— 201 G. CASAZZA NUOVE DEDUZIONI DALLA TEORIA DELLA COMPOSIZIONE DEI MOTI Dovendo esprimere dei giudizi di critica intorno a teorie le quali da tempo ebbero la sanzione piena e definitiva della scienza, non posso avere, né ho, la pretesa di convincere, ma solo la speranza di riuscire a richiamare sopra di essi l'attenzione dei competenti, nella lusinga che dopo ponderato esame si riconosca che non del tutto inutile fu questa mia Comunicazione. Dovendo condensare in poche righe un argomento per sé vasto, cercherò di esprimermi con uno stile telegrafico, persuaso che sarò compreso anche in quei punti sui quali sorvolo. Il principio del parallelogr. delle forze statiche mi pare non possa avere il suo corrispondente (come è creduto) nella composizione delle forze dinamiche, ossia dei moti ; tanto meno poi il parallelogr. delle forze statiche può avere il suo corrispondente nel parallelogr. del lavoro. Si vuole che il lavoro della risultante sia eguale alla somma dei lavori delle componenti. Questo criterio, unito a quell'altro che il lavoro consumato è sempre eguale al lavoro prodotto, conduce al principio che qualunque sia il modo con cui si compongono due -moti o due forze dinamiche, non vi è mai né vantaggio né svantaggio. Il che è contrario allo spirito stesso della scienza dei moti, come è contrario all'evidenza dei fatti. Sia P (fig. 1) un piano contro cui va a scomporsi la forza F, e sieno './' ed / l e sue due scomponenti. La somma dei segmenti f ed / è maggiore di FA. Ebbene, ciò può essere vero come principio statico, ma non lo può essere come principio dinamico. Staticamente una forza può far equilibrio a due altre la di cui somma sia maggiore della forza stessa, ma dinamicamente no, se trattasi di moto equabile. La ragione di ciò sta nel fatto che nella statica la forza F, ad esempio, si oppone, non propriamente alle due forze /" ed /, ma alla loro risultante; vale a dire queste forze, prima di opporsi alla F, si distruggono parzialmente e vicendevolmente, così che esse potrebbero essere anche infinite (purché fossero eguali e contrarie) ; ma tutto ciò non ha il suo riscontro nel caso nostro in cui le f ed / sono generate dalla F. 26 — 202 — Che dinamicamente e graficamente la somma f -\- f non possa essere superiore ad F lo dimostra anche il fatto che se noi prendiamo le due fT ed / così ottenute e le componiamo per es. parallelamente e nello stesso senso, otteniamo una risultante eguale alla loro somma e quindi maggiore di F, il che è assurdo. Ma che cosa ci risponde qui la fisica? che se le F, fr ed / invece di considerarle come quintità di moto le consideriamo come forze vive, allora il conto torna, perchè F 2 = f'2 -f- f2. Il conto torna infatti, ma non torna, a me pare, la logica, perchè se per far più presto noi facciamo f' — fQ la massa su cui devono agire chiamiamo m, siccome f ed f sono anche due spazi s, così il lavoro di fr sarà = ms e quello di / pure = ms. Se questi due moti invece di farli comporre normalmente li facciamo comporre parallelamente, in virtù del principio che le velocità parallele nello stesso senso si sommano, la risultante sarà necessariamente rappre- p f r FIG. 1. sentala da un segmento che riuscirà maggiore del segmento FA, e precisamente = 2s, e se la massa su cui agiscono le forze è m, il lavoro sarà m X 2s = 2ms che è maggiore di m FA. Le forze f ed f non possono dare né più né meno di quel che sono, per essere finite. Insomma, in nessuna maniera la risultante di f ed / parallele può essere eguale ad FA, come sarebbe richiesto dalla teoria della composizione dei moti, in confronto alla conservazione dell'energia. Ma vediamo un poco i singoli casi di composizione se corrispondono al principio che il lavoro della risultante è eguale alla somma dei lavori delle componenti. I CASO. — Sieno AB ed AC (fig. 2) due forze istantanee che superano per attrito le resistenze AB, AC, evidentemente il lavoro della risultante R sarà rappresentato da AR, che non è la somma di AB e di AC. II CASO. — AB ed AC sieno ancora due forze istantanee che agiscano sopra una massa libera, la risultante sarà ancora rappresentata da A R e non dalla somma dei lavori secondo le proiezioni di AR su AB ed AC, poiché allora evidentemente si avrebbe creazione di energia. — 203 — III CASO. — Le forze AB ed AC sono costanti, di moto reso uniforme per attrito, con v trascurabile; la risultante sarà ancora AR, poiché il lavoro è sempre la medesima resistenza moltiplicata per lo spazio superato. Questo criterio d'altronde risulta chiarito anche nel caso che segue. Avremo quindi AR<AB-}- AC come lavoro. IV CASO. — A B ed A C sieno due forze costanti che agiscono sopra una massa libera; la risultante in lavoro dico che sarà ancora AR. Non così però la pensa la fisica, poiché vi trova una contraddizione con la teoria della forza viva. Siccome è qui dove si riscontra il maggior equivoco, dobbiamo fermare un momento la nostra attenzione. Rammentiamo la definizione del lavoro: Una resistema moltiplicata per lo spazio superato. Ebbene, stando a questa definizione ed ammettendo, quanto la fisica ammette, che il lavoro di una forza costante agente sopra una massa libera, è come gli spazi, evidentemente il lavoro della nostra risultante R sarà = A R. Ma la fisica, veduto qui che il conto non tornava, che cosa fece? invece di moltiplicare la resistenza per lo spazio superato, moltiplicò le forze, o la somma delle forze risolute secondo AR; ma ciò è arbitrario e contro la definizione del lavoro (x). 7*8 FIG. 2. Per meglio rendere chiare le idee su questo principio fondamentale, supponiamo che le forze AB ed AC agiscano parallelamente nella stessa direzione e che sieno eguali. Se agisce una sola di esse ii lavoro l che fa si dice che è fs ; se agiscono tutte e due per il medesimo tempo, quale lavoro fanno? si risponde: 4 / . E come si ricava questo 4/? facendo 2 / X 2 s = 4/$ = 4 / . Ma ciò è logico? evidentemente no, poiché è vero che doppia f fa doppia s, ma la resistenza che vince è la medesima, per cui stando alla definizione vera del lavoro nel caso che una / agisca da sola, si ha l —. rs (ove r è la resistenza) e nel caso agiscano tutte e due insieme, si ha l = rX2s — 2rs = 2l. Ma siccome si ha doppia velocità, la quale secondo la fisica darebbe luogo a quadruplo lavoro, il conto non torna. Visto ciò, si moltiplicò 2f per 2s, ammettendo implicitamente l'errore che doppia f nel mentre fa doppio s vince anche doppia resistenza; ciò che è non vero, perchè è saputo ed ammesso che doppia/ che incontri doppia resistenza fa il medesimo s. La forinola del lavoro che doveva essere rs si trasformò arbitrariamente in fs, credendo di togliere con ciò una contraddizione, mentre in effetto si copriva un errore. (*) Non dovrebbe essere necessario rammentare che la risultante come lavoro si fa = AR2, uguale sforzo AR moltiplicato per spazio AB, mentre dovrebbe essere m X A R . Se m = l la risultante è = AR. — 204 — Ma c'è un'altra cosa da rilevare. Qui si ammette che le forze agiscono secondo gli spazi, mentre è cosa evidente che le forze naturali agiscono secondo i tempi. Nella stessa storica controversia del XVIII secolo, intorno alla misura della energia di moto, i contendenti convenivano tutti in un'idea: che le forze naturali non possono agire che secondo i tempi. Mentre in qual modo si dà ragione del prodotto 4^ = 4/s? nel modo seguente. Facciamo R = f-\-fr, questa somma può rappresentare anche la velocità risultante v che esprime un lavoro = y 2 . Ma (f+ f)2 = f2 + f2 + ffr = R / + R/ r ; ma siccome R è anche s, si ricava il lavoro l facendo l — fs-\-frs. Vale a dire si moltiplica ciascuna / per tutto lo spazio che percorre il suo punto di applicazione. Orbene, qui si fa entrare nella fisica un principio il quale, quando non fosse condannato dall'evidenza e dagli stessi fisici, quali NEWTON, CARTESIO, LEIBNITZ, BERNOULLI, ecc., dovrebbe per lo meno essere discusso e dimostrato. Si confonde il lavoro prodotto col lavoro consumato, perchè la fisica ammette che il primo è sempre eguale al secondo. Solo nel caso che s sia resistente, il lavoro prodotto è rs, ma allora il lavoro consumato è sempre maggiore del lavoro prodotto. In altri termini : mentre il primo (qui e sempre) è come i tempi, il secondo risulta secondo gli spazi; ma se lo spazio non è resistente, cioè se la forza agisce sopra una massa libera, allora tanto il lavoro consumato, quanto il lavoro prodotto, risultano secondo i tempi. La stessa gravità presenta il più bell'esempio di forza che agisce secondo i tempi. Infatti, in ogni unità di tempo successiva viene sempre aggiunto al moto lo stesso spazio e la stessa velocità; ma la fisica ha il torto di credere che la forza costante agisca anche per quegli spazi che il mobile percorrerebbe egualmente da se stesso senza l'azione di alcuna forza. Così avviene che la più piccola forza può in un secondo produrre tanta energia da fermare il corso ad un astro, e basta a tal fine che sia unita ad un'altra di sufficiente grandezza: ma ciò non è un assurdo? L'effetto di una forza aumenterebbe coli'aumentare della forza a cui si unisce; se la prima la si considera un moto equabile, si ha anche una creazione di energia, e quindi la possibilità del moto perpetuo (1). Dopo questi schiarimenti, si capisce come anche nel IV caso non si possa ritenere che il lavoro della risultante sia eguale alla somma dei lavori delle componenti. Vi sarebbe però un quinto caso da considerare: quello cioè presentato da una forza costante che vince un'altra forza costante, quale potrebbe essere quello presentato dal pianoinclinato. Ma che anche la teoria del piano inclinato sia errata, mi pare non difficile a dimostrarlo. Abbiamo già detto, e, spero anche dimostrato, che il parallelogramma delle forze non può avere il suo corrispondente nella composizione dei moti, e ciò anche indipendentemente dall'idea che il lavoro della risultante sia eguale al lavoro delle componenti, valutato secondo la proiezione della risultante stessa sulla direzione delle compo- (*) Questo aspetto della questione è ampiamente illustrato nell'ultimo mio libro: Il più grande errore scientifico del secolo XIX (La supposta indistruttibilità della forza). Milano, editore Paola Carrara. — 205 — nenti medesime; ma non possiamo toccare un simile argomento senza guardare alla teoria del piano inclinato che ne è l'essenza. Sia AB (fig. 3) un piano inclinato, G la gravità, e sia AF = F la stessa gravità relativa risoluta secondo A B. Allo scopo di rendere più breve la dimostrazione, supponiamo che sia AG = GB: in tal modo la forza F risoluta secondo AB sarà eguale a quella risoluta normalmente al piano AB; vale a dire la forza G viene scomposta in due parti eguali. Noi non sappiamo ora come si chiameranno, come si valuteranno, ecc., queste forze, poiché anzi ciò è quanto vogliamo controllare; basti a noi l'esser certi di questo: che la G è divisa in due parti eguali. C'è quindi lecito valutare separatamente l'azione di queste forze scomponenti. Ebbene, la fisica dice che le forze che agiscono separatamente sopra la stessa massa, stanno fra loro come le velocità : ossia come gli spazi percorsi nell'unità di tempo. Ora, la forza risoluta secondo AB si può rappresentare con quel segmento o con quel diavolo che si vuole, ma per questo non cessa di essere la metà di G, e siccome questa nell'unità di tempo si suppone che percorra A G, la sua metà, scomposta secondo AB, deve percorrere, ossia far percorrere al suo punto di applicazione, uno spazio = | A G ; mentre la fisica gli fa percorrere ì A B. Inoltre l'erroneità della teoria del piano inclinato risulta evidente anche dal fatto che secondo essa sarebbe possibile il moto perpetuo, poiché stabilisce il parvente errore che per comunicare ad una massa una determinata velocità occorrerebbe sempre la spesa della stessa energia, qualunque sia l'angolo che la direzione del moto fa con l'orizzonte, e quindi anche se tale direzione è orizzontale; mentre ognuno può vedere che se p è il peso del corpo e se / è la forza necessaria per spingerlo orizzontalmente, per spingerlo verticalmente con la stessa velocità occorrerà una forza =p+r. La teoria della composizione dei moti non considera il peso. Così occorrerebbe sempre il medesimo impulso alla massa m per fare ad essa superare la salita BA; ( e non — ) ; ma quando cadesse verti771 ?J^\ calmente ci renderebbe una energia = mv-\-p; ove però p1 è sempre una frazione di p. — 206 — Non si capisce come abbia potuto la fisica generalizzare la formola del lavoro mv2 v2 ——, mentre essendo essa ricavata, come è noto, dalle formole della gravità — ; v2 mv2 l = p — ; p = mg, e quindi l = — - , anche quando quest'ultima fosse giusta óg à (ciò che non può essere, perchè cessa di essere anche una funzione variabile di g) evidentemente, data l'origine sua, l dovrebbe variare col variare di g ; quando l debba rappresentare non solo il lavoro prodotto, ma anche il lavoro consumato. In altri termv2 mini: nella formola - ^ - si pretende che il lavoro della forza motrice non solo debba vincere l'inerzia della massa m, ma anche il suo peso g ; ma nel caso che m venga spinta, per es., orizzontalmente, il peso dov'è? vi è solo l'enerzia della massa da vincere. Ed è per questo che il marinaio con lo sforzo di una mano mette in moto un grosso barcone carico, mentre per innalzarlo non basterebbero cento cavalli. Da qui risulta subito errata anche la teoria della parabola dei proiettili. Infatti, la velocità iniziale comunicata al proiettile dall'esplosione deve essere quella reale sotto l'influenza della gravità, e non quella che si otterrebbe se l'esplosivo agisse sul proiettile, nell'ipotesi che esso fosse sottratto alla gravità. Ciò dicasi anche nel caso della spinta verticale in alto dello stesso proiettile. Secondo la teoria della composizione dei moti, in questo caso si spenderebbe un lavoro cha risulta proporzionale alla velocità ed all'inerzia della massa ; mentre questa poi cadendo ci fornirebbe evidentemente un lavoro proporzionale alla stessa massa, alla stessa velocità ed al peso; ossia all'azione statica della gravità; per cui si renderebbe possibile il moto perpetuo. La teoria del piano inclinato stabilisce quest'altro errore evidente. Per far salire un grave da B ad A si spenderebbe sempre la stessa energia qualunque sia l'angolo che la direzione della forza forma col piano A B. Ma chi non sa che ciò non è vero ! Ammette la fisica che per far equilibrio al grave occorre uno sforzo maggiore nel caso che la direzione dello sforzo sia per es. parallela alla base del piano anziché al piano stesso; ma dunque uno sforzo maggiore moltiplicato per uno stesso spazio deve dare un prodotto maggiore. La fisica valutando qui per spazio la proiezione orizzontale del piano confonde, come sempre, il lavoro prodotto col lavoro consumato ; il lavoro prodotto è sempre il medesimo, ma il lavoro consumato varia col variare dell'angolo che la direzione della forza fa col piano. La forza risoluta normalmente alla direzione del piano si distrugge. L'errore nacque quindi dal fatto che si crede che lo sforzo statico non consumi la propria causa. Un tale criterio errato ha l'origine comune a non pochi altri, cioè ha per origine il supposto modo invisibile di agire della gravità; modo di agire supposto che non si riscontra in nessuna forza conosciuta e controllabile. Infatti, secondo la fisica, la gravità sarebbe una forza la quale può comunicare ad una massa una qualsiasi energia senza consumare se stessa menomamente; orbene, niuna forza conosciuta si comporta in tal modo. La gravità sarebbe pure una forza la quale sopra um massa libera agisce in modo costante ; ma dov'è in natura un'altra forza che possa in tal modo agire? Di più, la gravità (come l'elasticità) sarebbe una — 207 — forza la quale nel produrre lo sforzo statico non consuma se stessa; ma niuna forza nota e controllabile si comporta in tal modo. Eppure fu dalla gravità che si trassero i principi fondamentali della dinamica: ma se una tale forza si rendesse visibile, noi vedremmo che non si comporta in modo diverso dalle altre, ed allora i principi fondamentali della dinamica li vedremmo cadere per se stessi. Allora, per es., vedremmo quanto sia assurdo il principio dedotto immediatamente dalla teoria del piano inclinato, che due buoi per un medesimo solco consumano la medesima energia, qualunque sia il modo con cui sono aggiogati rispetto alla direzione del solco: cioè tanto se agiscono parallelamente quanto se agiscono obliquamente al solco stesso; criterio tale che farebbe tener il ventre dal ridere ad ogni buon contadino che l'udisse. Per la stessa mv2\ ( ~~9~ ) ri a * generale ; cioè che non si debba tener calcolo della direzione di m destinata a muoversi sotto l'influenza costante di una forza (gravità) che per avere una direzione invariabile ha un effetto statico (peso) variabile. 0 forse tutte queste mie idee non costituiscono che una fenomenale illusione della mia mente? È quanto spero di sapere presto dalla critica illuminata che, mi lusingo, i competenti non vorranno negarmi. PARTE III COMUNICAZIONI SEZIONE III-B APPLICAZIONI VARIE DELLA MATEMATICA 27