Per chi volesse leggere il «Paradiso» di Dante DALLA TENEBRA

Per chi volesse leggere il «Paradiso» di Dante
DALLA TENEBRA PIÙ FETIDA AL RISO LUMINOSO DI UNA DONNA
di Inos Biffi
Dante ha concepito le tre cantiche della Commedia non come esposizioni teologiche dottrinali
nella forma dell'espressione intellettiva: la
Commedia è il frutto di un estro estetico e creativo che il poeta vede attivarsi diversamente a seconda
delle
cantiche.
Nell'Inferno, la materia è resa in un'estetica, dove
convergono e si fondono le diverse componenti
della verità dello stato infernale. Potremmo parlare della forma estetica dell'infernalità: l'atmosfera tenebrosa, la bruttezza, il cocente, invincibile dolore, l'irrespirabilità, la deformità, la
scompostezza, la volgarità, le grida, la nausea,
l'assenza di ogni speranza. È la materia che crea
l'immagine conforme, che la dispiega.
Come Dante stesso scrive nell'Epistola a Cangrande, la Commedia "all'inizio è orrida e
fetida, dato che si tratta dell'Inferno, ma alla fine è prospera e desiderabile e gradita, dato che si tratta del Paradiso".
Se poi guardiamo lo stato d'animo dell'autore, dalla cui arte e dal cui sentimento
l'immagine è creata, anch'esso riflette la materia, con l'intensa partecipazione di chi
non si limita alla descrizione e all'astratta definizione, ma la assume e la fa propria.
Del resto, tutta la Commedia riflette il cammino drammatico di Dante, che, componendola, vive interiormente ed esteriormente le tappe fissate nelle tre cantiche e ne
fa proprie le vicissitudini immaginate.
Dante non è uno spettatore.
Se chi percorre la Summa theologiae di Tommaso non riesce, almeno immediatamente o direttamente, a scorgere l'emozione del suo autore, che primariamente, se non
in maniera esclusiva, attende allo svolgimento obiettivo e logico del suo pensiero o
della "scienza" o dottrina sacra, nel caso della Commedia incontra Dante insieme e
indissolubilmente autore e "attore".
Dalla forza e dalla ricchezza inesauribile della realtà sorgono e si trovano plasmati i
concetti e le definizioni; dalla pressione della stessa forza e ricchezza nasce la fantasia e sono generate le immagini e il nuovo linguaggio della poesia, e tanto più sor1
prendentemente e creativamente, quanto maggiore è la genialità dell'inventore poetico.
La Commedia è stata generata dalla realtà del mistero cristiano, dall'ardente e piena
fede in esso e dall'imprevedibile e inimmaginabile grazia della poesia, di cui era dotato Dante.
Così, egli trascrive realmente in sé tutto il senso dell'Inferno, che diviene un momento cruciale nello svolgimento della sua vita.
L'Inferno è la sua esperienza della tragedia e del castigo della colpa. Dante è però
ancora vivo ed è nella grazia del pentimento e della redenzione. Il poeta entra
nell'Inferno per un coinvolgente transito purificatorio che, passando per il Purgatorio, avrà come mèta il Paradiso.
Egli non progredirà solo letterariamente, di cantica in cantica, ma realmente o interiormente: il Dante dell'Inferno non sarà lo stesso Dante del Paradiso: la materia e
l'interprete si ricreano e procedono insieme, verità e soggettività sono connesse.
In apparenza, il viaggio dantesco si è compiuto come avventura letteraria, di alta,
raffinata e incomparabile poesia; ma la poesia ha cantato una ben più alta avventura, che si è attuata e si è approfondita nella vita dell'autore, associata mirabilmente
al genio poetico, che l'ha resa visibile con la potenza del sentimento e della fantasia,
mediativi, così, di un evento che ha toccato e trascinato l'esistenza.
Appunto, la Commedia nasce da una memoria letteraria, che più veramente coincide
con una memoria "mistica", perché personalmente provata dal poeta: l'opera è scaturita da una "connaturalità" col suo soggetto.
E, in fondo, proprio da questa fusione di letteratura e di esperienza, deriva il fatto
che il tragitto della Commedia, così intimamente personale, diviene un'interpretazione universale e che, per riferirci al vertice dell'opera, l'ultimo canto del Paradiso,
plausibilmente la visione trinitaria potrà essere intesa come un "vissuto".
Ma riprendendo il discorso vediamo la materia del Purgatorio. Questa riproduce un
altro mondo, profondamente differente da quella dell'Inferno dal profilo sia esteriore sia interiore o spirituale di Dante.
Il poeta ha lasciato e superato il regno "orribile e fetido", qual è quello dei dannati,
con i sentimenti che vi si confanno.
Ora il panorama si dispiega nella speranza, attraverso il senso di sospensione, l'attesa, l'attrattiva, la bellezza aurorale che, pacata e traslucida, si diffonde e si versa
sul mondo circostante e all'interno, nell'anima di Dante.
La grazia sta già rarefacendo l'oscurità infernale, nel preludio del Paradiso. Il Paradiso è tutto plasmato di luce.
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Nella terza Cantica interamente fatta di splendore e intessuta di gloria Dante ha reso interamente bello il mistero cristiano nel suo vertice e nella sua riuscita. Ha reso
splendido tutto il dogma.
La materia della Commedia è il mondo mitico. Cielo e terra hanno posto mano alla
creazione della Commedia: vi convergono il mondo terreno e quello celeste, quello
storico e anche quello mitico, quello reale e quello fantastico; una universitas, da
considerare nei suoi singoli elementi compositivi, ma soprattutto nell'insieme o
nell'omogenea unità dell'opera.
Nel Paradiso tutto finisce o si consuma e vi trova senso. Inferno e Purgatorio vi si ritrovano, poiché tutto è per il Paradiso: lo è del soggetto dell'opera in inscindibile
connessione con la vicissitudine di Dante che li ha concepiti.
Si potrebbe dire più esattamente: il viaggio del poema e del poeta - che è il cammino della grazia - comincia da una iniziativa del Paradiso, e nello stesso Paradiso vi
trova compimento.
Dal principio Dante imprime alla sua opera e al suo cammino un moto ascensionale; le tre cantiche sono collocate in un tempo e in uno spazio la cui lettura è data risalendo dal basso dell'Inferno verso l'alto (Paradiso), attraverso il luogo e il tempo
medio del Purgatorio.
Per Dante il luogo della teologia è il Paradiso, che egli non definisce ma esercita. La
teologia è scienza che porta all'anima, che contempla
il
vero,
la
quietudine,
la
pace.
È - afferma Tommaso d'Aquino - scientia divina e nella sua condizione perfetta scientia beatorum (Summa
theologiae, i, 1, 2 c.). E, infatti, il poeta colloca i teologi
nel Paradiso, come i contemplatori di Dio.
Per il medesimo Dottore Angelico, il termine della
nostra teologia, quella elaborata ora dalla fede, e tutta sospesa o "subalternata" a quella scienza di Dio e
dei beati, aspira alla visione e matura come gioiosa
contemplazione.
La teologia è scienza di partecipazione - quaedam impressio divinae scientiae (i, 1, 3, 2m) - scienza intimamente, e non per esteriore aggiunta, contemplativa o
"mistica", che nel suo intimo ha l'intenzione oggettiva di salire e di consumarsi nella visione.
Gli occhi stessi di Beatrice, rappresentazione della teologia, brillanti più di una stella: "Lucevan gli occhi suoi più che la stella" (Inferno, ii, 55), con la loro luce sono
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il segno della luce della teologia, che appare così come Beatrice "beata e bella" (Inferno, ii, 53).
Già abbiamo accennato agli occhi della teologia.
Quanto al "riso" di Beatrice, secondo i mirabili versi: "dentro a li occhi suoi ardeva
un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo / de la mia grazia e del mio paradiso" (Paradiso, xv, 34-36), attesta l'interiore pacificazione, infusa dalla visione di
Dio, anche se il mirare degli occhi di Dante si scontrerà con l'inarrivabile ineffabilità
di Dio, che la "fantasia" è inadeguata a descrivere.
Al Paradiso si ascende, con l'aiuto di tre modelli di guida: Virgilio, Beatrice, Bernardo.
Virgilio è guida nel cammino fino alla soglia del Paradiso; Beatrice, simbolo già della
teologia, conduce al Paradiso, ma è con Bernardo, che porta là dove la scienza divina
raggiunge il culmine della sua raffigurazione, che Dante consuma la sua esperienza
di Dio ed entra nel momento mistico-contemplativo.
Virgilio rappresenta la funzione della ratio nei confronti della fides. O, quale immagine della ragione, viene in certo modo "interpellato" dalla fede e dalla grazia, e posto a servizio del loro risolversi in gloria.
Tommaso parla del "desiderio naturale di vedere Dio" - naturale desiderium videndi
Deo (Summa contra gentiles, iii, 50): una ineliminabile e incoercibile sete di Dio che
risiede nel cuore dell'uomo; una intima necessità dell'uomo, inscritta nella sua natura più profonda, che si compie per la grazia di Dio (Summa theologiae, i, 12, 4,
c).
È una "sensazione" incessante e non mai pienamente appagata, se non nella visione
di Dio: è un "accoramento", per usare un termine che Dante impiega sempre "in situazioni di forte intensità emotiva" (Annamaria Chiavacci Leonardi).
Il verso: "Che del disïo di sé veder n'accora" (Purgatorio, v, 57) espressamente ricorre sulle labbra di quanti, uccisi con la forza e pentiti all'ultimo momento, e pacificati, si trovano nel Purgatorio; esso vale per ogni spirito che "si purga / e di salire al
ciel diventa degno" (i, 5-6); anzi, per tutti i credenti, i quali, secondo la persuasione
di san Tommaso, profondamente, per la loro fede, aspirano alla visione: "La conoscenza della fede - egli scrive - non acquieta il desiderio; anzi, lo accende ancora di
più, perché tutti desiderano vedere ciò che credono" (Summa contra gentiles, iii, 40,
4).
E vale in particolare per Dante il cui pellegrinaggio è interamente attratto dal Paradiso e dalla visione di Dio che lo porta a termine.
Sono questa sete o questo desiderio di Dio a generare la Commedia e a sorreggere il
viaggio che la sostiene e ne è la trama. Esso è la spinta che mette in moto Dante a
compiere il cammino.
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La Commedia è vicenda di un desiderio di vedere Dio, che acquieta ed è fonte della
beatitudine. È detto a Dante: "O anima che vai per esser lieta" (Purgatorio, v, 46).
Solo chi è in sintonia con un oggetto lo può veramente comprendere.
Così è del Paradiso: "La concreata e perpetua sete / del deiforme regno cen portava
/ veloci quasi come 'l ciel vedete" (Paradiso, 2, 19-21).
Il Paradiso oltrepassa le possibilità della natura umana e le facoltà terrene.
Vi si giunge per grazia divina, così come solo per la "virtù divina" (1, 21), ispirata
nell'anima, se ne può parlare.
Dante, usando il linguaggio e il ricordo mitico, implora essa che gli sia infusa e ne
venga radicalmente trasformato, tirato fuori della sua pelle, per giungere così al
vertice, all'alloro, della sua arte e quindi del suo itinerario, che avverrà come canto
supremo e sublime e insieme come "gusto", sia pure incipiente, della Trinità.
Le muse, che Dante aveva invocato, non sono più sufficienti per aiutarlo nel suo
compito, che ora più che mai si dimostra arduo, visto che si tratta di andare in Paradiso: "O buon Apollo, a l'ultimo lavoro / fammi del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l'amato alloro. / (...) Entra nel petto mio, e spira tue" (i, 13-15. 19).
D'altronde, destinatari della sua opera sono coloro, pochi, che hanno drizzato "il
collo / per tempo al pane de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo" (1, 10-12 ). Ossia della Sapienza, della quale non si è mai sazi.
Allora la teologia si fa contemplazione (contemplatio), nella quale la fede matura e il
desiderio di Dio è soddisfatto. Con la visione beatifica questo ardente desiderio
viene placato.
(©L'Osservatore Romano - 26 luglio 2008)
F:\Rivista (settembre 2008)\08 -Art.doc
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