Protezionismo - La Repubblica

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DIARIO
MARTEDÌ 10 FEBBRAIO 2009
DI REPUBBLICA
■ 36
Il presidente Usa Barack Obama invita a previlegiare le merci
americane. Dopo decenni di indiscutibile credo liberista la
tentazione di chiudere i mercati contagia la politica nel mondo
PROTEZIONISMO
Quando la paura
fa alzare le barriere
VITTORIO ZUCCONI
LIBRI
PAUL
KRUGMAN
Il ritorno
dell’economia
della
depressione
e la crisi del 2008
Garzanti 2009
La coscienza di
un liberal
Laterza 2008
ROBERT
GILPIN
Economia
politica globale.
Le relazioni
economiche
internazionali nel
XXI secolo
Università
Bocconi 2009
JAGDISH
BHAGWATI
Contro il
protezionismo
Laterza 2006
JOSEPH
STIGLITZ
I ruggenti anni
Novanta
Einaudi 2004
La
globalizzazione
e i suoi nemici
Einaudi 2002
SIDNEY
POLLARD
(a cura di)
Storia
economica del
Novecento
Il Mulino 2002
GIANGIACOMO
NARDOZZI
Miracolo e
declino
L’italia tra
concorrenza e
protezione
Laterza 2002
VERA
ZAMAGNI
Dalla rivoluzione
industriale
all’integrazione
europea
il Mulino 2000
Dalla periferia al
centro
La seconda
rinascita
economica
dell’Italia
Il Mulino
1990
FABRIZIO
ONIDA
(a cura di)
Protezionismo
strategico
Il Mulino 1996
ome una Fenice della storia economica,
il “protezionismo”,
l’animale che una
generazione credeva scomparso per
sempre, risorge puntuale per tornare a volare sopra le tentazioni
della generazione successiva. Invano esorcizzato da sigle, trattati e
acronimi solenni inventati dall’umanità dopo le catastrofi provocate dal suo volo, Unctad, Ceca,
Mec, Cee, Ue, Nafta, Gatt, Mercosur, Wto, Asean, il “protezionismo”, che è spesso soltanto un sinonimo di «nazionalismo», torna
prepotente a tentare i delusi dal
proprio antagonista, il “liberismo” ora esploso nella globalizzazione e a promettere garanzie e sicurezza a governi impopolari e
popoli terrorizzati. Arriva fino alla
nuova amministrazione di Barack
Obama costretto, dopo tante promesse elettorali agli Stati del Nord
deindustrializzati, a limitare l’emorragia con una possibile legge
“Buy American”, scritta nel gigantesco pentolone dei soldi pubblici
rovesciati sull’economia americana boccheggiante, per proteggere quello che rimane dell’industria siderurgica nazionale. Non
ne resta immune neppure quella
Unione Europea che riscopre
quella bardatura di sovvenzioni
statali ad agricoltori o industrie
come l’auto che in realtà non aveva mai del tutto abbandonato,
predicando agli altri comandamenti che neppure essa applicava.
Proprio come gli animali mitici,
né il “protezionismo”, né il suo
contrario, la “globalizzazione”,
evoluzione estrema del “liberismo” (o “neo liberismo” come
vuole il vezzo corrente di appiccicare un “neo” sulle guance di pratiche e dottrine antichissime), sono mai realmente esistiti nella forma pura sognata dai propri apostoli come Jean Baptiste Colbert
nella Francia del ’600 o Adam
Smith, nella Scozia di un secolo
dopo. I due poli opposti del commercio, e dunque dell’economia,
si accontentano entrambi di ritagliarsi spazi occasionali a proprio
favore, respirando con il respiro
delle congiunture economiche
favorevoli o sfavorevoli. L’altalena di favore pubblico fra protezionisti e liberisti è sempre stata soltanto l’indice di gradimento delle
condizioni generali di un’economia. Quando un’economia prospera, le spinte a liberalizzare e
aprire i mercati di beni e di capitali per aumentare la propria ricchezza privata o nazionale crescono, con il miraggio di favolosi
mercati per le proprie esportazioni, come il celebre sogno del “miliardo di spazzolini da denti” da
vendere ai Cinesi. Quando un’economia langue, o si scopre che i
Cinesi sanno farsi benissimo da
soli gli spazzolini e te li vendono
anche, la Fenice del protezionismo risorge.
Il favore del quale gode in questo momento il sogno del protezionismo è la dimostrazione del
classico assioma che vuole tutti in
favore delle porte aperte quando
loro sono chiusi fuori, ma poi suggerisce di richiuderle, o almeno
accostarle, quando dalla stessa
porta irrompe chi stava dall’altra
parte. Poiché le economie ricche
Cicli storici
Tutti sono a favore delle porte
aperte quando l’economia
cresce e non ci sono problemi
La voglia di protezione
si fa subito sentire invece
appena le cose vanno male
C
Ridicolo
Gli Stati Uniti, grandi
protettori dei mercati liberi
scadono nel ridicolo
quando Bush impone il dazio
sul formaggio Roquefort
o sull’acqua minerale italiana
ISOLAZIONISMO
Qui a fianco,
manifestazione degli anni
’20 per l’isolazionismo
politico ed economico
americano
oggi sono tutte “in unità coronarica”, come ha detto Klaus Schwab,
presidente del Forum Economico
Mondiale e padre dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il
Wto, oggi assai malconcio, la
preoccupazione immediata è
quella di “salvare il paziente” rinviando al dopo infarto la discussione sulle cause e i rimedi. Naturalmente, l’immagine di Schwab
non risponde alla domanda principale: quale, dei troppi pazienti
che affollano l’unità coronarica
vada salvato e chi invece sia condannato a soccombere. Già gli interventi e le terapie intensive in
corso, come il “Buy American” del
piano Obama o le flebo di danaro
nelle vene degli agricoltori (quasi
sempre francesi) stanno aggravando le condizioni di altri più deboli. Il ministro del Commercio
SILLABARIO
PROTEZIONISMO
egiziano, Rashid Rashid, ha raccontato che gli allevatori stanno
macellando in massa il loro bestiame, che non potrà più competere con i prezzi artificiali del bestiame europeo.
La storia economica insegna
che il commercio “equo e solidale”, sognato dagli utopisti, è un ossimoro, una contraddizione in
termini. Per definizione, il commercio è un gioco al quale tutti
hanno sempre barato o giocato
soltanto a condizione di vincere.
Hanno barato a lungo e sfacciatamente i Giapponesi, come ora i
Cinesi, che difesero la competitività della propria industria dall’aumento dei costi lavoro, manipolando artificialmente il corso
della propria moneta. Se il valore
di una moneta è basso, il costo internazionale dei prodotti venduti
LUIGI EINAUDI
insuccesso e gli errori e i danni del protezionismo, contro cui gli economisti
combattono, derivano dall’avere trascurato le limitazioni necessarie, dall’avere fatto
intervenire lo stato anche dove il suo intervento è
dannoso, dall’avere trasformato una ricerca tecnico-economica in un do ut des politico, in cui
trionfano i procaccianti, i furbi, i forti politicamente.
Sono pronti i protezionisti italiani a consentire
che i dazi protettivi entrino in vigore solo dopo un
processo pubblico, caso per caso, dazio per dazio,
in contraddittorio con i controinteressati, e dinanzi a un tribunale di periti, salvo sempre il giudizio del parlamento? E se non son pronti, la loro
repugnanza che cosa significa fuorché il desiderio di ottenere protezione anche quando questa
non risponde a nessun interesse pubblico?
L’
in quella moneta sarà basso, come sapeva bene l’industria italiana per decenni nascosta dietro
una delle più classiche operazioni
di protezionismo non doganale,
la svalutazione periodica della Lira pagata dai consumatori con
l’inflazione. La grande crisi del
Giappone, cominciata nei secondi anni ’80, coincise infatti con la
resa del governo di Tokyo alle
pressioni americane per lasciare
libero lo yen di salire alle stelle. E
ha barato spudoratamente anche
la grande protettrice ufficiale del
liberismo (dopo decenni di accanito e ufficiale protezionismo
nell’800) erigendo centinaia di
“barriere non tariffarie”, non doganali, ma pratiche (spesso giustificandole con pretesti igienici).
E rischiando di finire nel ridicolo, come è accaduto alla fine della
presidenza Bush, quando la Casa
Bianca impose dazi punitivi contro il Roquefort francese o l’acqua
minerale frizzate italiana, per castigare la Ue colpevole di rifiutare
le carni bovine agli ormoni provenienti dalle stalle americane.
Né i sacerdoti del nazionalismo
commerciale, alias protezionismo, che ora spuntano per invocare guerre alle ciabatte cinesi o
alle automobili coreane, né quelli
del liberismo, come il Nobel Paul
Krugman, che faticano a spiegare
il collasso e il discredito generale
del loro credo, vogliono ammettere che nessuna economia può
crescere senza elementi dell’uno
o dell’altra pratica, nella loro dialettica continua. Non esistono
dalla rivoluzione industriale in
poi nazioni in grado di autonutrirsi e di auto rifornirsi di materie
prime essenziali (basti pensare al
petrolio) o di cibo per popolazioni ormai cresciute oltre ogni capacità di autosostentamento. Il magnifico sogno di “sovranità alimentare” che oggi torna a sedurre, è, in nazioni come l’Italia incurabilmente a corto di superfici
arabili o coltivabili, appunto un
sogno.
Dalla difesa delle industrie
neonate, come voleva il santo
protettore del mercantilismo
americano, Hamilton, all’accanimento terapeutico per industrie
invecchiate, come vorrebbe adesso Obama con gli altiforni Usa o i
governi europei con i sussidi alle
auto o al gorgonzola, il ritorno
della chimera protezionista è forte, spinta dal vento dell’angoscia
collettiva. Forte e illusorio, come
fu il mito della globalizzazione
che avrebbe prodotto una marea
nuova capace, come avrebbe detto Ronald Reagan, di “sollevare
tutte le barche”. La realtà è che il
mondo uscirà dalla unità coronarica con il solito mix di promesse e
di carte false, di proclami e di mezzucci, fra protezionismo e liberismo, perché il “campo da gioco
perfettamente piatto” invocato
da tutti non è mai esistito. La domanda chiave è sapere quante
dosi di protezionismo saranno
somministrate alle economie infartate, ricordando il monito di
uno dei profeti del liberismo, l’austriaco Ludwig von Mises che visse personalmente le due guerre
europee del ’900, imbullonate sui
miti della sovranità industriale e
dello spazio vitale nazionale: «La
cultura del protezionismo è sempre la cultura della guerra».
Gli autori
IL TESTO del Sillabario di Luigi Einaudi è tratto da Il buongoverno (Laterza). Marcello De Cecco insegna
Storia della finanza e della moneta
alla Scuola normale di Pisa. Il libro
più recente di Giorgio Ruffolo è Il
capitalismo ha i secoli contati
(Einaudi)
I Diari online
TUTTI i numeri del “Diario” di Repubblica, comprensivi delle fotografie e dei testi completi, sono
consultabili su Internet in formato
Pdf all´indirizzo web www. repubblica. it. I lettori potranno accedervi
direttamente dalla home page del
sito, cliccando al menu «Supplementi».
Repubblica Nazionale
Paul Krugman
Karl Polanyi
John Maynard Keynes
Sostenere che è del tutto errato
vedere del buono nel protezionismo:
questa è teologia, non economia
Il protezionismo ha contribuito a
trasformare mercati concorrenziali
in mercati monopolistici
Si esagera il contributo che misure
protezionistiche possono portare
alla soluzione delle nostre difficoltà
New York Times (2009)
La grande trasformazione (1944)
La congiuntura economica (1930)
■ 37
INGHILTERRA ’800
ITALIA ’800
GATT E WTO
GUERRA DELL’ACCIAIO
BUY AMERICAN 2009
L’industriale tessile
Cobden fonda la Lega
contro il dazio sul grano,
avviando negli anni ’40 le
battaglie contro il
protezionismo doganale
e a favore del libero
scambio commerciale
Negli anni ’80 del XIX
secolo l’Italia di Crispi
adotta una politica
protezionistica che ne
favorisce lo sviluppo
industriale. Il dibattito
sugli effettivi vantaggi di
quella scelta dura decenni
Dopo la seconda guerra
mondiale viene raggiunto
l’Accordo generale sulle
tariffe e il commercio (Gatt)
per favorire gli scambi. Nel
1995 l’accordo diventa
Organizzazione mondiale
per il commercio (Wto)
Tra il 2001 e il 2005
scoppia la guerra
commerciale tra Stati
Uniti, che impongono
dazi sull’acciaio e Unione
europea che denuncia la
violazione degli accordi
davanti al Wto
Di fronte alla crisi
economica il presidente
Barack Obama lancia una
campagna “autarchica”
con lo slogan “buy
american”, nome che
aveva anche una legge
approvata nel 1930
Le tappe
Perché i governi ricorrono spesso ai dazi Per i paesi più deboli i danni sono maggiori
UNA PRATICA QUANTO COSTA
SECOLARE ALL’ITALIA
GIORGIO RUFFOLO
MARCELLO DE CECCO
venti anni dall’unificazione, attorno al 1890, l’economia italiana arrancava. La politica di libero scambio –
si chiamava della “porta aperta” – instaurata dalla destra nel nuovo Regno, aveva favorito l’agricoltura e depresso l’industria. Ma dell’agricoltura aveva avvantaggiato le
colture specializzate del Nord, mentre erano rimasti esposti alla concorrenza americana i grandi proprietari di grano. E nell’industria, generalmente penalizzata, erano state praticamente decimate le deboli strutture del Mezzogiorno. Inoltre il fisco,
generoso con i proprietari terrieri, aveva colpito ferocemente i
consumi popolari, con la famigerata imposta sul macinato (la
cosiddetta imposta sulla fame).
Giunta con Depretis al Governo nel 1876 la Sinistra varò più
di dieci anni dopo, nel 1887, quello che Antonio Gramsci definì
il “patto mostruoso” tra la classe liberale del Nord e i latifondisti reazionari del Sud, e cioè la nuova tariffa protezionistica che
avvantaggiava con bassi dazi sulle materie prime e dazi elevati
sui prodotti, l’industria in generale e quella tessile e siderurgica
in particolare; e concedeva agli agrari un dazio sui cereali che li
avrebbe difesi dal grano americano. La tassa sul macinato era
stata abolita nel 1880.
L’Italia seguiva così con qualche ritardo la Germania sulla
strada del protezionismo: una strategia economica teorizzata
da un filosofo (Fichte) e da un economista (List) per compensare con politiche doganali e fiscali interventiste il ritardo rispetto all’economia britannica, allora dominante nel commercio
internazionale. La Gran Bretagna poteva permettersi il suo “li-
el 1930 gli Usa, minacciati da una seria recessione, adottarono la punitiva Tariffa Doganale Smoot Hawley. Nel settembre 1931 la Gran Bretagna abbandonò il sistema aureo
e pochi anni dopo anche il libero scambio che aveva lei
stessa inventato ed esportato al resto del mondo.
Gli altri paesi li imitarono, il commercio mondiale crollò.
Anche oggi a riproporre il protezionismo sono Stati Uniti e Gran
Bretagna. Gordon Brown due anni fa ha inventato lo slogan “posti
di lavoro inglesi ai lavoratori inglesi” ora ripetuto dai lavoratori delle raffinerie. Barack Obama, per acquisire il favore dei sindacati, che
preferivano Hillary Clinton, e degli industriali minacciati dalle importazioni, in un discorso ai lavoratori dell’automobile di un anno
fa, ha inviato un messaggio protezionista, raccolto dal Congresso
degli Stati Uniti di recente nel Piano di Stimolo dell’Economia. Sperando di facilitare l’approvazione dello stesso piano da parte del
Congresso, il neo ministro del Tesoro americano, Geithner, ha poi
esordito nel ruolo accusando la Cina di manipolare la propria moneta.
Se anche questa volta sono i paesi leader ad abbandonare per primi il libero scambio, il loro esempio sarà di nuovo seguito da tutti
gli altri. Questo perché, di fronte ad alti tassi di disoccupazione, tassi di crescita del Pil negativi e deflazione dei prezzi, il protezionismo
può apparire (come spesso ammonisce Paul Krugman) una soluzione efficace nel breve periodo, a politici il cui orizzonte al massimo si estende da una elezione all’altra, a sindacalisti angustiati dalla disoccupazione, a industriali minacciati da profitti in picchiata e
ad azionisti e fondi pensione rovinati dai crolli di borsa. Infatti, met-
A
Laissez faire
Al ministro francese Turgot che chiedeva cosa servisse,
i mercanti francesi risposero “laisser faire, laisser passer”
Ma le scelte contro la libertà degli scambi sono continue
AUTARCHIA
Sopra, un manifesto italiano degli anni ’30 di
propaganda in favore della politica autarchica.
Sotto, un manifesto del partito repubblicano americano
del 1888 in favore delle tariffe protezionistiche
berismo”, perché il vantaggio storico della sua industrializzazione le consentiva di giocare con poste più alte.
Gli altri paesi europei, se volevano acquistare il rango di grandi potenze, dovevano inseguire. Anche alcuni grandi economisti liberali, come John Stuart Mill, sostennero l’opportunità, da
parte di questi paesi, di praticare un protezionismo limitato nel
tempo per fare crescere a un livello di competitività la loro “infant industry”.
Il protezionismo di fine Ottocento aveva, del resto, precedenti illustri. Fino alla fine del Seicento i nuovi grandi Stati nazionali avevano identificato la ricchezza delle nazioni con il possesso dei grandi lingotti d’oro e d’argento (bullions). Il “bullionismo” contraddistinse la prima fase ingenua del mercantilismo, che si concentrò poi sull’obiettivo strategico di realizzare
un’eccedenza della bilancia commerciale, nella quale si identificava la ricchezza della nazione. Ciò spostava l’accento dal possesso di moneta al lavoro, alla produzione, all’attività economica concreta. E fu tra i primi un economista calabrese del Seicento, Antonio Serra, vissuto a Napoli, per grande parte della vita in galera per cause ignote, a spiegare che non era la moneta la
causa della ricchezza, ma il lavoro degli uomini e l’intelligenza
di chi li governa: la «provision di quel che governa». Qualcuno
afferma, forse calunniosamente, che fosse un falsario!
Alla fine del Settecento la scienza economica compì una nuova svolta radicale. La fonte della ricchezza, dissero gli economisti liberali non stava nella ricchezza materiale ma nella libera intraprendenza individuale. A Turgot, che gli chiedeva di che cosa avessero bisogno. certi artigiani e commercianti risposero:
«laissez faire, laissez passer!». Diventò il motto del liberalismo
economico, o liberismo. Gli economisti spiegarono che il mercato libero aveva in sé stesso il suo ordine e il suo equilibrio: e
che la cosa migliore che i governi potessero fare era di non far
niente (di strettamente economico, s’intende: altro era l’ordinato governo della città). Lo spiegarono anche con modelli matematici complicati, che chiamarono “teoria dell’equilibrio generale”. Ovviamente esagerarono. E il grande economista
Schumpeter, che pure era un liberale (anche se un po’ fascista!)
avvertì che quella sì, era la teoria, ma che l’economia di mercato non è una piazza d’armi dove si svolgono eleganti evoluzioni, ma un campo di distruzioni creatrici, dove si affrontano governi e grandi imprese, con strepito e furore.
Fatto sta che tra la seconda parte dell’Ottocento e la prima del
Novecento le politiche protezionistiche di potenza ebbero la
meglio su quelle liberistiche di concorrenza, fino a precipitare
nel gorgo di due guerre mondiali.
Dopo i disastri della seconda guerra mondiale il mondo era
pronto per tentare di costruire un nuovo sistema fondato sul libero scambio nell’ambito della egemonia americana, così come il primo liberalismo si era svolto sotto l’egemonia britannica. Ma anche questo ciclo storico ha subito la sua degenerazione. E il mondo dell’economia ha ricominciato a somigliare sempre meno a una piazza d’armi e sempre più a un campo di battaglia. Non è un caso, che, nella fatale alternanza della storia,
scorgiamo oggi all’orizzonte l’ombra del protezionismo.
N
Conflitto nord-sud
Una raffica di tariffe estere colpirebbe in modo più pesante
le regioni del centro-nord, dove sono le imprese che esportano
E il conflitto con il sud si farebbe ancora più aspro
tere in opera politiche di rilancio che non sacrifichino il libero
scambio ha come conseguenza l’esportazione di parte dello stimolo di politica economica a beneficio di altri paesi, poiché la politica
di rilancio fa salire le importazioni, ma i suoi costi, ad esempio in
termini di debito pubblico accresciuto, pesano sul paese che la introduce.
Se invece si erigono barriere protezioniste, una politica di stimolo, seguita da ciascun paese per suo conto, porta al rilancio del Pil e
della occupazione in ciascun paese e quindi in tutto il mondo. Nel
medio e lungo periodo, avverte però la teoria ortodossa, il mondo
intero viene a soffrire una grave perdita di efficienza, e quindi ne soffre anche il tasso di crescita e il benessere mondiale.
Il riproporsi del copione degli anni trenta in Inghilterra e negli
Stati Uniti fornirà a tutti un’ottima scusa per rifugiarsi nel “sacro
egoismo della ragion di stato”, spingendo a ricercare “soluzioni nazionali”. Il guaio è che questo lo stanno già facendo col massimo entusiasmo, come finalmente liberati da un giogo, anche i governanti della Unione Europea e dei paesi dell’Euro, malgrado l’economia
europea abbia raggiunto un tasso di integrazione elevatissimo e che
la moneta per i più importanti tra loro sia una sola dal 2002. In questa direzione spingono anche le soluzioni d’emergenza adottate in
ciascun paese per far fronte alla crisi bancaria, che contengono
pressanti direttive alle banche perché privilegino i prestiti a clienti
nazionali.
Il potenziale distruttivo di un ritorno al protezionismo è quindi
per noi europei assai maggiore di quanto possa essere per paesi che
hanno già dimensione continentale come Stati Uniti, Cina e India.
La tariffa doganale esterna è una politica europea. Ma i governi sono ancora nazionali e così lo sono le politiche fiscali, di bilancio e la
vigilanza bancaria. È lo stesso mercato unico interno, dunque a essere messo in pericolo da un diluvio di aiuti di stato di ogni genere
e appelli agli acquisti di merci nazionali e a far circolare il denaro entro i confini di stato. Senza mercato unico esiste una seria minaccia
alla sopravvivenza dell’Euro e anche della stessa unione doganale.
Quanto all’Italia, una raffica di protezionismo che partisse dall’estero colpirebbe nella maniera più pesante le regioni del centro
nord, che sono quelle che esportano. Sarebbe interessante allora
vedere come riuscirebbe la Lega a far accettare il federalismo fiscale alle regioni del Sud, che dovrebbero comprare i prodotti del Nord,
rifiutati dai mercati stranieri.
Bisognerebbe dar loro i soldi per farlo. Le regioni esportatrici non
potrebbero sperare di entrare a far parte della Mitteleuropa a cuore tedesco, senza sacrificare tutte le produzioni che competono con
quelle tedesche e abbassare i salari a livello di quelli dei paesi ex socialisti come Ungheria e Polonia.
Ne potrebbe derivare la spinta ad un nuovo patto unitario nazionale, ma questo è assai improbabile a causa della pluridecennale
propaganda, non sempre infondata, che ha convinto gli abitanti del
Centro Nord dello strutturale parassitismo meridionale. Più probabile sarebbe una ulteriore accentuazione delle forze centrifughe
che operano ormai in tutto il paese. Federalismo e protezionismo
potrebbero così allearsi per spingere l’Italia a diventare uno dei tanti “stati falliti”, simile a quelli che già esistono sull’altra sponda dell’Adriatico.
LIBRI
KEVIN
O'ROURKE
JEFFREY
WILLIAMSON
Globalizzazione e storia.
L'evoluzione
dell'economia
atlantica
nell'Ottocento
Il Mulino 2005
JOHN
KENNETH
GALBRAITH
Storia
dell’economia
Rizzoli 1990
LUIGI EINAUDI
Il Buongoverno
Laterza 2004
JOHN
MAYNARD
KEYNES
La fine del
“laissez faire”
e altri scritti
Bollati
Boringhieri
2001
ERIC ROLL
Storia del
pensiero
economico
Bollati
Boringhieri
1977
PAUL
BAIROCH
Economia e
storia
mondiale. Miti
e paradossi
Garzanti 1998
KARL MARX
Discorso sul
libero scambio
DeriveApprodi
2002
FRIEDRICH
LIST
Il sistema
nazionale di
economia
politica
Isedi 1972
DAVID
RICARDO
I principi
dell’economia
poltica e
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Utet 1986
ADAM SMITH
La ricchezza
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Repubblica Nazionale
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