n° 15 Marzo Aprile 2004 - Teatro Stabile di Genova

Spedizione in A.P. - 45% - Art.2 comma 20/b legge 662/96. Filiale di Genova
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soci fondatori
COMUNE DI GENOVA
PROVINCIA DI GENOVA
REGIONE LIGURIA
socio sostenitore
marzo/aprile duemilaquattro numero quindici
partner della stagione
Il tenente di Inishmore
Festival Teatro Europeo
Articoli di Manganelli,
O’Toole, Paravidino
Intervista con Sciaccaluga
Spettacoli di Ronconi,
Bausch,
Lavaudant, Nekrosius
pagine 2 e 3
pagina 4
Teatro in Inghilterra
Articolo di Billington
pagina 5
Le Grandi Parole
Articolo di Ferrari
pagina 6
Il mestiere del teatro
L’amministratore
di compagnia
Intervista a Patrizia Gatta
pagina 8
Una farsa color sangue
“ I l t e n e n t e d i I n i s h m o r e ” d i M a r t i n M c D o n a g h d a l 2 6 m a r z o a l Te a t r o d e l l a C o r t e
CARLO REPETTI
Nell’indicare la linea sulla quale si muovono le scelte del Teatro Stabile di Genova abbiamo
sempre parlato di teatro “necessario”, necessario per noi che lo
facciamo, necessario per il pubblico. Classico o contemporaneo,
comico o tragico, divertente o impegnato ma sempre comunque
lavoro “necessario”, per il quale
cioè si abbia la chiara sensazione, usciti da teatro, che “ne valeva la pena”, che “dentro è rimasto qualcosa”, che “era proprio
giusto raccontarla, questa storia”. Io credo, noi al Teatro di
Genova crediamo, che un Teatro pubblico com’è il nostro abbia questo inequivocabile compito. Ma questo naturalmente
non basta: teatro “necessario” ma
anche Teatro d’Arte, cioè realizzato al livello massimo in ogni
sua componente (regia, attori,
scene, luci, ecc.), e teatro vitale,
curioso, sempre in movimento,
alla ricerca di linguaggi, di
nuovi autori, di nuovi spazi attraverso i quali leggere la realtà. È questo quello che cerchiamo di fare, quello che ci proponiamo. E allora non è forse un
caso se, impostando così il nostro lavoro, ci troviamo spesso
negli ultimi anni ad anticipare
o almeno a interpretare in tempo reale i grandi temi del mondo. Due anni fa realizzando, sul
rapporto fra democrazia e affari, fra denaro e politica il Nemico del popolo di Miller-Ibsen:
lo scorso anno mettendo in scena quel grande affresco sugli
orrori della guerra che è Madre
Courage, ed ora proponendo al
pubblico con Il tenente di Inishmore una storia che, attraverso
la piena libertà della creazione
artistica e delle sue metafore,
mette in scena il folle mondo di
un terrorista irlandese, prendendolo a pretesto per parlare
di ideologie distorte, di caduta
dei valori quali famiglia, amicizia, solidarietà, con un linguaggio “splatter” che assomiglia ai
film dei Monty Python o di
Quentin Tarantino. Tutto questo a smentire ancora una volta,
e mi auguro definitivamente,
quei pochi che ancora dicono che
un Teatro Stabile è una struttura antiquata, che guarda solo
al classico, che non si cura della
ricerca, dei giovani, e via accumulando luoghi comuni.
(segue a pag. 4)
Martin McDonagh, trentenne nato a Londra da genitori irlandesi,
è diventato ormai un autore di casa al Teatro Stabile di Genova,
che lo ha scoperto con La bella regina di Leenane e Lo storpio di
Inishmaan e che propone oggi, in novità assoluta per l’Italia, Il
tenente di Inishmore, commedia nella quale il comico e il tragico, la
violenza e il riso, il dramma della storia e i suoi risvolti più farseschi si mescolano ancora una volta nel più libero gioco del teatro.
C’è qualcosa di folle e d’inquietante insieme in questa liberissima
lettura del dramma del terrorismo e nella carrellata sui suoi imprevedibili protagonisti, tratteggiati con i toni della grande tradizione
irlandese, nella quale l’influenza di John M. Synge e di Brendan
Behan si coniuga con la tensione etica del cinema di John Ford,
all’interno di sorprendenti soluzioni drammaturgiche che hanno
indotto la critica inglese a citare i Monty Python o Quentin
Tarantino. Seconda tappa della trilogia dedicata da McDonagh alle
isole Aran, questa moderna e personalissima “Black Comedy”
viene proposta nella traduzione appositamente commissionata a
Fausto Paravidino, giovane drammaturgo sulla cresta del successo, e con l’interpretazione di una compagnia d’attori appartenenti
a diverse generazioni e tutti molto cari allo Stabile genovese: Ugo
Maria Morosi, Roberto Alinghieri, Arianna Comes, Aleksandar
Cvjetkovic, Gianluca Gobbi, Enzo Paci, Gaetano Sciortino, Pietro
Tammaro. Come già per Lo storpio di Inishmaan, la messa in scena
è di Marco Sciaccaluga. Scene e costumi sono firmati da Guido
Fiorato, le luci da Sandro Sussi e la fonica da Claudio Torlai.
Quattro grandi Star dall’Europa
In autunno un Festival di Teatro Internazionale per Genova 2004
siderare una specie di Molière
post USA. Uno con l’intelligenza di trasformare in commedia e di far diventare Maschere dei personaggi comuni
(come me, come tua sorella,
come tuo padre…) che hanno
fatto loro i peggio vizi di
Hollywood (se non sono d’accordo con te ti sparo, cazzo
cazzo cazzo, brutto figlio di puttana etc.). Ma il senno di poi
verrà col poi se verrà il senno,
per il momento non ci riguarda. Sono solo commedie le sue?
La presenza del Teatro Stabile
di Genova nella programmazione di Genova 2004 si è articolata nel corso di questa stagione come un lungo viaggio
dentro alla cultura teatrale di
un Continente, che vedrà nei
prossimi mesi la messa in
scena, oltre che dell’irlandese
Il tenente di Inishmore di cui
si parla in questo giornale, anche dell’elisabettiano L’alchimista e della rivisitazione italiana di un classico della letteratura francese, Candido, per
culminare in ottobre-novembre
con il festival Teatri d’Europa,
realizzato grazie alla collaborazione del Comitato Genova
2004. Quattro grandi spettacoli: uno di produzione (La Centaura di Andreini) e tre ospiti
stranieri (Il giardino dei ciliegi
di Anton Cechov, Kontakthof
mit Damen und Herren ab 65
di Pina Bausch, Hamletas di
William Shakespeare). Preziosa
occasione culturale che vedrà
confrontarsi sul palcoscenico del
Teatro della Corte quattro grandi maestri della regia (Luca Ronconi, Georges Lavaudant, Pina
Bausch, Eimuntas Nekrosius)
e quattro centri di produzione
fra i più importanti d’Europa:
lo Stabile di Genova, il Théâtre
de l’Odéon di Parigi, il tedesco Tanztheater di Wuppertal
e il lituano Teatro di Vilnius.
(segue a pag. 3)
(notizie a pagina 4)
GIOVENTÙ, GIOCO E RABBIA
FAUSTO PARAVIDINO
Chiaro che quel figlio di puttana mi è stato subito simpatico dal primo momento che
l’ho visto, che era La bella
regina di Leenane a Genova.
Facile dire perché. È divertente ed è esattamente il tipo
di divertimento che diverte
me. È molto difficile scrivere
quattro righe serie su di lui
perché tutto il suo lavoro sembra (e penso che sia) dominato da una cieca volontà di non
farsi prendere sul serio. Il
senno di poi lo potrà forse con-
In alto: una scena d’insieme durante le prove di Il tenente di Inishmore; a sinistra:
Ugo Maria Morosi e Enzo Paci durante le prove (foto Bepi Caroli).
Qui sopra (in senso orario): Mariangela Melato e scene di Il giardino dei ciliegi,
Kontakthof e Hamletas
TORNANO LE PAROLE DEL “VIAGGIO”
Iniziato con clamoroso successo nelle settimane scorse (sala
esaurita, proiezione a circuito chiuso nel foyer per gli esclusi), il ciclo delle Grandi Parole dedicato quest’anno al tema
Viaggio e viaggiatori, riprende lunedì 29 marzo al Teatro
della Corte con la serata condotta da Maurizio Maggiani e
con le letture dei testi affidati a Marzia Ubaldi e Gianpiero
Bianchi. Il titolo della serata (inizio ore 20.30) è La rondine e l’orso, ovvero Il viaggio come fuga. Seguiranno gli
appuntamenti con La mente all’inverso, ovvero Il viaggio
come memoria (lunedì 5 aprile: relatore Romolo
Rossi, interpreti Giulia Lazzarini e Ugo Maria Morosi) e
con Verso l’invisibile, ovvero Il viaggio come immaginazione (martedì 13 aprile: relatore Ernesto Franco, interpreti
Giuliana Lojodice e Massimo Venturiello). (notizie a pagina 6)
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Il tenente di Inishmore
al Teatro della Corte
“Il tenente di Inishmore”, che viene presentato alla Corte in prima nazionale, è una commedia di travolgente comicità, coniugata su
un tema di tragica attualità quale il terrorismo irlandese. Padraic, giovane e temutissimo rivoluzionario irlandese, ama il suo gatto
più della vita stessa, più di suo padre e dei
suoi amici d’infanzia. Tanto che, quando la
povera bestia viene data per morta in un
imprevedibile incidente ciclistico, il terrore
si diffonde nel villaggio e il presunto colpevole fa disperatamente di tutto per occultare
il cadavere dell’animale. Mentre il terribile
Padraic esce dalla clandestinità con propositi di strage. Ciò che ne consegue, nel contesto di una narrazione in cui il grande amore
romantico può sbocciare improvvisamente
tra la violenza e la morte, è cosa che lo spet-
tatore può gustare al meglio solo nella realtà
del palcoscenico, in un fuoco di fila di colpi
di scena, tra le numerose trovate comiche e
le straordinarie variazioni di linguaggio di un
autore che sa tradurre immediatamente
in teatro la vita osservata in presa diretta.
Un ‘‘Tenente’’ perversamente comico
Martin McDonagh: il successo e le opere di un “Natural Born Story Teller” GROTTESCO
E TRAGICO
Chi ha fatto secco Wee Thomas su una stradina solitaria
di Inishmore sparpagliando
interiora e cervella ai quattro
venti? E poi, è stato un incidente o un’esecuzione in piena
regola? Siamo seri, può essere
accidentale la morte di un
gatto nero che è il miglior
amico al mondo di un pazzo di
terrorista irlandese che su al
Nord mette bombe nei negozi
di patatine e che l’IRA non
vuole perché è troppo pazzo? È
una disgrazia o una trappola
per far tornare a casa Padraic
il matto, tenente dell’INLA
con la fissa della scissione, che
troviamo impegnato nella fantasiosa e ributtante tortura di
un tizio perché spacciava
marijuana ai ragazzini cattolici, che se erano protestanti
chissenefrega?
No, non può essere un incidente, se a trattare il caso in
Il Tenente di Inishmore è
Martin McDonagh, autore di
una “black comedy” perversamente comica, macabra e
demenziale come un cartone
animato “splatter”, un film
dei Monty Python girato in
uno scannatoio, o Il malloppo
di Joe Orton rivisitato da
Quentin Tarantino. Lo sfondo
di questa soap opera gotica è
quello rurale e selvaggio dello
Storpio di Inishmaan, cambia
solo isola, come per The Banshees of Inisheer, ma siamo
ancora nelle Aran, oggetto
dell’omonima Trilogia che
segue quella di Connemara,
formata da La bella regina di
Leenane, Un teschio a Connemara e Il solitario ovest.
L’assassinio del felino - e poi
dicono che i gatti neri non
chiamano scalogna - innesca
una spirale di violenza grottesca. In breve la scena si trasforma in un granguignolesco,
esilarante tritacarne. Pistolettate, accecamenti, smem-
bramenti, secchiate di sangue
da far scomparire Seneca, elisabettiani e giacobiani. Il tutto
in un vecchio cottage di Inishmore protetto dalla rassicurante scritta “Casa, dolce casa”. Protagonisti un branco di
psicopatici irlandesi un po’
sentimentali che sparacchiando e segando vertebre si commuovono con vecchie canzoni
patriottiche. Bombaroli e spacconi con inclinazione al parricidio come Padraic, mitizzati
dalle ragazze, proprio come il
Christy Mahon di Il furfantello
dell’ovest di Synge.
McDonagh consegna alle scene una parodia irriverente,
certo, - e qualche ostracismo,
proprio come Synge, lo ha
avuto da irlandesi offesi - ma
sostenuta da una indignazione morale autentica che si
carica, senza quasi darlo a
vedere, di problemi tragicamente attuali. Come il terrorismo, in questo caso quello
della formazione paramilitare
repubblicana dell’INLA, The
Irish National Liberation
Army, una cellula di estremisti usciti dall’IRA, responsabile di gravi attentati, coinvolta
in faide sanguinose anche per
traffico di droga tra il 1974 e il
1998, quando firmò il cessate
il fuoco. Nel Tenente di Inishmore McDonagh passa al pettine fitto la nebulosità ideologica di un patriottismo distorto e sentimentale, l’imbarbarimento della lotta armata, la
caduta di qualsiasi valore
etico, la disgregazione dei rapporti familiari, dell’amicizia e
della solidarietà, i “principi” e
le priorità di militanti in stato
confusionale, che scambiano
la lista degli obiettivi sensibili
con la hit parade delle canzonette. Perché McDonagh, anglo-irlandese ma con forti tradizioni familiari repubblicane, un giorno si è indignato
davvero. Il 20 marzo 1993
l’IRA mise due bombe a Warrington, nel Cheshire. Era sabato, il giorno dopo sarebbe
stata la Festa della Mamma.
Le strade erano piene di gente. Due bambini, Jonathan
Ball di tre anni e Tim Parry di
dieci, morirono. Per la nazione fu uno shock, e anche per
McDonagh che decise di prendere la parola in una questione politica. Ma è artista e non
ha fatto proclami o interviste
in talk show. Il tenente di
Inishmore, “black comedy” intelligente e corrosiva, quanto
di più “politically incorrect” e
meno digestivo si possa desi-
derare a teatro è il suo modo
per dire no, come irlandese, al
terrorismo. Non nel suo nome.
A leggerlo, nella felicissima
traduzione di Fausto Paravidino, drammaturgo giovane e
di talento come McDonagh e
altrettanto brillante nel palleggio di fulminanti battute
“one-liner”, fa sbellicare dal ridere, ma appena l’ilarità si
smorza si scopre di essere
decisamente a disagio, perché
non c’è proprio niente da ridere. McDonagh è ormai un
fenomeno teatrale mondiale.
Il direttore artistico dell’American Repertory Theatre Robert Brustein si sbilancia fino
a definirlo il primo grande
drammaturgo del XXI secolo.
I fatti sembrano dargli ragione. Come lui solo Shakespeare ha avuto quattro opere
rappresentate a Londra nella
stessa stagione. È tradotto in
28 lingue e rappresentato in
30 paesi. Inoltre il ragazzo (ha
scarsi 34 anni ed è in carriera
da quasi 10, sempre con un
seguito da rock star e pubblici
di ogni età) è stato ricoperto di
premi in patria e in USA.
L’anno scorso ebbe il prestigioso Olivier Award per Il
tenente di Inishmore. Pochi
giorni fa ha replicato per la
migliore nuova commedia con
The Pillowman (L’uomo del
cuscino), prodotto dal National Theatre, uno dei testi
più sconvolgenti e poetici di
questo geniale storyteller irlandese, una macchina da storie che riplasma il crudele
mondo delle fiabe con fendenti micidiali. Nel discorso di accettazione, ha spiazzato tutti
ringraziando il leader dei
“Clash” Joe Strummer «per
avermi per primo fatto desiderare di scrivere». Il ragazzo
è fatto così. Teatro ne vede e
ne legge poco, dice, anche se
non nega l’influenza di J.M.
Synge, di Pinter, di Mamet e
soprattutto del suo American
Buffalo. Si è allevato da sé a
dosi massicce di tv e film,
Lynch, Tarantino, Scorsese,
Woo sono i suoi autori preferiti, i cartoni di South Park lo
deliziano. Nelle sue commedie
si muore letteralmente dal ridere, se si è forti di stomaco.
Recentemente ha dichiarato
che scriverà una storia romantica dove non muore quasi nessuno. Nessuno gli ha creduto.
Giuliana Manganelli
Durante le prove di Il tenente di Inishmore: in alto, Gianluca Gobbi e Arianna
Comes; in basso, Aleksandar Cvjetkovic e Gianluca Gobbi.
Così ne ha scritto la critica londinese
THE GUARDIAN
Nella migliore commedia da lui
scritta sino a oggi, McDonagh porta sulla scena in modo affascinante, con la massima coerenza politica e drammaturgica, l'esplosione
della violenza, dimostrando che
l'estremismo infetta le persone
come un virus mortale. Questa è
una commedia terrorizzante su un
soggetto molto serio, affrontato
con la follia dei Monty Python.
Il tema è l’ottusità morale del terrorismo. La commedia ha un chiaro punto di vista morale. Dimostra
che, nella lotta per l’Irlanda unita, i
mezzi violenti hanno superato di
gran lunga i fini legittimi, e che il
nucleo fanatico si mescola con lo
sdolcinato sentimentalismo, con il
puritanismo sessuale e un senso
della storia altamente selettivo.
marzo / aprile 2004
Come ogni satira di qualità, Il
tenente di Inishmore attacca l’eccesso e approva il buon senso.
Michael Billington
FINANCIAL TIMES
Dall'inizio alla fine non si smette
di ridere e di pensare che non si
è mai immaginato nulla di più
drammaticamente divertente. Il
tenente di Inishmore è, a tutt’oggi, la commedia più nera, più
divertente, più violenta, più assurda, più irlandese che sia mai
stata scritta. Più folle diventa,
più ti fa sentire equilibrato.
Alastair Macaulay
THE TIMES
McDonagh appartiene alla più
insigne tradizione irlandese: egli
possiede gli strumenti per deride-
re la stupidità, smascherare l’insensibilità, e sa non preoccuparsi
di chi disturba. Attraverso la combinazione di violenza stilizzata e di
comico sentimentalismo, Mc
Donagh spinge la satira sino al
limite del disegno animato: e ne
sortisce uno spettacolo coraggioso, ferocemente divertente.
macabramente divertente. Il tenente di Inishmore è un capolavoro della black comedy, nel
quale le più grasse risate e le più
schoccanti trovate si coniugano
con la più inquietante tematica,
in un trionfo di effetti teatrali.
Benedict Nightingale
JEWISH CHRONICLE
Bersaglio di McDonagh è la psicopatica ipocrisia che può accompagnarsi alla più nobile delle
cause. Questa non è una commedia sulla politica irlandese. È
una commedia che mette in scena con allegria la banale logica
dell’uccidere per una causa, i cui
sostenitori - per assurdo - subordinano la libertà di una nazione al martirio di un gatto.
TRIBUNE
Martin McDonagh è proprio la
persona giusta per affrontare uno
dei temi d’attualità più scottanti:
cosa passa nella testa del terrorista? Con una commedia da far rizzare i capelli, egli prende in giro il
terrorismo irlandese in un modo
che risulta allo stesso tempo sbeffeggiante e intelligente. McDonagh
coglie perfettamente, quel misto di
sciocco sentimentalismo e disumano disprezzo per la vita quotidiana che infetta l’estremista politico. La sua non è una commedia
psicologica e il suo humour selvaggio è spesso giovanilistico,
ma egli ha il coraggio di ricercare una via d’uscita da una situazione che, dall’11 settembre, è
diventata sempre più pressante.
John Nathan
Aleks Sierz
DAILY TELEGRAPH
McDonagh tiene insieme le fila
della sua trama con superba
ostentazione e il suo dialogo è
una gioia per chi l’ascolta: ricco
di un humour rivelatore che rivela i terroristi nei loro aspetti più
deboli e assurdamente veri. Solo
lui poteva affrontare il soggetto
del terrorismo irlandese con una
commedia tanto ardita, brillante,
Charles Spencer
In quanto figlio della diaspora disseminata in Inghilterra, McDonagh ha un luogo natale (Londra) e
una patria immaginaria (l’Irlanda
occidentale). In quanto drammaturgo, la sua casa è in entrambi
questi luoghi e in nessuno dei due.
È ovunque e da nessuna parte, al
di là degli aldilà, una regione caotica dove la banalità e il grottesco, la
terribilità e il terribilmente comico,
la violenza e il desiderio, si rimodellano incessantemente una nell’altra. Martin McDonagh, madre
di Sligo e padre di Galway, è cresciuto a Londra. Intorno aveva zie
e zii irlandesi. La sua famiglia viveva in un condominio popolare di
Elephant and Castle dove metà
delle case era abitata da irlandesi.
Stesso vicinato quando si trasferirono nella vicina Camberwell. Le
vacanze estive le passava a Enskey,
contea di Sligo e nel Connemara.
Era corista nella parrocchia cattolica del quartiere ed è stato allevato
in un’atmosfera intrisa dell’emotività dei racconti del nazionalismo
irlandese. Poi i suoi genitori sono ritornati a Lettermullan, nel Connemara, e anche se lui e il fratello maggiore sono rimasti a Londra, hanno
continuato a trascorrere tutte le
vacanze estive in Irlanda. Lui era,
ed è, cittadino di quella terra indefinita che non è né Irlanda né Inghilterra, ma confina con entrambe. La sensazione che McDonagh
abiti una terra di nessuno tra due
mondi è ancora più evidente nella
carica di violenza delle sue opere.
La truculenza delle commedie non
va intesa in senso letterale, certo,
ma non è nemmeno pura invenzione. È il portato di una confusione culturale avvertita con grande
apprensione, di un mondo in cui il
senso e i valori sono andati in mille pezzi indecifrabili. E il senso di
questa confusione è, per sua natura, anche comico. McDonagh porta
allo scoperto le comuni radici della
commedia e della violenza. Entrambe derivano da una prospettiva distorta, dalla perdita del senso
delle proporzioni. L’esagerazione
che rende comica un’azione è anche
l’iperbole che è implicita nel modo
in cui la violenza funziona in quanto risposta assolutamente sproporzionata alle circostanze. Partendo dalla percezione di un mondo
in cui le cose sono fuori posto,
McDonagh costruisce la dark comedy non limitandosi a giustapporre horror a humour, ma indicando le
comuni radici di entrambi. Ma
quello che conta davvero è che queste commedie sono un tentativo di
rimettere insieme quei frammenti
di senso. McDonagh intreccia una
varietà straordinaria di immagini
nella forma della pièce bien faite
che costruisce con assoluta maestria drammaturgica. Ci sono tocchi di Shakespeare e della soap
opera, del Grand Guignol e della
Bibbia, del melodramma e dei fratelli Grimm. Il realismo più brutale trascolora nell’epica eroica.
Fintan O’Toole
estratti dal saggio pubblicato nel volume
che accompagna lo spettacolo
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Il tenente di Inishmore
al Teatro della Corte
C ONVERSAZIONE
CON
M ARCO S CIACCALUGA
REGISTA DELLO SPETTACOLO IN SCENA ALLA
C ORTE
Un mondo alla rovescia
Da Lo storpio di Inishmaan a
Il tenente di Inishmore: cambia qualcosa nella drammaturgia di Martin McDonagh?
Aumenta molto il divertimento, la voglia di ridere e di far
ridere. Tutto diventa più forsennato. La scrittura di Mc
Donagh incrudelisce, osa sempre di più nella direzione della
violenza, perde quel filo di
patetico e di romantico che sopravviveva ancora nel protagonista dello Storpio. Quello
che mi sembra particolarmente interessante, poi, è che qui,
più che altrove, McDonagh
afferma con forza la propria
appartenenza a una tradizione
che va dai maggiori drammaturghi irlandesi (John M. Synge e Brendan Behan, soprattutto) ai grandi film di John
Ford. Tutto questo a me piace
molto, anche perché concorre a
mettere in evidenza come la
modernità non sia il risultato
di una semplice contrapposizione al passato, ma si proponga consapevolmente come il
frutto di un albero che si rigenera. Il rapporto che McDonagh ha con l’Irlanda è, in
questo senso, soprattutto di
natura mitica: i suoi irlandesi
sono matti e violenti, ma nello
stesso tempo sono buoni e sentimentali; il loro amore per la
vita si manifesta attraverso
forme comportamentali - bere,
torturare, uccidere - portate sino alle estreme conseguenze.
Il tenente di Inishmore parla
del terrorismo attraverso lo
spunto paradossale della morte di un gatto, spostando così
una tragedia della storia moderna sul terreno della farsa.
Non c’è dubbio che Il tenente di
Inishmore sia una farsa. E lo è
nel modo più esplicito. La
farsa non è un genere teatrale
minore; e McDonagh ha il coraggio di frequentarla, oltreché il merito di saperla fare. Lo
spunto narrativo della morte
di Wee Thomas, il gatto nero
del terrorista Padraic, sortisce
evidentemente da una provocazione: in un mondo alla rovescia la morte di un gatto può
innescare una lunga serie di
sanguinose vendette, dato che
la vita di un animale diventa
più importante di quella degli
uomini. Credo comunque che
sia un errore leggere Il tenente
Gianluca Gobbi con Ugo Maria Morosi e Enzo Paci durante le prove.
di Inishmore come un testo sul
terrorismo irlandese. Se basta
la morte di un gatto per far
irrompere la storia anche nella
sperduta landa di Inishmore,
vuol dire soprattutto che l’atavico mondo contadino non può
più permettersi di essere chiuso, autosufficiente. Anche gli
abitanti delle isole Aran devono ormai fare i conti con i temi
della globalizzazione, che vi si
manifestano in forme "soft" attraverso la lettura di un fumetto o l’ascolto di una musica
rock, ma vi possono fare anche
irruzione con in pugno le armi
di una faida tra terroristi.
Se nel Tenente di Inishmore il
terrorismo diventa poco più di
un pretesto narrativo (quasi un
Mac Guffin hitchcockiano), dove sta allora il centro del suo
interesse?
McDonagh è innanzitutto un
grande scrittore comico. Come
Molière, egli sceglie di far diventare protagonisti gli stupidi e gli ossessi, i malati più o
meno immaginari; e come
Gogol’ sa trasformare i propri
protagonisti in grandi personaggi proverbiali. Credo che
questa sia una caratteristica
anche di molto cinema moderno, come ad esempio quello di
Quentin Tarantino che forse ha
più di un rapporto con il mondo
di McDonagh. Perché devo
interessarmi tanto a personaggi così moralmente orrendi e
mostruosi? Perché mi divertono e mi commuovono, nonostante siano persone con le
quali non vorrei proprio avere
nulla a che fare? Proverbialità,
appunto. È ciò che ci ha insegnato Molière. Quello di
McDonagh è un teatro che
chiede al regista direzione d’orchestra più che interpretazione
critica. I personaggi del
Tenente di Inishmore pretendono soprattutto di essere compresi e messi in scena, di vivere sul palcoscenico per quello
che dicono e per quello che
fanno. Solo rispettando la loro
volontà, trattandoli per quello
che sono possono davvero assumere una valenza proverbiale.
L’influenza del cinema, già
molto forte nelle commedie precedenti di McDonagh, diventa
qui esplicita, tanto che il testo
sembra richiedere al palcoscenico cose possibili solo su un
set cinematografico. Di fronte a
questa drammaturgia il regista teatrale è inesorabilmente
costretto a fare delle scelte
estreme. Quale è stato il crite-
rio che ha guidato le tue?
Una commedia come Il tenente
di Inishmore è l’incubo dello
scenografo e del direttore di
scena, oltre che del regista.
Come uscirne vivi? Credo che,
dopo la prima reazione di sgomento che tutti abbiamo
avuto, il primo passo vincente
sia stato quello dell’ammirazione. Ammirazione per la
straordinaria libertà di McDonagh. Un grande narratore
di favole teatrali deve scrivere
infischiandosene altamente
dei problemi del palcoscenico e
dello stile di rappresentazione.
Ogni settore della vita creativa
del teatro non ha bisogno di
farsi carico dei problemi che
non gli appartengono. Con
questa assoluta libertà, del
resto, hanno sempre proceduto
i grandi scrittori di teatro.
Basti citare Shakespeare.
Detto questo, poi è chiaro che
tutto va risolto nella specificità
del linguaggio teatrale. E allora s’inizia a lavorare. Il fascino
del teatro che mi piace fare è
quello in cui lo stile nasce dal
modo in cui si decide di risolvere un problema, e non è mai
il risultato di una scelta pregiudiziale.
Mairead, unico personaggio
femminile di una commedia
sempre sospesa tra violenza e
sentimento, è protagonista di
una duplice storia d’amore:
quella per Padraic e quella per
il suo gatto arancione. Alla fine
sembra che questo abbia il
sopravvento su quello.
In questo finale, torna ancora
una volta l’idea che uccidere
un gatto sia un peccato mortale, mentre uccidere un uomo
no. Scherzosamente, durante
le prove, dicevo agli attori che
dovevano pensare di recitare
per un pubblico di gatti. Nella
commedia c’è, infatti, l’idea
provocatoria che l’innocenza
non appartenga alla specie
umana, ma solo ai gatti. Se i
gatti vedessero il nostro spettacolo, credo che ne uscirebbero contenti. Per questo, mi
piace sperare che coloro che
verranno a vedere il nostro
spettacolo, alla fine, con le
lacrime agli occhi dal ridere,
possano uscire da teatro proprio come un pubblico di gatti.
Contenti.
a cura di Aldo Viganò
compagnie ospiti
DON CHISCIOTTE
ACOUSTIC NIGHT 4
di Andrea Nicolini e Stefano Curina
da Miguel de Cervantes
con Beppe Gambetta
Gene Parsons, Patty Larkin
Duse 5 / 8 aprile
Due attori (Andrea Nicolini e
Rosario Lisma) e sei musicisti
per raccontare dal vivo le imprese del “Cavaliere dalla triste
figura”. Un classico in musical.
Corte 15 e 16 aprile
Nuovo appuntamento con la
musica di Beppe Gambetta che,
con i suoi ospiti internazionali,
propone l’affascinante dialogo
tra chitarra acustica e voce
umana.
GEORGES DANDIN
IL PROCESSO
di Molière
di Andrea Battistini da Franz Kafka
Duse 20 / 30 aprile
L’ossessione delle corna in un
capolavoro del maggiore commediografo del teatro francese.
Il “parvenu” e la giovane nobildonna. Con Lello Arena e Gaia
Aprea, regia di De Fusco.
Duse 13 / 18 aprile
Un capolavoro della letteratura
riletto con gli strumenti del teatro. Josef K. è il protagonista di
un incubo che inesorabilmente
ancora ci appartiene.
GIOVENTÙ, GIOCO E RABBIA
(segue da pag. 1)
Sì, penso che siano addirittura commedie, che come le grandi commedie pescano nella realtà e la sbattono in teatro. E lui col teatro
ci gioca come un pazzo, usa tutti i trucchi e nega tutti i trucchi. A
quelli a cui non piace non so cosa dire, pazienza, non vedo nessun
grande significato nascosto da rivelare a suo beneficio. Ho letto Il
tenente di Inishmore quando è stato pubblicato in UK (2001), ho
visto l’edizione inglese (2002), un enorme successo di pubblico, uno
spettacolo molto funny. Mi sarebbe piaciuto trovare un modo per
collaborare alla versione italiana, poi il Teatro Stabile di Genova
mi ha chiesto se volevo curare la traduzione, ho fatto finta di pensarci qualche giorno ed eccoci qua. Non è stato semplicissimo perché anche se non si perde mai in rocamboleschi giochi di parole la
sua scrittura è rapidissima e caratterizzata dalla ripetizione
ossessiva delle stesse parole (a volte con diverse sfumature di
senso a seconda del contesto). L’esempio più tipico è forse la parola preferita da Martin: “fucking”, nella sua dizione irlandese “fecking”, alla lettera “fottuto”. Per lui è l’insulto universale, “This
feck”, “You feck”, “fecking cat” etc., in italiano varia assolutamente a seconda del contesto “Sto stronzo”, “Coglione”, “Gatto di
merda” etc. Si mantiene l’aspetto squisitamente colloquiale della
sua drammaturgia ma si perde l’eleganza dell’uso retorico della
ripetizione. Mi è venuto un po’ in soccorso il pessimo doppiaggio
dei film americani, che ha ormai influenzato il nostro modo “giovanile” di litigare così come la fonte (il film americano non doppiato ma non per questo più Irish) influenza i suoi personaggi, per
cui mi è sembrato l’unico caso in cui il “doppiese” fosse consentito.
Se scrivesse come Melville dovrei rifarmi a Pavese, ma visto che i
suoi personaggi vengono dalla sottocultura pop made in USA c’è da
rifarsi a come questa ha influenzato il linguaggio in Italia, non sarà
bello ma è quello che abbiamo, le commedie parlano di vizi, non si
può imbellettare la realtà dove il contesto richiede di sbeffeggiarla.
E poi mi ha aiutato molto la sensazione di capire qual era l’effetto
teatrale che voleva ottenere e di apprezzarlo. Visto che non sono
propriamente un traduttore ma uno scrittore di teatro, insomma,
un collega, mi sono sentito abbastanza libero di cercare di ricreare
gli stessi meccanismi scenici in italiano per un’audience italiana
più che di inseguire un’analisi letteraria della faccenda. Quella la
lascerei al senno di poi, se ci sarà un senno, se ci sarà un poi.
Fausto Paravidino
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F ESTIVAL
DI
T EATRO I NTERNAZIONALE
CON
L UCA R ONCONI , G EORGES L AVAUDANT, P INA B AUSCH , E IMUNTAS N EKROSIUS
Quattro grandi Star dall’Europa
Fra ottobre e novembre la Rassegna che concluderà per il Teatro Stabile la stagione di “Genova, Capitale Europea della Cultura”
(segue da pag. 1)
4
1
1. Luca Ronconi • 2. Orlando
Furioso • 3. Hamletas • 4. Eimuntas
Nekrosius • 5. Kontakthof • 6 e 7.
La cerisaie • 8. Hamletas • 9.
Mariangela Melato con Luca Ronconi
• 10. Kontakthof • 11. Georges
Lavaudant • 12. Pina Bausch
2
3
5
7
8
6
L’altra importante notizia presente sul nostro giornale di questo mese è la presentazione del
Festival di grande Teatro Europeo che, anche grazie alla collaborazione con il Comitato
Genova 2004, concluderà nei
mesi di ottobre e novembre il
lungo viaggio che stiamo compiendo all’interno del teatro del
nostro continente. Il pubblico
genovese e quanti verranno da
fuori per l’occasione potranno
infatti assistere a quattro spettacoli di assoluto livello internazionale, un Festival a cui
pensavamo da anni e che per la
prima volta nella sua storia il
Teatro di Genova riesce a realizzare: accanto allo spettacolo
di apertura, La Centaura di
Andreini, una nostra produzione con Luca Ronconi regista e
Mariangela Melato protagonista, si potrà vedere il lavoro del
regista francese Georges Lavaudant sul Giardino dei ciliegi di
Cechov, il capolavoro di Pina
Bausch Kontakthof, e lo spettacolo cult di uno dei maestri
della scena europea, il lituano
Nekrosius, Hamletas. Quale occasione migliore dunque per
terminare il viaggio nel teatro
europeo e per dimostrare, ancora una volta, che il titolo di “Capitale europea della cultura”
Genova ha saputo conquistarlo
e sa meritarlo non solo grazie
alle sue glorie passate ma
anche con la forza e la vitalità
culturale del suo presente.
Carlo Repetti
9
LA CENTAURA
di Giovan Battista Andreini
produzione: Teatro Stabile di Genova
regia: Luca Ronconi
Teatro della Corte
14 ottobre / 5 novembre
10
LA CERISAIE (Il giardino dei ciliegi)
di Anton Cechov
produzione: Théâtre de l’Odéon
regia: Georges Lavaudant
Teatro della Corte 9 / 11 novembre
11
KONTAKTHOF MIT DAMEN
UND HERREN AB 65
12
HAMLETAS (Amleto)
di William Shakespeare
produzione: Meno Fortas Vilnius
regia: Eimuntas Nekrosius
Teatro della Corte 25 / 27 novembre
Sottotitoli elettronici
di Pina Bausch
produzione: Tanztheater di Wuppertal
regia: Pina Bausch
Teatro della Corte 19 / 21 novembre
Scritto nel primo Seicento da Giovan Battista
Andreini, discendente di una famiglia di teatranti e autore di punta del barocco italiano, La
Centaura racconta una storia ricca di colpi di
scena e di soluzioni fantastiche, che ha al proprio centro due sorelle - una donna e l’altra
centaura - affidate entrambe alla interpretazione di Mariangela Melato, al fianco della
quale sarà una numerosa compagnia composta
in prevalenza da giovani. Tipico esempio di teatro barocco e spettacolare, dove il mito si allea
vivacemente alla “buffonata” e dove i vari
generi teatrali - commedia, tragedia, pastorale
- s’intrecciano in un ricco gioco di magie, allegorie, scambi di persona e uccisioni, La Centaura è un testo ideale per liberare la fantasia
creativa di Luca Ronconi, il quale torna a frequentare il teatro di Andreini dopo un lontano
saggio, proprio su La Centaura, con gli allievi
dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e
la più recente messa in scena di Amore allo
specchio, sempre con Mariangela Melato.
Il direttore del teatro dell’Odéon mette in scena
l’ultimo capolavoro di Anton Cechov in una elegante e apprezzata edizione che si avvale nei
ruoli principali dell’apporto di attori quali Philippe Morier-Genoud, Gilles Arbona, Hervé
Briaux e Sulvie Orcier. Dramma del tempo che
scorre e commedia sulle variazioni della vita
umana, Il giardino dei ciliegi si cadenza sul
ritmo delle quattro stagioni (una per ogni atto) e
si articola sul tema dell’abbattimento del giardino dove i protagonisti hanno trascorso la loro
felice giovinezza. Una sinfonia notturna in abito
bianco: quattro movimenti che celebrano il lungo
addio a un passato addolcito dal ricordo; l’inevitabile distruzione del giardino che ciascuno
porta dentro di sé, quando ormai è diventato una
bellezza che non dà più frutti. Una commedia
sobria e brillante insieme, soffusa di un tono di
dolce malinconia e resa lugubramente drammatica dai colpi delle accette che risuonano mentre
i protagonisti partono, lasciandosi alle spalle il
fascino del passato.
È già uno spettacolo cult: un’elegia sulla difficoltà dell’amore, vissuta e danzata da donne e
uomini tutti sopra i sessantacinque anni. Accolto
in modo trionfale dal pubblico, lo spettacolo della
grande coreografa tedesca è stato così descritto
dalla critica: «L’usura del tempo sui corpi e sulle
anime, sembra volerci spiegare la Bausch, rende
ancora più vero e crudele questo spettacolo sull’impossibilità dell’amore, sui tentativi scherzosi, amabili e violenti, di entrare in contatto con
l’altro sesso, su come ci si pavoneggia per attirare l’attenzione altrui, su come, si reagisce,
anche con gesti assurdi, all’imbarazzo per la
vicinanza dei corpi». Esplorando il territorio per
molti versi affascinante e misterioso della terza
età, la Bausch prosegue nella sua ricerca appassionata e senza concessioni alle mode di un
senso della vita e dei comportamenti degli esseri umani. Il suo è un teatro-balletto sotteso da
una forte tensione etica, che non impegna solo
l’alta professionalità dei corpi, ma tende soprattutto a cogliere l’essenza della persona.
Hamletas è forse lo spettacolo che più di ogni
altro ha concorso a determinare la fama europea di Nekrosius quale regista di spettacoli
dalle immagini folgoranti e dalle soluzioni figurative inaspettate. Al centro di questa personalissima rilettura del dramma scespiriano stanno un lampadario di ghiaccio che sgocciola sulla
scena e un Amleto affidato alla vitalistica interpretazione di un attore che viene dalla professione di cantante rock. Quello che ne sortisce è
uno spettacolo moderno ma lontano dai facili
stravolgimenti di certa avanguardia, capace di
rendere immediatamente comprensibile la ricchezza del testo. Un grande allestimento dalle
suggestive invenzioni scenografiche e interpretative, da cui affiorano frequentemente vere e
proprie gags comiche, in una stimolante deformazione quasi clownesca della tradizione interpretativa, ma sempre in pieno accordo con lo
spirito scespiriano, dove comico e tragico si
mescolano continuamente sino a fondersi in
una compiuta e perfetta unità artistica.
Luca Ronconi
Georges Lavaudant
Pina Bausch
Eimuntas Nekrosius
Regista di punta del teatro italiano, Luca
Ronconi (Susa, Tunisia, 1933) ha sempre saputo
coniugare classicità e sperimentazione, perseguendo con coerenza nuove modalità spaziali ed
espressive. Nel corso della sua carriera ha più
volte incrociato il proprio lavoro con quello del
Teatro Stabile di Genova, per il quale ha diretto
alcuni spettacoli memorabili quali L’anitra selvatica, L’affare Makropulos, Quel che sapeva
Maisie. Con La Centaura, torna a lavorare con
Mariangela Melato in uno spettacolo che si
annuncia, sulla scia dell’Orlando furioso, come
una gioiosa festa del teatro.
Dal 1996 direttore del Théâtre de l’Odéon di
Parigi, Georges Lavaudant (Grenoble 1947) è
uno dei registi più apprezzati della scena francese contemporanea. Tutti i suoi spettacoli hanno in comune la proposta di un universo che
oscilla tra il sogno e la realtà, caratterizzato
dall’illusione e dalla immaginazione. Particolarmente attento alle suggestioni del mondo
contemporaneo (arti figurative, cinema, disegno animato, musica jazz o rock), Lavaudant ha
sempre saputo affrontare i classici con rispetto,
ma anche con sguardo personale, sortendone
interpretazioni profondamente originali.
Ballerina e celebre coreografa tedesca, Pina
Bausch (Solingen 1940) è stata protagonista,
con i suoi spettacoli dalla composizione fortemente teatrale, di un radicale rinnovamento
del balletto contemporaneo, da lei portato
verso territori ancora inesplorati. Nei suoi
spettacoli la danza si compenetra con il teatro,
in soluzioni formali sempre suggestive e capaci
di proporsi come metafore della vita. Dal 1973,
Pina Bausch è direttrice del Tanztheater di
Wuppertal, dove con la sua compagnia ha creato e crea spettacoli memorabili esportati poi sui
palcoscenici del teatro internazionale.
Formatosi al prestigioso GITIS (Istituto statale di arte teatrale di Mosca), Eimuntas
Nekrosius (Pajobris, Lituania, 1952) diventa
direttore del Teatro della gioventù di Vilnius a
soli venticinque anni e qui mette in scena i suoi
spettacoli più importanti, guardando sempre
più a una libera rilettura dei classici. Cechov e
Shakespeare i suoi autori prediletti, in grandi
spettacoli che, presentati con successo in festival internazionali, hanno ben presto viaggiato
in Europa. Regista eccentrico e visionario,
Nekrosius è autore di un teatro sempre sotteso
di una forte carica vitale.
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Inghilterra: biglietti a basso costo, classici e nuovi spettacoli su grandi temi sociali e politici
Il nostro viaggio tra i palcoscenici
delle maggiori realtà teatrali del
Continente, dopo la Francia, giunge in
Inghilterra. A farci da guida, uno dei
più prestigiosi osservatori della scena
d’oltre Manica - Michael Billington,
critico drammatico di “The Guardian” il quale ci aiuta a capire i fermenti di
novità che agitano il teatro anglosasso-
ne, sia sul piano organizzativo, sia su
quello della messa in scena dei classici
o delle nuove scelte drammaturgiche.
DAL NOSTRO GIARDINO DI GUAI
Vent’anni fa a Londra andai
a una conferenza di Peter
Brook. A un certo punto qualcuno gli chiese quale sarebbe
stato il futuro del teatro.
Dopo una lunga pausa alla
fine disse: «Il futuro del teatro sta nel prezzo basso dei
biglietti». La veridicità di
questa semplice osservazione in Gran Bretagna è dimostrata da recenti riscontri:
un pubblico nuovo è emerso
semplicemente rendendo il
teatro abbordabile.
Il primo a prendere l’iniziativa è stato Nicholas Hytner
quando nell’aprile del 2003
ha assunto la direzione del
National Theatre. Per prima
cosa ha annunciato che la
maggioranza dei biglietti per
l’Olivier Theatre - la sala da
spettacolo più capiente delle
tre che formano il complesso non sarebbe costata più di
dieci sterline: lo stesso costo
del biglietto di un cinema a
Londra. Hytner ha potuto
realizzare questo progetto
grazie alla sponsorizzazione
di un milione di sterline di
un’azienda commerciale, la
Travelex, e con i tagli drastici
al budget per gli allestimenti.
L’effetto è stato immediato.
Un terzo del pubblico per la
produzione inaugurale dell’Olivier - l’Enrico V di Shakespeare letto come una riflessione sulla guerra in Iraq
- non era mai stato al National Theatre. In contemporanea una produzione di Jerry Sprinter - The Opera, allestita al National Littleton
Theatre - ha richiamato un
pubblico giovane consumatore abituale di tv spazzatura.
E al Cottesloe Hytner ha lanciato una stagione di nuova
drammaturgia che riflette la
realtà britannica contemporanea: a fianco di scrittori affermati come Michael Frayn
e Martin McDonagh, si sono
rappresentati lavori di giovani quasi sconosciuti come
Owen McCafferty con la sua
Irlanda del Nord [Closing
Time e Scenes From the Big
Picture, n.d.t.], o come il giovane attore nero Kwame
Kwei-Armah. E di colpo il
National Theatre non solo è
diventato un contenitore di
nuove energie, ma la politica
dei biglietti a basso costo ha
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anche cambiato l’atteggiamento nei confronti del pubblico teatrale. Ora tutti i teatri britannici cercano di seguire l’esempio del National.
Naturalmente quello che
conta è la qualità degli spettacoli, e nel 2003 quella del
National è stata quasi sempre eccellente. Democracy di
Michael Frayn si è rivelato
un capolavoro moderno. Dopo
il debutto al Cottesloe, ora sta
per inserirsi nel circuito commerciale del West End. Come
per Copenhagen, che il pubblico genovese ben conosce,
Frayn ha costruito un dramma di idee attorno a fatti reali. Questa volta lo spunto è il
rapporto simbiotico tra Willy
Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca
dal 1969 al 1974, e Günter
Guillaume, un agente della
Stasi della Germania dell’Est
che riuscì a diventare assistente personale di Brandt. A
un certo livello il dramma si
sofferma sullo strano parallelismo tra le vite dei due uomini: entrambi orfani di padre,
entrambi donnaioli, uomini
alienati alla ricerca della loro
vera identità. Ma ad un altro
livello il dramma ha per
oggetto proprio ciò che il titolo suggerisce. Frayn presenta
un affresco realistico delle
macchinazioni machiavelliche messe in atto all’interno
di una coalizione di governo,
arrivando alla conclusione
che, nonostante tutte le
imperfezioni, la democrazia è
un bene da preservare.
L’importanza del dramma di
Frayn è la dimostrazione che
la politica è tornata al centro
della drammaturgia britan-
Bella Merlin, Lloyd Hutchinson e Flaminia Cinque in The Permanent Way di David Hare
nica. Dopo un periodo in cui il
teatro è stato dominato da
commedie ossessionate dal
privato, ora sono i grandi temi sociali e politici a richiamare un pubblico allargato.
Credo che le ragioni di questo
cambiamento siano due, strettamente connesse: un crescente scontento per il governo di Blair e gli effetti della
guerra in Iraq. In tutto questo c’è un risvolto ironico. È
stata l’amministrazione Blair,
con l’enorme potenziamento
dei contributi economici all’arte e allo spettacolo, a in-
Roger Allam, Glyn Grain, Paul Broughton, Conleth Hill e David Ryall in
Democracy di Michael Frayn
fondere nuova linfa proprio a
quel teatro che ora lo sta
mettendo sotto accusa. Uno
dei più grandi successi del
momento è The Permanent
Way di David Hare, coprodotto dal National Theatre e dalla Joint Stock. Si
tratta di uno spettacolo-documento sulla privatizzazione
delle ferrovie in Gran Bretagna attuata dall’ultimo governo conservatore. A prima
vista l’argomento non è molto
appetibile. Ma, attraverso le
interviste ai parenti delle vittime dei quattro disastri ferroviari più gravi che si sono
verificati dopo la privatizzazione, Hare traccia un quadro
drammatico del caos e dell’incompetenza che li hanno provocati. Alcuni hanno accusato
Hare di avere fatto un uso
selettivo dei fatti. Altri hanno
obiettato sull’efficacia dell’uso
delle ferrovie come metafora
della Gran Bretagna, cioè un
paese dove non funzionerebbe
nulla. Comunque sia, Hare
ha sollevato una questione
cruciale sullo stato di salute
della Gran Bretagna oggi.
E il drammaturgo sta battendo la stessa strada con una
nuova commedia sulle origini
della guerra in Iraq che sarà
allestita dal National Theatre
il prossimo autunno, dal titolo Stuff Happens, [grossomodo Sono cose che capitano,
n.d.t.]: battuta pronunciata
dal segretario alla difesa
americano Donald Rumsfeld
[commentando le devastazioni dei musei e i saccheggi
avvenuti in Iraq dopo la caduta di Saddam, n.d.t.]. Basta
dare un’occhiata in giro e si
scopre che ovunque la politica
è all’ordine del giorno. A nord
di Londra The Tricycle Theatre ha messo recentemente in
scena Justifying War, un altro intrigante spettacolodocumento basato sull’inchiesta Hutton intorno alla morte
dello scienziato governativo
David Kelly. Ma i drammaturghi britannici guardano
anche al di là del nostro giardino di guai. David Edgar ha
scritto due opere molto ambiziose, Continental Divide, sul
sistema politico americano e
le speranze andate in fumo
dei radicali degli anni Sessanta. E un giovane scrittore,
Nikki Amuka-Bird in World Music
di Steve Waters
Steve Waters, recentemente
ha affrontato le complesse
relazioni tra Europa e Africa
in un inquietante dramma
sul genocidio intitolato World
Music. Insieme al rinnovato
interesse per gli avvenimenti
politici la Gran Bretagna
mantiene anche una forte
tradizione classica. La buona
notizia è che dopo un periodo
di crisi, la Royal Shakespeare
Company è tornata in ottima
salute. Le recenti riprese londinesi di La bisbetica domata
e Tutto è bene quel che finisce
bene hanno riscosso un vivo
successo. E Michael Boyd, il
nuovo ambizioso direttore, ha
in progetto la rifondazione
della compagnia stabile, da
sempre la vera ragion d’essere della RSC. La prova del
fuoco si avrà quest’anno
quando la RSC presenterà
quattro delle tragedie maggiori di Shakespeare a Stratford-on-Avon e anche una stagione di classici spagnoli rari.
Dal momento che Boyd riesce
a coniugare felicemente visionarietà a pragmatismo, l’impresa nasce sotto buoni auspici. Concludendo, però, direi
che la fama internazionale
della drammaturgia britannica è affidata principalmente alla nuova scrittura teatrale. Accanto alla generazione dei vari Pinter, Stoppard,
Ayckbourn e Hare, ci sono segnali incoraggianti da parte
di talenti emergenti. Negli
anni Novanta del secolo scorso la Gran Bretagna veniva
identificata soprattutto attraverso scrittori come Sarah
Kane e Mark Ravenhill che
saldavano l’indignazione morale al sesso esplicito.
Ora finalmente sono comparsi drammaturghi che sembrano fortemente intenzionati a dare voce alla seconda
generazione di immigrati: i
più promettenti sono Roy
Williams, che ha scritto della
stretta relazione tra appartenenza razziale e calcio in
Sing Your Heart Out For The
Lads, e Kwame Kwei-Armah
che in Elvina’s Kitchen parla
di armi, droga e sesso nell’East End di Londra. Nessuno dice che il teatro britannico è perfetto. Ma oggi c’è un
fermento, una tempestività
nel cogliere e affrontare le
questioni all’ordine del giorno nell’agenda mondiale, come la guerra in Iraq e le tensioni interrazziali, che fanno
propendere per l’ottimismo.
E promuovendo biglietti a
basso costo il teatro britannico sta almeno tentando di
affrontare il problema più
serio con cui il teatro a livello
mondiale dovrà fare i conti:
cioè, come formare il pubblico
di domani.
Michael Billington
(trad. Giuliana Manganelli)
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Riprende il 29 marzo l’appuntamento con le letture, giunte ormai alla nona edizione consecutiva
VIAGGIO E VIAGGIATORI
Trionfo delle Grandi Parole
Al Teatro della Corte riprendono dal 29 marzo gli appuntamenti con le Grandi parole
sui sentieri dell’umanità, come
suona solennemente il sottotitolo della notevole iniziativa
culturale (Viaggio e viaggiatori) che il Teatro Stabile di
Genova ha preparato per questa stagione, ribadendo un
impianto fra tema e svolgimento in forma di dizione di
grandi testi e d’illustrazione di
concetti e riferimenti categorici per l’uomo e la sua vita.
Il motivo del viaggio, pertanto,
e di coloro che, per diverse
ragioni, lo sognano, lo compiono, lo descrivono, lo rimpiangono e ne restano coinvolti per
tutta una vita. E quando un
progetto come quello appena
richiamato sfiora il decennio
di durata e funzionamento,
merita qualche riflessione, se
non di bilancio, almeno interlocutoria, ma argomentata.
Intanto ha colto nel segno l’intuizione di rivolgersi al pubblico dei frequentatori del teatro
- e segnatamente ai più giovani, agli studenti delle superiori - proponendo grandi, immense questioni esistenziali,
filosofiche, storiche e ideali
come la vita stessa e la morte,
la gioia e il dolore, la religiosità e la laicità, la pace e la guerra, la civiltà e la barbarie:
insomma i pilastri della civiltà
occidentale. Nella forma di
una grande riflessione ad alta
voce - suffragata dalla saggezza delle prove della letteratura mondiale e dalla capacità
degli attori prescelti di presentarle senza alterare il tono più
meditativo che declamatorio
delle serate di partecipazione
e comunicazione fra palcoscenico e platea, intensamente
vissute da migliaia di persone.
Questo primato dell’esposizione dei contenuti affidata praticamente alla sola parola - si
può dire senza il supporto di
alcuna azione, di alcuna scena, che non sia la luminosità
di un riflettore, l’essenzialità
di un leggio, la funzionalità di
un microfono - contiene già in
sé il nucleo concettuale di
tutto il progetto e si è rivelato
vincente e praticamente inso-
stituibile. Come se nella solitudine della voce umana che
esprime con prevalente seriosità il valore del pensiero, ci
fosse una superiorità che nessuna rappresentazione può
uguagliare.
C’è una considerazione culturalmente rilevante che si può
leggere in un lontano saggio di
Umberto Eco, sul rapporto fra
il linguaggio di parola e l’eloquenza di quello dei segni
nella narrazione del romanzo
manzoniano, al termine della
quale, se ricordo bene, lo studioso mostra come nella parola di per sé appunto limitata,
ci sia però la capacità di evocare e rendere “visibili ed
espressive” anche le altre forme di comunicazione estetica.
programma delle ultime tre serate
Mi pare che - in relazione allo
svolgimento del progetto di cui
stiamo ragionando - sia un
accostamento pertinente.
Ma dopo aver ragionato sul
criterio, quasi sullo stile di
queste serate antispettacolari,
giocate sul primato della concentrazione intellettuale e
della coerenza fra sintesi dei
concetti e qualità delle testimonianze poetico-letterarie,
resta tuttavia il valore della
scelta operata da chi ha saputo dare sostanza alle idee, di
anno in anno, svelando valori
che altrimenti sarebbero rimasti astratti, inafferrabili
anche all’uditorio più disponibile e motivato. Perché, qui è il
caso di dirlo, come in ogni
spettacolo il risultato è frutto
di un equilibrio difficile ma
riuscito, anche negli incontri
di tutti questi anni la statura
intellettuale dei relatori e la
capacità professionale degli
attori si sono giovate del lavoro preparatorio di chi ha sempre saputo intuire la centralità e la tempestività delle questioni da proporre e le ha sempre “vestite” del gusto altamente esemplificativo dei
brani, voglio dire delle pagine
già scritte, dove la sensibilità
del presente può misurarsi
con i percorsi già compiuti dell’intelligenza umana: nell’altezza dei saggi e nell’abisso
degli errori.
La rondine e l’orso
lunedì 29 marzo ore 20.30
ovvero il viaggio come fuga
Testi
Interpreti
Relatore
Bertha Thompson, Box-Car Bertha
Marzia Ubaldi
Maurizio Maggiani
Cristobel Mattinglej, Asmir di Sarajevo
Gianpiero Bianchi
Jack London, Accendere un fuoco
Jean-Jacques Rousseau, Confessioni
Emily Dickinson, Alla parola fuga
Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn
Walt Whitman, Canto della strada
La mente all’inverso
lunedì 5 aprile ore 20.30
ovvero il viaggio come memoria
Testi
Interpreti
Relatore
Sigmund Freud, Lettere
Giulia Lazzarini Romolo Rossi
Dino Campana, Il canto della tenebra
Ugo Maria Morosi
Alfred Tennyson, I mangiatori di loto
Eugenio Montale, Voce giunta con le folaghe
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia
Franz Kafka, Il castello
Marcel Proust, Dalla parte di Swann
Wilhelm Jensen, Gradiva
Verso l’invisibile
martedì 13 aprile ore 20.30
ovvero il viaggio come immaginazione
Testi
Interpreti
Relatore
Omero, Odissea - libro XI
Giuliana Lojodice Ernesto Franco
Le mille e una notte, I viaggi di Sindibad Massimo Venturiello
Ludovico Ariosto, Orlando furioso - libro XXXIV
Johann Spies, La storia del dottor Faust
Jorge Luis Borges, L’Aleph
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver
Arthur Rimbaud, Il battello ebbro
Ray Bradbury, Cronache marziane
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
ingresso libero
in collaborazione con
BANCA CARIGE
Cassa di Risparmio di Genova e Imperia
Silvio Ferrari
Senza ERG
all’energia
mancherebbe
qualcosa.
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FOYER ANNO QUARTO
Vitalità di un luogo d’incontro e di scambio culturale
Iniziato nella stagione 2000 /
2001 come progetto finalizzato
a far vivere il foyer del Teatro
della Corte anche al di là della
sua funzione primaria di accesso alla biglietteria e di luogo di ritrovo del pubblico degli
spettacoli serali, il programma
Hellzapoppin è andato via via
allargandosi sino a diventare
uno spazio aperto alla sperimentazione artistica e al dibattito culturale. Dapprima
un po’ perplessi e titubanti, i
frequentatori del Teatro Stabile di Genova hanno ben presto imparato che nel foyer
senze ogni volta, non è certo
un dato trascurabile. Tanto
più perché l’attività di Hellzapoppin, grazie anche alla
costruttiva collaborazione del
Centro della Creatività del Comune e dell’Associazione per il
Teatro Stabile di Genova, ha
potuto spaziare su un ventaglio di programmazione molto
ampio e articolato. Dalle interviste pubbliche (curate dai
Buonavoglia) con gli attori protagonisti degli spettacoli in
cartellone, alle performance
dei giovani artisti; dalle conversazioni culturali organizza-
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te in collaborazione con l’Università degli Studi “intorno”
ai testi drammaturgici e ai temi da questi posti in primo
piano, agli happening poetici
messi in scena dal Circolo
Viaggiatori del tempo; dai
laboratori aperti degli studenti
dell’Accademia delle Belle Ar-
M A R Z O
/
A P R I L E
Martedì 30 marzo - ore 19.30
“Musica a teatro”: concerto per corno e archi
musiche di Tartini, Vivaldi, Cherubini, Saint-Saëns
a cura del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini”
Mercoledì 31 marzo - ore 17.30
“Teatro che passione!”: conversazione con Ugo Maria Morosi
interprete di Il tenente di Inishmore alla Corte
Intervista pubblica a cura di Roberto Iovino
in collaborazione con l’Associazione Culturale “I Buonavoglia”
ti, alla proiezione di filmati d’epoca; dai piccoli concerti con i
quali gli allievi del Conservatorio “Paganini” accolgono gli
spettatori delle rappresentazioni serali, ai recital dei giovani aspiranti attori della Scuola
di Recitazione dello Stabile. E
poi, ancora, presentazioni di
libri, piccole mostre fotografiche, convegni e dibattiti. È l’idea di un teatro quale centro
culturale aperto alla città. Un
luogo d’incontro un po’ caotico,
come del resto ben suggerisce
della Corte si può, quasi ogni
pomeriggio, fare un incontro
interessante. E le presenze
sono progressivamente cresciute, così come l’attenzione
alle proposte. Circa cinquanta
appuntamenti ogni anno, con
una media di frequentazione
non lontana dalla cento pre-
Hellzapoppin
P R O G R A M M A
il titolo del contenitore. Forse
necessariamente tale, se non
altro per il suo dover convivere
con coloro che entrano nel
foyer solo per accedere alla
biglietteria del teatro. Ma anche, come hanno suggerito
molti giovani frequentatori del
foyer, un’utile opportunità per
togliere alla frequentazione
teatrale ogni impaccio museale e per stabilire un diretto dialogo tra il teatro di prosa della
città e le forze culturalmente
più vive che la animano.
numero quindici • marzo / aprile duemilaquattro
Edizioni Teatro di Genova, Piazza Borgo Pila 42, 16129 Genova.
Presidente Avv. Giovanni Salvarezza • Direzione Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga
Direttore responsabile Aldo Viganò - Collaborazione Annamaria Coluccia
Segretaria di redazione Monica Speziotto
Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 34 del 17/11/2000
Mercoledì 7 aprile - ore 19.30
“Musica a teatro”: concerto per archi
musiche di Mozart e Mazas
a cura del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini”
Venerdì 16 aprile - ore 17.30
“Alchimia del verso”: poesie con i denti
scherzi letterari d’autore con Max Manfredi, Stefano Bigazzi,
Marino Murat e altri
in collaborazione con il Circolo Viaggiatori del Tempo
Venerdì 23 aprile - ore 17.30
“Teatro che passione!”: conversazione con Lello Arena
interprete di Georges Dandin al Duse
in collaborazione con l’Associazione Culturale “I Buonavoglia”
Mercoledì 28 aprile - ore 17.30
Intorno a L’alchimista di Ben Jonson
Relatori: Ferruccio Bertini e Mario Marchi
in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Genova
INGRESSO LIBERO
TGE16004_Giornale n°15
23-03-2004
13:39
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I mestieri del teatro: incontro con Patrizia Gatta, amministratrice di compagnia del Teatro Stabile di Genova
Professionisti dell’imprevisto
Il nostro viaggio fra i mestieri del teatro ci porta a scoprire
un’altra delle tante attività che si svolgono dietro le quinte di un
palcoscenico: quella dell’amministratore, nel nostro caso amministratrice, di compagnia. Protagonista è Patrizia Gatta, che fa
d a o l t r e v e n t ’ a n n i q u e s t o l a v o r o e c h e d a l 1 9 9 9 è a l Te a t r o S t a b i l e
di Genova, dopo una serie di altre esperienze con impresari privati, sia nel mondo del teatro di prosa che in quello della musiNon si fa illusioni Patrizia
Gatta: «Secondo me gli attori
identificano l’amministratore
di compagnia soprattutto con
la cassa», afferma. Ma per lei,
amministratrice di compagnia del Teatro Stabile di Genova, svolgere questo lavoro
significa, sì, conti da far quadrare, stipendi e fatture da
pagare, ma anche «capacità
di ascolto e di dialogo con gli
altri». Perché amministrare
quelle piccole o grandi “tribù”
che sono le compagnie teatrali, vuol dire occuparsi di mille
cose pratiche che hanno a che
fare con i numeri e con i soldi,
ma anche con il lavoro e il
modo di essere di tante persone. «La responsabilità principale, certo, è quella della cassa - osserva - e non ci fai mai
l’abitudine, anche perché sei
responsabile di denaro non
tuo e, spesso, sei in giro con
un bel po’ di contante. Ma
questo è anche un mestiere
di raggiungere una “piazza” spiega - noi mandiamo delle
schede tecniche ai teatri che
ci ospitano. Quando io arrivo,
assieme ai tecnici, vado, come
prima cosa, nella direzione
del teatro a “battere cassa”,
verifico che siano rispettate
tutte le clusole del contratto,
chiedo i biglietti omaggio per
la compagnia e poi naturalmente sono presente, quasi
sempre, dal montaggio alle
repliche. Se un attore o un
tecnico si fa male l’amministratore di compagnia lo accompagna al pronto soccorso.
A volte prenoto anche direttamente alberghi e ristoranti e,
comunque, mi attivo per
avere la lista aggiornata di
accoglienza turistica per ogni
“piazza”. A fine mese poi continua - devo preparare i
dati per le buste paga dei tecnici, controllare gli orari di
lavoro di attori e tecnici (cosa
che mi piace poco), verificare,
Patrizia Gatta con Turi Ferro durante una festa in maschera
fatto di relazioni e di rapporti. Si lavora in stretta collaborazione con il direttore di
scena e qui a Genova ho trovato delle persone fantastiche. L’amministratore di compagnia è la persona che rappresenta la produzione in
tournée. Fra i suoi compiti aggiunge - ci sono quelli di
preparare l’ordine del giorno
del lavoro durante le prove,
occuparsi di una serie di
aspetti organizzativi nelle
tournée: curare, per esempio,
i rapporti con i teatri che ospitano la compagnia, pagare la
diaria settimanale ai tecnici e
la quindicina agli attori, raccogliere ogni sera i dati dei
biglietti venduti e trasmetterli alla produzione». Il ruolo
dell’amministratore di compagnia è importante, infatti,
soprattutto nelle tournée,
durante le quali diventa, per
attori e tecnici ma anche per
il teatro che ospita, il referente della produzione dello spettacolo e, quindi, il primo
destinatario di tutte le richieste e le lamentele che hanno a
che fare con l’organizzazione
del lavoro “fuori sede” o con la
gestione della cassa. «Prima
marzo / aprile 2004
per esempio, se hanno potuto
godere della giornata settimanale di riposo o se, invece,
erano in viaggio per la tournée e, quindi, hanno diritto a
un mancato riposo. Proprio
perché si deve occupare di
tanti aspetti diversi, l’amministratore di compagnia ha
una visione ampia del lavoro
che c’è dietro uno spettacolo».
Patrizia Gatta viaggia, come
molti altri colleghi, sempre
con il suo cane a seguito: Luna, una cagnetta fantasia che
ha avuto anche un ruolo di
“comparsa” nella messa in
scena de L’ispettore generale.
«Il nostro è anche un mestiere fatto di solitudine - osserva
- e forse è per questo che tanti
amministratori di compagnia
portano con sé un cane».
Prima di arrivare, nel 1999,
allo Stabile di Genova, Patrizia Gatta, romagnola di nascita, ha lavorato per diversi
produttori privati: agli inizi
con cooperative teatrali bolognesi, subito dopo essersi laureata al Dams di Bologna, e
poi per molti anni a Roma con
il produttore Lucio Ardenzi,
scomparso circa due anni fa.
«Il mio primo spettacolo con
ca. Per lo Stabile Patrizia Gatta è già stata impegnata nella produzione di molti spettacoli, fra i quali “Lo storpio di Inishmaan”,
“ I l Ta r t u f o ” , “ D o n G i o v a n n i ” , “ I r e v e r e n d i ” , “ U n n e m i c o d e l p o p o l o ” , “ L’ i s p e t t o r e g e n e r a l e ” , “ M a d r e C o u r a g e e i s u o i f i g l i ” e , u l t i mo “Il tenente di Inishmore di Martin McDonagh. Il suo prossimo
impegno di questa stagione sarà, sempre per lo Stabile,
“ L’ a l c h i m i s t a ” d i B e n J o n s o n , c o n l a r e g i a d i J u r i j F e r r i n i .
L’amministratore di compagnia
L’amministratore di compagnia nasce, come figura professionale autonoma, in anni relativamente recenti,
quando i ruoli nelle compagnie teatrali si vanno via via
definendo e diversificando. In origine, infatti, il compito di gestire amministrativamente la compagnia,
soprattutto durante le tournée, era affidato all’impresario o a volte anche al capocomico che, quindi, svolgeva
una duplice attività, artistica e “manageriale”. Adesso
questo è, invece, il compito principale di una nuova
figura professionale che, per tecnici e attori, è il rappresentante della produzione. A lui tocca, quindi,
mediare fra le esigenze del produttore dello spettacolo che può essere un imprenditore privato o un ente teatrale pubblico - e quelle della compagnia. Oltre a gestire la contabilità, l’amministratore di compagnia deve
occuparsi anche di una serie di aspetti organizzativi
nelle tournée, dai rapporti con il teatro che ospita alla
prenotazione degli alberghi. Durante l’allestimento di
uno spettacolo segue le prove e poi, in tournée, tutte le
repliche, per essere pronto a intervenire in caso di emergenze o imprevisti. Agli inizi questa era, come molte
altre, una professione quasi esclusivamente maschile,
mentre adesso sono moltissime - forse addirittura
in maggioranza - le donne che fanno questo lavoro.
Ardenzi - racconta - fu, nel
1982-83, Romantic Comedy,
con Giorgio Albertazzi e
Ornella Vanoni. Ricordo che
Ardenzi mi chiamava “Alice
nel paese delle meraviglie”,
perché per me era tutto nuovo. Il mestiere l’ho imparato
con Giancarlo Bonuglia, accanto al quale ho iniziato a
lavorare come segretaria di
compagnia. Sono rimasta trequattro anni con Ardenzi e
poi ho lavorato per due anni
con la Vanoni, come sua segretaria personale. Il mondo
della musica è molto diverso
da quello del teatro di prosa e
ti dà anche emozioni diverse.
Ed è, o almeno era, un mondo
maschile: ricordo che io ero
l’unica donna fra tanti uomini». Alle tournée con la Vanoni seguì l’incarico di amministratrice di compagnia e
segretaria personale di Giorgio Albertazzi. «Dopo quell’esperienza, che fu per me
molto impegnativa - continua
- tornai con Ardenzi e ho lavorato per lui con la compagnia
del signor Turi (Turi Ferro
ndr), con il quale ho lavorato,
fra l’altro nel Berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Il
signor Turi era un uomo fantastico, l’anti-divo per eccellenza. Come tutti i veri attori
arrivava sempre a teatro con
un bel po’ di anticipo rispetto
all’orario di inizio dello spettacolo e stava molto tempo in
camerino. Usava ancora il
tappo di sughero bruciato per
truccarsi e aveva la mania di
tagliuzzare barbe e baffi, che
si attaccava con il mastice.
Lui si portava dietro, in teatro, la sua famiglia siciliana.
Ricorderò sempre Maria Carrara, la sorella della moglie
con Kim Rossi Stuart
del signor Turi: a novant’anni
recitava ancora, benché avesse perso la vista. Era una signorina e lo era rimasta in
tutto, anche nel modo di fare.
Dopo lo spettacolo, quando la
riaccompagnavo in camerino,
mi diceva sempre “Oh, Patrizia, che pubblico gioioso!”».
Agli anni dell’esordio con Romantic Comedy, risale, invece, una delle richieste più
singolari con cui Patrizia
Gatta si è dovuta misurare
nel suo lavoro: «Quella di Ornella Vanoni che - racconta una sera alle otto, prima dello spettacolo, mi chiese trenta
metri di filo di rame per scaricare le energie negative…
Ma naturalmente non potemmo accontentarla. Qualche
volta capita, invece, che gli
attori facciano gli spiritosi: mi
chiedono, per esempio, se so
dove potranno parcheggiare
l’auto nella tappa successiva
della tournée. Io comunque
cerco di non arrabbiarmi
neanche di fronte a richieste
assurde. Preferisco trovare le
soluzioni ai problemi, sapendo che le situazioni cambiano
velocemente. Questo lavoro
t’insegna ad affrontare le
emergenze, ad avere sempre
la capacità di risolvere rapidamente situazioni impreviste perché, per quanto uno
possa essere previdente e
attento, gli imprevisti ci sono
sempre. E tu devi essere
pronto per cercare di rispondere all’impossibile…». Avere
relazioni anche umane e personali con i compagni di lavoro, però, aiuta, secondo Patrizia Gatta, convinta che la
possibilità di risolvere molti
problemi e di evitare tensioni,
dipenda anche dall’atteggiamento di ciascuno. «Il fatto di
essere aperta al dialogo certamente mi ha aiutato in questo mestiere - osserva - ma
credo che molto dipenda dalla
disponibilità con cui ci si pone
di fronte alle situazioni e alle
persone, e dal rispetto che
ciascuno ha per il lavoro degli
altri. Io allo Stabile, per esempio, ho lavorato bene e ho
imparato tante cose da Mariangela (Melato), dal signor
Pagni, da Gabriele (Lavia) da
Ugo Maria (Morosi) e, secondo me, non è nemmeno vero
che i genovesi siano così chiusi come si dice. Un po’ mugugnoni sì, ma io qui ho conosciuto persone fantastiche a
livello professionale e, soprattutto, umano». A Genova
lei è arrivata per uno di quei
casi che hanno segnato, dice,
tutte le svolte della sua vita
professionale, proprio nei momenti in cui sentiva che era
arrivato il momento di cambiare. «Nel 1998, quando lavoravo ancora con Ardenzi,
avevo lasciato allo Stabile di
Genova il mio curriculum,
durante una tournée con il
signor Turi», racconta. «Poi
l’amministratrice di compagnia che lavorava per lo Stabile decise di prendersi un
periodo di aspettativa e propose me come sua sostituta.
Ivo Chiesa mi chiamò e, dopo
il colloquio, decisi di accettare
l’incarico. Questa è la mia
prima esperienza in un teatro
pubblico ed è per me un grande privilegio lavorare con un
teatro serio e stimolante come
lo Stabile di Genova. Qui gli
input culturali sono moltissimi. Certo - sottolinea - hai
sempre la responsabilità della cassa, dei tecnici, ma quello che si fa mi interessa.
Spettacoli come Madre Courage e i suoi figli o Il nemico
del popolo mi hanno dato
molto. Il lavoro dell’amministratore di compagnia è un
po’ diverso in un teatro pubblico, perché nel privato i
ruoli sono meno definiti e,
quindi, l’amministratore di
compagnia finisce con l’avere
più responsabilità». Fra i “privilegi” di questi anni genovesi
di cui Patrizia Gatta è particolarmente felice c’è la tournée dell’estate scorsa a Mosca, con L’ispettore generale di
Nikolaj Gogol’ per la regia di
Matthias Langhoff. «Per me è
stata un’emozione grandissima», racconta. «Andare a “casa” di Gogol’, invitati dai russi, e poi in quel teatro (il Teatro dell’Armata - ndr) che
sembrava uscito da una novella di Cechov… Tutto era
estremamente burocratico,
bisognava chiedere il permesso per qualsiasi cosa, ma lì si
sentiva davvero la Russia. E
poi abbiamo ricevuto un’accoglienza fantastica, sia da
parte del teatro che del pubblico». L’ultima fatica e le ultime soddisfazioni, invece,
sono state quelle della tournée di Madre Courage e i suoi
figli, con Mariangela Melato.
«Giravamo con tre camion e
una compagnia di 38 persone
- racconta - e, naturalmente,
più la compagnia è grande e
più la gestione di tutto è complessa. Ma, visto che la tournée di Madre Courage è andata molto bene, questo ha certamente aiutato. Mariangela
Melato poi è una professionista seria e lavorare con i professionisti è un’altra cosa che
aiuta. La nostra era una
grande famiglia che girava
per l’Italia con l’obiettivo
comune di andare in scena
tutte le sere e di fare in modo
che tutto andasse bene perché, se le cose vanno bene, è
meglio per tutti».
Annamaria Coluccia
con Luna, la sua cagnetta