una forza, che fanno il senso di particolari momenti della vita, la sequela dei quali non può non far pensare a quei sèrti di preziose “margherite” di cui gli antichi si costellavano il firmamento appropriandoselo..... Q 46 (4) Intanto 2.IX.99 Nonostante il continuo lavoro di condurre il luogo scenico alla necessaria rispondenza con le intuite visioni dei diversi momenti della rappresentazione, sia stato il mio impegno più normale, non posso dire di averlo razionalizzato al punto di poterne definire, anche teoricamente, il procedere. Ciò che sono tentato di fare in questa occasione. Penso che in ogni diverso caso finisca per prevalere un momento iniziale che forse potrebbe esser faticoso e addirittura inutile pretendere di fissare a priori, anche perché è forse giusto e fatale che la lunga e spesso antica famigliarità con le idee conduttrici del soggetto sia la matrice delle idee originali che spesso diventano il contrassegno della genialità del regista o dello scenografo. Così tento di rendermi conto al meglio di un percorso che, senza essere meccanicamente predisposto né prevedibile, possa rendermi consapevole della personalità del mio intervento e in qualche modo anche di certe caratteristiche, diciamo estetiche, dell’augurata unità dell’operazione complessiva della poesia drammatica..... Q 46 (5) 2.IX.99 Or è qualche giorno (conservo la data precisa) la TV mostrò la stupenda visione del più smagliante prodotto dell’aspirazione al moto nelle altitudini celesti che pur essendo alle sue prime prove non poteva non promettere all’uomo stupendi viaggi in tutta tranquillità. Si trattava di una grandiosa ala volante tenuta sospesa dalla forza di un volo ottenuto dall’energia solare unita alla resistenza dell’atmosfera. Opera che forse unita all’altra da tempo vilmente abbandonata del dirigibile, avrebbe messo fine alle stragi di passeggeri sacrificati alla ignobile preponderanza soprattutto economica della energia petrolchimica. Ricordo con una nostalgia assieme di gioventù, di amicizia e della mia solita cara indignazione, il rigoglio e la fine dei voli areonavali (forse c’è stata una parola più giusta creata dal mago Gabriele inventore dei “Velivoli”) soppressi con la speciosa scusa del pericolo....della lentezza....dell’ingombro ai tempi in cui si osò spingere le superbe navi d’argento oltre il Polo. C’era una bella storia allora dell’amico pittore polacco Shoja Schaechter, poi ribattezzato Sebastiano, che mandava poesie e pitture romane a una sua bella amorosa imparentata con la famiglia Zeppelin. Io “tifai” allora per la sopravvivenza dei dirigibili. Q 46 (4). In questo caso la prima idea impostasi come soluzione dell’alternarsi delle azioni è stato l’uso di un “principale” formato da strisce verticali di tessuto trasparente in grado di captare la proiezione dei più diversi elementi scenografici. La formazione a strisce consente l’attraversamento del principale stesso da parte di attori presenti sulla faccia anteriore messi in grado di scomparire così come quello da parte di attori attivi nella parte posteriore messi in grado di apparire con il simultaneo concorso del cambiamento delle proiezioni. Q 46 (6) 3.IX.99 L’opportunità o la necessità dell’uso di praticabili potrebbe esser prevista in un secondo piano. Q 46 (7) 5.IX.99 Se non si può ulteriormente semplificare. Q 46 (8) 5.IX.99 Quasi mi meraviglio (eppure sono qui per questo) di aver continue novità in questo benedetto Amleto. Oggi mi rendo conto che il confronto col personaggio è quasi certamente la volontà di proporsi un vero ritratto personale con le sue ambizioni e contraddizioni. Ci sento addirittura un’aura dantesca in questo parlare di sé a confronto con personaggi storici ed altri viventi giudicati (salvati o condannati) a vario titolo. 21 ottobre - sera Non mi dispiace di riprendere questo Q 46 in occasione della rarissima visita di Pino del 19 ottobre. Ho molte cose da dirmi che voglio salvare. E intanto, per non perdere le mie manie di osservazione debbo cercare di capire o di sapere (perché non può non esser caduto sotto l’occhio di molti osservatori) se una certa misura del tempo che tutti sperimentiamo è mai stata proposta per unità in qualche modo controllabile... Si tratta di quel minimo lasso fuggevole che corre (quando cadiamo e temiamo di farci male) tra la perdita del controllo e il contatto con la solidità che riesce ad arrestarci... È qualcosa di molto prossimo all’ATTIMO (recentemente e forse non a caso divenuto assurdamente ATTIMINO) la cui misurazione non può non aver tentato più o meno consapevolmente fisici e matematici, oltre che tutti noi nei frequenti momenti delle perdite di controllo.... dalle 20 del 28.X Provo a contarmi; sento appena, ma d’esserci dovrei essere certo. Mi scordo. Ricordo le lunule rosa dell’unghie; le noci delle caviglie, i polpi dei diti, i ponticelli sulle arcate piante. Le mazze cardiache dei talloni e di lì, i tondini, gli stinchi i nudi ginocchi e le anche quadrate, i glutei rotondi, le multiple rotule e vertebre, le coste, la chiglia frangiflutti, pulsante d’ali implose vogliose di espandersi nell’ “oltre” ch’è il loro destino... 29.X Forse non nuocerebbe lasciare che diverse consistenze di presenza si muovano con una certa libertà. Resta fermo che primaria rimane quella in cui decido di risiedere “ufficialmente”. Ma consentendo che altri momenti trascorsi o addirittura nuovi si alternino serenamente.... 31.X L’ossessione del volto così onnipresente ha imposto la necessità del ritratto e particolar- mente dell’autoritratto. Da tempo ho pensato a ritrovarne documento nella poesia di Dante la cui Commedia è quasi l’Odissea al volto di Dio (di Gesù e di Me). Ma con tutta la visione televisiva, fotografica che ha invaso il nostro “campo visivo” mi accorgo oggi (!) che si tratta solo di un ossessivo eccesso in cui a causa della predominante presenza del volto altro (cioè quasi unicamente del volto di altri... di tutti gli altri) finisce per perdersi proprio il volto di Me... che è forse quello che tuttavia è quello “in cui siamo”. E vien da chiedersi, con avida insistenza “dove sia” “in che consista” questo VOLTO MIO, che raccogliamo e riconosciamo nelle nostre mani. Noi (Io) ce lo riconosciamo unico al contatto, lo vediamo persino, alla denuncia dello SPECCHIO; ma della consapevolezza del suo consistere che è “psichicamente plastica” non abbiamo alcuna possibile rappresentazione. Né si può sperare che venga una nuova dimensione (con chi sa quale tecnica astratta) a rappresentare questa realtà che siamo soli a conoscere, tanto da esser capaci di modificarla dirigendone certi movimenti che sappiamo capaci di significati e di corrispondenze. E quella che si chiama più usualmente “mimica” ha un vocabolario estremamente vario e addirittura vasto a seconda di una istintività di cui siamo padroni e non sempre precisi conoscitori anche perché i vocaboli di questa suprema tecnica dell’esprimersi sono sempre da inventare. 31.X Forse con molto ma necessario ritardo sto arrivando a distinguere Mimesi e Mimica (ciò che ogni buon vocabolario avrebbe dovuto impormi fin da principio...). Impormi sì, per la presunzione di farmi distinguere nettamente un comportamento originario d’imitazione istintiva e forse incontrollabile proprio certi organi fisiologicamente atti ad assumere del tutto spontaneamente aspetti simili ad altri organi o a fenomeni. Sì ci vuole tutto il coraggio possibile per chiamare la parola che ci occorre per evocarla per suscitarla per scovarla lì dov’è rintanata per stanarla. Per INVENTARLA e ciò con la sola guida d’un significato Eppure.... LA PAROLA o la conosci o l’hai E IMPARARE significa questo? Mimesi termine filosofico Mimica termine della lingua parlata Praticamente culmini miei di una realtà di cui solo l’Io è consapevole per esperienza personale della quale non può far a meno fin dai greci e continuerà a essere finchè non venga scoperta e accettata una “scrittura” plastica come in qualche momento avevo previsto.... Continua Forse sento con particolare evidenza, che la pulsione mimica è un fatto unico, strettamente privato, non trascrivibile per assoluta mancanza d’una scrittura leggibile, ma tuttavia largamente descrivibile mediante sensazioni fisiche assai variamente trasferibili a vari livelli lirici. La mancanza è una trascrizione unica, obbliga e invita la fantasia a moltiplicarsi in poesia. 3.XI... Tento, (è un continuo tentare) di ordinare le carte sparse secondo una sorta di catalogazione, che ne qualifichi la pratica utilità: anche oggi 4.XI Ho provato: ma devo verificare. Verificare al più presto uno stile più compatto in una definitiva versione dell’Amleto. Una scena del Mistero della Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore L’ESPERIENZA DEL METODO MIMICO RACCONTATA IN FILM di Maricla Boggio lto e diritto, il volto mobilissimo, candidi i capelli ricciuti, le mani nel gesto che precede le parole a rivelarti, come mai prima hai saputo, te stesso e il mondo, con quella voce aristocratica, affettuosa, velata di tristezza o aperta al riso, la voce del maestro di innumerevoli voci del teatro: Orazio Costa era così. Dal teatro la sua nascita è segnata in maniera giocosa, favolistica. Mentre sua madre era prossima al parto, ad un balcone sul retro dell’appartamento in cui abitava la famiglia si affacciava di tanto in tanto un’amica venuta ad assisterla, per darne notizia alle donne che si sporgevano dai ballatoi dei palazzi circostanti, come da palchi profilati sui cortili. Col passare dei giorni nelle donne cresceva l’impazienza, finché a sorpresa in un fulmineo apparire la donna lanciò il festoso grido “È nato!”. L’annuncio venne accolto da un applauso entusiastico che risuonò tutt’intorno dalle case. “È stato il primo applauso della mia vita!”, raccontava Costa ridendo. La formazione teatrale di Orazio Cosa inizia all’età di sette, otto anni: “Quando in genere l’individuo viene cacciato dalla zona della fantasia, io invece ci sono entrato grazie al gioco infantile, che per me è stato quasi sempre il teatro”. Sedicenne frequenta lo Studio “Eleonora Duse”, che divenne poi l’Accademia per l’impegno di Silvio d’Amico. Giovanissimo regista va a Parigi, a seguire Jacques Copeau. L’idea base che gli deve è che l’attore deve essere educato proprio mirando all’uomo e non alla cosiddetta arte, alla finzione esterna; si forma un uomo, e si forma un possibile artista. Nell’arco di quasi set- A tant’anni Costa firma la regia dei testi di più alto valore drammaturgico della produzione mondiale di ogni tempo. In parallelo, Costa mantiene ininterrotta la pratica dell’insegnamento. L’Accademia lo chiama alla cattedra di regia nel 1944, dove rimarrà per più di trent’anni. Alieno da esibizionismi protagonistici e nemico di superficiali effettismi, Costa va approfondendo sempre più un’indagine sull’attore e sul testo, riportando all’uomo tutto quanto l’universo. È un metodo che si affina attraverso ragionamenti, sperimentazioni, esperienze sul campo; non è una tecnica né una pratica; non vi sono estranei movimenti di pensiero, teorie filosofiche e scientifiche da Bergson a Morin a Monod, in un intrecciarsi di elementi che fanno intravedere un’umanità in crisi, alla ricerca di modalità di comunicazione non prevalentemente tecniche, che riconducano l’uomo ad una centralità perduta e di cui ha profonda nostalgia; un metodo che si applica nelle prove, ma anche fortemente teorico: esso si rivolge alla razionalità delle persone e insieme ad una loro sensibilità latente, che la mimica fa riemergere valorizzando l’espressività del corpo che a sua volta influisce sulla voce. È, in definitiva, un insegnamento diretto a curare la dimensione metaforica del discorso. La grande scoperta di Orazio Costa è che la mimica copre assolutamente qualunque attività dell’uomo. Ma l’uomo - paradossalmente - in genere non si accorge dei fenomeni mimici spontanei che avvengono in lui. L’indagine prosegue scoprendo che il linguaggio fa parte della manifestazione mimica, perché nel momento in cui il pensiero vuole manifestarsi al di fuori del soggetto pensante, deve per forza dare sfogo a quella sorta di pressione che è prodotta dall’impulso mimico, una sorta di danza. Se la danza è un’arte ben visibile, danza è anche il pensiero del poeta che scrive le sue fantasie traducendo in parole il moto interiore dell’ispirazione; è danza il grido del personaggio tragico che sente irrefrenabile l’uscire da sé dell’emozione, o il dolore contenuto nel personaggio del dramma borghese dall’apparenza indifferente; è danza l’impulso del regista che dà corso all’interpretazione degli attori con la sensibilità suggeritagli dalla lettura meditata ed emozionale del testo. “È un processo di lavoro che si basa sul fatto che l’uomo ha come facoltà primaria di reagire di fronte alla realtà con l’adeguamento di tutto il proprio essere fisico e spirituale, tanto da divenire la realtà stessa. - questa in sintesi è la definizione che Orazio Costa dà della mimica - L’uomo s’immedesima spontaneamente nella realtà; vivere si può dire che sia proprio immedesimarsi”. Ero stata sua allieva in Accademia, poi regista assistente in congressi internazionali Essen, Venezia - e per il Songe d’une nuit d’été al Rideau de Bruxelles. Addestravo gli attori alla mimica e poi Costa provava con 25 Orazio Costa PEDAGOGO ORAZIO COSTA PEDAGOGO numero 1 numero 1 26 numero 1 loro. Del Sogno aveva già realizzato a Roma al Teatro Quirino, con gli allievi dell’Accademia, una regia interamente mimica; anni dopo Renzo Tian la definì una rappresentazione anticipatrice del Sogno di Peter Brook. Fu da quelle esperienze vissute a stretto contatto con il Maestro che nacque l’idea del film. Era necessario fare in modo che il metodo mimico potesse essere conosciuto non soltanto dai pochi che lavoravano con Costa, né bastava scriverne a livello saggistico. Il mezzo più adatto, forse, era un racconto filmico, a cui lo stesso Costa prendesse parte. Andammo scegliendo insieme luoghi e persone, antichi allievi e ragazzi nuovi, attori e gente comune, critici, poeti, studiosi. A metà degli anni Ottanta Orazio Costa, dopo aver lasciato l’Accademia, dirigeva i corsi del MIM - Centro di Avviamento all’Espressione di Firenze, aperti a chi volesse arricchire la propria creatività, pur senza intenti teatrali; nel contempo aveva realizzato a Bari un progetto, a lungo vagheggiato, di una scuola per attori interamente mimica. Presso l’Istituto del Teatro dell’Università La Sapienza di Roma dei suoi allievi tenevano corsi di mimica, frequentati da studenti di diverse facoltà, dove si sperimentava l’immedesimazione perfino nella pittura e nella musica. Lavorando al progetto delineammo un percorso attraverso il quale mostrare come il metodo mimico, partendo dal respiro e percorrendo le forme più primitive della nostra fisicità, consentisse all’essere umano di “diventare” tutti i fenomeni che gli si presentassero - aria fumo nuvola pioggia grandine pietra e così via -, per passare poi agli esseri animati - piante e animali -, arrivando alla sonorità vocale e ai concetti astratti verbalizzati, fino a giungere alla parola del poeta attraverso il suo percorso emozionale, e in esso immedesimarsi mediante la propria sensibilità. La Ricerca e Sperimentazione della Rai manifestò curiosità al metodo. Ottenni due troupe cinematografiche e un periodo ampio dedicato alle riprese. Al MIM di Firenze riprendemmo delle persone che non avendo mai praticato il teatro arrivavano ad esprimersi creativamente. Una giovane operatrice lavorava con dei bambini della scuola materna, che si divertivano un mondo a “fare” la nuvola, la grandine e l’acqua che scorre. Tutto quel festoso agitarsi portava anche al risultato di sbloccare i bam- bini da inibizioni congenite o indotte da situazioni familiari. In una scuola media, in mezzo ai ragazzini che con trascinante entusiasmo mimavano il fuoco, il preside e gli insegnanti affermarono che la mimica aveva giovato agli alunni anche nel rendimento dell’italiano e della matematica, in tutti essendosi accresciuta l’osservazione e la partecipazione. Nei quartieri, giovani e adulti, guidati dagli operatori, “diventavano” vulcano, vento, pioggia, fino ad affrontare, nei corsi più avanzati, l’immedesimazione in parole e poesie. Avevamo invitato degli ex allievi di Costa, che raccontavano ai ragazzi della loro esperienza con il Maestro, rievocando lezioni e spettacoli. Gabriele Lavia descrisse il lavoro mimico sulla battuta del Messaggero dell’Edipo. Roberto Herlitzka mostrò diverse possibilità espressive nell’interpretazione della Divina Commedia, Renato De Carmine rievocò Il Poverello di Copeau che aveva interpretato con un Costa poco più che trentenne. Edmonda Aldini si rifece allieva mimando la vite e le fiere dell’Aminta, di fronte a una platea di ragazzi estasiati. Inserimmo anche delle scene tratte da riprese televisive di spettacoli costiani. Via via Orazio Costa in dialogo con me andava chiarendo le modalità operative del metodo. In un incontro Paolo Emilio Poesio parlò del ruolo primario del Costa educatore accanto all’operosità del regista, attorniato da attori come Tino Buazzelli, Rossella Falk, Paolo Panelli, Antonio Pierfederici, che era stato il suo Francesco nel Poverello di Copeau. Mario Luzi assistette alla mimazione di una sua poesia e lui stesso ne lesse una, dopo aver convenuto che forse la dimensione teatrale, da lui affrontata in quell’ultimo periodo, aveva in qualche modo influito sul suo percorso lirico. La scelta delle sequenze e il montaggio saranno lunghi e complessi, con l’obiettivo di delineare lo sviluppo progressivo del metodo. Il film proseguì alla Scuola di Bari; la ricchezza espressiva della mimica vi si manifestava in molteplici modi, dalla coreografia mimica - dove ognuno si esprimeva liberamente immedesimandosi nella musica -, alla mimazione degli ulivi secolari della campagna circostante, dove a grappoli i ragazzi vi si paravano dinanzi in un muto riscontro, fino alla discesa alle infere grotte di Castellana, dove Costa invitò a mimare l’apparente staticità delle stalattiti, in realtà in silenzioso millenario movimento, cogliendo le forme circostanti in stretta analogia con una sconosciuta interiorità personale. Ci furono i momenti rapiti dell’immedesimazione nelle giraffe e nelle antilopi, nei pellicani e nei fenicotteri, adeguandosi al ritmo dei quali si veniva accettati come compagni. In mezzo a quella varietà di creature e insieme ai ragazzi, Orazio Costa, immemore delle cineprese, zufolava i sibili degli uccelli e mimava il passo cadenzato degli elefanti in perfetta sintonia con loro. Anche a Bari, in alternanza con le forme della natura, filmammo le fasi mimiche attraverso cui interpretare un testo poetico partendo dalla mimica corporale per arrivare poi unicamente alla voce. L’apporto di attori affermati convalidava via via la sorprendente creatività del metodo. Nino Manfredi spiegò quanti fasci di paglia e di fieno gli erano toccati da allievo, e come le formiche e i gatti delle sue esercitazioni avevano influito poi sui ritmi dei suoi personaggi cinematografici. Un teatro di accentuata spiritualità si profilò con Massimo Foschi, che apparve nell’Adelchi televisivo e quegli stessi versi ridisse dal vivo, mentre Francesca Benedetti ridiede vita alla donna offesa e umiliata protagonista di Vento notturno di Ugo Betti, e affermò l’importanza della straordinaria castità e pregnanza poetica dell’interpretazione costiana della parola. A Roma Costa iniziò le prove del Mercante di Venezia per il Festival di Taormina, un’occasione ideale per mostrare il metodo nelle sue applicazioni più alte, della mimica drammaturgia. Gianrico Tedeschi era Shylock e Paola Gassman Porzia. Tedeschi riconosceva che Costa aveva portato in teatro una coerenza totale nel suo modo di vedere la vita e di viverla. Paola rievocò il frenetico avvicendarsi degli allievi nel Sogno mimicamente realizzato dal Maestro. Le prove del Mercante avevano il sapore di una ricerca continua, di una volontà di scoperta protesa ad un approfondimento dell’opera poetica. Costa disse che nel testo shakespeariano andava scoprendo la dimensione dell’allegoria, e la mimica non ne era certo estranea. Rifulgeva la parola, in quello spettacolo; me ne accorsi nel buio del Teatro Romano, a Taormina. Come diceva il Maestro: “Tutti gli effetti del teatro convergono verso la parola come espressione di profonde radici d’anima”. Orazio Costa PEDAGOGO 27 Gabriele Lavia, uno dei più celebri allievi di Costa numero 1 28 IL CORO CELLULA MADRE DEL TEATRO di Pino Manzari orse bisognava venire dalla provincia, con le acuminate aspettative di chi crede a portata di mano la realizzazione del sogno, che ha da sempre sognato, per scoprire Orazio Costa e la novità del suo magistero. L’Accademia “Silvio d’Amico” cui finalmente approdavamo, ci offriva maestri validi di buon nome e sicura esperienza, maestri “all’antica italiana” che proponevano testi, battute, intonazioni e gesti della loro pratica scenica… qualcosa cioè, che nel nostro piccolo ambito provinciale avevamo tutti un poco sperimentato. Orazio Costa, già dal primo incontro, ci rimandava a noi stessi, proponeva di fare di noi stessi il nostro laboratorio, come se il formarsi come artisti comportasse lo scoprire e il costruire in noi una diversa umanità. Non ci chiedeva di “fare il teatro”, ma con paziente sapienza, senza traumi, grado a grado, ci rendeva profondamente consapevoli che la maggior parte del nostro dire e del nostro agire da “teatranti” rivelava “strumenti usati male che conservano spesso il sentore di marciume dei precedenti padroni che li avevano profanati” . Orazio Costa come tutti i veri innovatori, tagliava corto con le ipertrofie teoriche e le dispute verbali che affliggono un’arte in crisi, ma ci riportava all’origine del nostro fare teatro: al nostro desiderio d’essere più vivi; di vivere, in una sola, più vite, al nucleo primo dello spirito mimico che inabita ogni uomo. Lui considerava questa rivelazione del luogo originario, che il teatro ha perso di vista, lasciandolo cadere nell’oblio, un dato assolutamente intuitivo, qualcosa che si deve credere F semplicemente perché l’esperienza la dimostra vera, e ci chiedeva di farci piccoli, per trovare il coraggio di tornare a “giocare a fare che sì è… qualsivoglia realtà”. Ci raccomandava uno “studium”, un amore, una passione “euforica”, piena di voglia d’esserci, libera da inibizioni, ma mai solo frivola e disimpegnata… Ci suggeriva di adottare l’atteggiamento dell’infante che gioca e rigioca la sua scoperta del mondo con un’attitudine pienamente gioiosa e insieme grave d’insospettata concentrazione. Il Maestro ci sospingeva a riprendere contatto con il grande libro della Natura, con l’infinito gioco di interazioni che si rivelano nel cosmo, come se potessimo arrivare a fonderci con l’inesauribile varietà di fenomeni e parvenze in continuo moto, rivivendole nella libera, plastica “danza” di tutto il nostro corpo: microcosmo fatto a specchio, coscienza consapevole della vita del macrocosmo. L’ascolto attento e l’osservazione, è la base di ogni attività critico – interpretativa e fonda l’espressione, è sottesa ad ogni creatività con la maturata consapevolezza dei più vari ritmi, dell’alternarsi delle diverse tensioni, delle variazioni dello spazio – tempo, delle crucialità significanti negli eventi. Il flusso vitale si incontra con l’inerzia, con la nostra personale e sociale finitezza e tende a condensarsi in stereotipie, in cerimoniali sociali, o peggio a fissarsi in stanche formule che finiscono col mortificare la generosa, fluida forza della vita: spetta, allora, all’artista ritrovare il giusto “mimema”, il gesto globale, portatore di senso e verità. Allora questo cammino così articolato che in teoria può sembrare arduo e scosceso ma alla prova è continuamente soccorso dalla memoria organica della specie umana e dalla segreta e spontanea sapienza del corpo, ricrea la sinergia corpo – voce in ricchezza di ritmi, di timbri e di toni, di risonanze vocaliche e vibrazioni e percussioni consonantiche. Il corpo, ricomposto in unità, consente di incontrare la “temperie” cioè il groviglio complesso che l’artista sorprende nel profondo di sé e poi tenta di tradurre fuori di sé con gli strumenti propri all’arte che pratica. Siamo ancora una volta ad un momento di origine, a una genesi, al prima della parola poetica, dei segni dei suoni dei materiali, nel crogiuolo interiore della singolarità dove confluiscono le più diverse emozioni, percezioni ed esperienze per potersi fondere in unità ed esprimersi. Ho voluto fare presenti questi primi passi di quarantuno anni fa nell’arte dell’attore sotto l’attenta guida di Orazio Costa come un antidoto prezioso alla nostalgia che mi assale di un’arte che sembra ritrarsi da noi quanto più la cerchiamo, e perché vorrei ancora sentire viva la voce che ci diceva allora “parlare, recitare è gioia di appartenere ai pensieri che vorremmo trasmettere”. Orazio Costa pur così rigoroso ed esigente con se stesso, pur convinto della necessità di lavorare attorno a nuclei originari attentamente individuati, non imponeva schemi o regole di esecuzione, accettava il lavoro che ognuno produceva e se correggeva era solo per la via dell’arricchimento dell’osservazione rivelandoci quanto era sfuggito alla nostra attenzione. Mi resta da ricordare solo un’altra realtà originaria dimenticata dal teatro per colpevole oblio ma largamente utilizzata da Orazio Costa nel suo insegnamento e nelle sue regie: la recitazione corale. Il Coro cellula madre del teatro, il Coro scomparso per economia ma comunque diventato oggi impossibile per eccesso di protagonismo e di individualismo, triste testimonianza della condizione di un’arte che è, e rimane, collettiva, che è per natura esperimento e proposta di collettività all’opera. Il Coro è quella singolare realtà che permette di constatare che è possibile cospirare, cioè con – spirare, respirare insieme, fisicamente, mentalmente, moralmente persino che può esserci unità realizzata dall’accordo delle più varie sensibilità di tutti i componenti quando sappiano mettere fra parentesi l’io convinto e compiaciuto di sé, per il noi a cui pure apparteniamo. Mi domando: non voleva farci scoprire anche questo il nostro Maestro? Non ci educava a lasciar morire il nostro narcisismo per spingerci a più convinte e volute solidarietà? Un antico detto si è compiuto ancora una volta: "Colui che fa imparare le parole della Sapienza al figlio del suo prossimo è da considerare come colui che lo ha generato" perciò con umile e filiale riconoscenza mi sento di rispondere alla domanda come ha fatto Lui in una sua poesia: "…perché sia sempre nascita… …ritessersi, infaticati angeli a se stessi, firmamenti nuovi". Anna Proclemer ed Ave Ninchi in Mirra di Alfieri Orazio Costa PEDAGOGO numero 1 29 numero 1 30 Orazio Costa al lavoro; nella foto accanto, lo vediamo insieme a Paolo Panelli e Tino Buazzelli IN ASCOLTO DEL VENTO E DELLA PIOGGIA di Luigi Maria Musati a vicenda terrena di Orazio Costa si è conclusa pochi mesi fa, in quella Firenze che aveva eletto come sua nuova residenza dopo i lunghi decenni romani. La morte fisica dell’uomo che con Silvio D’Amico, Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Luchino Visconti e Alessandro Fersen ha creato in Italia il teatro contemporaneo, uno degli ultimi rappresentanti di quella generazione di registi e “dramaturg”, resterebbe un evento triste, ma meno doloroso e drammatico se non fosse avvenuta nel quadro desolante di un oblio immeritato, che né queste poche righe né gli ossequiosi necrologi, né gli scarni appunti giornalistici o le trasmissioni ultranotturne della RAI possono dissimulare. I perché di questo oblio, i perché della sostanziale ostilità dal teatro italiano nei confronti dell’opera di Costa dopo i trionfi dei suoi primi decenni di regista, debbono essere oggetto di un’analisi che spetta ormai agli storici e che esula certamente dalle possibilità offerte da questa occasione. È però questione L seria e grave, che va ben aldilà delle contingenze e dei problemi di carattere personale o individuale. Non si tratta di celebrare opere o uomini, tanto più quando hanno così ben dimostrato di saper far a meno di visibilità e di futili onori; tanto meno si tratta di riparare a torti storici ormai irreparabili; si tratta di capire, di riflettere e di pensare. Una simile analisi è necessaria al teatro italiano per tornare a capire se stesso e potrebbe essere il serio punto di partenza di un diffuso dibattito di pensiero sull’agire teatrale, che da troppo tempo manca, sovrastato dall’affanno dell’agire quotidiano, dalla futile logica degli schieramenti, dalla frenesia di celebrare i trionfi del “contemporaneo” e “le magnifiche sorti e progressive”. Dal punto di vista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, che deve a Orazio Costa non meno che a Silvio d’Amico la sua identità storica e spirituale, questo dibattito si focalizza su quella che è la più autentica, complessa e discussa eredità costiana, quel Metodo Mimico, che da qualche anno, in accordo con il Maestro, chiamiamo in Accademia “Mimesica”. Il Metodo Mimico è la vera “opera” di Costa e ne ha accompagnato tutta la vita, dalle prime esperienze con Copeau, all’insegnamento in Accademia, alla fondazione della Scuola di Bari e del MIM di Firenze, agli ultimi anni di magistero individuale dalla sua casa in Via della Pergola, assiduamente frequentata dagli allievi di tutte le generazioni. Nata in una scuola di Teatro e per la scuola di teatro, la Mimica divenne ben presto un processo che non riguardava gli attori, quanto tutti gli uomini e non la pedagogia teatrale soltanto, ma ogni disciplina dell’apprendimento. Strumento di autocoscienza attraverso l’Arte, strumento di un’ascesi che soltanto per equivoco può essere confusa con la mistica, via al dialogo delle anime attraverso la gioia espressiva del corpo, nella ricerca di un arcanum nascosto nel secretum della natura originaria dell’Uomo, la Mimica è proteiforme come i processi che vuole determinare. Costa non ne ha mai definito i confini come non ci ha lasciato un saggio dedicato al Metodo. Ancora qualche tempo fa, discutendone con lui l’opportunità, ci diceva che forse ne avrebbe potuto scrivere una sorta di breviario, ma soltanto in forma di poesia: non sappiamo se tra le sue carte se ne potrà trovare almeno la bozza. Per ora, dal punto di vista della parola scritta, restano alcuni articoli, derivati da interventi in vari convegni. Ma restano soprattutto, inediti, i Diari, vero monumento dal lavoro costiano, materiale dove appunti biografici, diario di lavoro, diario di sogni e di incontri, schizzi, poesie si mescolano in un tutto organico, un monumento che vorremmo non restasse sconosciuto, anche se ci rendiamo conto della difficoltà anche semplicemente redazionali che ne comporta una pubblicazione, non per questo meno necessaria. Da parte nostra ci impegniamo a non abbandonare la ricerca sul Metodo, e anzi, di approfondirla e potenziarla, quando le nuove condizioni che finalmente la legge consentirà all’Accademia ci permetteranno di aprire quel Corso di Pedagogia Teatrale che ci sembra sempre più necessario e che ad Orazio Costa intitoleremo. Intanto lanciamo a tutto il teatro italiano l’invito a progettare e costruire insieme quel Centro di Alti Studi sul Metodo Mimico che sarebbe l’unico degno modo di onorare il Maestro scomparso. Quando Costa, nel 1978, lasciò l’insegnamento in Accademia, senza mai interrompere il dialogo con chi nell’Accademia lavorava, replicava, deliberatamente o no, il gesto del suo Maestro Copeau, metteva in atto la strategia del seminatore che vuole uscire dal campo coltivato e arricchisce il gesto dall’abbandono e del dissolvimento del seme in qualunque terreno, secondo la volontà dei venti e delle piogge, delle stagioni e dell’attenzione o della disattenzione degli uomini. C’era in questa scelta una intuizione radicale del senso e della forza del teatro che non sopporta di essere rinchiuso nei teatri e circoscritto nelle professionalità e di chi, come nella parabola degli invitati a nozze, cerca i suoi interlocutori fuori dal cerchio degli interlocutori privilegiati. Ma, a differenza di altre esperienze che a questa assomigliano, questa scelta non cancellò in Costa l’attenzione al teatro come lavoro del regista e dell’attore nei limiti, anche più convenzionali, del mestiere, il suo desiderio di essere “regista” o “coordinatore”, come preferì in un certo periodo. La ricerca di “ciò che è in alto” non lo determinò mai al disprezzo di “ciò che è in basso”. D’altra parte come sarebbe stato possibile un simile abbandono per chi viveva in quell’orizzonte Mimico, in cui “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”? Checché ne abbia pensato qualcuno, in Costa non vissero mai istanze di isterica e luciferina purezza, quanto le storiche contraddizioni di un’epoca di cui fu protagonista e vittima. Nella fedeltà alla Tradizione dell’insegnamento come processo fondato sulla trasmissione della parola e nella concezione della vita come opera e dell’opera come vita sta, a nostro modo di vedere, il segno più evidente dell’importanza di Orazio Costa come maestro del teatro del Novecento. Nel complesso e labirintico edificio del Metodo la sua eredità per il Teatro Italiano. Orazio Costa PEDAGOGO numero 1 numero 1 32 Un momento del Don Giovanni di Molière con Massimo Foschi e Paila Pavese LA DANZA MIMICA TRA ARTE E SCIENZA di Alessandra Niccolini uando incontrai il metodo mimico, nei primi anni Ottanta, rimasi sorpresa nello scoprire quanto fosse vicino al pensiero di Isadora Duncan, la grande danzatrice e innovatrice dei primi del Novecento. Mi affascinava l’idea della Duncan di rifondare la danza partendo dalla relazione che intercorre tra il corpo e l’ambiente in cui è immerso. Mi parve che la proposta pedagogica di Orazio Costa offrisse un contributo concreto nella stessa direzione. Fin dal primo incontro con il Maestro parlammo della danza e della possibilità che lo strumento mimico poteva offrire per esplorare le potenzialità espressivo-creative del corpo e della voce umana. Parlavamo spesso dei rischi di ingabbiare la creatività con un ecces- Q so di formalismo e di formalizzazione. Ricordo una sera, nella sua casa di via dei Ginori a Firenze, quando mi parlò a lungo della musica inscritta in regole matematiche e di come non sempre si presti bene alle necessità espressive del corpo, in particolar modo quando il corpo esplora linguaggi diversi da quelli suggeriti dalla mente. Nei nostri colloqui riportavo sempre la mia esperienza di insegnante e parlavo del mio stupore nello scoprire capacità espressive insospettate negli allievi che incontravo con il Centro Avviamento all’Espressione di Firenze. L’insegnamento per il Centro fiorentino è stata per me un’esperienza di grande arricchimento per la possibilità che mi ha offerto di confrontare la metodologia mimica con tante persone diverse, spinte da differenti motivazioni. Di colloquio in colloquio il discorso con il Maestro si ampliava e si faceva sempre più profondo e, al tempo stesso, si faceva sempre più strettamente pedagogico e didattico, stando al suo fianco nei frequenti corsi e laboratori che il Maestro teneva con giovani allievi attori. Nel 1985 Costa mi propose di insegnare danza nella Scuola d’Espressione e Interpretazione Scenica di Bari, diretta da Pino Manzari. La sfida che Costa mi offriva era quella di mettere in pratica il frutto dei nostri colloqui e di dar vita ad una didattica per la danza attraverso la mimica. La sfida che mi veniva offerta era davvero grande, ma ciò nonostante accettai. I fondamenti del progetto didattico per la “danza mimica” possono essere riassunti in pochi punti essenziali: numero 1 - allenare le capacità creative con lo stesso impegno e rigore con cui un danzatore allena la tecnica; - far apprendere nuovi movimenti facendoli scoprire con la mimica, anziché imitando movimenti già formalizzati; - rispettare le differenti tipologie corporee degli allievi, invece che omologare le diversità ad un unico modello corporeo ideale; - scoprire la forma sonora della propria danza, lasciando fluire il suono della voce del danzatore in sinergia con il corpo in movimento. Durante gli anni trascorsi a Bari l’incontro con il Maestro si è effettuato “sul campo”, quando una volta al mese, per una settimana, era presente alle lezioni. In questo modo la collaborazione si è stretta e consolidata. L’incontro con Costa e l’insegnamento della mimica non hanno mai smesso di aprirmi curiosità, di pormi domande e di spingermi ad esplorare altri campi dello studio. "La danza è generata dall’organicità della materia": questa frase di Costa per molto tempo ha continuato a “danzare” nei miei pensieri, fino al giorno in cui mi spinse ad aprire un libro di neurobiologia e da quel giorno non ho più smesso di aggiornarmi su alcuni ambiti scientifici. È incredibile come le ultime ricerche sia nel campo delle scienze cognitive che in quello delle neuroscienze sembrino confermare tante riflessioni fatte con il Maestro e, in particolare, sostengano l’idea di Costa di proporre come modello per la pedagogia le modalità operative dell’apprendimento umano. Dal 1993 insegno presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Il contributo che gli studenti stanno dando alla mia ricerca didattica è di grande sollecitazione ed il loro interesse è uno stimolo per chi opera con la pedagogia costiana a proseguire il cammino. Alcuni tra gli studenti che più si appassionano allo studio della mimesica (così viene chiamato l’insegnamento del metodo mimico all’Accademia “Silvio d’Amico”), mi chiedono spesso dove poter proseguire lo studio intrapreso. A questa loro richiesta non ho trovato una risposta. Mi auguro che si possa presto rispondere concretamente alla richiesta di questi e tanti altri giovani. Orazio Costa PEDAGOGO 33 numero 1 34 GIOCARE CON IL LINGUAGGIO di Paolo Giuranna razio Costa fu nominato insegnante di regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica nel 1944. Da questa data insegnò ad allievi attori e registi per mezzo secolo senza interruzioni. La lunghezza della pratica di didatta, l’originalità del metodo, la coerenza fra insegnamento e attività di regista, hanno fatto sì che l’operare di Costa sia stato consegnato alla storia dello spettacolo sin dal 1956. In un’arte che si svolge nel tempo e, per sua intima disposizione, è irriproducibile, la testimonianza sul metodo costiano dell’insegnamento teatrale è di necessità sintetica e astratta; anche l’enunciazione del principio e la corrispondente esemplificazione appaiono fatalmente riduttive o inadeguate. Lo stesso Costa, facondo espositore delle sue tematiche, ha esitato ad organizzare e fissare in uno scritto un processo intimamente connesso all’immediatezza del vivente e alla formazione attiva dell’allievo attore, finendo poi per lasciare ad ex allievi il compito di una enunciazione sistematica, tesa almeno alla informazione della sua attività. Ma su ciò ch’egli ha finito per chiamare “mimica”, oltre alle presentazioni del metodo mimico agli atti di vari convegni internazionali e nazionali di scuole d’arte drammatica, vi è una vasta serie di osservazioni, pensieri, appunti, ch’egli ha consegnato a quaderni-diario redatti giornalmente - dal più vario contenuto letterario, filosofico, poetico e teatrale -, che coprono l’intero arco della sua esistenza e che costituiscono un lascito di estremo interesse culturale. Costa osservava nell’uomo un istinto, una disposizione genetica - più o meno conscia, O più o meno esplicita, più o meno compulsiva - a conoscere il mondo per imitazione, per mimesi, per immedesimazione. L’uomo che esce di casa in una giornata di sole o sotto un cielo coperto di nubi avrà due diversi comportamenti, due atteggiamenti istintivi, due diversi modi di camminare, di muoversi. Se guardiamo i suoi movimenti, essi ci daranno notizie del tempo, poiché anche nello spettatore agisce la mimesi e l’immediata comprensione di essa. Questa disposizione mimica è un’attività conoscitiva e insieme un’espressione, un prelinguaggio, costituisce ciò che nel discorso è insieme soggetto, verbo, complemento e aggettivo. Quel camminare, quel movimento non solo dice: “oggi è una bella giornata”, ma anche esprime la qualità radiosa, ridente, fiduciosa e così via. L’uomo imita perché si immedesima. Quando Costa esortava i suoi allievi all’imitazione, in gesti semplici e abbandonati a quell’istinto, di un ulivo, di una nuvola, di una candela, di una spiga o di un campo di grano, di una formica o di un formicaio, faceva notare come quel gestire immedesimato fosse già una immediata metafora di un uomo che soffre o che gioisce, che aspira o che teme, che medita o si affanna e come costituisse una espressione che già conteneva un racconto, una lirica, un personaggio, lo spunto di un dramma. Ma di più: secondo Costa la parola, la lingua stessa, contiene, in una metamorfosi dal gesto al suono, l’incipit mimico, il principio dinamico della mimesi. In una straordinaria varietà di accostamenti, di inviti e sollecitazioni, la lezione di Costa tendeva alla individuazione e ad una controllata liberazione dell’istinto mimico, così ch’esso subito apparisse un giocare, un “joeur”, un “to play”, e fosse via via evidenziato, reso più plastico, raffinato e poi abbandonato perché le forze della mimesi fluissero nella parola alla quale avrebbero apportato dinamica, colore, plastica, nuova originaria vitalità espressiva. La difficoltà stava proprio nel passaggio alla parola. I suoni alfabetici erano di già un gesto preciso, un’espressione di per sé insignificante, non sentivo nessun bisogno di farne altri, prima, con il corpo. Anzi ostacolavano, irrigidivano il parlare. Eppure mi divertivo con quelle imitazioni. Dinamica, colore, plastica e vitalità espressiva erano dati dal linguaggio stesso, dai suoni alfabetici che compongono le parole: la parola era assai diversa dalla “cosa” che mimavamo. Osservavo qualche tempo dopo, ad esempio: per tutti, il concetto, il significato che in italiano dò alla parola “alba” è: la prima luce che sorge dal buio della notte; ma in inglese quel significato diventa “dawn”, in francese “aurore”. Il significante, l’espressione, insomma i suoni alfabetici modificano l’esperienza del significato con una serie diversa di suoni, cioè di immagini. Ogni popolo, ogni lingua ha un’esperienza immaginativa diversa per un Orazio Costa insegna il metodo mimico. «Mi divertivo con quelle imitazioni - dichiara Giuranna Dinamica, colore, plastica e vitalità espressiva erano dati dal linguaggio stesso, dai suoni alfabetici che compongono le parole: la parola era assai diversa dalla “cosa” che mimavamo» Orazio Costa PEDAGOGO numero 1 35 numero 1 36 concetto che è uguale per tutti. Ma questa esperienza immaginativo - uditiva è quanto si compie in ogni poesia e, la poesia, come ci insegnava Costa, è intraducibile. Se una poesia dicesse soltanto “alba”, tradotta in spagnolo o portoghese diventerebbe “madrugada”, in tedesco “morgendammerung”: suoni, immagini, insomma poesie assai diverse. Se mimo un cavallo a un inglese, sì, forse lui mi comprenderà, ma tradurrà i miei gesti in horse. La mia mimica del cavallo, se avesse un valore espressivo così fondamentale e generale, dovrebbe far comprendere all’inglese i suoni della parola cavallo. Questo vuol dire che il linguaggio aggiunge qualcosa al mero significato mentale, al concetto. La parola “cavallo” è molto più espressiva di qualunque mimica dell’animale cavallo. La parola “cavallo” è già una “mimica”. Ma una mimica sonora. Orazio Costa e Marina Bonfigli: prova di costume dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello In conclusione, se il linguaggio, la parola contiene gesti - suono originari, archetipici che rendono diversa l’esperienza del concetto, del concetto uguale per tutte le lingue, il concetto stesso è molto più ricco di quel che crediamo; il concetto “alba” contiene aurore, morgendammerung, dawn, madrugada e così via nelle centinaia di lingue esistenti. Cosa si deve fare? Cercare quali sono i gesti oggettivi dei suoni alfabetici e quale è il loro misterioso senso e valore espressivo per tutte le lingue... È stata ancora più esemplare la lezione di Costa ai soli registi (l’Accademia stessa, del resto, fu fondata da Silvio d’Amico con lo scopo di introdurre, in modo diremmo istituzionale, la figura - e fin’anche il nome del “regista” in Italia). La lezione si basava sull’individuazione di “colpi di scena” e “nodi drammatici” di un testo teatrale. Codesti colpi di scena e nodi drammatici costituivano per Costa la direzione e le variazioni e gli apici del movimento “mimico” del testo sino alla sua meta, istituivano la sua dinamica e insieme il suo significato. La composizione di questo movimento, rilevata in scena nei modi e forme più diversi a seconda della concezione, tendenza e gusto dell’allievo, costituivano la base, la struttura per una vera comprensione e un reale godimento artistico di un dramma. Questa let- tura drammaturgica a volte veniva esemplificata da Costa con una vera e propria dizione drammatica, che egli chiamava “indicativa”, di tale intelligente e convincente espressività da risolvere qualsiasi dubbio o incertezza o problema interpretativo. Per altro, tutta l’analisi del testo era corredata da Costa con una ricchissima e mai divagante serie di osservazioni - e risposte a quesiti degli allievi -, che spaziavano dalla letteratura alla storia, dalle arti figurative alla psicologia, dalla cronaca al rito. La lettura critica e poetica del testo, il confronto - al bisogno - delle traduzioni, lo studio del linguaggio, le caratteristiche dei personaggi e delle azioni, la temperie delle varie scene, tutto era esaminato con precisione ma anche con delicatezza, perché non si perdesse il sentimento dell’organismo vivente - non solo di un messaggio, non solo di un significato -, che era per lui un testo teatrale. Troppo resterebbe da dire prima di ricordare come le lezioni di Costa fossero spesso di già teatro. Ma quando erano solo lezioni, accadeva che l’interesse degli allievi confluisse sul compagno che veniva esercitandosi, per accompagnarne il progresso o incoraggiarne le incertezze. Il suscitare questo interesse fra gli allievi dà la misura non solo dell’insegnante, ma del Maestro che era Orazio Costa. numero 1 37 COSTA MI HA INSEGNATO A SCRIVERE intervista ad Andrea Camilleri di Katia Ippaso ricordi si affastellano e si incrociano con riflessioni sull’arte e la vita. Paesaggi umani si innestano su paesaggi naturali. La figura del maestro emerge da una giornata di sole, oppure da un pomeriggio piovoso. Le impressioni avanzano con una loro precisa temperatura, nel racconto di uno scrittore di culto, affabulatore d’eccezione, regista, sceneggiatore, poeta, forse il solo in Italia capace di scatenare veri fenomeni di fanatismo, un uomo cresciuto, anche lui, alla scuola di Costa. «C’era una giornata magnifica - dice Andrea Camilleri, nella sua lingua musicale, fatta, come quella che ha inventato sulla pagina, di parole materiche e respiri umoristici e suspensequel primo giorno che misi piede all’Accademia, mentre dentro c’era un ambiente buio, cupo, illuminato solo da qualche lampadina». I Il teatrino di via Vittoria dovette sembrare un luogo d’iniziazioni segrete, un posto non salutare, al ragazzo di Porto Empedocle che già da qualche anno mandava «da quel sommergibile affondato che era la Sicilia strani messaggi in forma di poesia al resto d’Italia, che più d’uno raccoglieva». Anche perché, come racconta, in quel piccolo angolo di una grande e stordente città, ci capitò un po’ per caso: «Avevo scritto una commedia, nel ’47, intitolata Giudizio a mezzanotte, che vinse il premio Firenze. La giuria era presieduta da Silvio d’Amico, che mi scrisse poi incoraggiandomi a sostenere l’esame all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica come allievo regista. Devo dire che durante il viaggio di ritorno da Firenze a Porto Empedocle, che allora durava tre giorni, rilessi la commedia e mi sembrò ignobile. Così la buttai dal finestrino. Era l’unica copia. L’anno dopo andai a fare l’esame, ma finalizzando tutto alla possibilità di frequentare quegli ambienti letterari romani che mi parevano chissà cosa. Sennonché mi trovai di fronte Orazio Costa, cioè a dire uno dei cervelli più acuti che abbia mai incontrato in vita mia». Il primo incontro non fu rassicurante. Dominava, al contrario, un clima inquisitorio e punitivo che ancora adesso Camilleri ricorda con nitidezza: «Ho conosciuto Costa alla fine del 1949, quando vinsi il concorso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica come allievo regista…Allora si Orazio Costa INTERVISTA AD ANDREA CAMILLERI Una scena da Il Poverello di Copeau; nella foto piccola, Andrea Camilleri numero 1 38 A IST ERV INT AND CAM REA ILL ERI Nel ricordo di Andrea Camilleri «Il Poverello fu uno spettacolo memorabile, il più bello a cui abbia mai assistito» portava una tesi scritta e non ci fu un punto, dico uno solo, della mia tesi (il tema era Così è se vi pare di Pirandello), sul quale Orazio si trovasse d’accordo. Costa, che era un trentacinquenne elegantissimo, aveva un’aria che diventava sempre più distaccata e inquisitoria. Dopo un’ora e mezzo, mi fermai. D’Amico mi chiese perché mi ero bloccato, ed io gli risposi che non vedevo per quale motivo dovessi farmi torturare dentro una stanza buia quando fuori c’era un sole bellissimo. D’Amico mi incoraggiò ad andare avanti. Con Costa restammo in disaccordo fino all’ultima domanda. Lui mi chiese quale titolo avrei scelto se avessi avuto molti soldi a disposizione per fare una regia. Pare che tutti rispondessero Edipo re, Amleto. Io risposi La Vedova allegra. Orazio disse: “Non è una risposta seria”, d’Amico disse: “E’ una risposta serissima”. Così me ne andai, convinto di non farcela. Abitavo in un alberghetto in via del Lavatore, ma decisi di andarmene ad Ostia da un mio amico. Dopo dodici giorni, comprai il biglietto per tornare in Sicilia ma mi venne l’ispirazione di passare da via del Lavatore: trovai un mucchio di telegrammi di mio padre che disperatamente mi cercava per comunicarmi che ero stato preso all’Accademia con la massima borsa di studio. Ero l’unico allievo ammesso». Il giovane, enigmatico maestro iniziò così la sua opera di “dirottatore”, non lavorando su corde emotive, private, ma affidandosi piuttosto al modello della relazione intellettuale: «Fu la sua cultura letteraria a fare da grimaldello presso di me. Detto questo, dopo due mesi decisi di lasciare l’Accademia perché non potevo stare tutti i giorni dentro una stanza con un individuo che era un iceberg dal punto di vista umano». Camilleri, che aveva solo ventiquattro anni e nessuna dichiarata vocazione masochista, stava per tornare ai cari luoghi, non senza conflitti, quando apparve sulla sua strada una signora che gli farà cambiare idea, e grazie alla quale inizierà un rapporto d’arte e d’amicizia destinato a non spegnersi. Quella donna era la madre di Costa. «Un giorno – continua lo scrittore siciliano – mi telefonò la signora Costa: “Vorrei vederla senza che Orazio sappia”. Presi il treno e andai a Napoli. Mi trovai di fronte una vecchietta che mi disse: “Ho saputo da Mario Ferrero che lei vuole andarsene. Ma non può farlo. Darebbe un grandissimo dispiacere a mio figlio Orazio, ed io non ho nessuna voglia che mio figlio Orazio abbia dei dispiaceri”. Mi apparve, dal suo racconto, un altro Costa: un Costa più umano, che ogni sera si confidava con sua madre,. Così decisi di rimanere. Ma ben presto, per altre ragioni, mi buttarono fuori dall’Accademia». La relazione maestro-allievo si trasformò così in una collaborazione artistica, quando, nel 1950 Camilleri divenne assistente di Costa al Piccolo Teatro della Città di Roma. Ma soprattutto iniziò un’intesa, una complicità, una pratica di reciproco ascolto che si nutriva di forti scontri («La mia non voluta laicità mi faceva rifiutare certe forme di calvinismo teatrale di Orazio») e paterne riflessioni. «Più volte intervenne nella mia vita privata. Io andavo a chiedergli spesso consiglio, convinto che le sue parole fossero sempre disinteressate e dettate da un affetto profondo per quello che lui era stato capace di vedere in me». «Mi leggeva le sue poesie, i suoi diari – continua l’autore di best-seller come Il ladro di merendine o Il birraio di Preston – e quella cosa meravigliosa che erano i suoi diari dei sogni. Quando mi sposai e nacque la mia prima figlia, volle fare da padrino. Poi ha cominciato a frequentare la mia casa di San Miniato, a passare Natale con me, Capodanno con me. Eravamo capaci di fare Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipscing elit, sed diam nonnumy eiusmod tempor incidunt ut labore et dolore magna aliquam erat volupat. Ut enim ad minimim veniami quis nostrud exercitation Orazio Costa INTERVISTA AD ANDREA CAMILLERI numero 1 39 numero 1 40 Quando si apre il sipario, vediamo apparire due personaggi che nessuno ha descritto. Li vediamo in quel momento e desumiamo tutto dal modo in cui parlano. Ora, a me succede di scrivere i dialoghi e da questi desumere l’aspetto fisico dei personaggi: è quasi una prassi teatrale e non letteraria. Faccio uso, per esempio, di quelli che Orazio chiamava i colpi di scena minuscoli che però preannunciano eventi importanti: tutti i miei romanzi sono costruiti secondo una tecnica teatrale anche se teatrali non sono. Più in generale è confluita nel romanzo l’idea dello spettacolo, nel senso che io non riesco a scrivere un capitolo in senso tradizionale, ma per sequenze». E sopravvive soprattutto il ricordo di uno scambio sincero che se non alterò molto le forme del parlarsi (Camilleri ha continuato a dare del lei al suo maestro per tutta la vita), portò ad una comunicazione sotterranea, al sincronismo dei sogni, a quel sentirsi anche a distanza, fin quasi ad uno scambio d’identità, come testimonia l’ultima telefonata: «Mi chiamò una settimana prima di morire. Con una voce bellissima, squillante: “Ti cercherà un ragazzo che in partenza voleva fare una tesi di laurea su di te, poi si è convinto a farla su di me. Spero di farlo tornare alla vecchia idea, quindi preparati”. Avevamo poi stabilito che una mia giovane amica che abita vicino Firenze, a Natale sarebbe andata a prenderlo in macchina per portarlo da me. Gli anticipai infine che il romanzo che stavo scrivendo (La gita a Tindari, Sellerio) l’avrei dedicato a lui. Perché racconto, tra le altre cose, il rapporto mimico di un uomo con un albero». AND CAM REA ILL ERI ostinato, vive il successo con stupore. Quando improvvisamente l’Italia si svegliò, qualche anno fa, e collocò i suoi romanzi (non solo quelli con Montalbano protagonista) alle vette delle classifiche, lo scrittore parlò di un complotto, di una cospirazione. E ancora oggi ama ripetere che continua a scrivere come se i suoi fossero mille lettori e non centinaia di migliaia. Come Costa, è uno che segue la propria voce fino in fondo e che ama ridisegnare, raffinare, i contorni di un’esistenza non gregaria, convinto del fatto che le mediazioni servano a poco. «Sì, questo atteggiamento me l’ha insegnato lui – confessa – Ma lui mi ha insegnato ben altro: mi ha insegnato a scrivere. Mi spiego meglio. Quando Orazio prendeva un personaggio da un testo e ti diceva in che modo lo si poteva far vivere, il suo esame era così esaustivo, così completo, il ricavo era così assoluto, che alla fine il testo era come un guscio vuoto. Lui diceva: questo personaggio lo devi pensare in modo tale che entri a casa tua, che lo incontri la mattina dopo che sei stato in bagno. Ecco, con i miei personaggi cerco di vivere così». Non avevano le stesse idee politiche, Orazio e Andrea. Orazio era cattolico ("ma più che altro era cristiano"), Andrea era di formazione laica. Orazio fu pesantemente contestato dagli allievi, nei cosiddetti anni di piombo; Andrea si metteva a dormire e ad occupare con loro. Eppure, nel ricordo di Camilleri, lo scontro non fu tra conservazione e rivoluzione. Tant’è vero che lo stesso Dario Fo, chiamato dai ragazzi dall’Accademia a tenere dei corsi, rimproverò i ragazzi: “Non pensate di aver fatto la cosa giusta”. «In verità – ricostruisce Camilleri – Costa non fu cacciato, se ne andò». E cosa pensava il maestro dei libri dell’ex allievo? «Sì, gli davo da leggere i miei manoscritti. Gli piacevano moltissimo anche se un po’ si terrorizzava rispetto a certe scene erotiche o blasfeme, che però, diceva, riusciva ad accettare perché le descrivevo con ironia e divertimento». Le tracce di quel lontano “dirottamento” non si sono però perse per strada. Sopravvivono nella scrittura: «L’unico maestro che ho avuto e che sono disposto a riconoscere come tale è Orazio Costa. Cosa conservo del teatro? La mia aspirazione di scrittura che è già ne La concessione del telefono o Il birraio di Preston è di arrivare ad una sorta di sguardo extra-diegetico. A IST ERV INT le tre, le quattro del mattino, parlando non solo di teatro, ma anche di politica, letteratura, di noi stessi. Questo filo non si è mai interrotto: la distanza può avere indebolito la frequentazione ma non la profondità dell’affetto. Proprio perché eravamo lontani, in realtà accadevano episodi misteriosissimi. Mia nipote nacque prima di quanto si pensasse. Alle sette del mattino squillò il telefono. Orazio era a Firenze e mi disse: “Ho sognato una grande gioia nella vostra casa. Cosa è successo?”. Ci capitava anche di avere una contemporaneità di sogni». Ci fu, poi, ad un certo momento, una consegna, una trasmissione di ruolo: «Quando lui se ne andò dall’Accademia, designò me come suo successore per l’insegnamento di regia, che ho svolto dal ’74 al ‘98. Sapeva che designava l’ex allievo più infedele al suo rigore teologico del teatro». Stranamente, Costa non andò mai a vedere uno spettacolo di Camilleri (come regista ne ha firmati più di cento), il quale però ancor oggi legge quest’assenza come un “atto d’amore”: «Spiegò a mia moglie che temeva che non gli piacessero». A Camilleri invece quelli di Costa piacevano molto, e ne individuava già allora il tratto d’autore, la firma, nella capacità che il maestro aveva di “sopraelevare il tono di un testo”: «Le racconto un episodio che forse nessuno sa – continua lo scrittore – Quando nel ’50 mise in scena Il poverello di Copeau, assistetti ad un’irruzione di Silvio d’Amico che voleva sconsigliare Costa dal rappresentare quel testo: gli sembrava un elenco telefonico. Orazio lo mise in scena lo stesso e devo dire che è lo spettacolo più bello che abbia mai visto in vita mia. In virtù di quella capacità che Costa aveva di scoprire la spiritualità che ogni atto di teatro contiene. Voglio fare un esempio. Nel finale del primo tempo, Francesco, finalmente spoglio dei vistosi abiti da ricco, indossato il saio fatto di juta, scalzo, con un bastone in mano, felice della trovata povertà, faceva un urlo sovrumano (con il quale Tonino Pierfederici rischiò di rimetterci i polmoni), poi spezzava il bastone sul ginocchio, e cominciava a ballare da solo seguendo un suo pensiero. Credevo che ci avrebbero linciato. Invece ci fu un momento di commozione e di applauso a scena aperta. Costa aveva il coraggio dello spirito». Camilleri, come Costa, è una figura controcorrente. Come il suo maestro, è schivo, numero 1 41 Orazio Costa INTERVISTA AD ANDREA CAMILLERI Una scena della Vita nuova di Dante numero 1 Tullio Pinelli Quel mondo giovanile acceso e militante di tanti anni fa Ci sono persone con cui non ci si rivede quasi mai, di cui si sente solo parlare per anni, ma alle quali si può pensare come si pensa ad un amico, certi di poter ristabilire con loro un’immediata intesa al primo ritrovarsi. Questo era per me Orazio Costa. L’avevo conosciuto in tempi molto lontani, tra il 1938 e il 1941; era allora, con Wanda Fabro e Alessandro Brissoni, uno dei primi tre registi usciti dalla Scuola d’Arte Drammatica, portatori di quel rinnovamento teatrale al quale li aveva avviati Silvio d’Amico, e sotto le ali di Silvio d’Amico avevamo formato una cerchia di amici intorno a Wanda Fabro: Orazio Costa, Diego Fabbri, Giorgio Prosperi, Achille Fiocco, tutti giovani, tutti in pieno fervore di creazione e di speranze, tutti, ovviamente, antifascisti. Ci si trovava la sera in casa di Wanda, in Corso d’Italia, ciascuno aveva scritto qualcosa, o preparava qualcosa o qualcosa proponeva; le discussioni erano vivacissime, anche accese. Ricordo, per esempio, che una sera, aspettando l’arrivo degli altri, Wanda ed io eravamo tanto impegnati a discutere il mio ultimo dramma, Lotta con l’Angelo, che non avevamo sentito i ripetuti squilli del campanello di casa. Era proprio Orazio Costa, molto sorpreso che non gli fosse stato aperto. Poi, a disperdere quel nostro mondo giovanile vennero le tragedie: l’inattesa, dolorosissima scomparsa di Wanda Fabro, la guerra sempre più incalzante, il fatale 8 settembre del ’43, M de em di or ch ie, e d te ei stim co o m ni pa an gn ze id , iv iag gio M LBU L’A DEI RIC ORD I 42 l’occupazione tedesca. Dopo, ciascuno prese e seguì la sua strada e gli incontri furono quasi sempre casuali. Due sole volte ritrovai Costa non per caso, ma purtroppo mai come regista di uno dei miei testi. Nel 1949 fu rappresentato al Teatro delle Arti, sede del Piccolo Teatro di Roma di cui Costa era direttore, il mio dramma La leggenda dell’Assassino, ma la regia fu affidata ad Alessandro Brissoni. E in epoca molto successiva avvenne che gli organizzatori del Festival teatrale di San Miniato ci imposero come condizione assoluta per la rappresentazione di un altro mio dramma, Santa Marina, di cui Orazio avrebbe voluto essere il regista, che la parte della protagonista fosse accettata da Giulietta Masina, in quel periodo purtroppo impegnata in un film. Fu una grande occasione perduta, e Orazio Costa rimase per me, nel mio ricordo, quel nuovo, promettente regista che incontravo la sera in casa di Wanda Fabro, con gli altri giovani amici ormai scomparsi. Rossella Falk “Era convinto che avessi sprecato il mio talento andando dietro agli americani” Come tutti sanno, ho frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica e ho avuto la fortuna di avere dei grandi maestri. Al primo posto in assoluto metto Orazio Costa, seguito da Wanda Capodaglio. Quando feci il saggio di terzo anno, scelsi di fare una Giovanna di Lorena. Orazio non era molto d’accordo perché mi diceva che cominciavo a dimostrare un sospetto amore per i testi moderni. Comunque alla fine ha acconsentito e fu un bellissimo esame… C’era un legame molto forte tra noi due; forse lui nutriva per me un sentimento che andava al di là del rapporto maestro-allieva, ma non l’ha mai espresso né dichiarato. Nel ’48 mi diede la grande occasione di recitare nel ruolo della Figliastra nei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello che debuttò alla Fenice di Venezia, per andare poi in tournée a Parigi e a Londra. Subito dopo, fondammo il Piccolo Teatro della Città di Roma: all’inizio c’erano Buazzelli, Panelli, Manfredi. Lo fondammo noi due, anche con le nostre forze finanziarie…Che cosa mi ha insegnato? Il senso della logica e della precisione, che non bisogna dare niente per scontato…Veniva sempre a teatro a vedermi. Ma continuò a non essere d’accordo con le mie scelte. Diceva che avrei dovuto fare tutta la vita Fedra, Medea, personaggi classici. Io gli dicevo: “Orazio, mi annoiano. Preferisco fare Tennessee Williams, David Hare, Peter Shaffer. Faccio il teatro anche per divertirmi”. Insomma, ha sempre pensato che avessi sprecato il mio talento. Quand’è venuto a vedere l’ultima volta Master Class con Maria Callas, ero quasi sicura che questa volta ce l’avrei fatta. Invece commentò: “Ma è possibile che una come te che sa recitare così bene va a parlare della Callas?”. Per lui era assurdo… numero 1 43 Del bisogno di oltrepassare i propri limiti Ad un attore che recalcitrando gli disse: "Non posso andare oltre i miei limiti", Orazio Costa rispose: "Per sapere quali sono i propri limiti bisogna oltrepassarli" (a quell’attore il concetto parve così lampante che da allora in poi lo fece suo, commettendo moltissimi errori ma, forse, anche spostando un po’ più in là i propri limiti). Ad un altro che gli obiettava: "Perché fa rimanere Paolo e Francesca così distanti durante tutto questo ardente dialogo d’amore?", "Perché se si avvicinassero non parlerebbero più". E a chi gli domandava: "Non dovrebbe Gesù Cristo apostrofare Marta con tono meno angosciato? Dubita forse che tra poco Lui stesso le restituirà Lazzaro?", "Gesù non è angosciato per se stesso, ma per Marta, che forse dubita di Lui". Gli insegnamenti di Costa erano spesso così: semplici, chiarissimi, addirittura elementari, e ti facevano vedere le cose come per la prima volta, perché così lui sapeva vederle. Suscitava, con il suo esserci, immagini indelebili, esempi non ignorabili. La sua presenza era per questo, ad una persona egocentrica, quasi dolorosa, ma per quella nostra parte che sa e vuole apprendere, una fonte senza uguali. Secondo me la sua dote più irresistibile, come uomo di teatro, era l’eccelsa virtù di attore. La sua recitazione, quando insegnava o dirigeva, apriva mondi a cui non si poteva più rinunciare, che si dovevano restituire, sempre a proprio rischio, ma a volte raggiungendo risultati insperabili. Mi sono sempre reso conto, studiandolo, che la via per arrampicarsi almeno ai piedi di quel monte era la tecnica, che lui possedeva più di chiunque altro, ma che preferiva inculcare solo nel suo abc, forse giudicando il virtuosismo una conquista meno urgente che non il ritrovamento della propria sorgiva e proteiforme creatività. Per Costa, infatti, l’origine della recitazione sta nella prima attenzione che si rivolge al mondo, quando, ancora perfettamente aperti e integri, invece di guardare le cose si diventa la cosa che si guarda. Personalmente non ho mai potuto seguire questo metodo, cervellotico come sono e timoroso di guardare la vera natura di me stesso e di tutto; ma l’ho in qualche modo assorbito osservando lui che recitava, un po’ come chi impara il cinese studiandolo parola per parola. Il risultato, teatralmente parlando, non saprei raccomandarlo a tutti, ma non mi scema certo nostalgia per quest’uomo che a volte diventava nuvola, a volte montagna, che dicendo un verso, una battuta, una parola apriva menti e palcoscenici alla vita, e che un giorno, bellissimo d’autunno, mi disse: "Quando sarò morto Dio mi punterà il dito contro e mi domanderà “Dov’eri tu e che facevi la mattina del giorno tale del tale anno?” “Ero alla RAI di Firenze, Signore, a lavorare”, risponderò io. “Vergognati!” tuonerà il Signore, “Io avevo mandato una giornata stupenda, da passare nei prati, e tu l’hai trascurata!”". Immagino che adesso il rimprovero glielo abbia già fatto, e che lo abbia perdonato. Gabriele Lavia Nino Manfredi “Mi ha insegnato a lavorare sulla mia timidezza” Tutti i giovani pensano di essere degli attori drammatici…Quando frequentavo l’Accademia, Costa un giorno mi chiamò sul palcoscenico per recitare il monologo di Amleto. Mi accorsi che i miei compagni stavano ridendo. Così ho interrotto la prova. Quando è finita la lezione, mi prese sotto braccio e mi disse: “Non te la devi prendere se i tuoi compagni ridono, perché tu hai una nota in più, l’ironia”. Costa mi ha fatto capire quello che io ero veramente: né un attore totalmente drammatico né un attore totalmente comico. Mi convinse che avevo la capacità di affrontare i temi seri facendo nascere un sorriso sulla bocca della gente. Costa formava soprattutto degli attori di cinema, perché insegnava a lavorare sulla mimica anche facciale… Io allora ero abbastanza timido. Quando lo dissi a lui, mi rispose: “Allora tu puoi diventare un grande attore perché hai la possibilità di trasferire questa timidezza sul personaggio”. Ci ha insegnato a recitare con lo sguardo… Ci faceva lavorare su i ritmi di una formica, di un cane, di un gatto, della natura animale, perché il pubblico, diceva, non sa che cosa state facendo ma osserva i ritmi che ciascuno di noi ha dentro e che può quindi riconoscere. Un macchinista lo chiamò il “ciclista di Dio” Costa ha incarnato all’interno del teatro italiano, per intere generazioni, la figura del maestro, così come non ne esistono più. Forse perché non è più possibile ripetere un’esperienza di quel tipo. Lo dico al di là della validità del suo metodo. Ho fatto due spettacoli di teatro con lui (Edipo re e Romeo e Giulietta) e poi molti drammi in tv: Adelchi, Il Gabbiano, il Filippo di Alfieri e tanti altri…Giorni prima che morisse, è venuto a vedere un mio spettacolo, La mite di Dostoevskij. Ho parlato con lui a lungo del Misantropo di Molière di cui devo cominciare le prove, e devo dire che ancora una volta mi ha folgorato per la sua visione così moderna della regia. Voglio ricordare un episodio. Orazio, che aveva un fisico così sottile, veniva alle prove con una tuta da ginnastica e le scarpette da mimo coi lacci. Un macchinista, vedendolo, s’inventò un’espressione magnifica: “E’ arrivato il ciclista di Dio”. In effetti lui sembrava un ciclista e mi piace immaginare che sia volato in cielo dal buon Dio in bicicletta, così come succede in Miracolo a Milano o in E.T.. Orazio Costa L’ALBUM DEI RICORDI Roberto Herlitzka numero 1 44 Una delle ultime sere di Carnevale di Carlo Goldoni numero 1 La liturgia della parola I momenti più importanti della mia vita di attrice sono legati a Orazio Costa. Tale è stata l’importanza di questo incontro, che gli sono rimasta profondamente vicina fino alla fine della sua vita. Orazio Costa è stato un maestro, cioè qualcuno che ha trasmesso e concepito un “suo” modo di dare teatro; ed è stato un uomo profondamente religioso. La sua idea di teatro e la sua religiosità si manifestavano nel suo insegnamento e nella fede nella sacralità della parola. Che è non solo un mezzo per comunicare, ma è “verbo”, la più alta espressione della spiritualità, e attraverso la preghiera – e per Costa anche attraverso la ritualità del teatro – mette l’uomo in rapporto con Dio. Si può capire come tutto questo, nella pratica, si traduceva in un rispetto assoluto della parola del testo, che veniva scandagliata in ogni sua possibilità, fino a toccarne il nucleo più profondo ed espressivo, fatto sempre di una unione di pensiero e sentimento, significato ed emozione. Basterebbe vedere i miei copioni – Francesca da Rimini, Adelchi, Il gabbiano, Tre sorelle, Ifigenia – in cui ogni parola ha un suo segno – cesura, sottolineatura, commento -, per capire il senso di quello che ho detto. DEI RIC ORD I M LBU L’A “Era un padre con figli ribelli” Ho partecipato a diciotto spettacoli diretti da Costa, tra teatro, televisione e cinema, e quindi è il regista con il quale ho lavorato di più…Quando ho fatto l’Accademia, in certi momenti ho cercato di appoggiarmi a lui, anche se Costa era abbastanza chiuso, restio a concedersi umanamente. Nel lavoro, però, mi ha dato tantissimo. Nel tempo, siamo venuti a maggiore confidenza. Ricordo un episodio. Nel ’70, portammo l’Orlando Furioso di Ronconi a Parigi, ed io mi davo più del dovuto, tanto che dovevo ricorrere ad iniezioni di glucosio. Costa era in quegli stessi giorni a Parigi per una serie di conferenze. Venne a trovarci nei camerini. Mi cercò, mi prese sotto braccio e mi disse: “Ho saputo che tu ti dai troppo. Ma ricordati, figliolo: uno dei doveri principali degli attori sono le repliche. Non puoi togliere al pubblico di ogni sera quello che puoi dare al pubblico di ogni sera tutte le sere. Questo non è cinema, dove tu puoi anche morire. È teatro. Non morire tutte le sere”…Costa era un maestro in senso totale. Ne ho conosciuto solo un altro: Strehler. Erano, Costa e Strehler, depositari di un sapere che comprendeva tutto quello che riguardava il mondo dello spettacolo e non solo quello… Costa era un padre, e come tale, aveva dei figli, anche ribelli. Non mi perdonò mai di aver preso un altro impegno quando c’era nell’aria (ma tardavano ad arrivare i finanziamenti) una ripresa del Don Giovanni. Una volta mi disse, benevolo e rassegnato: “Tanto tu fai sempre quello che vuoi”. Ilaria Occhini M de em di or ch ie, e d te ei stim co o m ni pa an gn ze id , iv iag gio Massimo Foschi “Voleva che ci vestissimo bene per andare a cena da Shakespeare” L’ho avuto come insegnante all’Accademia nel ’75 - ’76, cioè nell’ultima sua stagione da docente. Fu un rapporto segnato dalla devozione per il grande sapere e dall’agonismo (che sono, secondo Nietzsche, i due elementi di forza di un rapporto maestro-allievo). La devozione e l’affetto derivavano da una mia formazione classica fondata sul Romanticismo tedesco e francese. Per questo seguivo con passione le sue lezioni. C’era, però, qualche discordanza. Il metodo mimico di Costa, che era basato su assunti nobilissimi, per certi versi mi sembrava poggiare su un principio vetero-psicanalista che è il seguente: c’è un luogo represso, che è il corpo, se lo liberiamo uscirà l’anima. Mi sembrava un principio vittoriano. E per uno come me che si era formato oltre che sul Romanticismo tedesco anche sui Rolling Stones, tutto ciò sembrava un po’ stonato… Mi ricordo in particolare una bellissima lezione sui silenzi di Cechov, innervata da una polemica nei confronti del famoso Giardino dei ciliegi di Strehler che aveva, secondo lui, coperto le pause con tutte quelle magnifiche soluzioni sceniche( il trenino, l’armadio che si apre, la carrozzina) che indubbiamente tenevano a ridare tessuto connettivo a qualcosa che invece doveva rimanere sconnesso. …Una delle più grandi lezioni che ho ricevuto da Costa è sicuramente quella legata al suo senso di nobiltà. Ci diceva sempre: “Se voi foste invitati domani sera a casa di Shakespeare, vi mettereste il vestito migliore o il peggiore?” Tutti rispondevano: il migliore. E lui spiegava: “Allora, per mettere in scena Shakespeare, facciamo finta che siamo invitati alla sua tavola. Andiamo in maniera concia”. Naturalmente si riferiva all’atteggiamento complessivo da tenere nei confronti di un’opera. 45 Il sogno di lavorare coi sogni Sulla linea ferroviaria RomaMilano la sosta Firenze per me era un punto fermo. Per tutti questi anni andare a trovare Costa nella sua casa a via Ginori e poi alla Pergola era un momento nel quale confrontarmi con la mia scelta di fare teatro. Costa era prima di tutto un maestro, non solo per me ma per gran parte del teatro italiano. Era anche e soprattutto un uomo in lotta contro l’establishment, un uomo indipendente e mai rassegnato. Lentamente si è chiuso in questa sua casa tra i suoi ricordi, ma non ha mai perso la voglia di fare. Fino all’ultimo sperava di poter lavorare come regista e di lavorare con i suoi sogni. Quando mi sono laureata, ho deciso di scrivere la mia tesi sul suo Metodo, il Metodo Mimico; è stato il mio modo di ringraziarlo per ciò che mi ha insegnato. Non dimenticherò mai certe sue riflessioni: “Il teatro è l’unica forma di attività umana rimasta a parlare dell’uomo mediante la realtà dell’uomo” diceva Costa. E poi: “L’essere uomo con una coscienza particolarmente esagerata di ciò che ci fa uomini, di ciò che ci fa metri della natura, questa coscienza è l’essere attori. Può essere una semplice coscienza motoria, una semplice consapevolezza della duplicità e pluralità del nostro essere…”. E poi ancora: “La mimazione si realizza attraverso un dono delle intuizioni, delle corrispondenze, e presuppone il riconoscimento di una fraternità con gli esseri e le cose, l’esistenza di una correlazione fra diversi, che avviene istantaneamente, come se si trattasse di un parlare-pensare, ma è indipendente dalla ricerca delle parole, una ideale comunicazione diretta”. Per lui il vero mestiere da insegnare era il mestiere del diventare uomo: “Armati della nostra unica figura - diceva - noi riusciamo ad essere tutti interi, specchi sensibilissimi del tutto che, senza perdere la sua infinita varietà, diventa uomo, riempendolo di consapevolezza e d’infinito”. Orazio Costa L’ALBUM DEI RICORDI Tiziana Bergamaschi Umberto Marino IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Il coraggio di una scelta etica ORAZIO COSTA REGISTA Il tirocinio di Orazio Costa di Alessandro d’Amico L’arcangelo con le scarpe Vibram di Luigi Squarzina Drammaturgia scenica dell’invisibile di Claudio Meldolesi Sintesi memoriale di un’amicizia di Mario Luzi Siamo stati irriconoscenti verso Orazio di Luca Ronconi Il respiro mistico del Poverello di Paolo Emilio Poesio ORAZIO COSTA E IL TEATRO DELLA PERGOLA di Marco Giorgetti INEDITI Dai Quaderni di Orazio Costa commento critico di Renzo Tian ORAZIO COSTA PEDAGOGO L’esperienza del Metodo Mimico raccontata in film di Maricla Boggio Il coro cellula madre del teatro di Pino Manzari In ascolto del vento e della pioggia di Luigi Maria Musati La danza mimica tra arte e scienza di Alessandra Niccolini Giocare con il linguaggio di Paolo Giuranna INTERVISTA Costa mi ha insegnato a scrivere a colloquio con Andrea Camilleri, di Katia Ippaso MENSILE D’INFORMAZIONE DELLO SPETTACOLO anno V • numero 1 L’ALBUM DEI RICORDI DIRETTORE RESPONSABILE Renzo Tian Memorie, testimonianze, dediche dei compagni di viaggio: VICEDIRETTORE Tullio Pinelli, Rossella Falk, Roberto Herlitzka, Nino Manfredi, Gabriele Lavia, Massimo Foschi, Umberto Marino, Ilaria Occhini, Tiziana Bergamaschi, Anna Proclemer, Glauco Mauri, Renato De Carmine Katia Ippaso COMITATO DI REDAZIONE Giovanna Marinelli Ilaria Fabbri Ninni Cutaia Donatella Ferrante COORDINAMENTO ORGANIZZATIVO REDAZIONALE E MARKETING Angela Cutò responsabile Giuseppe Commentucci, Cinzia Raffio COLLABORAZIONE ALLA REDAZIONE Silvia Taranta Roberta d’Agostino stager UFFICIO STAMPA Andreina Sirolesi PROGETTO GRAFICO Fausta Orecchio IMPAGINAZIONE Silvana Amato, Simone Tonucci STAMPA Futuragrafica FINITO DI STAMPARE Febbraio 2000 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Maricla Boggio, Alessandro d’Amico, Marco Giorgietti, Paolo Giuranna, Mario Luzi Pino Manzari, Claudio Meldolesi, Luigi Maria Musati, Alessandra Niccolini Paolo Emilio Poesio, Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Renzo Tian. 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