I Promessi Sposi - Persinsala Teatro

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Persinsala Teatro
Daniele Rizzo
maggio 24, 2014
Al Lenz Rifrazioni di Parma vanno in scena I Promessi Sposi,
la sublimazione estetica del dolore degli ultimi raccontato
attraverso le fantastiche visioni di Maria Federica Maestri e
Francesco Pititto.
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Quella di Manzoni è un’opera che chiunque può dire di conoscere, almeno
in linea di massima. Perché rispetto alle precise vicende narrate nel
celebre testo che pose le basi per la moderna lingua italiana, questa
popolarità è accompagnata da una proporzionale ignoranza dei rimandi
interni e delle straordinarie interazioni tra personaggi e ambiente che
caratterizzano descrizioni sceniche e psicologiche sui cui dettagli gli
esperti potrebbero (pedantemente) disquisire senza fine.
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Andando al di là della semplicistica interpretazione che legge I Promessi
Sposi in termini di testimonianza del realizzarsi della volontà divina,
siamo di fronte a un testo poderoso, ormai istituzionalizzato a
imprescindibile lettura scolastica e che ha determinato un preciso modello
storico e ideale, pedagogico e culturale. Finalizzato a garantire la sacralità
dell’autorità, qualunque essa sia, attraverso la separazione di virtù
personale e sociale, esso rappresenta l’esito di una operazione culturale
trionfante perché in grado di avere conseguenze praticamente permanenti
dal punto di vista materiale (il manzoniano utile per scopo). Conseguenze
paradossali essendo contemporaneamente rivoluzionarie (per il
ribaltamento della storia e il protagonismo degli umili) e reazionarie per la
natura confessionale delle intenzioni originarie. Intenzioni che possiamo
individuare in quel concetto di Provvidenza che sempre giustifica le
sofferenze attuali affidando la felicità al futuro (quindi al continuamente
domani) e che, nell’epoca della piena secolarizzazione, possiamo trovare
materializzate in quella ineluttabile rassegnazione cui l’individuo postmoderno/industriale ha destinato i più deboli, isolandoli di fatto nella
propria fragile soggettività, dal momento in cui ha scelto il merito (finto
perché spesso ereditario rispetto all’estrazione sociale e culturale) sulla
ricerca della (reale) uguaglianza.
Questa duplicità, affermazione allo stesso tempo di provvida sventura che
sublima le sofferenze elevandole a status e di riscossa da parte di chi si
trova realmente in fondo e immobile alla scala sociale, esiste con
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portentoso realismo in questo nuovo allestimento firmato da Lenz
Rifrazioni, messo in scena da «ex lungodegenti psichici e persone con
disabilità intellettiva».
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Posto alla simultaneità di elementi musicali, video e recitativi, e alla
possibilità di orientare volontariamente la propria attenzione, il pubblico si
trova di fronte a un audace tentativo di armonia. Quello che – in effetti – si
realizza tra una scenografia coperta da veli sovrapposti che lasciano
(intra)vedere diversamente e a differenti livelli di profondità, e la libera
interpretazione di un testo originario (su cui comunque gli interpreti
convergono) è un compiuto equilibrio. Un bilanciamento estetico che
attraversa ventiquattro quadri performativi nei quali la sostanza
drammaturgica acquista una struttura formale capace di lasciar emergere
dirompente la reale presenza esistenziale di ogni singolo attore.
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A dispetto della coerenza narrativa – sempre riconoscibile e riconducibile a
precisi riferimenti testuali – si impone vigoroso il modo in cui la personalità
drammatica di ogni interprete riesce a mantenersi intatta, lasciando venir
fuori una emotività tinta di «incredibile credibilità contemporanea».
Tra esposizione (testuale) e realizzazione (scenica), tra registrazione
(vocale e video) e interpretazione (fisica) si costruisce un contrappunto
ritmato e cadenzato particolarmente sorprendente vista la fragilità
psicologica degli attori in scena e la confusione attorno determinata da
spettatori indipendenti nella scelta del posizionarsi rispetto a essi e gli uni
dagli altri.
Spettatori che, padroni della propria autonomia, per contrarietà si
scoprono nella condizione esistenziale di dover assistere alla vita,
accettandola senza possibilità di scelta, partecipanti impotenti e in
perenne disagio di fronte al destino che li ha scelti (sani o meno senza
averne meriti o colpe). Spettatori che, invitati a prendere posizione fisica
rispetto al punto di vista da cui guardare lo svolgersi della
rappresentazione, vengono in questo modo portati a provare l’esperienza
di una prospettiva interpretativa personale di assoluta solitudine nella
moltitudine, non riuscendo a spogliarsi della propria soggettività e a
entrare in modo positivo nell’intersoggettività (la relazione con gli altri).
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L’abisso è insuperabile perché non dipende dalla quantità di forza di cui
l’individuo può disporre, ovvero dal livello di conoscenza, competenza e
capacità rispetto a standard (paradigma da cui la pratica pedagogica e
didattica contemporanea s-tentano ad affrancarsi). Finché egli rimane tale
(individuo) resta incapace di eliminare l’incongruenza, l’errore in cui un
mondo disincantato confina l’immaginazione e i sentimenti quando privi di
controllo, razionalità e usabilità nel senso strumentale del termine.
Perché è in questo modo che l’organizzazione sociale e politica ha
provveduto a etichettare come distruttive le pretese della singolarità,
volgendo la realizzazione della persona al mondo oggettivo (esterno) e
stornandone l’alterità in una contemplazione falsa perché sterile e la
libertà in un concetto negativo perché non in-formativo.
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In questo modo – e in questo senso i Promessi Sposi di Lenz sono
esemplari – chiunque può guardare un diverso sentendosi a proprio agio,
avendo di fronte a sé qualcuno in una condizione ben peggiore della
propria e marginalizzandosi in una concezione di vita incapace di
glorificarsi veramente attraverso l’accoglimento di tutto ciò che
sembrerebbe contrario a essa (bassezza e povertà, derisione e disprezzo,
sofferenza e morte, malattia e follia).
L’ambientazione all’interno di una fabbrica risulta illuminante. In essa,
trova accoglienza l’idea di una società che si concepisce in termini di
produzione e consumo, che pensa di aver superato la concezione di
cittadino (già alienante/limitante rispetto a quella di essere vivente) in
quella di consumatore, e che vede così disperdere i propri figli
nell’illusione di aver creato l’eternità attraverso l’istituzione di una
memoria universale e perenne in nuovi strumenti digitali.
In questo contesto apocalittico all’arte spetta un ruolo decisivo. A lei tocca
riuscire a far ri-trarre la persona da sé, da quel sé che però ormai ne
rappresenta la negazione degli istinti e dei valori più vicini alla vita,
dandogli la possibilità di nuove forme di espressione libere e creative.
Una funzione che la coralità di questi Promessi Sposi, proposta
nell’assoluta e più intima solitudine esistenziale degli umili dei giorni
nostri, assolve con ineludibile efficacia.
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Lo spettacolo è andato in scena:
Lenz Teatro
via Pasubio 3/e, Parma Italy
dal 13 al 23 maggio
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I PROMESSI SPOSI
da Alessandro Manzoni
creazione
imagoturgia Francesco Pititto
regia, installazione, costumi Maria Federica Maestri
musica Andrea Azzali_Monophon
interpreti Valentina Barbarini, Franck Berzieri, Monica Bianchi, Giovanni Carnevale, Carlo Destro, Paolo
Maccini, Andrea Orlandini, Roberto Riseri, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Sorbi, Carlotta Spaggiari,
Barbara Voghera
direzione scientifica Rocco Caccavari
responsabile progetto riabilitativo Paolo Pediri
organizzazione e cura Elena Sorbi, Ilaria Montanari
comunicazione e promozione Giulia Morelli
ufficio stampa leStaffette
luci Gianluca Bergamini, Nicolò Fornasini
assistentie alla regia Alice Scartapacchio
osservatorio critico Violetta Fulchiati
produzione Lenz Rifrazioni
un progetto per il Bicentenario Verdiano
in collaborazione con Dipartimento Assistenziale Integrato di Salute Mentale
Dipendenze Patologiche AUSL di Parma
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