La Croce come
un’esperienza dello
Shabbat con riferimento a
Paolo
Preambolo
evgw. de. h[dista dapanh,sw kai.
evkdapanhqh,somai u`pe.r tw/n yucw/n
u`mw/nÅ
eiv
perissote,rwj
u`ma/j
avgapw/ÎnÐ(
h-sson
avgapw/maiÈ “In quanto a me molto volentieri spenderò, anzi sarò speso per le anime
vostre, anche se amandovi più intensamente sono amato di meno” (2Cor 12,15). Con questa
referenza possiamo comprendere meglio che nella esperienza personale di Paolo c’è un dato
incontrovertibile: mentre all’inizio era stato un persecutore ed aveva usato violenza contro il
segno della croce, dal momento della sua esperienza sulla via di Damasco, era passato dalla
parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita, anche nei confronti di una
vita niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà, come lui stesso specifica: “Quanti
vogliono far bella figura seguendo la carne cercano di costringervi a farvi circoncidere,
solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo” (Gal 6,12). In “Cristo Gesù”
egli si è acquistato quella pace fondamentale (shalom), con la quale inizia lo Shabbat: la
“shalom alechem”. La pace dello Shabbat vissuta come un’esperienza della Croce la quale,
come specifica Giovanni, si identifica con “l’Albero della vita”, il quale appartiene a quelli
in grado d’ascoltare (shemà) lo Spirito (Rev 2,7: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle
chiese: al vittorioso farò mangiare dall'albero della vita che è nel paradiso di Dio”.) a causa della loro resistenza
nei confronti del male.
Il Significato dello Shabbat
Una vecchia tradizione sostiene: “Il mondo futuro ha le caratteristiche della santità che lo
shabbat possiede in questo mondo...una santità simile a quella del mondo futuro” (Mekiltà
su Es 31,17:“Tra me e i figli d'Israele è un segno perenne, perché in sei giorni il Signore fece il cielo e la terra e
nel settimo giorno cessò e respirò».”). Non è allora per caso che Rabbi Akiba afferma: “A ogni
giorno della settimana era donato un cantico speciale che i leviti cantavano nel tempio. Il
primo giorno cantavano “La terra è del Signore”; il secondo “Grande è il Signore, e così
via. Ma il giorno dello shabbat essi intonavano “Un Salmo: un Canto per il Giorno dello
Shabbat”; cioè un salmo, un canto per il tempo futuro, per il giorno che sarà tutto shabbat e
come conseguenza pace nella vita eterna” (Mishnà Tamid, fine: Rosh Hashana, 31a). Un
tempo questo, in cui ogni azione sarà annullata: “Non si mangia, non si beve, e no si fanno
transazioni terrene, a causa che i giusti siedono sopra un trono, il capo cinto di una corona,
e godano lo splendore della shechinà” (Avoth de-Rabbi Nathan). Il Libro della Apocalisse
descrive questa esperienza in questo modo: “Per questo si trovano davanti al trono di Dio e
lo servono notte e giorno nel suo tempio. Colui che siede sul trono distenderà la sua tenda
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sopra di loro: Essi non avranno più fame né sete non li colpirà più né il sole né arsura
alcuna, poiché l' Agnello che sta in mezzo al trono, li pascerà e condurrà alle sorgenti
d'acqua viva; e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Rev 7,15-17). Più che una
descrizione di quello che c’è, quello comunicato da questa visione ci indirizza ad una
comprensione della “parola” come qualcosa che possiede la potenza di evocare l’esperienza,
e non solo a descriverla. Tale scopo si manifesta nei Salmi: un discorso provocativo, che
richiama una metamorfosi, in grado di superare i limiti imposti dalle nostre parole e azioni,
così che siamo in grado di cantare un cantico nuovo, “salmodiate con arte in giubilo
festoso” (Sal 33,3). La radice di questa metamorfosi colloca la persona alla sua essenzialità;
il “cuore”. Non è allora per caso che Ezechiele specifica: HaShem vi darà “ un cuore nuovo e
metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi
metterò un cuore di carne” (Ezech 36,26). È questo “cuore di carne” che ci permette a
rendere grazie al Santo, perché non più schiavi al male: cioè all'incapacità di concepire la
santità. In questo modo possiamo allora comprendere che la completezza dello shabbat, in
quanto riporta la persona all’esperienza originaria della azione creativa, e quindi alla
“Shalom”, ci indirizza alla circoncisione del cuore, più che a quella esterna, perché il suo
fonte risiede nello spirito, più che nella carne (Rom 2,29: “ma il vero giudeo lo è al di dentro, e la vera
circoncisione è quella del cuore, secondo lo Spirito, non secondo la lettera: questi ha la lode non dagli uomini, ma da
Dio.”).
Il Mondo Futuro
Secondo il Talmud, lo shabbat è “me'en 'olam ha-ba”: vale a dire, qualcosa che assomiglia al
mondo futuro, in quanto permette alla persona di fare l’esperienza dell’eternità; un scandalo
per i pagani, una rivelazione per gli ebrei. Non è allora sorprendente che lo shabbat si
identifica con il “ma’yam”: in altre parole, il “sorgente” dell’eternità, il pozzo da cui
traggono origine sia il cielo, sia il mondo futuro. Questa affermazione mi sembra radicale,
particolarmente quando inserita nel mondo romano dove la civiltà tecnica rappresentava la
meta più alta, e il tempo esisteva in funzione dello spazio; una visione non così lontana dalla
nostra, e forse in parte spiega il perché lo Shabbat continua a “scandalizzare” la nostra
sensibilità con la sua insistenza che tutto (anche le ascensioni) si sottomette assolutamente
alla sua presenza, senza compromessi.
Più che un giorno, lo Shabbat si identifica con la regina, che viene, circondata da canti e
profumi come una sposa, e introdotta dalla danza e le luce benedette, così che il suo regno
trova sua espressione nella comunione dei fratelli, che intorno alla tavola condividono la
coppa benedetta e il pane azzimo. In questo contesto si capisce allora l’insistenza da parte di
Paolo, che Cristo sia veramente “sapienza”, “giustizia” e “santificazione”, che nell’insieme
comunicano il significato della redenzione vissuta come una chiamata a vivere la santità, così
che il cuore si identifica con l’immagine del volto divino: Cristo Gesù (1Cor 1,30: “Ed è per lui
che voi siete in Cristo Gesù, il quale è diventato per noi, per opera di Dio, sapienza, giustizia, santificazione e
redenzione”).
Vivere questa esperienza significa identificarsi con il mondo, il quale si trova
racchiuso nello spazio e il tempo, incapace a saporire il senso dell’eternità, a causa che non
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conosce “l’amore-grazia” (hesed) espresso dalla “completezza” (shalom) rintracciata nella
Croce.
Secondo la tradizione biblica, se non avremo appreso a gustare il sapore dello shabbat
mentre ci troviamo ancora in questo mondo, dove siamo iniziati all'apprezzamento della vita
eterna, non potremo godere il sapore dell'eternità nel mondo futuro. Rabbi Solomon di Karlin
descrive questa esperienza come la trista sorta di chi si arriva inesperto, e una volta condotto
in cielo non ha la capacità di percepire la bellezza dello shabbat. Con questo, egli sta
indicando una verità non indifferente: vale a dire che è nell’ambito del tempo che la persona
sperimenta il sapore dell'eternità, a causa che la vita eterna non si svolge lontana da noi, ma è
piantata in noi stessi e si sviluppa oltre noi. La Croce ci invita a fare questa esperienza
dell’eternità, perché il suo messaggio riguarda la vita, più che la morte. Un’esperienza in
grado di rivalutare la sapienza delle parole, perché “non venga resa vana la croce di Cristo”
(1Cor 1,17), la quale costituisce una potenza straordinaria, un tesoro che risiede in noi, “vasi
di creta” (2Cor 4,7). È qui, in questo mondo, che saporiamo quello comunicato dalla Croce:
“Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; incerti, ma non disperati” (2Cor 4,8),
perché anche Cristo fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di HaShem. E
noi che siamo deboli in lui, siamo vivi con lui per la potenza mostrata nella Croce (2Cor
13,4: “Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E noi che siamo deboli in lui, saremo
vivi con lui per la potenza di Dio verso di voi.”). Saporire l’eternità è quindi un richiamo a metterci
vicino a Cristo: “Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede; provate voi stessi. Non
riconoscete voi stessi che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate riprovati”.(2Cor 13,5).
Il Bene è la Base, il Sacro è la Sommità
La chiave per comprendere lo Shabbat non si trova nella ricerca del bene, il quale risiede
nella capacità ragionale della persona, e come tale costituisce il penultimo nella scala che ci
indirizza verso l’eternità. Il bene è la base, ma il sacro costituisce la sommità di questa
ricerca, perché senza questo ultimo, il bene racchiuderebbe la persona nel tempo e lo spazio:
Il bene è la base, il sacro è la sommità. La tradizione biblica spiega questo con riferimento
alla creazione: Le cose che erano create in sei giorni, HaShem le considerò “buone”, ma il
settimo giorno Egli lo rese “santo”. (il bene s’identifica con l’azione umana; l’eternità con la
Presenza Divina). In questo ambiente possiamo forse affermare che la vera dicotomia non
riguarda l’anima e il corpo, ma riguarda piuttosto il sacro e il profano, a causa che non tutti
sono in grado a concepire non solo la natura delle cose, ma il creatore delle cose. Quando i
rabbini cercano di spiegare lo Shabbat, loro lo descrivono così: “È lo spirito (ruah) sotto
forma di tempo”. Il volto di Cristo richiama il credente a riconoscere nel tempo l’epifania
dell’eternità: la “Parola” che non solo “era presso Dio, ma era Dio” (Gv 1,1: “VEn avrch/|
h=n o` lo,goj( kai. o` lo,goj h=n pro.j to.n qeo,n( kai. qeo.j h=n o`
lo,gojÅ”). Non è allora per caso che Paolo richiama gli Efesini all’“elmo della salvezza e la
spada dello Spirito, cioè la parola di Dio” (Ef 6,17), così che possiamo conoscere Cristo con
la potenza della sua risurrezione, la quale ci permette a partecipare alle sue sofferenze,
trasformandoci in un’immagine della sua morte; la Croce (Fil 3,10: “e per conoscere lui con la
potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze, trasformandomi in un'immagine della sua
morte”).
Incontrando lo Spirito nel tempo significa rendere conto d’essere figli: “Poiché siete
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figli, Dio inviò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida; «Abbà, Padre!»”
(Gal 4,6).
La ricerca del sacro come sommità del bene ci indirizza a quello affermato da Paolo, quando
indica che la “parola della croce è infatti stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma
per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Più che un segno esteriore,
la croce assomiglia lo shabbat in quanto ci permette a percepire la follia di chi si limita la sua
esistenza al tempo e lo spazio, senza rendere conto della potenza divina che oltrepassa questi
limiti: Non è forse questo il significato del “buon combattimento della fede” affinché si
afferma la vita eterna alla quale siamo chiamati e per cui testimoniamo con la nostra
esistenza nella presenza di Dio, tramite l'integrità di una vita che pone HaShem come suo
fine, consci che in fare questo siamo preparando i fratelli e le sorelle a riconoscere il Cristo
(1Tim 6,12-14: “Combatti il buon combattimento della fede, cerca di conquistare la vita eterna, alla quale sei
stato chiamato e per la quale hai confessato la bella confessione davanti a molti testimoni. Ti scongiuro, davanti a Dio
che vivifica tutte le cose, e davanti a Cristo Gesù che testimoniò la bella confessione sotto Ponzio Pilato, di
conservare immacolato e irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”)?
Lo shabbat, come la parola creativa, evoca qualcosa che non si accontenta del presente, ma
richiama la memoria (zakar) del passato per indirizzare la persona al futuro (hayyim = vita).
In questa maniera lo Shabbat indirizza le attività umana: un bene che si svolge nel tempo e
lo spazio, per incontrarsi con il Santo (l’Eterno). Il suo vero oggettivo è la santità (qadosh).
Quando si parla della “santità”, preferisco definirla come un’esperienza di completezza
(shalom), che ci permette di confrontarsi non solo con quello che facciamo nei confronti
degli altri, ma più importante, di confrontare quello che diventiamo, mediante l’azione, nei
confronti di noi stessi. A questo punto forse vale la pena ricordare che il verbo “diventare” è
particolarmente importante quando si parla della ricerca cristiana, quando questa è
indirizzata dal Battesimo come condizione d’incontrarsi con il volto divino; Cristo Gesù. La
ricerca del bene riguarda questa azione, ma non basta a causa che il suo fine si realizza solo
nell’incontro con la sacralità (qadash = mettere a parte, “consacrare”) del Santo. Non basta
accontentarsi del bene, perché da solo rimane incapace di inserire la persona nella
completezza espresso dalla pace dello Shabbat (Shabbat Shalom). Non è allora sorprendente
l’affermazione di Paolo, quando indica che si trova una cosa difficile vantare all’infuori della
croce del Signore Gesù, per la quale il mondo è crocifisso a me e io al mondo ( Gal 6:14, “Ma
quanto a me, non avvenga mai che io mi vanti all' infuori della croce del Signor nostro Gesù Cristo, per la quale il
mondo è crocifisso a me e io al mondo”).
Lo svuotamento come esperienza dello Shabbat
Entrare nel sacro (qadash) della santità (qadosh) indica la capacità di mettersi a parte: una
esperienza non più indirizza dalla attività umana, ma dalla presenza divina; la “shechinà”.
Così facendo, la persona scopre un’altra realtà, la quale non è più sottoposta al guadagno, ma
all’essere: “ma il settimo giorno è sabato, sacro all' Eterno, il tuo DIO: non farai in esso
alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo servo né la tua serva né il tuo bue né il
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tuo asino né alcuna delle tue bestie né il forestiero che sta dentro le tue porte, affinché il tuo
servo e la tua serva si riposino come te” (Deut 5,14). Una realtà che richiama uno
svuotamento, perché indirizza la persona ad un’esperienza periferica, in quanto messa a parte
sacralità (qadash) capace di distinguersi da quello che la maggioranza considera “normale”.
L’identificarsi con Cristo richiama questa esperienza, perché Egli: “vuotò se stesso,
prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell' esteriore simile
ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce”
(Fil 2,7-8). Identificarsi con la santità della Croce richiede una simile esperienza dove la
persona è in grado di entrare nella tomba la sera dello Shabbat (Gv 19,31) per poi risvegliarsi
nella luce del giorno, così che come Maria, il credente riconosce il volto del “Rabbuni” (Gv
20,16): un’esperienza evocativa, che rifiuta d’essere sottomessa alla sapienza dei saggi o
degli intelligenza, perché la predicazione della Croce è pazzia a chi non ha conosciuto la
potenza divina (1Cor 1,18-19).
Lo Shabbat come Albero della Vita
In una parte della liturgia dedicata allo Shabbat si legge questo: “ESSO è un albero della vita
per quelli che LO abbracciano e i SUOI sostenitori sono da ammirare. Le SUE vie sono vie
piacevole e i SUOI sentieri sono pace. Farci ritornare a TE, HaShem, e noi ritorniamo.
Rinnovi i nostri giorni come i giorni precedenti”.
La “Albero della Vita” (Etz Chaim) si trova all’inizio della Bibbia, nel mezzo, ma anche alla
fine. Nel giardino, l’Albero della Vita è causa di tentazione, ma anche occasione di
redenzione. In questo paesaggio lo shabbat si celebra nella immediatezza di HaShem, senza
la necessità del nascondimento (Gen 3,8). Mangiando di questo albero, l’albero “della
conoscenza del bene e del male”, l’umanità scopre la sua nudità, che fino ad adesso è stata
vissuta come segno della benedizione divina, ma che adesso imbarazza, perché dislocata da
questa benedizione, manifesta la fragilità umana (Gen 3,7). Il nascondimento è quindi un
richiamo della fragilità nei confronti del Santo: la rottura di quel dialogo segnato da una
comunione fondata nella immediatezza del rapporto “io” e “tu”. La reazione divina è
altrettanto interessante: HaShem rivolge alla parola espressa da quel grido che ancora
rimbombi nel cuore di chi lo cerca; “Dove sei?” (=´ayyekkâ Gen 3,9). Una parola che
continua a segnare la storia del rapporto umano con HaShem, fino a quando, come afferma
Giovanni, la Parola (lo,goj) si fece carne e dimorò fra noi, così che abbiamo visto la Sua
gloria, piena di grazia (hesed) e di verità (emeth), Gv 1,14:
dAbk.Ki Wnyair" AdAbK.-ta,w> WnkeAtB. !Kov.YIw:
rf'B' vb;l' rb'D"h;w>
`tm,a/w< ds,x, alem' wybia'l. dyxiy" !Be
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Questa stessa Parola abbraccia l’albero della morte, così che il “Consacrato” (Messhiah =
Christos) si è sottoposto alla maledizione della Torà per rivendicarla: “Cristo ci ha riscattati
dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto:
«Maledetto chiunque è appeso al legno»” (Gal 3,13). Questo albero si trasforma, mediante
questo abbraccio in una occasione di vita per noi: “ma uno dei soldati con un colpo di lancia
gli trafisse il fianco e ne uscì subito sangue ed acqua” (Gv 19,34).
C’è ancora un altro albero che appare alla fine delle Scritture: “Beati coloro che adempiono i
suoi comandamenti per avere diritto all' albero della vita, e per entrare per le porte nella
città” (Rev 22,14). Questa volta possiamo nuovamente godere lo Shabbat (shalom) perfetto,
perché l’albero della vita si è stato ristabilito a causa della Croce. Nella completezza della
Croce (Shalom – Shabbat), l’umanità (adam) riscopre quel dialogo iniziale, senza il
nascondimento vissuto nell’acquisto della conoscenza del bene e del male, così che l’uomo
può rispondere alla domanda “Dove sei?”: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice
alle chiese: a chi vince io darò da mangiare dell'albero della vita, che è in mezzo al paradiso
di Dio” (Rev 2,7). È a causa di questo ricupero dell’Albero della Vita, che Paolo può
indirizzare la comunità verso la “grazia” (hesed) e la “pace” (shalom), segni
dell’immediatezza di HaShem, che mediante la Croce della Parola “lo,goj” ci permette a
chiamarlo “Padre” con la forza dello Spirito (1Cor 1,3).
Conclusione
Abbiamo insieme meditato questo Tema: “Lo Shabbat come esperienza della Croce con
riferimento a San Paolo” nell’ambito della Quaresima: un tempo forte della liturgia, che
intende darci una mano per comprendere la nostra acclamazione; “Cristo è veramente
risorto!” L’affermazione di questa acclamazione indirizza il credente alla pace vissuta come
completezza della sua identificazione con Cristo e perciò, d’entrare in quella “Notte Oscura”
che secondo Giovanni della Croce, ci permette a vivere pienamente l’intuizione avuta da
Paolo nei confronti della Croce: la completezza della storia salvifica vissuta nell’incontro del
Cristo Risorto.
Sac. Martino Bruno
Istituto Teologico “San Pietro”
Quaresima 2009 – 04 - 8
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Qualche proposta per approfondire la
meditazione proposta
Che significato ha l’affermazione che mediante la Croce si
incontra con la Shalom?
Come posso acquistare un cuore di carne: qual è il concetto
espresso da questo termine che mi permette a stabilire una
spiritualità della Croce?
Il Bene è la base, il sacro è la sommità! Quali sono le
conseguenze di una tale affermazione?
Lo Svuotamento e la Croce: illusione ingannatrice o
concretezza effettiva?
Qual è il mio “Albero della Vita”?
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