Una crisi non solo economica: per una nuova prospettiva etica e

annuncio pubblicitario
Una crisi non solo economica: per una nuova prospettiva etica e politica, di Paolo Corvo
Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo [email protected]
1. La prospettiva etica
La crisi non ha riguardato soltanto aspetti economici e finanziari, ma è stata provocata anche dal venir meno
delle fondamentali regole deontologiche e dalla perdita di una visione etica della vita sociale. Già nei primi
anni ’70 alcuni studiosi erano consapevoli di una crisi etica che iniziava a manifestarsi. Illich sosteneva che il
grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta occasionale e personale si era
trasformato in un processo spietato di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore
(Illich,1973). Ma le problematiche legate all’ambiente, all’ecologia, al benessere non solo materiale erano
ancora patrimonio di pochi, l’idea di uno sviluppo progressivo era molto diffusa, per cui si trascurarono i
segnali di difficoltà del sistema.
Ora la corruzione diffusa a tutti i livelli rappresenta l’elemento più evidente di una situazione quasi
drammatica della società, che richiede il recupero di valori fondamentali come la legalità, il rispetto, la
trasparenza delle istituzioni. Si deve prendere coscienza del fatto che l’umanità sta attraversando un momento
delicato, che però, oltre ai rischi e ai pericoli, concede anche qualche opportunità. Contro il potere della
quantità e del calcolo, occorre promuovere una politica di qualità della vita, del viver bene (Hessel-Morin
2011). Occorre sconfiggere l’egemonia del profitto e dare nuovo impulso alla solidarietà, recuperando la
moralità degli amministratori e dei dipendenti statali, e di tutte le professioni che comportano una missione
sociale (medici, insegnanti, magistrati, politici, eccetera).
Per Judt è fondamentale rifondare il dibattito pubblico per ridefinire alla luce della crisi le forme
istituzionali, la concezione della ricchezza, l’applicazione della democrazia economica, l’intervento dello stato
nelle politiche sociali e di welfare, il ruolo delle tecnologie e della scienza nella società (Judt, 2010). Lo
studioso americano sottolinea la necessità di una nuova narrazione morale, una descrizione dotata di coerenza
interna che attribuisca alle nostre azioni uno scopo che le trascenda. La riduzione della disuguaglianza deve
essere il primo obiettivo da inseguire e da raggiungere, anche perché consente di rendere più facilmente
perseguibili le altre mete. Certamente la disuguaglianza non è solo un problema tecnico, ma aggrava la perdita
di coesione sociale, creando un’élite privilegiata che cerca di difendere in ogni modo la propria posizione. Per
Judt senza uguaglianza non c’è fratellanza, condizione necessaria della politica: la disuguaglianza non è solo
‘fastidiosa moralmente, è inefficiente’.
In questa visione etica della crisi è di particolare interesse il recupero del concetto e della pratica della
collaborazione che fa Sennett: la collaborazione è una qualità innata nell’uomo, che deve svilupparsi con
l’esercizio e la sperimentazione e che utilizza determinati rituali. La collaborazione è capacità di ascolto, di
confronto, di dialogo, utile a realizzare opere che il singolo non è in grado di conseguire; è necessaria per
lavorare con persone che non ci somigliano e non conosciamo, per cui diventa un’abilità fondamentale in un
mondo multiculturale, dove viviamo con gente differente da noi. Sennett osserva però che la collaborazione è
poco considerata nella nostra società, che preferisce il modello della competizione individualistica o quello
della chiusura tribale e localistica. Ritiene che per ristabilire la collaborazione occorra partire dalla pratica,
dall’abilità di fare e riparare le cose, dalle motivazioni che spingono le persone a cooperare con i propri simili
in modo positivo e piacevole. I semplificatori della modernità possono forse inibire la nostra capacità di vivere
e lavorare insieme, ma non possono cancellarla. In quanto animali sociali, siamo in grado di collaborare molto
più di quanto non immagini l’ordine sociale esistente (Sennett, 2011).
Anche Morin cerca nella sua analisi una via d’uscita per uscire dalla crisi non solo economica ma anche
sociale, politica, etica che stiamo attraversando e la individua nella politica di civiltà, che solidarizzi il pianeta
nella prospettiva di un nuovo umanesimo. La politica dell’umanità implica il rispetto dell’autonomia delle
società, che contempla negli scambi e nelle relazioni globali, facendosi carico dei problemi che lo sviluppo
dovrebbe normalmente risolvere, come la fame, l’acqua, la salute. Dovrebbe fornire gratuitamente ai Paesi del
Sud del mondo tutti i dispositivi che producono energia pulita. (Morin, 2011). Questo accento sulla solidarietà
e la qualità della vita viene applicato da Morin a tutti gli ambiti della vita sociale, l’economia e l’ecologia, la
burocrazia e le politiche sociali, la giustizia e la medicina, l’istruzione e la comunicazione, la dimensione
urbana e le campagne, il consumo e il lavoro. Trattando delle tendenze consumistiche, lo studioso francese
mette in guardia dai rischi delle ‘intossicazioni della civiltà’, che portano ad un degrado delle condizioni di
vita e dell’ambiente, cogliendo nella ricerca della qualità dei prodotti e nella sobrietà dei comportamenti le
opzioni virtuose per superare queste tentazioni.
Sul piano personale Morin sottolinea l’importanza di vivere con serenità e intensità anziché essere preda di
depressione e eccitazione, trovando un giusto equilibrio tra autonomia e comunità e praticando la convivialità
e la comprensione. Va recuperata la dimensione etica del vivere, che passa attraverso tre direzioni: l’etica
individuale, l’etica civica e l’etica del genere umano. Tutte queste indicazioni e riforme per Morin sono
strettamente legate tra loro e possono concorrere a superare la crisi globale e olistica che stiamo vivendo: si
tratta di riforme non sono solo istituzionali, economiche, sociali, ma anche mentali; necessitano della capacità
di concepire e abbracciare i problemi globali e fondamentali, un’attitudine che richiede la riforma della mente
(Morin, 2011).
Proviamo anche noi a delineare una prospettiva per il futuro, ovviamente restando nell’ambito delle
interpretazioni proprie delle scienze sociali e della sociologia dei consumi, l’ambito prevalente delle nostre
ricerche. Crediamo che per uscire dalla crisi occorra un’azione a due livelli: sul piano istituzionale sono
necessarie politiche pubbliche che investano sull’economia verde, sulle fonti di energia alternative, su un
commercio di prossimità, sull’agricoltura sostenibile, sulla rete, con iniziative coraggiose che favoriscano
nuove possibilità di occupazione. A livello dei consumatori vanno diffuse le buone pratiche quotidiane di
attenzione alla qualità dei prodotti acquistati, alla valorizzazione delle risorse del territorio, alle produzioni
locali, diventando protagonisti della scelta di consumo e vivendo un nuovo rapporto con i produttori.
Sembra giunto il momento di un cambiamento profondo a livello di stili di vita e di consumo, secondo una
sorta di neo-ascetismo a livello di acquisti, di rispetto della natura, delle culture e delle risorse (Osti, 2006). La
riconciliazione con l’ambiente e il paesaggio, superando l’artificialità del nostro modello di vita, può creare un
rapporto armonioso e vitale che facilita anche le relazioni tra gli individui e i gruppi sociali.
Va detto che non si tratta solo di auspici o di speranze di sapore utopico, ma di possibilità concrete che
partono da piccoli gesti quotidiani, come il risparmio di energia, per giungere a scelte consapevoli di stili di
vita e modelli economici alternativi quali il commercio equo, la banca etica, i Gruppi di acquisto solidali. In
alcune circostanze questi comportamenti di consumo si trasformano in azioni collettive, che pur essendo di
carattere simbolico non sono prive di una loro efficacia, visto che basta una lieve flessione delle vendite per
indurre grandi multinazionali a modificare le proprie strategie.
E’ possibile dunque intraprendere vie diverse da quelle diffuse nel rapporto con l’ambiente naturale,
l’economia e il consumo, nella consapevolezza che la sostenibilità non comporta sacrifici economici, ma
consente significativi risparmi di spesa ed una migliore qualità della vita. Resta il problema della mancanza di
attenzione e di prospettive per il futuro, che rende difficile opzioni di sviluppo sostenibile, ma è proprio con
comportamenti non legati ad un interesse materiale immediato che si possono nutrire speranze per un futuro
diverso a livello personale e sociale. Occorre probabilmente il coraggio dell’inizio, dell’intrapresa di una nuova
modalità di crescita, nel rispetto di esseri umani, modelli culturali e risorse naturali.
Ciò non comporta la rinuncia alle conquiste tecnologiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, e che
anzi possono essere preziose, se utilizzate in modo intelligente e razionale, per es. ai fini di una riduzione
dell’aspetto materiale della produzione e del consumo. In effetti l’avvento di Internet ha fornito un contribuito
fondamentale allo sviluppo della società della conoscenza e dell’immateriale, con conseguenze rilevanti
nell’organizzazione delle imprese e del lavoro, nell’articolazione dei trasporti e delle comunicazioni, nella
trasmissione di sistemi di pensiero, valori, stili di vita.
2. Le dinamiche socio-politiche
La crisi ha investito anche le dinamiche socio-politiche, con il crescere della disoccupazione e la difficoltà
delle istituzioni nell’assumere decisioni incisive ed efficaci nei vari ambiti della vita pubblica, senza
pregiudicare le procedure proprie di un sistema democratico e la coesione sociale. Una via d’uscita non sembra
semplice né immediata, poiché richiede modifiche negli assetti istituzionali e nei modelli culturali di
riferimento.
In questa prospettiva un aspetto essenziale per la tenuta delle democrazie è l’importanza dell’istruzione e
della formazione, non solo tecnica, ma anche umanistica, per favorire nei giovani l’abitudine al ragionamento
e allo spirito critico (Nussbaum, 2010). Solo con la pratica della riflessività il cittadino può esercitare
completamente i suoi diritti civili e politici, senza farsi influenzare da meccanismi di potere, da politici
demagoghi e populisti, dalla forza pervasiva della pubblicità e della comunicazione. L’esercizio del pensiero
comporta maggiore autostima negli individui e, conseguentemente, il rispetto degli altri, anche di diversa etnia,
religione, cultura, orientamento: si diventa in sostanza cittadini del mondo. La Nussbaum si rifà alla pedagogia
socratica come modello di riferimento formativo, senza trascurare il pensiero educativo moderno e
contemporaneo. Rivaluta anche l’immaginazione espressa nella letteratura e nelle arti, spesso oggi ritenuta
superflua in un mondo dominato dalla tecnologia. Le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di
immaginazione ma sono anche esposte a rischi come il provincialismo, la fretta, l’inerzia e l’egoismo.
Un’istruzione rivolta solo a soddisfare le esigenze del mercato globale esalta queste mancanze, producendo
tecnici obbedienti e ammaestrati, che minacciano la vita stessa della democrazia. (Nussbaum, 2010).
Rifacendosi al concetto di capacità elaborato da Sen (Sen, 2009), intese cioè come libertà sostanziali che
consentono ad un individuo di scegliere e agire, la Nussbaum ne individua dieci come essenziali e assicurate
da un buon ordinamento politico: durata della vita, salute fisica, integrità fisica, immaginazione e pensiero,
sentimenti, riflessione, appartenenza, rapporto con la natura, gioco, controllo del proprio ambiente politico e
materiale (Nussbaum, 2011). Le disuguaglianze nascono dalla mancata possibilità di poter esercitare queste
capacità, per fattori personali, sociali, economici, politici (età, genere, etnia, disabilità, scarsa istruzione,
malattia).
Anche Augé insiste sull’importanza dell’istruzione, l’unico fattore in grado di evitare che l’umanità si
divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa sempre meno informata del valore della
conoscenza: “questa disparità riprodurrà su scala più grande la disuguaglianza delle condizioni economiche.
L’istruzione è la prima priorità” (Augé, 2008: 99). In questa prospettiva le politiche pubbliche devono saper
governare in vista del sapere, assegnando alla cultura il ruolo di fine individuale e collettivo.
L’antropologo francese mette anche in guardia dal rischio della ‘cosmotecnologia’, cioè delle ricadute
tecnologiche della scienza che creano immagini e messaggi senza offrirci necessariamente i mezzi per
comprenderli e il senso con cui utilizzarli.
Ci sembra importante ricordare anche il pensiero di Touraine, per il quale dopo la società industriale e
quella post-industriale, si forma una situazione post-sociale, caratterizzata dalla separazione tra il sistema e gli
attori sociali, con un contrasto che nasce tra un sistema economico finalizzato al massimo profitto e gli
individui che si appellano ai diritti umani e al rispetto della dignità umana (Touraine, 2010). Il sociologo
francese parla anche di umanismo, come orizzonte centrale nell’esperienza della modernità, che deve condurre
a dare sempre più giudizi morali, e anche spirituali, riguardo alla crisi e alle condotte del sistema e dei soggetti.
Secondo Touraine questa tendenza si sta diffondendo ovunque ed è motivo di fiducia rispetto al futuro,
auspicando che l’economia debba tener conto delle reazioni e degli interessi della popolazione: “occorre
trasformare l’idea generale di rispetto dei diritti umani in nuove forme, vive e non solamente giuridiche, dei
rapporti sociali. Bisogna anche rilanciare i movimenti femminili e la difesa di uno sviluppo sostenibile… la
risposta più efficace a una crisi è la ricostruzione dei rapporti tra gli attori economici, la formulazione di valori
comuni e di nuovi interventi pubblici” (Touraine, 2010: 183).
Anche in questa circostanza ci piace concludere riferendoci ad un progetto concreto che sta realizzando
alcuni dei principi e delle teorie appena evidenziate sul ruolo dei cittadini nella difesa e nello sviluppo delle
pratiche democratiche e partecipative. Ci riferiamo al cohousing, ideato da un architetto danese sul finire degli
anni 60, che significa co-abitare o abitare insieme, con insediamenti residenziali composti da abitazioni private
fornite di spazi destinati all’uso collettivo. La coabitazione consente di coniugare l’autonomia
dell’appartamento privato e i vantaggi di spazi, risorse e servizi condivisi. Vi possono essere sale
polifunzionali, cucine comuni, lavanderie, biblioteche, ludoteche, laboratori, magazzini, locali tecnici; si
possono aggiungere spazi scoperti come giardini, orti, cortili, parcheggi, terrazzi e solarium.
Il cohousing permette di sviluppare la socialità tra i condomini e diventa una risorsa per le attività dei
singoli nuclei familiari e del gruppo nel suo complesso: basti pensare alla possibilità di servizi comuni come i
gruppi di acquisto solidale, il babysitteraggio, il car sharing. I progetti sono in genere orientati alla sostenibilità
ambientale, al risparmio energetico e alla bioedilizia, ottenendo significativi risparmi economici e benefici
ecologici. Si creano così nuove tipologie abitative, che rispondono a bisogni di condivisione, di mutuo
scambio, di forme innovative di vicinato, di tutela e sviluppo dei beni comuni. La coabitazione può prendere
forme diverse, che si modellano sulle esigenze e sull’identità del gruppo che la realizza; è sempre un processo
in divenire che ha bisogno di sperimentazione e passione per svilupparsi in modo ottimale.
Possiamo notare come il cohousing rappresenti la parte finale di un processo iniziato negli anni 50 da
Adriano Olivetti con la costruzione di Centri Comunitari nel Canavese, vicino all’azienda di Ivrea che dirigeva.
La rete delle comunità, che corrispondono ad altrettante unità territoriali fornite di una particolare impronta
culturale e di una forte autonomia, rappresentavano per Olivetti il mezzo concreto per rifondare lo Stato dal
basso, professando il comunitarismo come fenomeno sociale e politico (Olivetti, 2013).
Referenze bibliografiche
Augé, M. (2008) Où est passé l’avenir? (Paris: Editions du Panama).
Illich, I. (1973) La Convivialité (Paris: Seuil).
Judt, T. (2010) Ill Fares the Land (New York: The Penguin Press).
Hessel, S., Morin, E. (2011) Le Chemin de l’espérance (Paris: Librairie Arthème Fayard).
Morin, E. (2011) La voie, (Paris: Librairie Arthème Fayard).
Nussbaum, M.C. (2010) Not for Profit. Why Democracy Needs the Humanities (Princeton: Princeton
University Press).
Nussbaum, M.C. (2011) Creating Capabilities. The Human Development Approach (Cambridge, Mass:
Harvard University Press).
Olivetti, A. (2013) Il cammino della Comunità (Roma: Edizioni di Comunità).
Osti, G. (2006) I nuovi asceti (Bologna: il Mulino).
Sen, A. (2009) The Idea of Justice (London: Penguin Books Ltd).
Sennett, R. (2012) Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation (Yale: Yale University
Press).
Touraine, A. (2010) Après la crise (Paris: Editions de Seuil)
Scarica