www.gliamicidellamusica.net Pubblicato il 25 Gennaio 2012 La Corte dei folli in un allestimento-capolavoro La parola ai giurati Servizio di Sergio Stancanelli VERONA - Uscito dalla galleria d’arte FaMa - sigla di significato incognito e inesplicato - in corso Cavour - già più appropriatamente corso di Castelvecchio -, percorro qualche centinaio di metri per accedere al Circolo ufficiali di presidio in Castelvecchio, nel cui salone è in corso - sono le 21.30, l’inizio era previsto per le 21 - lo spettacolo teatrale “La parola ai giurati” cui mi ha invitato il regista Andrea Castelletti, al quale sono grato anche se con l’allestimento di cui si tratta non capisco cos’abbia a che fare: il regista dello spettacolo, sul programma di sala - contenente anche il riassunto della vicenda e la biografia dell’autore, lo statunitense Reginald Rose, scomparso dieci anni or sono in età di 81 anni e sconosciuto a tutte le enciclopedie letterarie che ho consultato, risulta rispondere alle generalità Pinuccio Bellone, e la compagnia, per me nuova, è l’associazione teatrale “la Corte dei folli” di ubicazione non rivelata, nata giusto dieci anni fa - leggo - per iniziativa di un gruppo di dilettanti provenienti da varie esperienze artistiche, e iscritta alla Federazione italiana teatranti amatoriali. I giurati al lavoro nell'allestimento del regista Bellone (Foto SeSta, Verona) La trama è nota universalmente da quando, nel 1957, il dramma - “Twelve angry men” nell’originale, Dodici uomini irascib ili, scritto nel ’54 per la televisione dove era stato diretto da Franklin J. Schaffner - fu portato sullo schermo dallo sceneggiatore televisivo Sidney Lumet (che all’autore stesso ne affidò la sceneggiatura, e a Boris Kaufman la direzione delle riprese), del quale costituisce l’opera prima registica cinematografica e che sùbito ne rivelò l’eccellenza, tanto più apprezzabile in quanto l’azione - se di azione si può parlare, trattandosi di un’ora e trentacinque minuti di dialoghi, - si svolge interamente in un unico interno, interprete principale Henry Fonda anche produttore, per la Orion, insieme con il Rose, - e con Martin Balsam e Lee J. Cobb fra gli altri attori. Nel ’97 un altro regista americano, William Friedkin, lo rifarà scialbamente - per la televisione su una nuova sceneggiatura ancora dell’autore, ormai 76enne, che sostituirà alcuni giurati, in origine tutti maschi e bianchi, con donne - anche il giudice è donna - e con africani e sudamericani (negro è altresì il difensore dell’imputato) ed inserì qualche incursione nell’aula del tribunale, per una durata complessiva incredibilmente identica, un’ora e trentacinque minuti. In sede teatrale la pièce, come si ricorderà, venne rappresentata anche a Verona (dove il problema del tavolo venne risolto lasciando dalla parte del pubblico uno dei due lati minori, disabitato), mentre in campo cinematografico va rilevato che il film dell’esordiente Lumet vinse nel ’57 il festival di Berlin. La messa in scena cui ho - parzialmente - assistito, pone il tavolo attorno al quale siedono - e più spesso s’alzano in piedi - i dodici giurati, al centro del salone, con tutt’attorno gli spettatori - numerosi ma non quanto l’importanza del testo, la raffinatezza dell’allestimento e la bravura nell’interpretazioni avrebbero meritato - : la pianta centrale risolve come meglio non si potrebbe il plurisecolare problema dei commensali che volgono le spalle al pubblico - io tentai una soluzione di ripiego posizionando il tavolo di sghembo - e ad un tempo assolve all’esigenza d’una impostazione scenica attendibile. La scenografia, di Franco Porrera e Silvano Bruno, è costituita da un fondale che delimita una stanza adiacente, l’una e l’altro ricchi di tutti gli elementi che possono occorrere ai componenti di una giuria la quale deve rimanere riunita sino alla formulazione della sentenza che in base alla legislazione nordamericana deve essere espressa all’unanimità. Gli abiti son quelli di tutti i giorni, e di fatto anche nei titoli di testa del film di Sidney Lumet non viene citato un costumista, come non v’è traccia di scenografo. Le generalità degli attori (tredici con la guardia) non affiancate dai nomi dei personaggi, mi impediscono di individuare l’interprete del giurato numero 8, quello che con sottigliezza e sagacia fa ribaltare il parere di tutti gli altri: ma in fondo, tutti dovrebbero essere menzionati, per la bravura nell’esprimere con piena attendibilità ciascuno la propria personalità. Il merito c’è da credere sia anche - e in primo luogo - del regista Bellone, assistito da Rossella Ravera, pur se al di sopra di tutto e di tutti c’è, non si può negarlo, il testo-capolavoro di Reginald Rose - neppur menzionato fra gli autori letterarî sul dizionario dei film “il Morandini”, - in una traduzione lasciata nell’anonimato e che, almeno per la parte cui ho assistito, non cede alla scostante moda dell’inserirvi una qualche dose di turpiloquio. Unico neo: non va sottaciuto che alcuni dei giurati dimenticano di essere solo attori e di dover parlare per essere sentiti non tanto dai colleghi quanto dagli spettatori, e dunque con la chiarezza e con il volume di voce necessarî al fine che quanto dicono, anche se lo sussurrano, giunga intelligibile alle orecchie degli spettatori anche i più lontani: e qui è il regista che deve intervenire, solitamente dopo essersi portato appunto il più lontano per controllare l’udibilità e la percettibilità del sonoro. Per quanto io abbia potuto procrastinare, arriva un certo momento in cui su un giornale di musica bisogna parlare della musica. Quella del film di Sidney Lumet, orchestrale, fu composta e diretta da Kenyon Hopkins. Per la versione teatrale veronese attuale, ho chiesto aiuto al regista, il quale - con una cortesia di cui gli sono debitore, - mi risponde: «gentile signor Stancanelli, (omissis) per quanto riguarda gli inserti musicali che si ascoltano nel corso della recita, vi ha provveduto mio figlio Marco, pianista, con piccole composizioni ad hoc, mentre nel finale, per accompagnare la presentazione degli attori che ringraziano il pubblico, la mia scelta è caduta su l’”Halleluja” composto da Leonard Cohen e cantato da Jeff Buckley. La compagnia “la Corte dei folli” è di Fossano in quel di Cuneo, e l’interprete del giurato n° 8 si chiama Stefano Sandroni.» Quale fra gli attori fosse il giurato n°8 avrebbe potuto, con un poco più di perspicacia, constatare il cronista, poi che i giurati sul programma di sala son nominati nell’ordine. Meno facile indovinare che l’associazione teatrale non è indigena come credevo, bensì piemontese: d’una zona fra l’altro che conosco assai bene perché nei pressi - nella val Pesio, precisamente in San Bartolomeo, - trascorsi da giovane alcune estati, dapprima condottovi dai miei genitori, che prendevano in affitto un appartamento e che ospitarono anche una nostra giovane cugina nasuta e l’allora mia ragazza Maraki, la quale possedeva una Fiat 5oo con cui era venuta e con cui mi riportò a Genova - , in sèguito ospite della famiglia del mio amico fraterno Massimo Gastaldi da Torino, con il quale ne combinai più di Carlo in Francia - o forse in Spagna, non so bene - , come raccontai anni fa in una serie di articoli giornalistici. Al cortese regista dico che di Cohen compositori ne conosco più d’uno David, Denis, Fritz, Henri, Jules, Karl, senza contare Albert, musicologo, e Mosco, direttore d’orchestra, e Harriet, pianista (per la quale vari compositori , fra cui Ralph Vaughan-Williams, scrissero musiche pianistiche, e Arnold Bax anche un “Concertino” con orchestra, e al cui nome sono titolati gli “H. C. international music Awards” fondati dal Bax), i quali qualche nota forse l’avran scritta anche loro: ma nulla saprei di un Leonard - incognito pur nel più recente aggiornamento del “Dizionario Utet dei musicisti” - se non me ne informassero Tristan Ashman da tre pagine del settimanale “Panorama” del 15 maggio 1988 e Mario Gamba da una mezza pagina sul “Radiocorriere tv” della settimana 3/9 luglio stesso anno, da cui apprendo che il cantautore canadese portava la barba di tre giorni come Mickey Rourke (non immagino come se la cavasse il quarto giorno), che erano allora trascorsi già quindici anni da che “Suzanne” e “Canzoni da una stanza” avevano malinconicamente sedotto tanti estimatori, che alcune sue canzoni (giudicate belle dai Morandini) erano state usate da Robert Altman per il film “McCabe and mrs. Miller” del ’71, mentre altre quattro erano state tradotte e adottate da Fabrizio De André. E che sua è la famosa “My way” (non di Frank Sinatra che si limitò a cantarla né tanto meno di un Frank Sinastra come sta scritto nell’articolo dell’Ashman). Ma quel che più colpisce il lettore è l’intelligenza e lo spirito che il ragazzo, allora 53enne e alla vigilia d’una sua esibizione in Milano, dimostra nelle risposte che dà agli intervistatori. «Nessuno di noi ragazzi sa cantare. Chi ama la musica e vuol sentir cantare, va all’opera, nel Metropolitan o alla Scala». Rinnovando i complimenti a tutti gli artefici dello spettacolo, invito il regista Bellone a farmi avere, oltre ad una biografia essenziale del figliolo Marco, qualche registrazione di musiche sue, che sono interessato ad ascoltare e delle quali sarò lieto di parlare su questa testata.