Spedizione in A.P. - 45% - Art.2 comma 20/b legge 662/96. Filiale di Genova TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 1 soci fondatori COMUNE DI GENOVA PROVINCIA DI GENOVA REGIONE LIGURIA socio sostenitore marzo/aprile duemilaquattro numero quindici partner della stagione Il tenente di Inishmore Festival Teatro Europeo Articoli di Manganelli, O’Toole, Paravidino Intervista con Sciaccaluga Spettacoli di Ronconi, Bausch, Lavaudant, Nekrosius pagine 2 e 3 pagina 4 Teatro in Inghilterra Articolo di Billington pagina 5 Le Grandi Parole Articolo di Ferrari pagina 6 Il mestiere del teatro L’amministratore di compagnia Intervista a Patrizia Gatta pagina 8 Una farsa color sangue “ I l t e n e n t e d i I n i s h m o r e ” d i M a r t i n M c D o n a g h d a l 2 6 m a r z o a l Te a t r o d e l l a C o r t e CARLO REPETTI Nell’indicare la linea sulla quale si muovono le scelte del Teatro Stabile di Genova abbiamo sempre parlato di teatro “necessario”, necessario per noi che lo facciamo, necessario per il pubblico. Classico o contemporaneo, comico o tragico, divertente o impegnato ma sempre comunque lavoro “necessario”, per il quale cioè si abbia la chiara sensazione, usciti da teatro, che “ne valeva la pena”, che “dentro è rimasto qualcosa”, che “era proprio giusto raccontarla, questa storia”. Io credo, noi al Teatro di Genova crediamo, che un Teatro pubblico com’è il nostro abbia questo inequivocabile compito. Ma questo naturalmente non basta: teatro “necessario” ma anche Teatro d’Arte, cioè realizzato al livello massimo in ogni sua componente (regia, attori, scene, luci, ecc.), e teatro vitale, curioso, sempre in movimento, alla ricerca di linguaggi, di nuovi autori, di nuovi spazi attraverso i quali leggere la realtà. È questo quello che cerchiamo di fare, quello che ci proponiamo. E allora non è forse un caso se, impostando così il nostro lavoro, ci troviamo spesso negli ultimi anni ad anticipare o almeno a interpretare in tempo reale i grandi temi del mondo. Due anni fa realizzando, sul rapporto fra democrazia e affari, fra denaro e politica il Nemico del popolo di Miller-Ibsen: lo scorso anno mettendo in scena quel grande affresco sugli orrori della guerra che è Madre Courage, ed ora proponendo al pubblico con Il tenente di Inishmore una storia che, attraverso la piena libertà della creazione artistica e delle sue metafore, mette in scena il folle mondo di un terrorista irlandese, prendendolo a pretesto per parlare di ideologie distorte, di caduta dei valori quali famiglia, amicizia, solidarietà, con un linguaggio “splatter” che assomiglia ai film dei Monty Python o di Quentin Tarantino. Tutto questo a smentire ancora una volta, e mi auguro definitivamente, quei pochi che ancora dicono che un Teatro Stabile è una struttura antiquata, che guarda solo al classico, che non si cura della ricerca, dei giovani, e via accumulando luoghi comuni. (segue a pag. 4) Martin McDonagh, trentenne nato a Londra da genitori irlandesi, è diventato ormai un autore di casa al Teatro Stabile di Genova, che lo ha scoperto con La bella regina di Leenane e Lo storpio di Inishmaan e che propone oggi, in novità assoluta per l’Italia, Il tenente di Inishmore, commedia nella quale il comico e il tragico, la violenza e il riso, il dramma della storia e i suoi risvolti più farseschi si mescolano ancora una volta nel più libero gioco del teatro. C’è qualcosa di folle e d’inquietante insieme in questa liberissima lettura del dramma del terrorismo e nella carrellata sui suoi imprevedibili protagonisti, tratteggiati con i toni della grande tradizione irlandese, nella quale l’influenza di John M. Synge e di Brendan Behan si coniuga con la tensione etica del cinema di John Ford, all’interno di sorprendenti soluzioni drammaturgiche che hanno indotto la critica inglese a citare i Monty Python o Quentin Tarantino. Seconda tappa della trilogia dedicata da McDonagh alle isole Aran, questa moderna e personalissima “Black Comedy” viene proposta nella traduzione appositamente commissionata a Fausto Paravidino, giovane drammaturgo sulla cresta del successo, e con l’interpretazione di una compagnia d’attori appartenenti a diverse generazioni e tutti molto cari allo Stabile genovese: Ugo Maria Morosi, Roberto Alinghieri, Arianna Comes, Aleksandar Cvjetkovic, Gianluca Gobbi, Enzo Paci, Gaetano Sciortino, Pietro Tammaro. Come già per Lo storpio di Inishmaan, la messa in scena è di Marco Sciaccaluga. Scene e costumi sono firmati da Guido Fiorato, le luci da Sandro Sussi e la fonica da Claudio Torlai. Quattro grandi Star dall’Europa In autunno un Festival di Teatro Internazionale per Genova 2004 siderare una specie di Molière post USA. Uno con l’intelligenza di trasformare in commedia e di far diventare Maschere dei personaggi comuni (come me, come tua sorella, come tuo padre…) che hanno fatto loro i peggio vizi di Hollywood (se non sono d’accordo con te ti sparo, cazzo cazzo cazzo, brutto figlio di puttana etc.). Ma il senno di poi verrà col poi se verrà il senno, per il momento non ci riguarda. Sono solo commedie le sue? La presenza del Teatro Stabile di Genova nella programmazione di Genova 2004 si è articolata nel corso di questa stagione come un lungo viaggio dentro alla cultura teatrale di un Continente, che vedrà nei prossimi mesi la messa in scena, oltre che dell’irlandese Il tenente di Inishmore di cui si parla in questo giornale, anche dell’elisabettiano L’alchimista e della rivisitazione italiana di un classico della letteratura francese, Candido, per culminare in ottobre-novembre con il festival Teatri d’Europa, realizzato grazie alla collaborazione del Comitato Genova 2004. Quattro grandi spettacoli: uno di produzione (La Centaura di Andreini) e tre ospiti stranieri (Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, Kontakthof mit Damen und Herren ab 65 di Pina Bausch, Hamletas di William Shakespeare). Preziosa occasione culturale che vedrà confrontarsi sul palcoscenico del Teatro della Corte quattro grandi maestri della regia (Luca Ronconi, Georges Lavaudant, Pina Bausch, Eimuntas Nekrosius) e quattro centri di produzione fra i più importanti d’Europa: lo Stabile di Genova, il Théâtre de l’Odéon di Parigi, il tedesco Tanztheater di Wuppertal e il lituano Teatro di Vilnius. (segue a pag. 3) (notizie a pagina 4) GIOVENTÙ, GIOCO E RABBIA FAUSTO PARAVIDINO Chiaro che quel figlio di puttana mi è stato subito simpatico dal primo momento che l’ho visto, che era La bella regina di Leenane a Genova. Facile dire perché. È divertente ed è esattamente il tipo di divertimento che diverte me. È molto difficile scrivere quattro righe serie su di lui perché tutto il suo lavoro sembra (e penso che sia) dominato da una cieca volontà di non farsi prendere sul serio. Il senno di poi lo potrà forse con- In alto: una scena d’insieme durante le prove di Il tenente di Inishmore; a sinistra: Ugo Maria Morosi e Enzo Paci durante le prove (foto Bepi Caroli). Qui sopra (in senso orario): Mariangela Melato e scene di Il giardino dei ciliegi, Kontakthof e Hamletas TORNANO LE PAROLE DEL “VIAGGIO” Iniziato con clamoroso successo nelle settimane scorse (sala esaurita, proiezione a circuito chiuso nel foyer per gli esclusi), il ciclo delle Grandi Parole dedicato quest’anno al tema Viaggio e viaggiatori, riprende lunedì 29 marzo al Teatro della Corte con la serata condotta da Maurizio Maggiani e con le letture dei testi affidati a Marzia Ubaldi e Gianpiero Bianchi. Il titolo della serata (inizio ore 20.30) è La rondine e l’orso, ovvero Il viaggio come fuga. Seguiranno gli appuntamenti con La mente all’inverso, ovvero Il viaggio come memoria (lunedì 5 aprile: relatore Romolo Rossi, interpreti Giulia Lazzarini e Ugo Maria Morosi) e con Verso l’invisibile, ovvero Il viaggio come immaginazione (martedì 13 aprile: relatore Ernesto Franco, interpreti Giuliana Lojodice e Massimo Venturiello). (notizie a pagina 6) TGE16004_Giornale n°15 2 23-03-2004 13:39 Pagina 2 Il tenente di Inishmore al Teatro della Corte “Il tenente di Inishmore”, che viene presentato alla Corte in prima nazionale, è una commedia di travolgente comicità, coniugata su un tema di tragica attualità quale il terrorismo irlandese. Padraic, giovane e temutissimo rivoluzionario irlandese, ama il suo gatto più della vita stessa, più di suo padre e dei suoi amici d’infanzia. Tanto che, quando la povera bestia viene data per morta in un imprevedibile incidente ciclistico, il terrore si diffonde nel villaggio e il presunto colpevole fa disperatamente di tutto per occultare il cadavere dell’animale. Mentre il terribile Padraic esce dalla clandestinità con propositi di strage. Ciò che ne consegue, nel contesto di una narrazione in cui il grande amore romantico può sbocciare improvvisamente tra la violenza e la morte, è cosa che lo spet- tatore può gustare al meglio solo nella realtà del palcoscenico, in un fuoco di fila di colpi di scena, tra le numerose trovate comiche e le straordinarie variazioni di linguaggio di un autore che sa tradurre immediatamente in teatro la vita osservata in presa diretta. Un ‘‘Tenente’’ perversamente comico Martin McDonagh: il successo e le opere di un “Natural Born Story Teller” GROTTESCO E TRAGICO Chi ha fatto secco Wee Thomas su una stradina solitaria di Inishmore sparpagliando interiora e cervella ai quattro venti? E poi, è stato un incidente o un’esecuzione in piena regola? Siamo seri, può essere accidentale la morte di un gatto nero che è il miglior amico al mondo di un pazzo di terrorista irlandese che su al Nord mette bombe nei negozi di patatine e che l’IRA non vuole perché è troppo pazzo? È una disgrazia o una trappola per far tornare a casa Padraic il matto, tenente dell’INLA con la fissa della scissione, che troviamo impegnato nella fantasiosa e ributtante tortura di un tizio perché spacciava marijuana ai ragazzini cattolici, che se erano protestanti chissenefrega? No, non può essere un incidente, se a trattare il caso in Il Tenente di Inishmore è Martin McDonagh, autore di una “black comedy” perversamente comica, macabra e demenziale come un cartone animato “splatter”, un film dei Monty Python girato in uno scannatoio, o Il malloppo di Joe Orton rivisitato da Quentin Tarantino. Lo sfondo di questa soap opera gotica è quello rurale e selvaggio dello Storpio di Inishmaan, cambia solo isola, come per The Banshees of Inisheer, ma siamo ancora nelle Aran, oggetto dell’omonima Trilogia che segue quella di Connemara, formata da La bella regina di Leenane, Un teschio a Connemara e Il solitario ovest. L’assassinio del felino - e poi dicono che i gatti neri non chiamano scalogna - innesca una spirale di violenza grottesca. In breve la scena si trasforma in un granguignolesco, esilarante tritacarne. Pistolettate, accecamenti, smem- bramenti, secchiate di sangue da far scomparire Seneca, elisabettiani e giacobiani. Il tutto in un vecchio cottage di Inishmore protetto dalla rassicurante scritta “Casa, dolce casa”. Protagonisti un branco di psicopatici irlandesi un po’ sentimentali che sparacchiando e segando vertebre si commuovono con vecchie canzoni patriottiche. Bombaroli e spacconi con inclinazione al parricidio come Padraic, mitizzati dalle ragazze, proprio come il Christy Mahon di Il furfantello dell’ovest di Synge. McDonagh consegna alle scene una parodia irriverente, certo, - e qualche ostracismo, proprio come Synge, lo ha avuto da irlandesi offesi - ma sostenuta da una indignazione morale autentica che si carica, senza quasi darlo a vedere, di problemi tragicamente attuali. Come il terrorismo, in questo caso quello della formazione paramilitare repubblicana dell’INLA, The Irish National Liberation Army, una cellula di estremisti usciti dall’IRA, responsabile di gravi attentati, coinvolta in faide sanguinose anche per traffico di droga tra il 1974 e il 1998, quando firmò il cessate il fuoco. Nel Tenente di Inishmore McDonagh passa al pettine fitto la nebulosità ideologica di un patriottismo distorto e sentimentale, l’imbarbarimento della lotta armata, la caduta di qualsiasi valore etico, la disgregazione dei rapporti familiari, dell’amicizia e della solidarietà, i “principi” e le priorità di militanti in stato confusionale, che scambiano la lista degli obiettivi sensibili con la hit parade delle canzonette. Perché McDonagh, anglo-irlandese ma con forti tradizioni familiari repubblicane, un giorno si è indignato davvero. Il 20 marzo 1993 l’IRA mise due bombe a Warrington, nel Cheshire. Era sabato, il giorno dopo sarebbe stata la Festa della Mamma. Le strade erano piene di gente. Due bambini, Jonathan Ball di tre anni e Tim Parry di dieci, morirono. Per la nazione fu uno shock, e anche per McDonagh che decise di prendere la parola in una questione politica. Ma è artista e non ha fatto proclami o interviste in talk show. Il tenente di Inishmore, “black comedy” intelligente e corrosiva, quanto di più “politically incorrect” e meno digestivo si possa desi- derare a teatro è il suo modo per dire no, come irlandese, al terrorismo. Non nel suo nome. A leggerlo, nella felicissima traduzione di Fausto Paravidino, drammaturgo giovane e di talento come McDonagh e altrettanto brillante nel palleggio di fulminanti battute “one-liner”, fa sbellicare dal ridere, ma appena l’ilarità si smorza si scopre di essere decisamente a disagio, perché non c’è proprio niente da ridere. McDonagh è ormai un fenomeno teatrale mondiale. Il direttore artistico dell’American Repertory Theatre Robert Brustein si sbilancia fino a definirlo il primo grande drammaturgo del XXI secolo. I fatti sembrano dargli ragione. Come lui solo Shakespeare ha avuto quattro opere rappresentate a Londra nella stessa stagione. È tradotto in 28 lingue e rappresentato in 30 paesi. Inoltre il ragazzo (ha scarsi 34 anni ed è in carriera da quasi 10, sempre con un seguito da rock star e pubblici di ogni età) è stato ricoperto di premi in patria e in USA. L’anno scorso ebbe il prestigioso Olivier Award per Il tenente di Inishmore. Pochi giorni fa ha replicato per la migliore nuova commedia con The Pillowman (L’uomo del cuscino), prodotto dal National Theatre, uno dei testi più sconvolgenti e poetici di questo geniale storyteller irlandese, una macchina da storie che riplasma il crudele mondo delle fiabe con fendenti micidiali. Nel discorso di accettazione, ha spiazzato tutti ringraziando il leader dei “Clash” Joe Strummer «per avermi per primo fatto desiderare di scrivere». Il ragazzo è fatto così. Teatro ne vede e ne legge poco, dice, anche se non nega l’influenza di J.M. Synge, di Pinter, di Mamet e soprattutto del suo American Buffalo. Si è allevato da sé a dosi massicce di tv e film, Lynch, Tarantino, Scorsese, Woo sono i suoi autori preferiti, i cartoni di South Park lo deliziano. Nelle sue commedie si muore letteralmente dal ridere, se si è forti di stomaco. Recentemente ha dichiarato che scriverà una storia romantica dove non muore quasi nessuno. Nessuno gli ha creduto. Giuliana Manganelli Durante le prove di Il tenente di Inishmore: in alto, Gianluca Gobbi e Arianna Comes; in basso, Aleksandar Cvjetkovic e Gianluca Gobbi. Così ne ha scritto la critica londinese THE GUARDIAN Nella migliore commedia da lui scritta sino a oggi, McDonagh porta sulla scena in modo affascinante, con la massima coerenza politica e drammaturgica, l'esplosione della violenza, dimostrando che l'estremismo infetta le persone come un virus mortale. Questa è una commedia terrorizzante su un soggetto molto serio, affrontato con la follia dei Monty Python. Il tema è l’ottusità morale del terrorismo. La commedia ha un chiaro punto di vista morale. Dimostra che, nella lotta per l’Irlanda unita, i mezzi violenti hanno superato di gran lunga i fini legittimi, e che il nucleo fanatico si mescola con lo sdolcinato sentimentalismo, con il puritanismo sessuale e un senso della storia altamente selettivo. marzo / aprile 2004 Come ogni satira di qualità, Il tenente di Inishmore attacca l’eccesso e approva il buon senso. Michael Billington FINANCIAL TIMES Dall'inizio alla fine non si smette di ridere e di pensare che non si è mai immaginato nulla di più drammaticamente divertente. Il tenente di Inishmore è, a tutt’oggi, la commedia più nera, più divertente, più violenta, più assurda, più irlandese che sia mai stata scritta. Più folle diventa, più ti fa sentire equilibrato. Alastair Macaulay THE TIMES McDonagh appartiene alla più insigne tradizione irlandese: egli possiede gli strumenti per deride- re la stupidità, smascherare l’insensibilità, e sa non preoccuparsi di chi disturba. Attraverso la combinazione di violenza stilizzata e di comico sentimentalismo, Mc Donagh spinge la satira sino al limite del disegno animato: e ne sortisce uno spettacolo coraggioso, ferocemente divertente. macabramente divertente. Il tenente di Inishmore è un capolavoro della black comedy, nel quale le più grasse risate e le più schoccanti trovate si coniugano con la più inquietante tematica, in un trionfo di effetti teatrali. Benedict Nightingale JEWISH CHRONICLE Bersaglio di McDonagh è la psicopatica ipocrisia che può accompagnarsi alla più nobile delle cause. Questa non è una commedia sulla politica irlandese. È una commedia che mette in scena con allegria la banale logica dell’uccidere per una causa, i cui sostenitori - per assurdo - subordinano la libertà di una nazione al martirio di un gatto. TRIBUNE Martin McDonagh è proprio la persona giusta per affrontare uno dei temi d’attualità più scottanti: cosa passa nella testa del terrorista? Con una commedia da far rizzare i capelli, egli prende in giro il terrorismo irlandese in un modo che risulta allo stesso tempo sbeffeggiante e intelligente. McDonagh coglie perfettamente, quel misto di sciocco sentimentalismo e disumano disprezzo per la vita quotidiana che infetta l’estremista politico. La sua non è una commedia psicologica e il suo humour selvaggio è spesso giovanilistico, ma egli ha il coraggio di ricercare una via d’uscita da una situazione che, dall’11 settembre, è diventata sempre più pressante. John Nathan Aleks Sierz DAILY TELEGRAPH McDonagh tiene insieme le fila della sua trama con superba ostentazione e il suo dialogo è una gioia per chi l’ascolta: ricco di un humour rivelatore che rivela i terroristi nei loro aspetti più deboli e assurdamente veri. Solo lui poteva affrontare il soggetto del terrorismo irlandese con una commedia tanto ardita, brillante, Charles Spencer In quanto figlio della diaspora disseminata in Inghilterra, McDonagh ha un luogo natale (Londra) e una patria immaginaria (l’Irlanda occidentale). In quanto drammaturgo, la sua casa è in entrambi questi luoghi e in nessuno dei due. È ovunque e da nessuna parte, al di là degli aldilà, una regione caotica dove la banalità e il grottesco, la terribilità e il terribilmente comico, la violenza e il desiderio, si rimodellano incessantemente una nell’altra. Martin McDonagh, madre di Sligo e padre di Galway, è cresciuto a Londra. Intorno aveva zie e zii irlandesi. La sua famiglia viveva in un condominio popolare di Elephant and Castle dove metà delle case era abitata da irlandesi. Stesso vicinato quando si trasferirono nella vicina Camberwell. Le vacanze estive le passava a Enskey, contea di Sligo e nel Connemara. Era corista nella parrocchia cattolica del quartiere ed è stato allevato in un’atmosfera intrisa dell’emotività dei racconti del nazionalismo irlandese. Poi i suoi genitori sono ritornati a Lettermullan, nel Connemara, e anche se lui e il fratello maggiore sono rimasti a Londra, hanno continuato a trascorrere tutte le vacanze estive in Irlanda. Lui era, ed è, cittadino di quella terra indefinita che non è né Irlanda né Inghilterra, ma confina con entrambe. La sensazione che McDonagh abiti una terra di nessuno tra due mondi è ancora più evidente nella carica di violenza delle sue opere. La truculenza delle commedie non va intesa in senso letterale, certo, ma non è nemmeno pura invenzione. È il portato di una confusione culturale avvertita con grande apprensione, di un mondo in cui il senso e i valori sono andati in mille pezzi indecifrabili. E il senso di questa confusione è, per sua natura, anche comico. McDonagh porta allo scoperto le comuni radici della commedia e della violenza. Entrambe derivano da una prospettiva distorta, dalla perdita del senso delle proporzioni. L’esagerazione che rende comica un’azione è anche l’iperbole che è implicita nel modo in cui la violenza funziona in quanto risposta assolutamente sproporzionata alle circostanze. Partendo dalla percezione di un mondo in cui le cose sono fuori posto, McDonagh costruisce la dark comedy non limitandosi a giustapporre horror a humour, ma indicando le comuni radici di entrambi. Ma quello che conta davvero è che queste commedie sono un tentativo di rimettere insieme quei frammenti di senso. McDonagh intreccia una varietà straordinaria di immagini nella forma della pièce bien faite che costruisce con assoluta maestria drammaturgica. Ci sono tocchi di Shakespeare e della soap opera, del Grand Guignol e della Bibbia, del melodramma e dei fratelli Grimm. Il realismo più brutale trascolora nell’epica eroica. Fintan O’Toole estratti dal saggio pubblicato nel volume che accompagna lo spettacolo TGE16004_Giornale n°15 3 23-03-2004 13:39 Pagina 3 Il tenente di Inishmore al Teatro della Corte C ONVERSAZIONE CON M ARCO S CIACCALUGA REGISTA DELLO SPETTACOLO IN SCENA ALLA C ORTE Un mondo alla rovescia Da Lo storpio di Inishmaan a Il tenente di Inishmore: cambia qualcosa nella drammaturgia di Martin McDonagh? Aumenta molto il divertimento, la voglia di ridere e di far ridere. Tutto diventa più forsennato. La scrittura di Mc Donagh incrudelisce, osa sempre di più nella direzione della violenza, perde quel filo di patetico e di romantico che sopravviveva ancora nel protagonista dello Storpio. Quello che mi sembra particolarmente interessante, poi, è che qui, più che altrove, McDonagh afferma con forza la propria appartenenza a una tradizione che va dai maggiori drammaturghi irlandesi (John M. Synge e Brendan Behan, soprattutto) ai grandi film di John Ford. Tutto questo a me piace molto, anche perché concorre a mettere in evidenza come la modernità non sia il risultato di una semplice contrapposizione al passato, ma si proponga consapevolmente come il frutto di un albero che si rigenera. Il rapporto che McDonagh ha con l’Irlanda è, in questo senso, soprattutto di natura mitica: i suoi irlandesi sono matti e violenti, ma nello stesso tempo sono buoni e sentimentali; il loro amore per la vita si manifesta attraverso forme comportamentali - bere, torturare, uccidere - portate sino alle estreme conseguenze. Il tenente di Inishmore parla del terrorismo attraverso lo spunto paradossale della morte di un gatto, spostando così una tragedia della storia moderna sul terreno della farsa. Non c’è dubbio che Il tenente di Inishmore sia una farsa. E lo è nel modo più esplicito. La farsa non è un genere teatrale minore; e McDonagh ha il coraggio di frequentarla, oltreché il merito di saperla fare. Lo spunto narrativo della morte di Wee Thomas, il gatto nero del terrorista Padraic, sortisce evidentemente da una provocazione: in un mondo alla rovescia la morte di un gatto può innescare una lunga serie di sanguinose vendette, dato che la vita di un animale diventa più importante di quella degli uomini. Credo comunque che sia un errore leggere Il tenente Gianluca Gobbi con Ugo Maria Morosi e Enzo Paci durante le prove. di Inishmore come un testo sul terrorismo irlandese. Se basta la morte di un gatto per far irrompere la storia anche nella sperduta landa di Inishmore, vuol dire soprattutto che l’atavico mondo contadino non può più permettersi di essere chiuso, autosufficiente. Anche gli abitanti delle isole Aran devono ormai fare i conti con i temi della globalizzazione, che vi si manifestano in forme "soft" attraverso la lettura di un fumetto o l’ascolto di una musica rock, ma vi possono fare anche irruzione con in pugno le armi di una faida tra terroristi. Se nel Tenente di Inishmore il terrorismo diventa poco più di un pretesto narrativo (quasi un Mac Guffin hitchcockiano), dove sta allora il centro del suo interesse? McDonagh è innanzitutto un grande scrittore comico. Come Molière, egli sceglie di far diventare protagonisti gli stupidi e gli ossessi, i malati più o meno immaginari; e come Gogol’ sa trasformare i propri protagonisti in grandi personaggi proverbiali. Credo che questa sia una caratteristica anche di molto cinema moderno, come ad esempio quello di Quentin Tarantino che forse ha più di un rapporto con il mondo di McDonagh. Perché devo interessarmi tanto a personaggi così moralmente orrendi e mostruosi? Perché mi divertono e mi commuovono, nonostante siano persone con le quali non vorrei proprio avere nulla a che fare? Proverbialità, appunto. È ciò che ci ha insegnato Molière. Quello di McDonagh è un teatro che chiede al regista direzione d’orchestra più che interpretazione critica. I personaggi del Tenente di Inishmore pretendono soprattutto di essere compresi e messi in scena, di vivere sul palcoscenico per quello che dicono e per quello che fanno. Solo rispettando la loro volontà, trattandoli per quello che sono possono davvero assumere una valenza proverbiale. L’influenza del cinema, già molto forte nelle commedie precedenti di McDonagh, diventa qui esplicita, tanto che il testo sembra richiedere al palcoscenico cose possibili solo su un set cinematografico. Di fronte a questa drammaturgia il regista teatrale è inesorabilmente costretto a fare delle scelte estreme. Quale è stato il crite- rio che ha guidato le tue? Una commedia come Il tenente di Inishmore è l’incubo dello scenografo e del direttore di scena, oltre che del regista. Come uscirne vivi? Credo che, dopo la prima reazione di sgomento che tutti abbiamo avuto, il primo passo vincente sia stato quello dell’ammirazione. Ammirazione per la straordinaria libertà di McDonagh. Un grande narratore di favole teatrali deve scrivere infischiandosene altamente dei problemi del palcoscenico e dello stile di rappresentazione. Ogni settore della vita creativa del teatro non ha bisogno di farsi carico dei problemi che non gli appartengono. Con questa assoluta libertà, del resto, hanno sempre proceduto i grandi scrittori di teatro. Basti citare Shakespeare. Detto questo, poi è chiaro che tutto va risolto nella specificità del linguaggio teatrale. E allora s’inizia a lavorare. Il fascino del teatro che mi piace fare è quello in cui lo stile nasce dal modo in cui si decide di risolvere un problema, e non è mai il risultato di una scelta pregiudiziale. Mairead, unico personaggio femminile di una commedia sempre sospesa tra violenza e sentimento, è protagonista di una duplice storia d’amore: quella per Padraic e quella per il suo gatto arancione. Alla fine sembra che questo abbia il sopravvento su quello. In questo finale, torna ancora una volta l’idea che uccidere un gatto sia un peccato mortale, mentre uccidere un uomo no. Scherzosamente, durante le prove, dicevo agli attori che dovevano pensare di recitare per un pubblico di gatti. Nella commedia c’è, infatti, l’idea provocatoria che l’innocenza non appartenga alla specie umana, ma solo ai gatti. Se i gatti vedessero il nostro spettacolo, credo che ne uscirebbero contenti. Per questo, mi piace sperare che coloro che verranno a vedere il nostro spettacolo, alla fine, con le lacrime agli occhi dal ridere, possano uscire da teatro proprio come un pubblico di gatti. Contenti. a cura di Aldo Viganò compagnie ospiti DON CHISCIOTTE ACOUSTIC NIGHT 4 di Andrea Nicolini e Stefano Curina da Miguel de Cervantes con Beppe Gambetta Gene Parsons, Patty Larkin Duse 5 / 8 aprile Due attori (Andrea Nicolini e Rosario Lisma) e sei musicisti per raccontare dal vivo le imprese del “Cavaliere dalla triste figura”. Un classico in musical. Corte 15 e 16 aprile Nuovo appuntamento con la musica di Beppe Gambetta che, con i suoi ospiti internazionali, propone l’affascinante dialogo tra chitarra acustica e voce umana. GEORGES DANDIN IL PROCESSO di Molière di Andrea Battistini da Franz Kafka Duse 20 / 30 aprile L’ossessione delle corna in un capolavoro del maggiore commediografo del teatro francese. Il “parvenu” e la giovane nobildonna. Con Lello Arena e Gaia Aprea, regia di De Fusco. Duse 13 / 18 aprile Un capolavoro della letteratura riletto con gli strumenti del teatro. Josef K. è il protagonista di un incubo che inesorabilmente ancora ci appartiene. GIOVENTÙ, GIOCO E RABBIA (segue da pag. 1) Sì, penso che siano addirittura commedie, che come le grandi commedie pescano nella realtà e la sbattono in teatro. E lui col teatro ci gioca come un pazzo, usa tutti i trucchi e nega tutti i trucchi. A quelli a cui non piace non so cosa dire, pazienza, non vedo nessun grande significato nascosto da rivelare a suo beneficio. Ho letto Il tenente di Inishmore quando è stato pubblicato in UK (2001), ho visto l’edizione inglese (2002), un enorme successo di pubblico, uno spettacolo molto funny. Mi sarebbe piaciuto trovare un modo per collaborare alla versione italiana, poi il Teatro Stabile di Genova mi ha chiesto se volevo curare la traduzione, ho fatto finta di pensarci qualche giorno ed eccoci qua. Non è stato semplicissimo perché anche se non si perde mai in rocamboleschi giochi di parole la sua scrittura è rapidissima e caratterizzata dalla ripetizione ossessiva delle stesse parole (a volte con diverse sfumature di senso a seconda del contesto). L’esempio più tipico è forse la parola preferita da Martin: “fucking”, nella sua dizione irlandese “fecking”, alla lettera “fottuto”. Per lui è l’insulto universale, “This feck”, “You feck”, “fecking cat” etc., in italiano varia assolutamente a seconda del contesto “Sto stronzo”, “Coglione”, “Gatto di merda” etc. Si mantiene l’aspetto squisitamente colloquiale della sua drammaturgia ma si perde l’eleganza dell’uso retorico della ripetizione. Mi è venuto un po’ in soccorso il pessimo doppiaggio dei film americani, che ha ormai influenzato il nostro modo “giovanile” di litigare così come la fonte (il film americano non doppiato ma non per questo più Irish) influenza i suoi personaggi, per cui mi è sembrato l’unico caso in cui il “doppiese” fosse consentito. Se scrivesse come Melville dovrei rifarmi a Pavese, ma visto che i suoi personaggi vengono dalla sottocultura pop made in USA c’è da rifarsi a come questa ha influenzato il linguaggio in Italia, non sarà bello ma è quello che abbiamo, le commedie parlano di vizi, non si può imbellettare la realtà dove il contesto richiede di sbeffeggiarla. E poi mi ha aiutato molto la sensazione di capire qual era l’effetto teatrale che voleva ottenere e di apprezzarlo. Visto che non sono propriamente un traduttore ma uno scrittore di teatro, insomma, un collega, mi sono sentito abbastanza libero di cercare di ricreare gli stessi meccanismi scenici in italiano per un’audience italiana più che di inseguire un’analisi letteraria della faccenda. Quella la lascerei al senno di poi, se ci sarà un senno, se ci sarà un poi. Fausto Paravidino marzo / aprile 2004 TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 4 4 F ESTIVAL DI T EATRO I NTERNAZIONALE CON L UCA R ONCONI , G EORGES L AVAUDANT, P INA B AUSCH , E IMUNTAS N EKROSIUS Quattro grandi Star dall’Europa Fra ottobre e novembre la Rassegna che concluderà per il Teatro Stabile la stagione di “Genova, Capitale Europea della Cultura” (segue da pag. 1) 4 1 1. Luca Ronconi • 2. Orlando Furioso • 3. Hamletas • 4. Eimuntas Nekrosius • 5. Kontakthof • 6 e 7. La cerisaie • 8. Hamletas • 9. Mariangela Melato con Luca Ronconi • 10. Kontakthof • 11. Georges Lavaudant • 12. Pina Bausch 2 3 5 7 8 6 L’altra importante notizia presente sul nostro giornale di questo mese è la presentazione del Festival di grande Teatro Europeo che, anche grazie alla collaborazione con il Comitato Genova 2004, concluderà nei mesi di ottobre e novembre il lungo viaggio che stiamo compiendo all’interno del teatro del nostro continente. Il pubblico genovese e quanti verranno da fuori per l’occasione potranno infatti assistere a quattro spettacoli di assoluto livello internazionale, un Festival a cui pensavamo da anni e che per la prima volta nella sua storia il Teatro di Genova riesce a realizzare: accanto allo spettacolo di apertura, La Centaura di Andreini, una nostra produzione con Luca Ronconi regista e Mariangela Melato protagonista, si potrà vedere il lavoro del regista francese Georges Lavaudant sul Giardino dei ciliegi di Cechov, il capolavoro di Pina Bausch Kontakthof, e lo spettacolo cult di uno dei maestri della scena europea, il lituano Nekrosius, Hamletas. Quale occasione migliore dunque per terminare il viaggio nel teatro europeo e per dimostrare, ancora una volta, che il titolo di “Capitale europea della cultura” Genova ha saputo conquistarlo e sa meritarlo non solo grazie alle sue glorie passate ma anche con la forza e la vitalità culturale del suo presente. Carlo Repetti 9 LA CENTAURA di Giovan Battista Andreini produzione: Teatro Stabile di Genova regia: Luca Ronconi Teatro della Corte 14 ottobre / 5 novembre 10 LA CERISAIE (Il giardino dei ciliegi) di Anton Cechov produzione: Théâtre de l’Odéon regia: Georges Lavaudant Teatro della Corte 9 / 11 novembre 11 KONTAKTHOF MIT DAMEN UND HERREN AB 65 12 HAMLETAS (Amleto) di William Shakespeare produzione: Meno Fortas Vilnius regia: Eimuntas Nekrosius Teatro della Corte 25 / 27 novembre Sottotitoli elettronici di Pina Bausch produzione: Tanztheater di Wuppertal regia: Pina Bausch Teatro della Corte 19 / 21 novembre Scritto nel primo Seicento da Giovan Battista Andreini, discendente di una famiglia di teatranti e autore di punta del barocco italiano, La Centaura racconta una storia ricca di colpi di scena e di soluzioni fantastiche, che ha al proprio centro due sorelle - una donna e l’altra centaura - affidate entrambe alla interpretazione di Mariangela Melato, al fianco della quale sarà una numerosa compagnia composta in prevalenza da giovani. Tipico esempio di teatro barocco e spettacolare, dove il mito si allea vivacemente alla “buffonata” e dove i vari generi teatrali - commedia, tragedia, pastorale - s’intrecciano in un ricco gioco di magie, allegorie, scambi di persona e uccisioni, La Centaura è un testo ideale per liberare la fantasia creativa di Luca Ronconi, il quale torna a frequentare il teatro di Andreini dopo un lontano saggio, proprio su La Centaura, con gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e la più recente messa in scena di Amore allo specchio, sempre con Mariangela Melato. Il direttore del teatro dell’Odéon mette in scena l’ultimo capolavoro di Anton Cechov in una elegante e apprezzata edizione che si avvale nei ruoli principali dell’apporto di attori quali Philippe Morier-Genoud, Gilles Arbona, Hervé Briaux e Sulvie Orcier. Dramma del tempo che scorre e commedia sulle variazioni della vita umana, Il giardino dei ciliegi si cadenza sul ritmo delle quattro stagioni (una per ogni atto) e si articola sul tema dell’abbattimento del giardino dove i protagonisti hanno trascorso la loro felice giovinezza. Una sinfonia notturna in abito bianco: quattro movimenti che celebrano il lungo addio a un passato addolcito dal ricordo; l’inevitabile distruzione del giardino che ciascuno porta dentro di sé, quando ormai è diventato una bellezza che non dà più frutti. Una commedia sobria e brillante insieme, soffusa di un tono di dolce malinconia e resa lugubramente drammatica dai colpi delle accette che risuonano mentre i protagonisti partono, lasciandosi alle spalle il fascino del passato. È già uno spettacolo cult: un’elegia sulla difficoltà dell’amore, vissuta e danzata da donne e uomini tutti sopra i sessantacinque anni. Accolto in modo trionfale dal pubblico, lo spettacolo della grande coreografa tedesca è stato così descritto dalla critica: «L’usura del tempo sui corpi e sulle anime, sembra volerci spiegare la Bausch, rende ancora più vero e crudele questo spettacolo sull’impossibilità dell’amore, sui tentativi scherzosi, amabili e violenti, di entrare in contatto con l’altro sesso, su come ci si pavoneggia per attirare l’attenzione altrui, su come, si reagisce, anche con gesti assurdi, all’imbarazzo per la vicinanza dei corpi». Esplorando il territorio per molti versi affascinante e misterioso della terza età, la Bausch prosegue nella sua ricerca appassionata e senza concessioni alle mode di un senso della vita e dei comportamenti degli esseri umani. Il suo è un teatro-balletto sotteso da una forte tensione etica, che non impegna solo l’alta professionalità dei corpi, ma tende soprattutto a cogliere l’essenza della persona. Hamletas è forse lo spettacolo che più di ogni altro ha concorso a determinare la fama europea di Nekrosius quale regista di spettacoli dalle immagini folgoranti e dalle soluzioni figurative inaspettate. Al centro di questa personalissima rilettura del dramma scespiriano stanno un lampadario di ghiaccio che sgocciola sulla scena e un Amleto affidato alla vitalistica interpretazione di un attore che viene dalla professione di cantante rock. Quello che ne sortisce è uno spettacolo moderno ma lontano dai facili stravolgimenti di certa avanguardia, capace di rendere immediatamente comprensibile la ricchezza del testo. Un grande allestimento dalle suggestive invenzioni scenografiche e interpretative, da cui affiorano frequentemente vere e proprie gags comiche, in una stimolante deformazione quasi clownesca della tradizione interpretativa, ma sempre in pieno accordo con lo spirito scespiriano, dove comico e tragico si mescolano continuamente sino a fondersi in una compiuta e perfetta unità artistica. Luca Ronconi Georges Lavaudant Pina Bausch Eimuntas Nekrosius Regista di punta del teatro italiano, Luca Ronconi (Susa, Tunisia, 1933) ha sempre saputo coniugare classicità e sperimentazione, perseguendo con coerenza nuove modalità spaziali ed espressive. Nel corso della sua carriera ha più volte incrociato il proprio lavoro con quello del Teatro Stabile di Genova, per il quale ha diretto alcuni spettacoli memorabili quali L’anitra selvatica, L’affare Makropulos, Quel che sapeva Maisie. Con La Centaura, torna a lavorare con Mariangela Melato in uno spettacolo che si annuncia, sulla scia dell’Orlando furioso, come una gioiosa festa del teatro. Dal 1996 direttore del Théâtre de l’Odéon di Parigi, Georges Lavaudant (Grenoble 1947) è uno dei registi più apprezzati della scena francese contemporanea. Tutti i suoi spettacoli hanno in comune la proposta di un universo che oscilla tra il sogno e la realtà, caratterizzato dall’illusione e dalla immaginazione. Particolarmente attento alle suggestioni del mondo contemporaneo (arti figurative, cinema, disegno animato, musica jazz o rock), Lavaudant ha sempre saputo affrontare i classici con rispetto, ma anche con sguardo personale, sortendone interpretazioni profondamente originali. Ballerina e celebre coreografa tedesca, Pina Bausch (Solingen 1940) è stata protagonista, con i suoi spettacoli dalla composizione fortemente teatrale, di un radicale rinnovamento del balletto contemporaneo, da lei portato verso territori ancora inesplorati. Nei suoi spettacoli la danza si compenetra con il teatro, in soluzioni formali sempre suggestive e capaci di proporsi come metafore della vita. Dal 1973, Pina Bausch è direttrice del Tanztheater di Wuppertal, dove con la sua compagnia ha creato e crea spettacoli memorabili esportati poi sui palcoscenici del teatro internazionale. Formatosi al prestigioso GITIS (Istituto statale di arte teatrale di Mosca), Eimuntas Nekrosius (Pajobris, Lituania, 1952) diventa direttore del Teatro della gioventù di Vilnius a soli venticinque anni e qui mette in scena i suoi spettacoli più importanti, guardando sempre più a una libera rilettura dei classici. Cechov e Shakespeare i suoi autori prediletti, in grandi spettacoli che, presentati con successo in festival internazionali, hanno ben presto viaggiato in Europa. Regista eccentrico e visionario, Nekrosius è autore di un teatro sempre sotteso di una forte carica vitale. marzo / aprile 2004 Sottotitoli elettronici TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 5 5 Inghilterra: biglietti a basso costo, classici e nuovi spettacoli su grandi temi sociali e politici Il nostro viaggio tra i palcoscenici delle maggiori realtà teatrali del Continente, dopo la Francia, giunge in Inghilterra. A farci da guida, uno dei più prestigiosi osservatori della scena d’oltre Manica - Michael Billington, critico drammatico di “The Guardian” il quale ci aiuta a capire i fermenti di novità che agitano il teatro anglosasso- ne, sia sul piano organizzativo, sia su quello della messa in scena dei classici o delle nuove scelte drammaturgiche. DAL NOSTRO GIARDINO DI GUAI Vent’anni fa a Londra andai a una conferenza di Peter Brook. A un certo punto qualcuno gli chiese quale sarebbe stato il futuro del teatro. Dopo una lunga pausa alla fine disse: «Il futuro del teatro sta nel prezzo basso dei biglietti». La veridicità di questa semplice osservazione in Gran Bretagna è dimostrata da recenti riscontri: un pubblico nuovo è emerso semplicemente rendendo il teatro abbordabile. Il primo a prendere l’iniziativa è stato Nicholas Hytner quando nell’aprile del 2003 ha assunto la direzione del National Theatre. Per prima cosa ha annunciato che la maggioranza dei biglietti per l’Olivier Theatre - la sala da spettacolo più capiente delle tre che formano il complesso non sarebbe costata più di dieci sterline: lo stesso costo del biglietto di un cinema a Londra. Hytner ha potuto realizzare questo progetto grazie alla sponsorizzazione di un milione di sterline di un’azienda commerciale, la Travelex, e con i tagli drastici al budget per gli allestimenti. L’effetto è stato immediato. Un terzo del pubblico per la produzione inaugurale dell’Olivier - l’Enrico V di Shakespeare letto come una riflessione sulla guerra in Iraq - non era mai stato al National Theatre. In contemporanea una produzione di Jerry Sprinter - The Opera, allestita al National Littleton Theatre - ha richiamato un pubblico giovane consumatore abituale di tv spazzatura. E al Cottesloe Hytner ha lanciato una stagione di nuova drammaturgia che riflette la realtà britannica contemporanea: a fianco di scrittori affermati come Michael Frayn e Martin McDonagh, si sono rappresentati lavori di giovani quasi sconosciuti come Owen McCafferty con la sua Irlanda del Nord [Closing Time e Scenes From the Big Picture, n.d.t.], o come il giovane attore nero Kwame Kwei-Armah. E di colpo il National Theatre non solo è diventato un contenitore di nuove energie, ma la politica dei biglietti a basso costo ha marzo / aprile 2004 anche cambiato l’atteggiamento nei confronti del pubblico teatrale. Ora tutti i teatri britannici cercano di seguire l’esempio del National. Naturalmente quello che conta è la qualità degli spettacoli, e nel 2003 quella del National è stata quasi sempre eccellente. Democracy di Michael Frayn si è rivelato un capolavoro moderno. Dopo il debutto al Cottesloe, ora sta per inserirsi nel circuito commerciale del West End. Come per Copenhagen, che il pubblico genovese ben conosce, Frayn ha costruito un dramma di idee attorno a fatti reali. Questa volta lo spunto è il rapporto simbiotico tra Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca dal 1969 al 1974, e Günter Guillaume, un agente della Stasi della Germania dell’Est che riuscì a diventare assistente personale di Brandt. A un certo livello il dramma si sofferma sullo strano parallelismo tra le vite dei due uomini: entrambi orfani di padre, entrambi donnaioli, uomini alienati alla ricerca della loro vera identità. Ma ad un altro livello il dramma ha per oggetto proprio ciò che il titolo suggerisce. Frayn presenta un affresco realistico delle macchinazioni machiavelliche messe in atto all’interno di una coalizione di governo, arrivando alla conclusione che, nonostante tutte le imperfezioni, la democrazia è un bene da preservare. L’importanza del dramma di Frayn è la dimostrazione che la politica è tornata al centro della drammaturgia britan- Bella Merlin, Lloyd Hutchinson e Flaminia Cinque in The Permanent Way di David Hare nica. Dopo un periodo in cui il teatro è stato dominato da commedie ossessionate dal privato, ora sono i grandi temi sociali e politici a richiamare un pubblico allargato. Credo che le ragioni di questo cambiamento siano due, strettamente connesse: un crescente scontento per il governo di Blair e gli effetti della guerra in Iraq. In tutto questo c’è un risvolto ironico. È stata l’amministrazione Blair, con l’enorme potenziamento dei contributi economici all’arte e allo spettacolo, a in- Roger Allam, Glyn Grain, Paul Broughton, Conleth Hill e David Ryall in Democracy di Michael Frayn fondere nuova linfa proprio a quel teatro che ora lo sta mettendo sotto accusa. Uno dei più grandi successi del momento è The Permanent Way di David Hare, coprodotto dal National Theatre e dalla Joint Stock. Si tratta di uno spettacolo-documento sulla privatizzazione delle ferrovie in Gran Bretagna attuata dall’ultimo governo conservatore. A prima vista l’argomento non è molto appetibile. Ma, attraverso le interviste ai parenti delle vittime dei quattro disastri ferroviari più gravi che si sono verificati dopo la privatizzazione, Hare traccia un quadro drammatico del caos e dell’incompetenza che li hanno provocati. Alcuni hanno accusato Hare di avere fatto un uso selettivo dei fatti. Altri hanno obiettato sull’efficacia dell’uso delle ferrovie come metafora della Gran Bretagna, cioè un paese dove non funzionerebbe nulla. Comunque sia, Hare ha sollevato una questione cruciale sullo stato di salute della Gran Bretagna oggi. E il drammaturgo sta battendo la stessa strada con una nuova commedia sulle origini della guerra in Iraq che sarà allestita dal National Theatre il prossimo autunno, dal titolo Stuff Happens, [grossomodo Sono cose che capitano, n.d.t.]: battuta pronunciata dal segretario alla difesa americano Donald Rumsfeld [commentando le devastazioni dei musei e i saccheggi avvenuti in Iraq dopo la caduta di Saddam, n.d.t.]. Basta dare un’occhiata in giro e si scopre che ovunque la politica è all’ordine del giorno. A nord di Londra The Tricycle Theatre ha messo recentemente in scena Justifying War, un altro intrigante spettacolodocumento basato sull’inchiesta Hutton intorno alla morte dello scienziato governativo David Kelly. Ma i drammaturghi britannici guardano anche al di là del nostro giardino di guai. David Edgar ha scritto due opere molto ambiziose, Continental Divide, sul sistema politico americano e le speranze andate in fumo dei radicali degli anni Sessanta. E un giovane scrittore, Nikki Amuka-Bird in World Music di Steve Waters Steve Waters, recentemente ha affrontato le complesse relazioni tra Europa e Africa in un inquietante dramma sul genocidio intitolato World Music. Insieme al rinnovato interesse per gli avvenimenti politici la Gran Bretagna mantiene anche una forte tradizione classica. La buona notizia è che dopo un periodo di crisi, la Royal Shakespeare Company è tornata in ottima salute. Le recenti riprese londinesi di La bisbetica domata e Tutto è bene quel che finisce bene hanno riscosso un vivo successo. E Michael Boyd, il nuovo ambizioso direttore, ha in progetto la rifondazione della compagnia stabile, da sempre la vera ragion d’essere della RSC. La prova del fuoco si avrà quest’anno quando la RSC presenterà quattro delle tragedie maggiori di Shakespeare a Stratford-on-Avon e anche una stagione di classici spagnoli rari. Dal momento che Boyd riesce a coniugare felicemente visionarietà a pragmatismo, l’impresa nasce sotto buoni auspici. Concludendo, però, direi che la fama internazionale della drammaturgia britannica è affidata principalmente alla nuova scrittura teatrale. Accanto alla generazione dei vari Pinter, Stoppard, Ayckbourn e Hare, ci sono segnali incoraggianti da parte di talenti emergenti. Negli anni Novanta del secolo scorso la Gran Bretagna veniva identificata soprattutto attraverso scrittori come Sarah Kane e Mark Ravenhill che saldavano l’indignazione morale al sesso esplicito. Ora finalmente sono comparsi drammaturghi che sembrano fortemente intenzionati a dare voce alla seconda generazione di immigrati: i più promettenti sono Roy Williams, che ha scritto della stretta relazione tra appartenenza razziale e calcio in Sing Your Heart Out For The Lads, e Kwame Kwei-Armah che in Elvina’s Kitchen parla di armi, droga e sesso nell’East End di Londra. Nessuno dice che il teatro britannico è perfetto. Ma oggi c’è un fermento, una tempestività nel cogliere e affrontare le questioni all’ordine del giorno nell’agenda mondiale, come la guerra in Iraq e le tensioni interrazziali, che fanno propendere per l’ottimismo. E promuovendo biglietti a basso costo il teatro britannico sta almeno tentando di affrontare il problema più serio con cui il teatro a livello mondiale dovrà fare i conti: cioè, come formare il pubblico di domani. Michael Billington (trad. Giuliana Manganelli) TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 6 6 Riprende il 29 marzo l’appuntamento con le letture, giunte ormai alla nona edizione consecutiva VIAGGIO E VIAGGIATORI Trionfo delle Grandi Parole Al Teatro della Corte riprendono dal 29 marzo gli appuntamenti con le Grandi parole sui sentieri dell’umanità, come suona solennemente il sottotitolo della notevole iniziativa culturale (Viaggio e viaggiatori) che il Teatro Stabile di Genova ha preparato per questa stagione, ribadendo un impianto fra tema e svolgimento in forma di dizione di grandi testi e d’illustrazione di concetti e riferimenti categorici per l’uomo e la sua vita. Il motivo del viaggio, pertanto, e di coloro che, per diverse ragioni, lo sognano, lo compiono, lo descrivono, lo rimpiangono e ne restano coinvolti per tutta una vita. E quando un progetto come quello appena richiamato sfiora il decennio di durata e funzionamento, merita qualche riflessione, se non di bilancio, almeno interlocutoria, ma argomentata. Intanto ha colto nel segno l’intuizione di rivolgersi al pubblico dei frequentatori del teatro - e segnatamente ai più giovani, agli studenti delle superiori - proponendo grandi, immense questioni esistenziali, filosofiche, storiche e ideali come la vita stessa e la morte, la gioia e il dolore, la religiosità e la laicità, la pace e la guerra, la civiltà e la barbarie: insomma i pilastri della civiltà occidentale. Nella forma di una grande riflessione ad alta voce - suffragata dalla saggezza delle prove della letteratura mondiale e dalla capacità degli attori prescelti di presentarle senza alterare il tono più meditativo che declamatorio delle serate di partecipazione e comunicazione fra palcoscenico e platea, intensamente vissute da migliaia di persone. Questo primato dell’esposizione dei contenuti affidata praticamente alla sola parola - si può dire senza il supporto di alcuna azione, di alcuna scena, che non sia la luminosità di un riflettore, l’essenzialità di un leggio, la funzionalità di un microfono - contiene già in sé il nucleo concettuale di tutto il progetto e si è rivelato vincente e praticamente inso- stituibile. Come se nella solitudine della voce umana che esprime con prevalente seriosità il valore del pensiero, ci fosse una superiorità che nessuna rappresentazione può uguagliare. C’è una considerazione culturalmente rilevante che si può leggere in un lontano saggio di Umberto Eco, sul rapporto fra il linguaggio di parola e l’eloquenza di quello dei segni nella narrazione del romanzo manzoniano, al termine della quale, se ricordo bene, lo studioso mostra come nella parola di per sé appunto limitata, ci sia però la capacità di evocare e rendere “visibili ed espressive” anche le altre forme di comunicazione estetica. programma delle ultime tre serate Mi pare che - in relazione allo svolgimento del progetto di cui stiamo ragionando - sia un accostamento pertinente. Ma dopo aver ragionato sul criterio, quasi sullo stile di queste serate antispettacolari, giocate sul primato della concentrazione intellettuale e della coerenza fra sintesi dei concetti e qualità delle testimonianze poetico-letterarie, resta tuttavia il valore della scelta operata da chi ha saputo dare sostanza alle idee, di anno in anno, svelando valori che altrimenti sarebbero rimasti astratti, inafferrabili anche all’uditorio più disponibile e motivato. Perché, qui è il caso di dirlo, come in ogni spettacolo il risultato è frutto di un equilibrio difficile ma riuscito, anche negli incontri di tutti questi anni la statura intellettuale dei relatori e la capacità professionale degli attori si sono giovate del lavoro preparatorio di chi ha sempre saputo intuire la centralità e la tempestività delle questioni da proporre e le ha sempre “vestite” del gusto altamente esemplificativo dei brani, voglio dire delle pagine già scritte, dove la sensibilità del presente può misurarsi con i percorsi già compiuti dell’intelligenza umana: nell’altezza dei saggi e nell’abisso degli errori. La rondine e l’orso lunedì 29 marzo ore 20.30 ovvero il viaggio come fuga Testi Interpreti Relatore Bertha Thompson, Box-Car Bertha Marzia Ubaldi Maurizio Maggiani Cristobel Mattinglej, Asmir di Sarajevo Gianpiero Bianchi Jack London, Accendere un fuoco Jean-Jacques Rousseau, Confessioni Emily Dickinson, Alla parola fuga Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn Walt Whitman, Canto della strada La mente all’inverso lunedì 5 aprile ore 20.30 ovvero il viaggio come memoria Testi Interpreti Relatore Sigmund Freud, Lettere Giulia Lazzarini Romolo Rossi Dino Campana, Il canto della tenebra Ugo Maria Morosi Alfred Tennyson, I mangiatori di loto Eugenio Montale, Voce giunta con le folaghe Italo Svevo, La coscienza di Zeno Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia Franz Kafka, Il castello Marcel Proust, Dalla parte di Swann Wilhelm Jensen, Gradiva Verso l’invisibile martedì 13 aprile ore 20.30 ovvero il viaggio come immaginazione Testi Interpreti Relatore Omero, Odissea - libro XI Giuliana Lojodice Ernesto Franco Le mille e una notte, I viaggi di Sindibad Massimo Venturiello Ludovico Ariosto, Orlando furioso - libro XXXIV Johann Spies, La storia del dottor Faust Jorge Luis Borges, L’Aleph Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver Arthur Rimbaud, Il battello ebbro Ray Bradbury, Cronache marziane Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie ingresso libero in collaborazione con BANCA CARIGE Cassa di Risparmio di Genova e Imperia Silvio Ferrari Senza ERG all’energia mancherebbe qualcosa. marzo / aprile 2004 TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 7 7 FOYER ANNO QUARTO Vitalità di un luogo d’incontro e di scambio culturale Iniziato nella stagione 2000 / 2001 come progetto finalizzato a far vivere il foyer del Teatro della Corte anche al di là della sua funzione primaria di accesso alla biglietteria e di luogo di ritrovo del pubblico degli spettacoli serali, il programma Hellzapoppin è andato via via allargandosi sino a diventare uno spazio aperto alla sperimentazione artistica e al dibattito culturale. Dapprima un po’ perplessi e titubanti, i frequentatori del Teatro Stabile di Genova hanno ben presto imparato che nel foyer senze ogni volta, non è certo un dato trascurabile. Tanto più perché l’attività di Hellzapoppin, grazie anche alla costruttiva collaborazione del Centro della Creatività del Comune e dell’Associazione per il Teatro Stabile di Genova, ha potuto spaziare su un ventaglio di programmazione molto ampio e articolato. Dalle interviste pubbliche (curate dai Buonavoglia) con gli attori protagonisti degli spettacoli in cartellone, alle performance dei giovani artisti; dalle conversazioni culturali organizza- marzo / aprile 2004 te in collaborazione con l’Università degli Studi “intorno” ai testi drammaturgici e ai temi da questi posti in primo piano, agli happening poetici messi in scena dal Circolo Viaggiatori del tempo; dai laboratori aperti degli studenti dell’Accademia delle Belle Ar- M A R Z O / A P R I L E Martedì 30 marzo - ore 19.30 “Musica a teatro”: concerto per corno e archi musiche di Tartini, Vivaldi, Cherubini, Saint-Saëns a cura del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini” Mercoledì 31 marzo - ore 17.30 “Teatro che passione!”: conversazione con Ugo Maria Morosi interprete di Il tenente di Inishmore alla Corte Intervista pubblica a cura di Roberto Iovino in collaborazione con l’Associazione Culturale “I Buonavoglia” ti, alla proiezione di filmati d’epoca; dai piccoli concerti con i quali gli allievi del Conservatorio “Paganini” accolgono gli spettatori delle rappresentazioni serali, ai recital dei giovani aspiranti attori della Scuola di Recitazione dello Stabile. E poi, ancora, presentazioni di libri, piccole mostre fotografiche, convegni e dibattiti. È l’idea di un teatro quale centro culturale aperto alla città. Un luogo d’incontro un po’ caotico, come del resto ben suggerisce della Corte si può, quasi ogni pomeriggio, fare un incontro interessante. E le presenze sono progressivamente cresciute, così come l’attenzione alle proposte. Circa cinquanta appuntamenti ogni anno, con una media di frequentazione non lontana dalla cento pre- Hellzapoppin P R O G R A M M A il titolo del contenitore. Forse necessariamente tale, se non altro per il suo dover convivere con coloro che entrano nel foyer solo per accedere alla biglietteria del teatro. Ma anche, come hanno suggerito molti giovani frequentatori del foyer, un’utile opportunità per togliere alla frequentazione teatrale ogni impaccio museale e per stabilire un diretto dialogo tra il teatro di prosa della città e le forze culturalmente più vive che la animano. numero quindici • marzo / aprile duemilaquattro Edizioni Teatro di Genova, Piazza Borgo Pila 42, 16129 Genova. Presidente Avv. Giovanni Salvarezza • Direzione Carlo Repetti e Marco Sciaccaluga Direttore responsabile Aldo Viganò - Collaborazione Annamaria Coluccia Segretaria di redazione Monica Speziotto Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 34 del 17/11/2000 Mercoledì 7 aprile - ore 19.30 “Musica a teatro”: concerto per archi musiche di Mozart e Mazas a cura del Conservatorio Musicale “Niccolò Paganini” Venerdì 16 aprile - ore 17.30 “Alchimia del verso”: poesie con i denti scherzi letterari d’autore con Max Manfredi, Stefano Bigazzi, Marino Murat e altri in collaborazione con il Circolo Viaggiatori del Tempo Venerdì 23 aprile - ore 17.30 “Teatro che passione!”: conversazione con Lello Arena interprete di Georges Dandin al Duse in collaborazione con l’Associazione Culturale “I Buonavoglia” Mercoledì 28 aprile - ore 17.30 Intorno a L’alchimista di Ben Jonson Relatori: Ferruccio Bertini e Mario Marchi in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova INGRESSO LIBERO TGE16004_Giornale n°15 23-03-2004 13:39 Pagina 8 8 I mestieri del teatro: incontro con Patrizia Gatta, amministratrice di compagnia del Teatro Stabile di Genova Professionisti dell’imprevisto Il nostro viaggio fra i mestieri del teatro ci porta a scoprire un’altra delle tante attività che si svolgono dietro le quinte di un palcoscenico: quella dell’amministratore, nel nostro caso amministratrice, di compagnia. Protagonista è Patrizia Gatta, che fa d a o l t r e v e n t ’ a n n i q u e s t o l a v o r o e c h e d a l 1 9 9 9 è a l Te a t r o S t a b i l e di Genova, dopo una serie di altre esperienze con impresari privati, sia nel mondo del teatro di prosa che in quello della musiNon si fa illusioni Patrizia Gatta: «Secondo me gli attori identificano l’amministratore di compagnia soprattutto con la cassa», afferma. Ma per lei, amministratrice di compagnia del Teatro Stabile di Genova, svolgere questo lavoro significa, sì, conti da far quadrare, stipendi e fatture da pagare, ma anche «capacità di ascolto e di dialogo con gli altri». Perché amministrare quelle piccole o grandi “tribù” che sono le compagnie teatrali, vuol dire occuparsi di mille cose pratiche che hanno a che fare con i numeri e con i soldi, ma anche con il lavoro e il modo di essere di tante persone. «La responsabilità principale, certo, è quella della cassa - osserva - e non ci fai mai l’abitudine, anche perché sei responsabile di denaro non tuo e, spesso, sei in giro con un bel po’ di contante. Ma questo è anche un mestiere di raggiungere una “piazza” spiega - noi mandiamo delle schede tecniche ai teatri che ci ospitano. Quando io arrivo, assieme ai tecnici, vado, come prima cosa, nella direzione del teatro a “battere cassa”, verifico che siano rispettate tutte le clusole del contratto, chiedo i biglietti omaggio per la compagnia e poi naturalmente sono presente, quasi sempre, dal montaggio alle repliche. Se un attore o un tecnico si fa male l’amministratore di compagnia lo accompagna al pronto soccorso. A volte prenoto anche direttamente alberghi e ristoranti e, comunque, mi attivo per avere la lista aggiornata di accoglienza turistica per ogni “piazza”. A fine mese poi continua - devo preparare i dati per le buste paga dei tecnici, controllare gli orari di lavoro di attori e tecnici (cosa che mi piace poco), verificare, Patrizia Gatta con Turi Ferro durante una festa in maschera fatto di relazioni e di rapporti. Si lavora in stretta collaborazione con il direttore di scena e qui a Genova ho trovato delle persone fantastiche. L’amministratore di compagnia è la persona che rappresenta la produzione in tournée. Fra i suoi compiti aggiunge - ci sono quelli di preparare l’ordine del giorno del lavoro durante le prove, occuparsi di una serie di aspetti organizzativi nelle tournée: curare, per esempio, i rapporti con i teatri che ospitano la compagnia, pagare la diaria settimanale ai tecnici e la quindicina agli attori, raccogliere ogni sera i dati dei biglietti venduti e trasmetterli alla produzione». Il ruolo dell’amministratore di compagnia è importante, infatti, soprattutto nelle tournée, durante le quali diventa, per attori e tecnici ma anche per il teatro che ospita, il referente della produzione dello spettacolo e, quindi, il primo destinatario di tutte le richieste e le lamentele che hanno a che fare con l’organizzazione del lavoro “fuori sede” o con la gestione della cassa. «Prima marzo / aprile 2004 per esempio, se hanno potuto godere della giornata settimanale di riposo o se, invece, erano in viaggio per la tournée e, quindi, hanno diritto a un mancato riposo. Proprio perché si deve occupare di tanti aspetti diversi, l’amministratore di compagnia ha una visione ampia del lavoro che c’è dietro uno spettacolo». Patrizia Gatta viaggia, come molti altri colleghi, sempre con il suo cane a seguito: Luna, una cagnetta fantasia che ha avuto anche un ruolo di “comparsa” nella messa in scena de L’ispettore generale. «Il nostro è anche un mestiere fatto di solitudine - osserva - e forse è per questo che tanti amministratori di compagnia portano con sé un cane». Prima di arrivare, nel 1999, allo Stabile di Genova, Patrizia Gatta, romagnola di nascita, ha lavorato per diversi produttori privati: agli inizi con cooperative teatrali bolognesi, subito dopo essersi laureata al Dams di Bologna, e poi per molti anni a Roma con il produttore Lucio Ardenzi, scomparso circa due anni fa. «Il mio primo spettacolo con ca. Per lo Stabile Patrizia Gatta è già stata impegnata nella produzione di molti spettacoli, fra i quali “Lo storpio di Inishmaan”, “ I l Ta r t u f o ” , “ D o n G i o v a n n i ” , “ I r e v e r e n d i ” , “ U n n e m i c o d e l p o p o l o ” , “ L’ i s p e t t o r e g e n e r a l e ” , “ M a d r e C o u r a g e e i s u o i f i g l i ” e , u l t i mo “Il tenente di Inishmore di Martin McDonagh. Il suo prossimo impegno di questa stagione sarà, sempre per lo Stabile, “ L’ a l c h i m i s t a ” d i B e n J o n s o n , c o n l a r e g i a d i J u r i j F e r r i n i . L’amministratore di compagnia L’amministratore di compagnia nasce, come figura professionale autonoma, in anni relativamente recenti, quando i ruoli nelle compagnie teatrali si vanno via via definendo e diversificando. In origine, infatti, il compito di gestire amministrativamente la compagnia, soprattutto durante le tournée, era affidato all’impresario o a volte anche al capocomico che, quindi, svolgeva una duplice attività, artistica e “manageriale”. Adesso questo è, invece, il compito principale di una nuova figura professionale che, per tecnici e attori, è il rappresentante della produzione. A lui tocca, quindi, mediare fra le esigenze del produttore dello spettacolo che può essere un imprenditore privato o un ente teatrale pubblico - e quelle della compagnia. Oltre a gestire la contabilità, l’amministratore di compagnia deve occuparsi anche di una serie di aspetti organizzativi nelle tournée, dai rapporti con il teatro che ospita alla prenotazione degli alberghi. Durante l’allestimento di uno spettacolo segue le prove e poi, in tournée, tutte le repliche, per essere pronto a intervenire in caso di emergenze o imprevisti. Agli inizi questa era, come molte altre, una professione quasi esclusivamente maschile, mentre adesso sono moltissime - forse addirittura in maggioranza - le donne che fanno questo lavoro. Ardenzi - racconta - fu, nel 1982-83, Romantic Comedy, con Giorgio Albertazzi e Ornella Vanoni. Ricordo che Ardenzi mi chiamava “Alice nel paese delle meraviglie”, perché per me era tutto nuovo. Il mestiere l’ho imparato con Giancarlo Bonuglia, accanto al quale ho iniziato a lavorare come segretaria di compagnia. Sono rimasta trequattro anni con Ardenzi e poi ho lavorato per due anni con la Vanoni, come sua segretaria personale. Il mondo della musica è molto diverso da quello del teatro di prosa e ti dà anche emozioni diverse. Ed è, o almeno era, un mondo maschile: ricordo che io ero l’unica donna fra tanti uomini». Alle tournée con la Vanoni seguì l’incarico di amministratrice di compagnia e segretaria personale di Giorgio Albertazzi. «Dopo quell’esperienza, che fu per me molto impegnativa - continua - tornai con Ardenzi e ho lavorato per lui con la compagnia del signor Turi (Turi Ferro ndr), con il quale ho lavorato, fra l’altro nel Berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Il signor Turi era un uomo fantastico, l’anti-divo per eccellenza. Come tutti i veri attori arrivava sempre a teatro con un bel po’ di anticipo rispetto all’orario di inizio dello spettacolo e stava molto tempo in camerino. Usava ancora il tappo di sughero bruciato per truccarsi e aveva la mania di tagliuzzare barbe e baffi, che si attaccava con il mastice. Lui si portava dietro, in teatro, la sua famiglia siciliana. Ricorderò sempre Maria Carrara, la sorella della moglie con Kim Rossi Stuart del signor Turi: a novant’anni recitava ancora, benché avesse perso la vista. Era una signorina e lo era rimasta in tutto, anche nel modo di fare. Dopo lo spettacolo, quando la riaccompagnavo in camerino, mi diceva sempre “Oh, Patrizia, che pubblico gioioso!”». Agli anni dell’esordio con Romantic Comedy, risale, invece, una delle richieste più singolari con cui Patrizia Gatta si è dovuta misurare nel suo lavoro: «Quella di Ornella Vanoni che - racconta una sera alle otto, prima dello spettacolo, mi chiese trenta metri di filo di rame per scaricare le energie negative… Ma naturalmente non potemmo accontentarla. Qualche volta capita, invece, che gli attori facciano gli spiritosi: mi chiedono, per esempio, se so dove potranno parcheggiare l’auto nella tappa successiva della tournée. Io comunque cerco di non arrabbiarmi neanche di fronte a richieste assurde. Preferisco trovare le soluzioni ai problemi, sapendo che le situazioni cambiano velocemente. Questo lavoro t’insegna ad affrontare le emergenze, ad avere sempre la capacità di risolvere rapidamente situazioni impreviste perché, per quanto uno possa essere previdente e attento, gli imprevisti ci sono sempre. E tu devi essere pronto per cercare di rispondere all’impossibile…». Avere relazioni anche umane e personali con i compagni di lavoro, però, aiuta, secondo Patrizia Gatta, convinta che la possibilità di risolvere molti problemi e di evitare tensioni, dipenda anche dall’atteggiamento di ciascuno. «Il fatto di essere aperta al dialogo certamente mi ha aiutato in questo mestiere - osserva - ma credo che molto dipenda dalla disponibilità con cui ci si pone di fronte alle situazioni e alle persone, e dal rispetto che ciascuno ha per il lavoro degli altri. Io allo Stabile, per esempio, ho lavorato bene e ho imparato tante cose da Mariangela (Melato), dal signor Pagni, da Gabriele (Lavia) da Ugo Maria (Morosi) e, secondo me, non è nemmeno vero che i genovesi siano così chiusi come si dice. Un po’ mugugnoni sì, ma io qui ho conosciuto persone fantastiche a livello professionale e, soprattutto, umano». A Genova lei è arrivata per uno di quei casi che hanno segnato, dice, tutte le svolte della sua vita professionale, proprio nei momenti in cui sentiva che era arrivato il momento di cambiare. «Nel 1998, quando lavoravo ancora con Ardenzi, avevo lasciato allo Stabile di Genova il mio curriculum, durante una tournée con il signor Turi», racconta. «Poi l’amministratrice di compagnia che lavorava per lo Stabile decise di prendersi un periodo di aspettativa e propose me come sua sostituta. Ivo Chiesa mi chiamò e, dopo il colloquio, decisi di accettare l’incarico. Questa è la mia prima esperienza in un teatro pubblico ed è per me un grande privilegio lavorare con un teatro serio e stimolante come lo Stabile di Genova. Qui gli input culturali sono moltissimi. Certo - sottolinea - hai sempre la responsabilità della cassa, dei tecnici, ma quello che si fa mi interessa. Spettacoli come Madre Courage e i suoi figli o Il nemico del popolo mi hanno dato molto. Il lavoro dell’amministratore di compagnia è un po’ diverso in un teatro pubblico, perché nel privato i ruoli sono meno definiti e, quindi, l’amministratore di compagnia finisce con l’avere più responsabilità». Fra i “privilegi” di questi anni genovesi di cui Patrizia Gatta è particolarmente felice c’è la tournée dell’estate scorsa a Mosca, con L’ispettore generale di Nikolaj Gogol’ per la regia di Matthias Langhoff. «Per me è stata un’emozione grandissima», racconta. «Andare a “casa” di Gogol’, invitati dai russi, e poi in quel teatro (il Teatro dell’Armata - ndr) che sembrava uscito da una novella di Cechov… Tutto era estremamente burocratico, bisognava chiedere il permesso per qualsiasi cosa, ma lì si sentiva davvero la Russia. E poi abbiamo ricevuto un’accoglienza fantastica, sia da parte del teatro che del pubblico». L’ultima fatica e le ultime soddisfazioni, invece, sono state quelle della tournée di Madre Courage e i suoi figli, con Mariangela Melato. «Giravamo con tre camion e una compagnia di 38 persone - racconta - e, naturalmente, più la compagnia è grande e più la gestione di tutto è complessa. Ma, visto che la tournée di Madre Courage è andata molto bene, questo ha certamente aiutato. Mariangela Melato poi è una professionista seria e lavorare con i professionisti è un’altra cosa che aiuta. La nostra era una grande famiglia che girava per l’Italia con l’obiettivo comune di andare in scena tutte le sere e di fare in modo che tutto andasse bene perché, se le cose vanno bene, è meglio per tutti». Annamaria Coluccia con Luna, la sua cagnetta