La Guerra della Lega di Cambrai - Tera de San Marc

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Numero 4
15 dicembre 2016
Tera de San Marc
Munere clamoris fit
Marcos imaga leonis
Foglio di divulgazione storica, linguistica e culturale
sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia.
Versione dei testi in koinè italiana (italiano)
La Guerra della Lega di Cambrai – II parte
Verso l’epilogo della guerra
Come già scritto nel precedente numero del foglio, nel 1511 le sorti della guerra di Cambrai mutarono in quelle della
Lega Santa sorta dalla pace tra la Chiesa e Venezia e alla quale aderirono anche la Spagna e l’Austria. L’accordo fu siglato il 5
ottobre 1511 a Roma. L’evento scatenò l’ira di Luigi XII che riuscì, con Gastone di Foix alla guida del suo esercito, a
sottomettere di nuovo sia il Lombardo veneto che la Romagna nel 1512. Il dominio francese durò però poco perché l’esercito
spagnolo in arrivo dal Piemonte, siccome avrebbe potuto invadere la Francia, obbligò Luigi XII a radunare tutte le sue milizie
disperse in Padania per affrontarlo anche se non si giunse a uno scontro diretto.
Dopo la morte di Giulio II avvenuta nel febbraio del 1513 e la salita al soglio pontificio di Leone X, la Lega Santa si
riunì a Mantova in congresso per spartirsi le conquiste, ma le pretese e le discordie tra gli alleati crearono un clima di contrasto
che portò alla fuoriuscita di Venezia dalla Lega Santa e alla formazione di nuove
alleanze. Infatti il 23 marzo 1513 la Repubblica stipulò un patto con Luigi XII
avente come obiettivo la ripartizione dell’Italia del Nord: dal Piemonte alla
Lombardia occidentale sotto il Regno di Francia e dalla Lombardia orientale al
Friuli sotto Venezia. Al patto franco-veneto si contrappose ancora la Lega Santa del
papato di Leone X in alleanza con Massimiliano I d’Austria e Ferdinando II di
Spagna ai quali si affiancò la Confederazione svizzera. Quindi questa volta Venezia
si alleava ai francesi, che aveva poco tempo prima ricacciato indietro, per poter
mantenere sotto le sue insegne lo ‘Stato da Terra’ minacciato ora dagli austrospagnoli. Le ostilità ripresero di lì a poco: Luigi XII inviò un grande esercito in
Padania che venne però sconfitto a Novara il 6 giugno 1513 dalle armate svizzere
mentre Bartolomeo D’Alviano, alla testa dell’esercito veneziano, fu sconfitto a
Motta (Vicenza) il 7 ottobre del 1513 dall’esercito imperiale di Massimiliano I. La
doppia sconfitta costrinse la Francia a patti con la lega il 14 settembre 1513. Venezia
si ritrovò così ancora da sola contro tutti come nel 1509 all’inizio del conflitto e
dovette ritirare il proprio esercito subendo l’avanzata austro-spagnola fino
addirittura a Mestre.
Con un nuovo giuramento di fedeltà Bergamo si arrese agli spagnoli il 27
giugno 1513. A Crema resisteva però ancora un contingente veneziano il quale, con
una spedizione militare a sorpresa capeggiata dal valoroso condottiero Renzo da
Ceri, colse impreparate le milizie spagnole e riuscì a riportare Bergamo in mano a
Luigi XII in battaglia ad Agnadello
Venezia il 6 agosto 1513. Saputa la notizia Massimiliano Sforza formò un esercito di
3000 soldati tra cavalieri e fanti, e mosse da Milano alla riconquista della città. Bergamo subì così per la prima volta dall’inizio
della guerra un assedio attorno alle sue mura – le antiche mura medioevali oggi pressoché inesistenti – e capitolò nonostante la
resistenza fornita dal Ceri e dai capitani veneziani Mariano da Sezze e Cristoforo Albanese che dovettero riparare di nuovo a
Crema. La resa della città fu firmata il 14 agosto 1513 ad Orzinuovi con la promessa che non fosse saccheggiata. Cominciò
così la vera e propria occupazione spagnola della città caratterizzata nuovamente da spogliazioni, taglie, angherie e anche
pestilenze, riducendo allo strenuo le finanze, le condizioni sanitarie della popolazione e rendendone insopportabili gli abusi.
Intanto a Venezia si cercava di prendere tempo e di raggiungere una tregua con la Spagna. A tal fine si decideva di
appellarsi al Papa ponendo come condizione che Bergamo e Brescia fossero affidate alla sua protezione, che Verona restasse
all’imperatore Massimiliano I e il resto del dominio veneto alla Repubblica. Ma la soluzione non poteva che essere anticipata
da una vittoria militare sul campo. Fu di nuovo Renzo da Ceri a compiere l’impresa: dal suo quartier generale di Crema partì
con 4000 fanti e 200 cavalieri e s’impadronì di Bergamo asserragliandosi nuovamente dentro le sue mura con un buon seguito
di artiglieria (15 ottobre 1514). E ancora una volta milanesi e spagnoli tornarono a stringere d’assedio la città (31 ottobre 1514)
e siccome il Ceri rispondeva a colpi di artiglieria si decise un attacco mirato ad aprire una breccia nelle mura nella zona di
Sant’Agostino. L’attacco cominciò l’11 novembre ma ove la muraglia cedeva, subito di notte i bergamaschi provvedevano a
restaurarla cosicché il Ceri riuscì a resistere per molti giorni. Ma quanto più l’assedio degli assalitori si protraeva, tanto più le
forze e le risorse dei difensori si riducevano. Così alla fine il Ceri dovette trattare la resa della città assicurandosi la propria
uscita e il rispetto delle persone e dei beni dei cittadini (15 novembre 1514). Ricominciarono però le imposizioni di taglie e di
tributi che dissanguarono ulteriormente il patrimonio cittadino.
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La Battaglia dei ‘Giganti’
Poco tempo dopo, nel 1515, moriva Luigi XII e saliva al trono il giovane figlio ventunenne Francesco I che, per
vendicare l’onta del padre a Novara e per riaffermare le pretese del suo predecessore sul Ducato di Milano, scese in Lombàrdia
con un esercito composto da 35 mila fanti e da una cavalleria di supporto. Qui si scontrò tra il 13 e il 14 settembre 1515, non
lontano dall’attuale città di Melegnano, con l’esercito della lega forte di 22 mila fanti svizzeri e 200 cavalieri papali. L’evento
bellico è noto con il nome di Battaglia di Marignano o anche di Battaglia dei ‘Giganti’ per la presenza di robusti e imponenti
portatori di lance e alabarde tra i soldati svizzeri. L’esercito
francese poteva però contare anche di un contingente di fanti e
cavalieri veneti capeggiati dal condottiero Bartolomeo
d’Alviano. Fu proprio quest’ultimo a ordinare una manovra
accerchiante che sbaragliò la resistenza svizzera che aveva sino
ad allora neutralizzato tutti gli attacchi del più numeroso e
armato esercito francese e che addirittura si accingeva a
sopraffarlo. Lo scontro fu cruento e lascio sul campo circa 16
mila morti, per la maggioranza svizzeri, facendo battere in
ritirata i superstiti elvetici. La sconfitta subita dall’armata
svizzera fu così rilevante che da quel giorno la Confederazione
arrestò la sua espansione territoriale e sancì definitivamente la
sua storica neutralità in tutte le guerre europee e mondiali. Per
Bergamo la vittoria franco-veneta determinò di fatto la
liberazione dall’occupazione spagnola e il ritorno delle
Maitre de la Ratière - La Battaglia di Marignano
istituzioni statali veneziane.
Il ritorno di Massimiliano I
Dopo la gloriosa vittoria di Marignano sembrava che le vicende stessero per volgersi a favore di Venezia quando si
verificò un ultimo colpo di coda del nemico storico di Venezia: l’Austria. Massimiliano I nutriva infatti ancora rancori sopiti
verso la Repubblica e ovvie mire espansionistiche; scese quindi in Lombàrdia per la Val Lagarina e con il suo esercito
sottomise Brescia e Bergamo senza subire significative opposizioni militari venete (23 marzo 1516). Bergamo tornò sotto la
minaccia di devastazioni e rovine e fu assoggettata nuovamente a taglie e imposizioni dai germanici. L’esercito imperiale si
ritirò però di lì a un mese pur lasciando in città una guarnigione di soldati come presidio che venne comunque tolto
definitivamente il 29 aprile 1516. Le cause del ritiro dell’imperatore non sono del tutto chiare agli storici. Bergamo si diede
così un governo autonomo fino al ritorno dei veneziani e al rientro di questi si verificarono dei malumori causati dall’ingiusta
imposizione alla città di una taglia per indennizzo delle spese militari (12 maggio 1516). Venezia voleva punire così
l’insolenza ghibellina e il tradimento della città avvenuto in più occasioni senza riconoscere tuttavia di non essere stata in
grado di difenderla adeguatamente o di supportarne la resistenza armata.
La fine della guerra per la frontiera occidentale
Il 13 agosto 1516 veniva infine firmata la pace di Noyon, la quale, dopo tanti anni di complicate vicende e inutili stragi,
poneva termine alla guerra della Lega di Cambrai per i confini occidentali della Repubblica. Anche se Bergamo ritrovò pace e
libertà ebbe a ricordare pesanti soprusi e rese umilianti sia a causa del fatto di essere stata zona di confine sia per non essere
stata in alcuna maniera difesa. Con il trattato la Lombardia veneta tornava definitivamente sotto Venezia ad eccezione di
Cremona che fu assegnata al Ducato di Milano anche se quest’ultimo rimase di fatto un protettorato francese.
Forse fu proprio a causa di ciò che nel 1561 cominciarono i lavori di costruzione della cerchia muraria che terminò nel
1588 trasformando la città in una fortezza militare e baluardo difensivo occidentale di terraferma. L’opera costò alla
Repubblica ben 590.000 ducati d’oro e non fu mai attaccata segno che, purtroppo, arrivò tardi quando la guerra era oramai
conclusa anche se ebbe comunque funzione dissuasiva per i nemici della Serenissima. Il progettista fu l’architetto fiorentino
Bonaiuto Lorini.
Se la guerra di Cambrai terminò non si concluse però il conflitto tra Spagna e Francia che invece si inasprì
ulteriormente. Infatti già nel 1516, prima della pace di Noyon, moriva re Ferdinando II e sul suo trono succedeva Carlo I
d’Asburgo e quando nel 1519 morì pure Massimiliano I, Carlo I, essendo erede legittimo degli Asburgo, fu incoronato
imperatore con il titolo di Carlo V ad appena diciannove anni. Francesco I tentò di usurparne il titolo scendendo subito in
guerra ma subì subito una dura sconfitta nella battaglia di Pavia nel 1525 nella quale perse il Ducato di Milano; e sebbene
riuscì comunque a salvare il suo regno dovette sempre sottostare al strapotere di Carlo V, l’imperatore sul cui regno, che
comprendeva le colonie in America del Sud, “non tramontava mai il sole”.
La fine della guerra per la frontiera orientale
Nonostante che gli eventi bellici della guerra di Cambrai cessarono con la pace di Noyon, si protrassero alcune
controversie diplomatiche sui confini territoriali tra gli stati belligeranti. In particolare la questione divenne assai problematica
ai confini orientali della Repubblica Veneta, cioè in Friuli, dove alcuni grossi aristocratici e possidenti delle zone più marginali
continuavano ad essere sempre ostili al governo veneziano mostrando invece simpatie verso l’Impero asburgico il quale
ovviamente li assecondava e li influenzava a proprio vantaggio.
La fine formale della guerra di Cambrai per la frontiera orientale avvenne dunque il 28 aprile 1521 con il trattato di
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Worms dove Venezia concluse con Carlo V la spartizione del Friuli con un confine molto frastagliato. Tra le decisioni vi fu
l’assegnazione di Gorizia, Aquileia e di Gradisca all’Impero.
Con la perdita della fortezza di Gradisca la Serenissima sentì il bisogno di dotarsi di un presidio militare difensivo ai
suoi confini orientali anche in prospettiva della costante minaccia turca. Pertanto nel 1593 fu fondata la città-fortezza di
Palmanova nella bassa friulana, a forma di stella a 9 punte, su progetto del conte Giulio Savorgnan direttore dell’Ufficio
Fortificazioni di Venezia. Nell’ufficio vi lavoravano anche il Lorini e l’architetto Vincenzo Scamozzi. I lavori terminarono
verso il 1610 e un’opera di ampliamento della cerchia muraria fu attivata nel 1658 e conclusa nel 1667. Una fondamentale
differenza tra le mura venete di Palmanova e quelle di Bergamo è che le prime sono terrapieni ricoperti da uno strato di blocchi
di pietra e mattoni a sua protezione, mentre le seconde sono veri e propri muri di sostegno in pietra squadrata.
Storia della I Guerra Mondiale sul fronte orientale
IV Parte – D’Annunzio, Mussolini e altri interventisti
Tra la morte di Verdi, nel 1901, e la marcia su Roma di Mussolini, nel 1922, Gabriele D’Annunzio divenne l’italiano
più famoso del mondo. Nato nel 1865, aveva cominciato a pubblicare versi già da adolescente. A trent’anni era il poeta più
noto d’Italia e un brillante drammaturgo. La sua intelligenza e la sua creatività artistica furono così spiccate che i suoi testi
ebbero un’influenza profonda sia nella letteratura che nella lingua italiana degli anni a venire, giungendo ad essere considerato
uno dei maggiori letterati del Novecento. Celebre anche all’estero, la sua personalità era però molto eccentrica, egocentrica ed
egotistica che non si risparmiava sfrenati godimenti sessuali con le sue tante amanti. Le
sue idee andavano di pari passo con quelle dei futuristi e con il manifesto di Filippo
Tommaso Marinetti. Inneggiava alla violenza, ai piaceri, all’estetica delle arti e al rigetto
della morale religiosa per la rigenerazione nazionale dell’Italia da ‘Italietta’ a grande
potenza civile e militare.
Nel 1915 D’Annunzio si erse a paladino dell’interventismo e a fautore
dell’italianizzazione delle terre irredente attraverso la guerra. Diffuse alle masse il
messaggio che solo mediante il sacrificio patriottico dei soldati che si immolano
nell’ardito slancio della battaglia, si potesse giungere alla vittoria e alla conquista dei
territori, ritenuti italici, in mano all’invasore; invasore che non poteva che essere l’Austria,
Il capitano Gabriele D’Annunzio durante
uno dei suoi famosi discorsi
il nemico storico e più odiato dagli italiani. Propagandò l’espansione imperialista italiana
nei Balcani. Odiava Giolitti, ex capo del governo e principale sostenitore del neutralismo.
Fu molto amico di Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, il più importante giornale del fronte interventista.
Alla notizia dell’ingresso dell’Italia in guerra con l’Intesa a fianco di inglesi e francesi, tornò dall’esilio parigino e fu
invitato a Quarto (Genova) il 5 maggio 1915 per l’inaugurazione di un nuovo monumento a Garibaldi. Là tenne un famoso,
storico e appassionato discorso che fu anche pubblicato sul Corriere il giorno stesso. D’Annunzio aizzò la folla e invocò gli
italiani al sacrificio per la patria. Lo storico Benedetto Croce definì il suo discorso una buffonata. Ma buffonata non era perché
a quello ne fecero seguito degli altri fino a quando giunse a Roma dove invocò lo spirito di Garibaldi e diede fondamento
all’idea della ‘IV Guerra d’Indipendenza’, quella della liberazione di Trento, Trieste e della conquista dell’Istria e della
Dalmazia. Diffamava e insultava i neutralisti di Giolitti come malfattori, traditori e pagliacci. I suoi discorsi erano pregni di
retorica, di abilità oratoria e di virtuosismi letterari. Fu un letterato guerrafondaio, un esaltato e farneticante visionario ma
anche un coraggioso soldato che incantò le masse molto più di un politico e che divenne un eroe nazionale. La sua carriera
nell’esercito fu rapida: Cadorna lo promosse ufficiale e il fronte lo vedeva solo quando lo voleva lui per soddisfare la sua
sfrenata voglia di protagonismo e per spronare le truppe all’assalto. Fu un invasato e un fanatico della guerra e dell’eroismo
patriottico e se ne dichiarava orgoglioso.
Nell’estate del 1914 Benito Mussolini era l’astro nascente del Partito socialista, un giornalista, un agitatore dell’estrema
sinistra del partito, impegnato a preparare la rivoluzione comunista in Italia. Era un militante appassionato, antiborghese,
coraggioso ed ambizioso. Quando l’Italia attaccò la Libia nel 1911 sotto il governo di Giolitti, chiese agli operai di bloccare i
trasporti delle truppe facendo saltare in aria le linee ferroviarie. Fu condannato per questo a quattro mesi di prigione. In seguito
nel dicembre del 1912 assunse la direzione del quotidiano del partito, l’‘Avanti!’, raddoppiandone la tiratura nel giro di un
anno. Il 26 luglio 1914 scrisse che la causa dell’Italia non era quella del proletariato e che quindi il governo sarebbe stato
costretto a dichiarare la neutralità. Pian piano il fronte interventista si allargava e Mussolini restò tra i pochi neutralisti, era
convintissimo del fatto che guerra e socialismo non avevano nulla di che spartire perché “la guerra era in ultima istanza
l’annientamento dell’autonomia individuale e il sacrificio della libertà di pensiero allo stato e al militarismo”. Abbandonò
queste posizioni ad ottobre. Cosa l’aveva fatto cambiare idea? Non è chiaro dalle fonti storiche ma si parla che prima ancora di
essere un neutralista era un opportunista e che quindi gli esiti della guerra sul fronte occidentale lo stavano portando su
posizioni anti-Triplice. A novembre presentò le dimissioni dalla direzione del quotidiano e fondò un nuovo giornale ‘Il popolo
d’Italia’ che sosteneva l’intervento al fianco della Francia. Fu espulso dal partito il 24 novembre 1914 per tradimento. La sua
storia a quel punto si legò a quella di un’altra nota personalità dell’epoca: Filippo Corridoni, sindacalista e fervente
interventista, il quale credeva che la guerra avrebbe creato le migliori condizioni per la rivoluzione socialista. Mussolini
divenne un suo seguace e cominciò ad apparire insieme a lui sui palchi dei comizi.
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Un altro importante interventista dell’epoca fu il trentino Cesare Battisti che sosteneva le istanze italiane all’interno
dell’Impero asburgico. Giornalista, geografo e deputato socialista a Vienna, fu per il Trentino e Trento un instancabile
propugnatore di riforme a favore delle minoranze italiane del Trentino e dell’Alto Adige. Nell’agosto del 1914, deluso rispetto
alle aspettative riformiste attese dal governo austriaco che ormai pensava più alla guerra con la Serbia, Battisti iniziò a fare
propaganda per l’intervento dell’Italia contro l’Austria-Ungheria per l’annessione di Trento alla Madre Patria. Fu arrestato e
condannato a morte per tradimento dalle autorità austriache il 12 luglio 1916.
Per completare il panorama dei grandi personaggi che furono determinanti per l’entrata in guerra dell’Italia dobbiamo
andare a Trieste, dieci volte più popolosa di Trento, dove la composizione etnica non era così schiacciante a favore degli
italiani poiché le componenti slave e austriache ne controbilanciavano la forza politica. Tra i noti nomi dell’irredentismo
triestino troviamo quelli che furono definiti degli eroi: Guglielmo Oberdan, Giani Stuparich e Scipio Slataper.
V Parte – Il discusso generale Cadorna
Un capitolo a parte è da riservare a Luigi Cadorna, il generale più discusso e controverso della Grande Guerra. Figlio
d’arte, il padre Raffaele nel 1866 (durante la III Guerra d’Indipendenza) aveva guidato un corpo d’armata di 30.000 uomini
lungo la pianura veneta fino all’Isonzo con l’obiettivo di oltrepassarlo per occupare Gorizia e
Trieste durante le trattative di pace tra l’Austria e la Prussia. Anche se l’evento avvenne dopo la
sconfitta di Custoza furono giornate di grande trepidazione. Venne fermato solo in seguito alla
firma della tregua tra Italia e Austria, e il contingente venne poi ritirato ma l’impresa rimase
memorabile.
Luigi nacque a Torino e già a 10 anni entrò nel collegio militare della città dove fu
sottoposto a una severa disciplina che plasmò il suo temperamento. Dopo essersi diplomato
venne assegnato allo stato maggiore. La sua carriera fu costante, il suo carattere freddo, serio e
poco socievole. Nel 1880 divenne capitano, nel 1883 maggiore, nel 1892 colonnello, nel 1898
maggiore generale e nel 1904 tenente generale. Si fece una reputazione per la rigida
interpretazione della disciplina militare e per la sua inflessibilità. La sua prima esperienza di
guerra sul campo l’ebbe nella campagna di Libia. La sua visione dell’esercito, ereditata dal
padre, si basava sull’unità d’azione delle truppe sotto un unico comando supremo composto da
una sola persona. La strategia era invece quella dell’attacco frontale, dello sfondamento in
massa delle truppe, cioè delle offensive compatte di fanteria anche sui terreni montuosi, per una
serie di ragioni spiegate in un suo famoso opuscolo pubblicato a più riprese nel corso degli anni.
Le battaglie dell’Isonzo avrebbero messo in luce le debolezze di questa tesi. La teoria strategica
Il generale Luigi Cadorna
di Cadorna presupponeva che l’azione dell’artiglieria avrebbe dovuto spianare il campo per
facilitare l’azione della fanteria, ma nella pratica l’artiglieria italiana fu sempre insufficiente a spingere indietro gli austroungarici dalle loro posizioni difensive, e quando ci riusciva impegnava comunque le truppe agli scontri corpo a corpo con i
nemici che tentavano subito di riconquistarle. L’elogio dell’offensiva, dell’attacco, dello slancio patriottico del fante era, per
Cadorna, il presupposto necessario per la conquista e la vittoria e solo ad esso doveva seguire la manovra dell’esercito per
adattarsi al nuovo scenario prima di un nuovo attacco. Pur imponendo questa strategia, l’inefficacia delle azioni belliche
dimostrata sul campo richiedeva quasi sempre il rifacimento e il reiteramento ad oltranza delle offensive con lunghi lassi di
tempo necessari al ristabilimento psico-fisico delle truppe, al ripristino del loro numero mediante le riserve e alla preparazione
dell’artiglieria. La macchina bellica dell’esercito italiano oltre ad essere carente di mezzi e uomini, si dimostrò quindi anche
lenta ed elefantiaca. Ecco perché si arrivò a combattere ben 12 battaglie per la conquista di un piccolo altopiano, il Carso, che
fu la tomba di centinaia di migliaia di italiani immolatisi per la patria, e per dare un esito finale positivo al bisogno di conquista
territoriale secondo una strategia militare che, benché non teorizzasse il massacro e il sacrificio, li accettava pur di raggiungere
gli obiettivi prefissati.
In seguito alla morte improvvisa del generale Alberto Pollio, di visioni tattiche molto diverse da quelle di Cadorna,
quest’ultimo assunse i suoi poteri come capo di stato maggiore dell’esercito e si preparò all’inizio della guerra, era il 24
maggio 1915.
Tera de San Marc
Foglio di divulgazione storica, linguistica e-culturale
sulla Lombardia Orientale ex Veneta e la Repubblica di Venezia.
A cura di Serğ Gigant
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Unitaria). I dialetti bergamasco, bresciano, cremasco e cremonese usati, con alcune
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