www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi PROPOSTE INTERPRETATIVE DEL PARADIGMA TRIDENTINO DI PAOLO PRODI di Gian Luca D'Errico «Ora tutto sta cambiando e occorre forse non un “Abschied von Trient”, un congedo da Trento, ma un “wieder starten von Trient”, un ripartire da Trento per riprendere un nuovo cammino adatto al prossimo millennio» (208). Questa affermazione, inserita nelle riflessioni finali del testo, si può considerare “la provocazione” con cui Paolo Prodi propone una rilettura – non solo storica – del paradigma tridentino e di tutte le sue componenti nella modernità. I termini “paradigma” e “modernità” portano lo storico ad affrontare, fin dalle prime battute, questioni esplicative, da una parte, e approfondimenti semanticofilosofici, dall'altra. I limiti del termine “paradigma” in ambito storico sono ben chiari all'autore, consapevole della complessità e del divenire che caratterizzano gli avvenimenti storici, difficilmente incuneabili nelle griglie rigide sottese allo stesso termine. Il ricorso a questa parola è giustificato dall'enfasi con cui sono affrontate le componenti che hanno caratterizzato questo paradigma: «gli elementi portanti dell'istituzione “Chiesa” come storicamente si è sviluppata dopo il concilio di Trento» (7). Più complesso è il discorso sul termine “modernità” a cui Paolo Prodi dedica il primo capitolo “Cristianesimo e mondo moderno”. L'autore evita di accostare il concetto di modernità con quello di secolarizzazione, come spesso è accaduto in ampi settori della storiografia; piuttosto si tenta di cogliere il senso del moderno nelle sue componenti distintive, che hanno connotato un'epoca rispetto ad un'altra. La riflessione sulla modernità non implica una rigida schematizzazione cronologica di un processo che ha le sue radici molto lontane e residui ancor oggi tangibili. L'autore infatti chiarisce che «la prima tappa di questo processo di modernizzazione avviene nel corso del Medioevo stesso, con lo sviluppo del pensiero teologico-filosofico e la graduale affermazione di una religione, il cristianesimo occidentale, che pone in primo piano il tema della trascendenza di Dio rispetto al mondo e che – con la fusione tra dottrina cristiana e la filosofia classica – restituisce quindi al mondo una sua autonomia dalla sfera del sacro» (20). La trascendenza di Dio, dunque, con un processo quasi paradossale ha liberato il mondo dalla sfera del sacro, ma quel mondo continuava ad essere animato da spiriti diabolici o angelici che tenevano in continua ansia l'individuo. Nel 1691 il pastore olandese Balthasar Bekker suscitò un grande scandalo fra concistori, classi e sinodi, dando alle stampe l'opera, Il Mondo incantato o Le monde enchanté, Mundus fascinatus, Die bezauberte Welt, The World Bewitched, secondo le varie traduzioni che sottolinearono il veloce processo di divulgazione di un'opera nata fiamminga come, Betoverde Weereld. L'opera costituisce il punto Giornale di storia, 8 (2012) ISSN 2036-4938 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ di arrivo di un genere secolare (la letteratura demonologica-stregonesca) e ne rappresenta, grazie all'applicazione dell'esegesi biblica, il puntuale rovesciamento; il congedo dell'antica bestia trionfante (il diavolo, la sua confederazione oscura di demoni, maghi e streghe) è posto come precondizione indispensabile per la nascita di un uomo nuovo (in senso intellettuale e morale). Stava realizzandosi un passaggio fondamentale, coniato da Max Weber, di demagificazione o disincanto del mondo (Entzauberung) che costituisce il fattore più interno del processo di formazione del moderno individuo. A Trento, come nel resto d'Europa o del mondo, la modernità aveva posto dei problemi cui le diverse realtà istituzionali – religiose o politiche – avevano tentato di dare delle risposte, anche creative. In questa rassegna Paolo Prodi propone una sezione sulle componenti del paradigma tridentino suddivisa in undici capitoli per illustrare come in quella sede i padri conciliari si confrontarono con una molteplicità di problemi per trovare, dove possibile, risposte concrete e di lunga durata, testimonianza di un'attenta comprensione del proprio tempo. Se sono state scritte diverse “storie” del concilio di Trento, apologetiche, critiche – da Paolo Sarpi al cardinale Pietro Sforza Pallavicino, da Hubert Jedin ad Alan Tallon fino allo stesso Paolo Prodi – mancava, tuttavia, una prospettiva sgombra dal dibattito ideologico innescato a metà del XX secolo. E' accaduto spesso, ad esempio, che gli storici dell'Inquisizione si contrapponessero a quelli del concilio di Trento, enfatizzando una realtà storica a scapito dell'altra. Tali prospettive, in questo delicato momento storico, non hanno più senso. Paolo Prodi riprende alcuni elementi significativi della tradizione storiografica sul tridentino e li analizza nella loro atemporalità. L'intuizione di Hubert Jedin che aveva posto il concilio di Trento in un rapporto di continuità con la storia della Chiesa, avanzando l'assunto che le istanze di riforma furono multiformi e di gran lunga antecedenti alla fase conciliare, viene ripresa e ulteriormente sviluppata dall'autore. Il richiamo in più riprese del Libellus ad Leonem X dei camaldolesi Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini del 1512 e dei problemi da esso sollevati o del Consilium de emendanda Ecclesia del 1537, ne rappresenta una chiara testimonianza. La lente d'ingrandimento non si posa solo sulle intuizioni di queste embrionali iniziative di riforma; l'autore cerca di comprendere come l'insieme di queste istanze abbiano contribuito a fornire al papato la consapevolezza del mutare dei tempi. «Lo sforzo maggiore dei papi si viene concentrando nella costruzione di un nuovo tipo di sovranità spirituale, non territoriale, parallela e distinta rispetto a quella degli altri Stati, secondo le indicazioni che saranno poi teorizzate dal cardinale Roberto Bellarmino nella dottrina del potere indiretto» (63). In questa prospettiva, il tema del “diritto”, e di tutte le implicazioni ad esso sottese, si può considerare il filo che percorre e impagina l'intera riflessione di Paolo Prodi. L'argomento è affrontato in modo diretto nel quinto capitolo “Dal Corpus iuris canonici al diritto pontificio moderno” e si può considerare quello più significativo, soprattutto per la mancanza di studi approfonditi sul diritto canonico in età moderna e la ripercussione che avrà su tutti gli altri elementi del paradigma tridentino e non solo. Il problema posto da Paolo Prodi consiste nella difficoltà di stabilire un rapporto preciso fra il diritto canonico medievale, ormai in piena crisi a ridosso del concilio di Trento, e la legislazione tridentina, e quanto quest'ultima abbia inciso nella genesi del diritto moderno europeo. La questione è 2 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ posta con un semplice interrogativo: «il concilio di Trento ha rappresentato una continuità o una cesura nella storia del diritto canonico?» (73). La risposta a questa domanda è indicativa, secondo l'autore, di quanto siamo in grado di comprendere i mutamenti in atto nella vita della Chiesa e al di fuori di essa; «di capire quanta parte di noi è nata prima di Trento, in Trento o dopo Trento e cos'è che noi ora stiamo abbandonando nel divenire storico» (73). Dopo aver analizzato la letteratura giuridica e storica di riferimento e le mutazioni avvenute negli ultimi anni, Paolo Prodi ripercorre i lavori preconciliari e conciliari, e alle diverse posizioni dei protagonisti del tempo, richiamando, ad esempio, il Libellus ad Leonem X, in cui si auspicava – con le dovute epurazioni dai cavilli scolastici e causidici – una restaurazione del diritto canonico nella sua appartenenza teologica. La conseguenza diretta fu la formulazione di una dottrina cristiana divisa tra «una scienza dell'essere (teologia) e una scienza del dover essere (diritto canonico)» (78). L'allontanamento del diritto canonico dalla normativa tridentino-pontificia fu ulteriormente acuito dal divieto assoluto di pubblicare glosse, commentari o giurisprudenza interpretativa del concilio. Questa rigida posizione dei canonisti curiali, giustificata dalla preoccupazione di non snaturare la riforma, rappresentò non solo la definitiva esautorazione del diritto canonico, ma privò la stessa disciplina ecclesiastica da un approccio teologico e giuridico. L'autore indica cinque conseguenze principali dovute a questo processo: la prima è la completa frattura fra diritto canonico e il nuovo diritto tridentinopontificio; la seconda è l'incrinatura definitiva fra teologia e diritto canonico, trasformandosi, quest'ultimo, in mera legge positiva scritta; la terza conseguenza è la perdita da parte del diritto canonico della funzione di generare nuovo diritto; la quarta è nella sovrapposizione fra potere legislativo e potere giurisdizionale; la quinta è la perdita delle funzioni legislative delle chiese locali, contraddicendo, paradossalmente, le prescrizioni tridentine sull'obbligo e sistematicità di convocazione dei sinodi diocesani e dei concili provinciali. Quest'ultima conseguenza si può considerare la risultante di due fattori preponderanti: da una parte si assiste ad un processo di innovazione disciplinare in cui i rapporti fra Santa Sede e chiese locali sono gestiti in modo unidirezionale e verticistico. Ciò spiga l'istituzione della visita apostolica, della visita ad limina, la riforma della Curia del 1588 di Sisto V in congregazioni romane preposte al governo degli affari temporali e spirituali della Chiesa, e le nunziature. Dall'altra, «il timore mai sopito delle tendenze centrifughe delle Chiese nazionali» (89) divenne il parametro che acuì la diffidenza papale nei confronti della promulgazione dei decreti sinodali e provinciali. A ciò bisogna aggiungere le resistenze delle diverse realtà locali (dagli ordini religiosi alle confraternite ecc., che avanzavano esenzioni dalla giurisdizione episcopale), diventando un deterrente per l'episcopato nell'attuare le prescrizioni tridentine. Il commento al decreto tridentino sui sinodi (provinciali e diocesani) esposto da Giovan Battista de Luca – eminente giurista della seconda metà del Seicento, stretto collaboratore di Innocenzo XI Odescalchi – sembra avanzare un sentimento di rassegnazione e scoraggiamento. Meno chiara appare l'iniziativa, in questo particolare contesto, di inviare per volontà del pontefice («con l'oracolo della sua viva voce»), nel dicembre 1679, 3 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ una circolare a tutti i vescovi ed arcivescovi della penisola con una lunga serie di raccomandazioni e richiami alle prescrizioni tridentine: «Non tralascino né tempi prescritti le visite delle diocesi, e le celebrationi de Sinodi, e faccino queste funtioni che sono delle primarie con oggetto, et attenta riflessione di rimediare agl'abusi, d'instaurare la disciplina Ecclesiastica ove è rilasciata, ed introdurla ove è affatto scaduta» (A.S.Vat., Congr. Vescovi e Regolari, Registra Episcoporum, 120, c.215r). Non a caso, infatti, fra fine Seicento ed inizio Settecento, in piena crisi giurisdizionalista, la ripresa dell'attività sinodale da parte dell'episcopato e l'esplosione della trattistica su questo tema diverrà uno strumento di “ribellione” – destinata a fallire – contro la Chiesa romana. L'autore conclude il capitolo ponendo la questione del diritto canonico nella contemporaneità, cercando di cogliere il significato intimo dell'inadeguatezza e staticità delle norme di cui è composto. Prodi sostiene che la discontinuità fra il diritto canonico medievale e il diritto pontificio post-tridentino «non è espressione di una diffidenza verso il diritto canonico ma al contrario tende a sottolineare la sua importanza nella storia della Chiesa e ad esprimere il timore per la sua inadeguatezza attuale ad affrontare i problemi della nuova età» (92). L'assunto porta ad un ulteriore riflessione: quale rapporto si cela fra il Corpus iuris canonici e la tradizione? Una tradizione che in sede conciliare era stata difesa dagli attacchi della Riforma protestante e ribadita – accanto alla Scrittura – come fonte della rivelazione. Si poteva immaginare una riforma di un diritto canonico medievale ormai anacronistico, ma quasi sacralizzato – e che tale sembra essere rimasto – in un contesto così delicato come il tridentino, senza rischiare pericolosi fraintendimenti? Una proposta interpretativa plausibile? Il diritto pontificio posttridentino divenne gradualmente la normativa di riferimento, regolando, con una “nova disciplina”, le strutture ecclesiastiche diocesane. Il vescovo e la diocesi costituirono gli elementi di congiunzione fra le strutture centrali (papali e statali) e quelle periferiche delle parrocchie, la cui funzione venne centrata sullo stretto rapporto tra beneficio e ufficio. Alla nuova impostazione diocesana seguirono degli automatismi, con ricadute più o meno positive, che permisero la sopravvivenza economica della Chiesa fino al Novecento. Da approfondire, tra gli aspetti delle nuove strutture diocesane, c'è il ruolo del vicario generale, soprattutto quando la cooptazione di questi era avanzata per sopperire ad una nomina vescovile basata più su motivi politici che su qualifiche richieste dal diritto canonico. Tuttavia, fu grazie a questa nuova normativa che si rese possibile quel processo di modernizzazione, confessionalizzazione e disciplinamento che contraddistinse l'età moderna. Utilizzando questi tre termini, Paolo Prodi, sfrutta l'ambiguità che essi sottendono per cogliere aspetti della storia della Chiesa difficilmente riducibili a semplici griglie: «ci permettono, se non vengono presi come schemi interpretativi assoluti, di cogliere queste diversità e di individuare proprio quel terreno intermedio tra la storia della dottrina, la storia della cultura, la storia delle mentalità collettive, un crinale che è appunto difficile da cogliere e da percorrere ma che è terreno più vivo per poter dire qualcosa di innovativo anche per quanto riguarda la storia della Chiesa» (125-126). L'elasticità di questi termini viene sfruttata dall'autore per affrontare, nel capitolo ottavo, un argomento oggettivamente complesso: la disciplina del popolo 4 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ cristiano. Il concetto di disciplinamento include una moltitudine di fattori messi in atto dalle istituzioni dell'età tridentina. Dai registri di battesimo o gli stati delle anime ai modelli di santità, dai catechismi alla letteratura pedagogica religiosa, si trae la testimonianza di un mutamento nei comportamenti, nelle pratiche che concorreranno al passaggio dall'uomo cristiano medievale al fedele moderno. Per il nuovo cristiano, come si è detto, dopo il concilio di Trento, è venuto meno il legame fra teologia e diritto, e l'impegno prioritario della Chiesa è stato quello di formulare «una nuova “teologia pratica” che possa sostituirsi al diritto nel normare la vita dei fedeli» (134). Paolo Prodi spiega che la Chiesa di Roma cercò di mantenere una sua autonomia ministeriale ed autorità su tre piani: su quello dottrinale, rendendo autonoma la teologia morale; sul piano normativo; su quello del controllo e dell'interazione con la quotidianità della vita del fedele. Come suggerisce l'autore, il piano teologico richiede una precisazione: dopo il tridentino sono assenti discussioni di tipo dogmatico (almeno fino all'istituzione del dogma dell'Immacolata Concezione del 1854 per opera di Pio IX ed il Concilio Vaticano I). Il punto centrale delle contese religiose dell'età moderna non saranno le questioni dogmatiche ma il potere sulle coscienze sulla scia della Ragion di Stato di Giovanni Botero. Su questo terreno, a differenza delle chiese evangelicoriformate, la Chiesa romana giocherà la sfida decisiva della sua sopravvivenza rispetto ai nascenti Stati moderni. Il tentativo è quello di costruire una sovranità parallela di tipo universale puntando sul controllo della coscienza, «non riuscendo più a sostenere la concorrenza sul piano degli ordinamenti giuridici» (135). Questo tentativo ha come diretta conseguenza la creazione di una sfera dell'etica ben distinta dal nascente diritto naturale e quello positivo. Si instaura quello che Paolo Prodi, utilizzando le precoci intuizioni di Giovan Battista De Luca, definisce dualismo: la definitiva frattura fra peccato e reato. Sul piano della normativa etica e comportamentale, il fenomeno cui si assiste in ambito cattolico è il fiorire di una precettistica assimilabile ad una “terza tavola della legge”: una serie di norme che regolano la vita e i comportamenti del fedele che confluiscono nelle prediche, nei manuali per confessori fino all'attuale catechismo. Nel terzo piano, costituito dagli elementi di repressione e controllo, il tema della confessione, il giudizio nel foro interno, viene ad assumere una propria centralità. Il contesto in cui viene riaffermato ed applicato il c. 21 del concilio Lateranense IV del 1215, che prevedeva l'obbligo della confessione annuale e conseguente assoluzione dei peccati, è completamente diverso. La riconferma dell'obbligo non può essere dissociata dal rafforzamento quasi contemporaneo delle istituzioni più propriamente repressive: la commissione cardinalizia della Santa Romana Inquisizione del 1542 e la stabilizzazione di tribunali inquisitoriali locali diretti da Roma. Come ricorda Prodi, si trattò di una fase alquanto circoscritta all'emergenza eterodossa interna ed esterna alla Chiesa romana. Nel lungo periodo, eliminato il problema “eretico” già negli ultimi decenni del Cinquecento, gli obiettivi furono altri: si trattò di controllo soprattutto sul clero, sui costumi, sulle credenze, sulla stampa o sul sapere più in generale. Tuttavia, recenti studi hanno dimostrato come sia pericoloso inserire il tema del sacramento della confessione all'interno di un discorso repressivo-inquisitoriale messo in atto dalla Chiesa romana in quei secoli. Bisogna tener conto delle tensioni che spesso animavano le piccole e 5 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ grandi comunità in età moderna ed il ruolo giocato dai confessori – spesso in posizioni antagoniste rispetto agli inquisitori – all'interno di esse, e non sempre così accondiscendenti a seguire le direttive romane. Sul piano formale, sicuramente si assiste ad una mutazione del foro interno, che si divide in due fori: uno sacramentale (la confessione) ed un altro extra-sacramentale, distinto dal foro esterno che rimane un contenzioso fra parti diverse. Più interessante, sul piano sostanziale, è il fenomeno che scaturisce da questa dialettica, che Prodi vede come una sorta di «osmosi nella quale le morale si giuridicizza e il diritto si moralizza mettendo in moto da una parte un processo di criminalizzazione del peccato e dall'altra un processo di condanna morale dell'illecito civile e penale» (143). La realizzazione di questo complesso processo di disciplinamento fu reso possibile sia dalle realtà diocesane, con gli strumenti della pastorale e la salus animarum, ma anche dal coinvolgimento di vecchi e nuovi ordini regolari, in particolare domenicani, francescani e gesuiti, impiegati nelle attività inquisitoriali, confessionali e missionarie. Agli ordini ed alle missioni, Paolo Prodi dedica gli ultimi due capitoli (“Gli ordini religiosi” e “Le missioni”) evidenziando gli aspetti originali e tradizionali di queste realtà. L'autore riflette sul fenomeno della prolificazione di nuovi ordini religiosi prima e durante il concilio di Trento e sulla loro mancata collocazione in quel contesto, pur avendo una funzione fondamentale nella Chiesa post-tridentina. Anzi le linee di tendenza di Roma e non solo, come nel Consilium de emendanda Ecclesia o nel Libellus ad Leonem X, erano quelle di una drastica riduzione del numero degli ordini. Prodi analizza i nuovi ordini con una certa diffidenza, spiegando che si trattava di iniziative – nella ricerca di perfezione – completamente al di fuori di tutti i grandi progetti di riforma avanzati dalle autorità ecclesiastiche e dai grandi pensatori. L'unica eccezione viene fatta per Filippo Neri e gli oratoriani, che infatti rifiutarono, per volontà del fondatore, i voti e si sottoposero all'autorità del vescovo, pur mantenendo le proprie peculiarità. Tuttavia risulta evidente che lo scenario degli ordini religiosi – vecchi e nuovi – si ampliò e divenne molto complesso; si acuirono le concorrenze sul piano delle iniziative educative, confessionali e missionarie. «Due cose comandò Nostro Signore alli Discepoli suoi il predicar l'Evangelio all'Infedeli, et il governar le lor anime, et questo fu il primo, e principale a che attestò dopo la sua Ascensione. Et questo non ci è chi lo facci hoggidi almanco nel modo che lo comandò Idio, et nella forma che li Apostoli lo misero in pratica, et così la conversione non cresce adesso come cresceva in quel tempo. Li Preti a fatto hanno abbandonato questo ministerio, et attendono alle lor commodità non vogliono patir in paesi stranieri per convertirli, ne manco vogliono la cura dell'Anime se le Parochie non son ricche. Li Regolari ci attendono più, ma ne anco essi lo fanno con la perfettione Apostolica, perché nessuna Religione tiene questo ministerio per suo principale instituto, et così solo ci mandano quelli che ci vogliono andar spontaneamente et molte volte li manco atti riservandosi li migliori per servitio, et augmento della lor Religione nell'Europa, et spesso ci vanno di quelli che vogliono sfuggir il giogo della clausura e dell'obedienza. Et il peggio è che dopo battezzati gl'Infedeli, detti Regolari li lasciano senza volerne pigliar la cura et governo, scusandosi che questo non è l'obligo loro, né l'instituto suo, così tornano all'Infedeltà e diventano peggiori [...]» (ACDF, St.St., H2-f, c. 3r). 6 www.giornaledistoria.net – Gian Luca D’Errico, Proposte interpretative del paradigma tridentino di Paolo Prodi _______________________________________________________________________ La citazione proposta rappresenta la testimonianza della complessità dei numerosi fattori messi in luce dal volume di Paolo Prodi sul tema degli ordini religiosi e le missioni e non solo. Si tratta di uno stralcio dell'Informatione del progetto missionario che il prelato spagnolo monsignor Juan Bautista Vives presentò al pontefice Paolo V e alla Congregazione del Sant'Uffizio il 4 giugno 1609 e che da lì in avanti getterà le basi per l'istituzione della futura Congregazione di Propaganda Fide nel 1622. In realtà il progetto missionario era stato preparato negli anni precedenti da Vives, dal gesuita Martin De Funes e da Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici regolari della Madre di Dio. Tralasciando che il generale dei gesuiti, Claudio Acquaviva, allontanò definitivamente De Funes da Roma nel novembre del 1608 per aver intrapreso questa iniziativa senza autorizzazione o che Giovanni Leonardi era amico di Filippo Neri, ciò che è interessante osservare sono i cambiamenti introdotti o enfatizzati dal tridentino. Se si confronta il Libellus con questo progetto missionario si percepisce che, a quasi un secolo di distanza, la preoccupazione non è solo la conversione degli infedeli, ma piuttosto il governo e la salus animarum: gli elementi fondamentali del paradigma tridentino vengono interiorizzati. Così come il richiamo a coloro che vanno in missione spontaneamente sembra una premonizione delle esperienze singolari di Matteo Ricci in Cina, Roberto De Nobili in India e Alessandro Valignano in Giappone. Casi isolati di missionari acuti e intellettualmente raffinati, un'occasione persa da parte della Chiesa, come sostiene l'autore, per far propria una capacità di lettura delle diverse realtà culturali e religiose. Forse uno dei primi segnali di inadeguatezza, di incapacità, di cedimento alla linea dell'arroccamento che ha portato la Chiesa – o meglio le chiese – nel XXI secolo. Il libro ha una natura “dualista”, da una parte c'è la riflessione attenta dello storico; dall'altra c'è la preoccupazione dell'uomo, che guardando alla storia esprime delle perplessità sulla capacità di interpretare il presente – se non il futuro – da parte delle chiese. Ci si augura, a questo punto, che la riflessione di Paolo Prodi non rappresenti un punto d'arrivo, ma che possa sollevare un dibattito costruttivo dentro e fuori le istituzioni religiose. Giornaledistoria.net è una rivista elettronica, registrazione n° ISSN 20364938. Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli. Unica condizione: mettere in evidenza che il testo riprodotto è tratto da www.giornaledistoria.net. 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