terzo settore, volontariato e alleanze generative

di Lucia Boccacin,Professore Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Università Cattolica di Milano
TERZO SETTORE, VOLONTARIATO
E ALLEANZE GENERATIVE
INTRODUZIONE
Il ripensamento sul welfare e sulla sua possibile declinazione nell’ambito di un assetto plurale fondato sulle relazioni sociali, si colloca oggi in una situazione di crescente
complessità per quanto riguarda l’emergere di bisogni e di deprivazioni sociali (Boccacin,
2013). In tale contesto, il tema della sussidiarietà (Donati, Colozzi 2005) diventa strategico
in quanto consente di identificare la direzione delle relazioni sociali e la loro generatività, ponendo specifica attenzione sui ruoli svolti dai diversi attori sociali (stato, mercato,
terzo settore e reti informali) e a ciò che da esse origina in termini di benessere per la
società (Donati, 2009; 2013).
Tale prospettiva conduce al superamento della deriva assistenzialistica e alla promozione dell’autonomia e della responsabilità dei soggetti sociali, della loro capacità
di autogoverno e di autosviluppo, favorendo al tempo stesso l’azione degli individui nella risposta alle esigenze di cui sono portatori, poiché li riconosce come responsabili e
competenti. Essa ha significative implicazioni per quanto concerne i servizi alla persona.
I servizi alla persona che contribuiscono fattivamente alla realizzazione di assetti
di welfare di qualità (Rossi 2005), si configurano come “servizi relazionali”, nei quali è
centrale la dimensione della personalizzazione (Prandini - Sabel, 2013). Sono interventi
orientati all’empowerment delle capacità e delle potenzialità individuali e si connotano
per un supporto efficace sia alle relazioni sociali fondamentali, sia alle esigenze specifiche che emergono nel corso del ciclo di vita delle persone e delle famiglie.
Essi richiedono, nella loro realizzazione concreta, della collaborazione tra chi offre
l’intervento e chi lo riceve, secondo una prospettiva di coproduzione (Pestoff, 2012; Boccacin, 2015). Nelle organizzazioni che erogano servizi alla persona si crea un nuovo luogo
organizzativo, formato dalla relazione tra agente e utente, che perdura lungo tutto lo
svolgimento dell’azione. La risposta al bisogno, ottenuta attraverso i servizi alla persona, avendo come fulcro la relazione che si instaura tra colui che offre la prestazione
e colui che la riceve, consente di calibrare l’intervento rispetto alle esigenze di ogni
individuo. Se, dunque il welfare, cioè il benessere, è frutto della capacità dei diversi
soggetti di entrare in relazione tra loro e costruire reti efficaci nell’ambito delle proprie
comunità locali, l’attivazione di reti sociali, a vario grado di formalizzazione e fondate su
relazioni fiduciarie e cooperative (Donati, 2007; Tronca, 2007) consente un’azione efficace
nella risposta ai bisogni sociali.
È possibile, in tal modo, identificare la presenza di reti e partnership (Boccacin, 2009)
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tra soggetti istituzionali, privati e di terzo settore che, a livello locale, promuovano lo
sviluppo dei servizi alla persona e più in generale il benessere della comunità locale,
attraverso i servizi, gli interventi e le attività che sono in grado di realizzare. Le partnership, configurando relazioni stabili tra attori pubblici, privati, di terzo settore (Boccacin,
2003, 2014), possono contribuire sia a identificare i bisogni tradizionali ed emergenti,
sia a porre in essere un processo di aiuto compartecipativo che consenta di innovare
l’offerta di servizi, anche mediante l’introduzione di prassi coproduttive, finalizzate a
rendere flessibile e adeguata l’offerta di prestazioni.
IL RUOLO SOCIALE DEL TERZO SETTORE
Il ruolo sociale svolto dalle diverse entità afferenti al terzo settore risulta strategico
nella connessione, empiricamente riscontrata, tra la loro presenza e l’implementazione di servizi alla persona che intervengono sulla qualità delle relazioni e sulla rigenerazione dei legami sociali.
Il terzo settore è un fenomeno rilevante socialmente e ampiamente differenziato
quanto a forme associative: comprende infatti organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, associazioni prosociali, fondazioni prosociali; esso si diversifica anche per
forme giuridiche, storie associative, gamma di bisogni fronteggiati e di risposte offerte,
in termini di servizi e di interventi. Sotto il profilo sociologico, si intende con questo
termine l’insieme di iniziative differenti accomunate in un’unica area sulla base dell’identificazione di alcuni fattori:
• sono entità sociali che hanno al tempo stesso caratteristiche di comunità e di
società
• Sono entità che producono un bene comune particolare, rappresentato dal
“bene relazionale”, bene cioè che può essere prodotto e fruito solo “insieme”
e che pone la connessione, il legame tra soggetto destinatario dell’intervento e
soggetto che lo offre, come fondamento della prestazione.
• Pongono la solidarietà come il mezzo simbolico che accomuna i diversi attori
afferenti al terzo settore. È una concezione attiva della solidarietà, intesa come
elemento che responsabilizza e, quindi mobilita i soggetti, quella che è alla base
del terzo settore (Boccacin 2009, 2014).
In questi termini, quindi, il terzo settore rappresenta una formazione sociale autonoma,
che si rivela componente strategica e non marginale della attuale società italiana. Il tipo
di apporto che i soggetti di terzo settore, in modo più o meno consapevole, immettono
nel sociale fa riferimento a un complesso valoriale imperniato sulla solidarietà, sul fare
insieme, sulla condivisione, e la promozione dell’autonomia sociale.
Il terzo settore è un fenomeno ampiamente differenziato sotto il profilo organizzativo, culturale e relazionale. Per osservare tale differenziazione utilizziamo le informazioni emerse dal Censimento sulle Istituzioni non profit effettuato dall’Istat. Complessivamente sono state identificate 301.191 Istituzioni Non Profit 1.
Con tale termine si intende una «Unità giuridico-economica dotata o meno di personalità giuridica, di natura privata, che produce beni e servizi destinabili o non destinabili alla vendita e che, in base alle leggi vigenti o a proprie norme statutarie, non ha
facoltà di distribuire, anche indirettamente, profitti o altri guadagni diversi dalla remunerazione del lavoro prestato ai soggetti
che la hanno istituita o ai soci». Cfr. http://www.istat.it
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Rispetto al censimento effettuato nel 2001 si registra un incremento pari al 28,0%
nel numero di tali istituzioni. Dal punto di vista della distribuzione geografica si evidenzia una presenza più diffusa di tali organismi nel Nord-Ovest (27,5%) e nel Nord-Est del
Paese (24,7%): segue poi il Centro (21,5%) il Sud (16,6%) e le Isole (9,8%).
La forma giuridica prevalente risulta essere quella dell’associazione 2; in particolare
sono 201.004 - pari all’86,7% - le associazioni non riconosciute (che mostrano un incremento del 28,7% rispetto ai dati del 2001) e 68.349 - 22,7% - le associazioni riconosciute
(che nel corso del decennio aumentano del 9,8%). Le altre forme giuridiche sono fondazioni nel 2,1% dei casi, cooperative sociali nel 3,7%, con un incremento del 102,1%
per le fondazioni e del 98,5% per le cooperative sociali (Barbetta, Lorenzini, Mancini 2014).
L’ambito entro cui è attivo il maggior numero di entità è quello culturale, sportivo e
ricreativo che coinvolge 195.841 istituzioni (pari al 65,0% del totale), 2.815.390 volontari
(il 59,2 dell’universo dei volontari) e 45.450 addetti (il 6,7% del totale) (ISTAT 2014a).
Al secondo posto di una ipotetica graduatoria, si colloca il settore dell’assistenza e
della protezione civile, in cui rientra l’8,3% delle organizzazioni; in esso è impiegato il
33,1% degli addetti e il 12,8% dei volontari. Segue poi il settore della sanità nel quale
opera il 3,6% delle organizzazioni di terzo settore, a fronte di un impegno di addetti pari
al 23,3% e dei volontari pari al 7,1% del totale (Barbetta, Lorenzini, Mancini 2014).
Come emerge dai dati, si tratta di un fenomeno importante nel panorama sociale
italiano sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto quello del significato sociale che le
azioni svolte dagli attori di terzo settore assumono per l’intero contesto.
LE TRASFORMAZIONI RECENTI DEL VOLONTARIATO ITALIANO
Il volontariato organizzato è il più conosciuto tra i fenomeni sociali inscrivibili nel
terzo settore, a motivo sia della lunga tradizione che nel nostro paese hanno le attività
volontarie sia per l’incidenza sociale dell’azione svolta nel campo delle gravi marginalità, comprendente vecchie e nuove povertà. In esso la generatività sociale consiste nel
risultato conseguito dalle relazioni sociali che si connotano come fiduciarie e donative:
si tratta talvolta di un esito innovativo, che implica intenzionalità e assunzione di responsabilità da parte dei soggetti in relazione; in altri termini, nelle organizzazioni di
volontariato spesso una specifica concezione etica si coniuga con l’attitudine a risolvere
problemi e conseguire obiettivi di miglioramento delle condizioni di vita.
Il volontariato organizzato italiano è stato attraversato, negli ultimi venti anni, da rilevanti processi morfogenetici: la loro osservazione e la loro analisi sono cruciali al fine
di comprendere l’articolata differenziazione interna che connota il fenomeno in Italia,
le nuove modalità di “affiliazione” che connettono i soggetti alle organizzazioni, le relazioni tra volontariato e altri soggetti sociali e ciò che esita da tali processi nei contesti
sociali d riferimento.
Nel nostro Paese, il volontariato, all’interno del terzo settore, emerge dotato di una
specifica soggettività sociale che si articola in una pluralità di itinerari sociali e culturali
Un’associazione riconosciuta è tale se iscritta nel Registro delle persone giuridiche come soggetto giuridico distinto dagli associati
(ai sensi del D.P.R. 361/2000). Le associazioni non riconosciute sono di regola enti composti da più persone associate tra loro che
non hanno voluto richiedere il riconoscimento o che non l’hanno ottenuto o per i quali è ancora pendente il relativo procedimento. Le associazioni non riconosciute non sono persone giuridiche, e pertanto nei confronti loro e dei singoli associati non operano
i benefici conseguenti all’autonomia patrimoniale propri degli enti riconosciuti.
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che ne connotano la diffusione, la presenza e l’incidenza sociale all’interno del territorio nazionale. Sotto il profilo culturale il volontariato organizzato odierno si distingue
dalle altre forme riconducibili al terzo settore per la pregnanza della sua motivazione
pro-sociale, ovvero per la centralità della gratuità, dell’orientamento all’altruismo e alla
reciprocità.
La teoria relazionale (Donati 1991, 2013; Terenzi, Boccacin, Prandini 2016) ha ampiamente chiarito come sia cruciale l’osservazione delle dimensioni “culturali”, mediante le
quali avviene, soggettivamente e collettivamente, il processo di attribuzione di senso
all’agire e alle relazioni sociali. Alla luce di tale chiave interpretativa i singoli volontari
non vengano colti come individui isolati, bensì come appartenenti a reti di relazioni informali e associative e come queste ultime siano determinanti nella comprensione delle biografie personali e delle azioni sociali realizzate. In particolare, la trama di relazioni
esperite dai soggetti osservati e gli scambi che avvengono tra le generazioni all’interno
di tali reti danno nuovo spessore alla conoscenza sociologica del fenomeno.
L’azione societaria realizzata dalle organizzazioni di volontariato si configura, quindi,
come una efficace “sintesi” del percorso soggettivo e intersoggettivo che caratterizza
tali entità all’interno delle comunità di riferimento nelle quali esse si trovano ad operare
Inoltre, poiché il volontariato è una realtà sociale a elevato dinamismo, esso si modifica
sia per spinte endogene sia in seguito alle trasformazioni sociali che caratterizzano
la società contemporanea, essendo l’impegno del volontario intrinsecamente radicato
nelle realtà in cui opera. Attraverso tale impegno, il contributo offerto dalle organizzazioni di volontariato si pone nella direzione di realizzare il perseguimento di un benessere inteso come frutto della capacità dei diversi soggetti di entrare in relazione tra loro
e costruire servizi e pratiche efficaci nell’ambito dei contesti territoriali di riferimento.
Focalizzando in particolare la componente dei volontari le informazioni emerse dal
censimento condotto dall’Istat evidenziano la presenza di 4.758.622 volontari entro le
organizzazioni del terzo settore italiano, con un incremento pari al 43,5% rispetto ai dati
rilevati nel corso del censimento del 2001 (ISTAT, 2014).
Sia l’ampiezza numerica, sia l’incremento di tale presenza registrato nel corso degli
ultimi dieci anni, documentano la consistenza del coinvolgimento in prassi solidaristiche di tipo intersoggettivo di cui scarsamente c’è traccia nel dibattito pubblico, ma che
innerva profondamente il tessuto del paese, in particolare le aree di bisogno e il mondo
della vita quotidiana. Tale componente è attiva all’interno dell’80,8% delle organizzazioni di terzo settore censite. Considerando la presenza delle diverse generazioni tra
i volontari emerge che tutte le classi di età risultano ben rappresentate sotto il profilo
percentuale, come evidenzia la seguente tabella.
CLASSI D’ETÀ DEI VOLONTARI
NUMERO DEI VOLONTARI
% VOLONTARI SUL TOTALE
Fino a 29 anni
30-54
55-64
Oltre 64
949.755
20,0
2.056.13043,2
1.049.13522,0
703.602
14,8
TOTALE
4.758.622100,0
Tabella 1 - Volontari operanti entro le istituzioni non profit distinti per classi di età
Fonte: Boccacin 2015 p. 108 (rielaborazione su dati Istat 2014)
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Il cosiddetto “disimpegno” delle giovani generazioni in questo ambito di azione è
messo fortemente in discussione dal 20,0% di giovani fino ai 29 anni impegnati nel volontariato. Inoltre, quasi il 70,0% di organizzazioni di terzo settore entro cui sono attivi
i volontari ha, tra di essi, appartenenti ad almeno due generazioni diverse, a conferma
che tali organismi sono ambiti sociali privilegiati in cui sperimentare l’intergenerazionalità. Infatti, le organizzazioni di terzo settore sono tra i pochi ambiti in cui è possibile
sperimentare relazioni intergenerazionali di tipo elettivo. Esse sono una vera e propria
palestra delle relazioni intergenerazionali attraverso le quali giovani, adulti e anziani
possono operare insieme.
Le relazioni tra generazioni diverse sono un valore aggiunto, in grado di immettere
un quid specifico nei contesti sociali, in particolare in quelli locali.
Il mondo del volontariato, nel suo concreto modo di essere, riesce ad esprimere
una eccedenza culturale e societaria che ha rilevanti ripercussioni sulla costruzione
dell’identità personale e della coesione sociale. L’azione volontaria facilita, infatti, la
realizzazione di identità dialogiche, aperte all’ascolto, alla condivisione, alla ricerca di
relazioni sociali autentiche, solidali, fraterne e concorre all’innovazione, al processo di
responsabilizzazione verso se stessi e verso gli altri, allo sviluppo virtuoso dell’orientamento altruistico e della responsabilità civile.
LE RETI SOCIALI E LE PARTNERSHIP
Diverse indagini hanno evidenziato che reti e partnership virtuose tra soggetti istituzionali, privati e di terzo settore promuovono lo sviluppo dei servizi alla persona a livello
locale e più in generale il benessere della comunità locale, attraverso gli interventi e le
attività che realizzano.
Ogni soggetto, ogni partner offre un apporto peculiare in termini di servizi e interventi, ma non deve cadere nel rischio di considerarsi un sistema autoreferenziale. Al
contrario, la specificità di ciascun stakeholder può trovare una ampia valorizzazione
all’intero di una rete di soggetti che co-operano per perseguire quel “bene pubblico”
rappresentato dal benessere.
Il welfare diviene quindi un fatto «corale», non una funzione specialistica, bensì il
risultato di un’azione congiunta. In questa prospettiva, quindi, il welfare si connota in
termini plurali e viene a configurare il benessere individuale, sociale e collettivo come
il risultato di una rete di relazioni complesse nella quale circolano valori e pratiche comuni 3. Tali relazioni poggiano sul principio di sussidiarietà che consente di valorizzare
l’autonomia dei soggetti del volontariato, del terzo settore e della comunità affinché
ciascuno sia messo in grado di svolgere adeguatamente il proprio compito sociale in
rapporto con gli altri.
Dall’esistenza delle reti di relazioni sociali, a volte, possono prendere origine le partneship, anche se occorre sottolineare che il concetto di partnership sociale non coincide con quello di rete, seppure la presenza di network relazionali preesistenti possa
costituire un elemento facilitante la realizzazione di partnership (Huxhan, 2000).
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I principi fondativi di questo assetto sono il principio di sussidiarietà, di solidarietà e di democrazia associativa.
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La reticolarità, infatti, può sussistere a differenti livelli: può rimanere circoscritta
sotto il profilo della dimensione e non richiedere il coinvolgimento in identità organizzative formalizzate (Di Nicola, 2006). Nelle partnership, invece, sono proprio le appartenenze organizzative ad essere messe in gioco; entrare in tali configurazioni, più o meno
formalizzate, implica per i diversi soggetti, il coinvolgimento in processi di negoziazione
multipli che riguardano gli obiettivi, le regole, i livelli di coordinamento e di responsabilità, la leadership, i valori e la cultura.
Sotto il profilo sociologico, con il termine partnership si intende «una collaborazione
paritaria tra organizzazioni diverse [enti pubblici in genere locali, imprese di mercato,
organizzazioni di terzo settore, famiglie e reti informali, cioè il cosiddetto quarto settore], fondata su relazioni reciproche, stabilite volontariamente, nelle quali le risorse, le
capacità e i rischi sono condivisi per il conseguimento di un progetto multidimensionale
non perseguibile da ciascuna delle singole unità» (Boccacin, 2009, p. 26).
Tale progetto, connettendo competenze, know-how e network relazionali, si pone
nella direzione di contribuire alla creazione di beni relazionali di pubblica utilità (Rossi Boccacin, 2012; Donati - Solci, 2011).
L’itinerario che ha condotto alla messa a punto di tale definizione di partnership,
prende l’avvio da una concezione della partnership intesa come intreccio relazionale,
superando accezioni riduttive che la intendevano come semplice interazione tra agenzie ed enti provenienti da ambiti differenti con competenze eterogenee. La definizione
relazionale del concetto di partnership si fonda sulla libera intenzionalità dei diversi
soggetti (Boccacin-Rossi-Bramanti, 2011) ad agire in collaborazione e secondo uno status
di paritarietà relazionale, che non implica l’annullamento delle diversità tra i partner,
bensì l’identificazione peculiare e la conseguente valorizzazione delle singole soggettività (Archer, 2003).
Una cooperazione tra attori sociali differenti, per mezzo della quale essi convengono
di lavorare congiuntamente per perseguire un fine specifico (Glendinning - Powell - Rummery, 2002), spesso si realizza attraverso soluzioni organizzative nelle quali le responsabilità sono condivise (Estivill - Darviche, 2000).
Nel perseguimento di un progetto unitario, il contributo di ogni soggetto è fondamentale e consente la messa in comune di risorse, conoscenze e competenze. È
pertanto importante chiarire le identità dei soggetti che partecipano alle partnership
sociali. Sono attori provenienti da ambiti societari diversi, raggruppati attorno ad un’agenda comune e un programma organizzativo (Loncle-Moriceau, 2000), con esperienze e
attitudini differenti. Essi immettono nelle partnership culture, valori, approcci ai bisogni
diversi, facilitando il perseguimento di una comprensione condivisa dei problemi sociali
e, a volte, consentendo il passaggio dalla difesa di interessi eterogenei all’identificazione di un interesse comune di tipo intersoggettivo (Ebbinghaus, 2006).
Come molti concetti polisemici, anche questo è esposto a rischi di ambiguità e ambivalenza sia a livello definitorio, a fronte dell’accezione che ogni contesto culturale
tende a evidenziare (Corcoran, 2006; Damon, 2009), sia a livello applicativo, a motivo delle
differenti realizzazioni operative nei diversi paesi europei (Petrella, 2004).
Alcuni elementi consentono di meglio qualificare tale ambivalenza: innanzitutto la
disuguaglianza tra i partner sociali per quanto concerne le capacità di influenzare gli
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esiti politici e le asimmetrie tra partner, i cui codici di azione sono basati a volte su presupposti diversi. Strategie burocratizzanti, “centralistiche e cooptative” da parte degli
enti pubblici (Powell, 2007) o “utilitaristiche” e di puro marketing degli enti privati, possono confinare le organizzazioni di terzo settore in posizioni subordinate per quanto
attiene la partecipazione al processo decisionale finale (Murray, 2006).
Un’ulteriore fonte di ambivalenza che può connotare le dinamiche relazionali interne alle partnership, riguarda la diversità di culture organizzative che spesso caratterizza le entità implicate e le conduce ad identificare strategie difformi nella risoluzione dei
problemi (Armistead - Pettigrew - Aves, 2007). Il complesso intreccio di identità e culture
differenti, che si realizza nei processi di partnership tra istituzioni pubbliche, enti privati,
organismi di terzo e di quarto settore, anche secondo andamenti non lineari, è stato
indagato a livello empirico osservando le configurazioni reticolari agite per erogare servizi alla persona e alla famiglia (Rossi - Bramanti, 2012; Rossi - Boccacin, 2007, 2011).
Le ricerche sociologiche realizzate in questi contesti hanno messo in luce come alcuni interventi ad elevato contenuto di complessità si fondano sull’attivazione di processi relazionali di intervento, nei quali le varie fasi dei percorsi di aiuto trovano specifica
collocazione. I risultati emersi dalle indagini condotte consentono di identificare le partnership come «opportunità di valorizzazione, attraverso la fiducia e la cooperazione,
di una molteplicità di soggetti attivi socialmente» (Boccacin, 2007, p. 152). Esse, inoltre,
proprio alla luce della loro configurazione come processi relazionali di natura multipla
rendono possibile sia la contestualizzazione specifica delle diverse fasi dei percorsi di
aiuto nell’ambito di una prospettiva di intervento di tipo relazionale, sia un’azione di
modernizzazione delle politiche e delle pratiche.
In questa prospettiva, le partnership facilitano l’implementazione di interessanti
sperimentazioni di interventi e servizi, a livello meso e a livello micro, basate su configurazioni reticolari flessibili che possano offrire risposte differenziate a bisogni sociali
diversificati e in mutamento (Seitanidi - Crane, 2009). La capacità di cogliere la morfogenesi sociale (Archer, 2010) e di predisporre servizi a prestazioni ad essa adeguate rappresenta un tratto qualificante delle configurazioni in partnership. In esse il processo
di aiuto si qualifica come la realizzazione di qualcosa che ecceda la somma delle parti in quanto lo scambio è agito da soggettività diverse, ciascuna delle quale possiede
culture specifiche e modalità/metodologie d’azione peculiari (Scabini - Rossi, 2008). Il
tema dell’eccedenza, centrale nella riflessione sociologica e in particolare in quella che
focalizza le relazioni sociali (Donati, 1991), trova qui uno specifico riscontro operativo
(Frank - Smith, 2000) che amplia la gamma dei servizi esistenti e può consentire ulteriori
e innovative implementazioni.
La generatività è qui intesa come un esito possibile delle differenti azioni compiute
nell’ambito delle partnership: essa, mediante la diffusione di buone pratiche (Bramanti,
2010; Carrà, 2009), può innestare un processo “virtuoso” nella realizzazione, e talvolta
nella co-produzione, di servizi originali, innovativi e creativi (fig. 1).
CONCLUSIONI
La presenza di ambiti societari nei quali la dimensione soggettiva e quella intersoggettiva possano essere esperite, come fino a qui illustrato, si rivela strategica
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Tabella 1
Il processo di aiuto
fondato sulle partnership
nell’identificare itinerari peculiari in grado di intercettare i bisogni sociali e di offrire
ad essi risposte stabili ed adeguate.
Inoltre, dalle indagini condotte, emerge una consapevolezza, tra alcune delle organizzazioni che da più tempo agiscono entro configurazioni in partnership, che, per
attrezzare risposte complesse, adeguate ai bisogni complessi, occorra co-costruire
un pensiero comune, a volte un linguaggio comune. In altri termini, si evidenzia la
necessità di una cultura relazionale (Donati, 2006), nella quale le singole peculiarità
identitarie e organizzative possano trovare adeguata valorizzazione nell’ambito di un
progetto condiviso che possa generare un benessere comprensivo per le comunità
di riferimento. Il perseguimento di un tale benessere generalizzato rappresenta una
sorta di beneficio di ordine superiore, difficilmente raggiungibile prescindendo dalla
prospettiva di reciprocità propria delle partnership sociali.
Elementi qualificanti delle partnership sono le dimensioni della reciprocità e della
fiducia (Boccacin, 2014; Rossi - Boccacin, 2006). In particolare, la fiducia ritorna, in forma riflessiva, come codice agito nei confronti degli altri soggetti sociali, in termini di
credibilità societaria sulle partnership sociali realizzate e offre stabilità alle relazioni.
Tale stabilità diventa un elemento cruciale affinché, mediante le partnership, si realizzino progetti innovativi ed efficaci.
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