Zenone di Elea - Digilander

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Zenone di Elea
[…] saranno tutte soltanto parole, quanto i
mortali hanno stabilito, convinti che fosse
vero: nascere e perire, essere e non essere,
cambiamento di luogo e mutazione del
brillante colore.
Parmenide di Elea, Sulla natura.
(vv. 42-45, DK 28 B 8, in I Presocratici, vol.
I, p. 276)
«Zenone nega il movimento dicendo: “Ciò
che si muove non si muove né in quel luogo in
cui è, né in quello che non è”».
Diogene Laerzio, IX 72. I Presocratici, vol. I,
p. 304
1. ORGANIZZAZIONE GENERALE DELLA LEZIONE
Obiettivi generali
1)
2)
3)
Tempi richiesti (sempre
troppi)
Metodologie
Adottate
4)
1)
2)
3)
1)
2)
Verifica sommativi
•
1)
2)
3)
1)
2)
1)
Recupero
1)
Collegamenti
interdisciplinari
(il concetto di infinito)
Commenti finali
2)
1)
2)
3)
1)
2)
Destinatari
Prerequisiti
(ed accertamento)
Verifica formativa
Saper contestualizzare e collocare storicamente il Filosofo effettuando gli opportuno
collegamenti con Parmenide ed i suoi critici
Conoscere i problemi posti da Zenone e saper discutere criticamente gli argomenti posti
Discutere criticamente il metodo della dialettica mettendolo in relazione con altri metodi della
filosofia
Saper effettuare una discussione critica sulle aporie legate al concetto di infinito
Almeno due-tre lezioni per lo svolgimento dei paradossi più una introduttiva ed una
conclusiva.
approfondimenti domestici a cura degli studenti
alcune verifiche possono essere svolte a casa
l’ideale in questo caso è la vecchia buona lavagna…
con un po’ di pazienza si potrebbe pensare ad un ipertesto interattivo (da strutturare con i
ragazzi) in grado di rispondere con diverse teorie alle diverse domande/obiezioni poste
Una classe III Liceo
conoscenza della Scuola di Elea
conoscenza in particolare della filosofia di Parmenide
verifica preliminare (quiz a risposta multipla e via…)
Una prima verifica prima di passare ai paradossi sul movimento
Una seconda verifica una volta completate le osservazioni generali sul pensiero di Zenone
una volta completata l’introduzione al concetto di infinito ed il suo legame con il pensiero di
Zenone
ai risultati della verifica formativa intermedia, mediante tavole riassuntive e semplici passaggi
logici da svolgere in sede domestica, etc.
matematica
storia dell’arte (Escher)
lingua italiana
resoconto delle attività (mappatura dei tempi impiegati, delle difficoltà, ecc.)
auto-valutazione critica e resoconto delle verifiche (da tenere presente per il futuro)
2. INTRODUZIONE
“Riscaldamento” (qualche notizia preliminare)
Zenone di Elea era certamente un tipo strano. Di una ventina d’anni più giovane del maestro
(il sommo Parmenide, senza dubbio un altro tipo strano), sappiamo di lui che nacque a Elea
alla fine del VI secolo (probabilmente attorno al 490 a.c.). Nel dialogo platonico dedicato
appunto a Parmenide, il vecchio maestro di Elea viene rappresentato in visita a Atene –
dove incontra il giovane Socrate – accompagnato proprio da Zenone. Qui incontrò
personaggi di spicco, come Pericle che, secondo la testimonianza di Plutarco, assistette alle
sue lezioni (Plutarco, Vita di Pericle, 4-5). Dalle fonti viene descritto come uomo
“eminentissimo e in filosofia e in politica”. Ma Zenone – come molti altri filosofi del suo
tempo – non fu solamente un pensatore molto raffinato. Appassionato di politica, gli venne
in mente di opporsi al tiranno di Elea, Nearco (secondo altre testimonianze si trattava incede
di Diomedonte), dal quale venne però imprigionato, torturato ed ucciso. Fatto sta che
Zenone seppe mostrare nella vita, così come nel pensiero, uno straordinario coraggio. Un
tipo non comune, appunto. Leggiamo una testimonianza di Diodoro:
“Siccome la sua patria era duramente tiranneggiata da Nearco, ordì una congiura contro il tiranno. Scoperto e
interrogato da Nearco nei tormenti della tortura chi fossero i suoi complici: «Magari – disse – allo stesso modo che sono
padrone della lingua così fossi padrone del corpo!». Allora il tiranno lo sottopose a tormenti molto più violenti e Zenone
fino a un certo punto resistette; poi volendo essere liberato dai tormenti e nello stesso tempo punire Nearco, meditò un
inganno di questo genere. Alla massima tensione dello strumento di tortura, fingendo di esalare l’anima, gridò:
«Lasciate! Dirò tutta la verità». Sospesa la tortura, richiese che il tiranno si avvicinasse per ascoltarlo da solo a solo
perché molte cose che stava per dire era opportuno che rimanessero segrete. Il tiranno si avvicinò con gioia e avvicinò
l’orecchio alla bocca di Zenone il quale con un morso gliel’afferrò coi denti. I servi subito accorsero e usarono contro il
torturato ogni tormento perché lasciasse la presa; ma egli molto più si attaccava. Alla fine non potendo vincere la sua
forza d’animo, lo trafissero ai lati perché lasciasse la presa. Con questo espediente fu liberato dai tormenti e subì da
parte del tiranno l’inevitabile punizione”.
(Diodoro, X, 18, 2 = DK 29 A 6, in I Presocratici, vol. I, p.285.)
Che tipo! Certo con Zenone non si scherzava. E neppure adesso si scherza con le sue
sottilissime argomentazioni. E con i suoi ragionamenti non hanno affatto scherzato un sacco
di illustri pensatori, fino ai giorni nostri.
Che cosa ci ha lasciato? Quali sono i suoi scritti? Diversamente da Parmenide (che amava
esprimersi in versi eleganti), Zenone scrisse un’opera in prosa (Sulla natura) della quale
restano purtroppo pochissimi frammenti. Non sappiamo a cosa si riferissero le altre opere
(ne conosciamo solo i titoli: Dispute, Esegesi empedoclea, Ai filosofi). La possibilità di
ricostruire il suo pensiero ci è data grazie alle critiche mossegli da Aristotele e ai brani
conservatici da Simplicio nel suo commentario alla Fisica aristotelica.
3. QUATTRO PUNTI FONDAMENTALI PER “INQUADRARE BENE” ZENONE
Alcuni punti devono subito essere chiariti:
1) Zenone, con le sue argomentazioni, se la prende con i nemici del maestro Parmenide,
siano essi gente comune o filosofi di mestiere. Platone, sempre nel Parmenide, mette
in bocca a Zenone questo giudizio sulla propria opera: “[…] In realtà il mio libro è
una difesa della dottrina di Parmenide, diretta contro coloro che tentano di metterla
in ridicolo, ritenendo che, se si ammette che tutto è uno, ne seguono molte
conseguenze ridicole, contrarie alla tesi medesima” (Cfr. G. Reale, Storia della
Filosofia antica, vol. I, p. 133)
2) Con Zenone compare nella storia della filosofia un nuovo metodo argomentativo: la
dialettica. Dal punto di vista del contenuto, infatti, le argomentazioni di Zenone non
aggiungono nulla alla riflessione di Parmenide; ma per quanto riguarda il metodo di
condurre il discorso esse rappresentano una novità: a Zenone fu infatti attribuita
l’invenzione della dialettica, cioè di un procedimento dimostrativo che partendo da
una premessa ne fa derivare una conclusione contraddittoria rispetto alla premessa
stessa (come vedremo in seguito).
3) Fra i temi proposti da Parmenide, quello che sembra essere stato più approfondito,
sviluppato e strenuamente difeso da Zenone riguarda l’unicità e l’indivisibilità
dell’essere. In particolare Zenone sviluppa argomenti contro la pluralità delle cose e
contro il movimento.
4) Il discorso di Zenone ha a che fare con l’infinito e dunque esige alcune premesse e
alcune riflessioni ulteriori. Va “preso con le pinze” e maneggiato con cura. Come si
vedrà, i paradossi di Zenone partono dal principio della infinita divisibilità dello
spazio e del tempo, e dal presupposto che vi sia una perfetta corrispondenza fra
pensiero logico-matematico e realtà fisica. Tesi, come avremo modo di notare, assai
controverse e discusse.
PUNTO N. 1 - ZENONE E I NEMICI DI PARMENIDE
Con chi se la prende Zenone? E a chi appartengono le tesi che Zenone vuole confutare?
Facile: Zenone se la prende con tutti coloro che (in qualche caso anche in modo beffardo nei
confronti del maestro Parmenide) sostengono la tesi della molteplicità. I Pitagorici, dunque,
sono tra i primi ad essere colpiti dalle critiche di Zenone. I seguaci di Pitagora, infatti,
sostenendo che la sostanza delle cose è il numero (dunque i numeri), sono evidentemente i
rappresentanti tipici di una dottrina che ammette la molteplicità. La loro dottrina perciò fu
senza dubbio tenuta presente nelle confutazioni di Zenone. Tuttavia essa, molto
probabilmente, non fu la sola. Sappiamo infatti che contemporaneo di Zenone era un certo
Anassagora, la cui dottrina dei semi (o omeomerie) ammetteva anch’essa la realtà del
molteplice. Molto probabilmente perciò Zenone ha inteso confutare la molteplicità
dell’essere nel suo significato più generale ed esteso, includente non solo il pitagorismo, ma
ogni altra dottrina che comunque ammettesse quella molteplicità. Dunque oggetto dei suoi
attacchi erano senz’altro anche gli altri filosofi cosiddetti “fisici pluralisti”: Empedocle e
Democrito. Questi filosofi attaccavano infatti molto duramente la teoria parmenidea
dell’immutabilità, dell’unità e indivisibilità dell’essere in nome del “senso comune”, che
attesta invece la realtà del movimento, della molteplicità e della divisibilità. Zenone, come
dicevamo, si propone allora di difendere la dottrina del maestro, dimostrando che, se si
assumono tesi contrarie a quelle eleatiche, da esse derivano conseguenze assurde. Se infatti
per il “senso comune” poteva valere il famoso Postulato di Thumb alla legge di Murphy
(“Una menzogna credibile è più utile di un’incomprensibile verità”), per il discepolo di
Parmenide il piano della logica supera e sovrasta quello della realtà, dominandolo. Per
Zenone valeva insomma lo stesso motto di Parmenide, in seguito magistralmente riassunto
dal Postulato di Tupper (“Quelli che vanno dritti per la propria strada hanno poche
direzioni da scegliere”).
Così riferisce Platone:
[…] questo scritto è una difesa del ragionamento di Parmenide contro coloro che impresero a metterlo in ridicolo,
dicendo che se l’essere è uno, le conseguenze a cui il ragionamento è costretto sono molte e ridicole e contrarie al
ragionamento stesso. Dunque questo scritto si contrappone a coloro che affermano la molteplicità e rende loro la
pariglia ancor più, volendo mostrar questo, che l’ipotesi della molteplicità sbocca a conseguenze più ridicole che
l’ipotesi dell’unità, quando le conseguenze siano tratte opportunamente.
(Platone, Parmenide, 128b = DK 29 A 12, in I Presocratici, vol. I, p. 287.)
Un primo elemento, dunque. Zenone voleva mostrare a quanti si prendevano gioco delle
teorie del maestro Parmenide che in realtà c’era ancor più da ridere se si accettavano le idee
(del resto accettate dal senso comune) circa la molteplicità ed il movimento. La teoria di
Parmenide, come sappiamo bene, era apparsa sin dall’inizio in contrasto con il senso
comune (doxa), quindi era stata tacciata di assurdità, in quanto aveva messo in discussione
alcuni aspetti evidenti – e difficilmente confutabili – della realtà come il mutamento, la
divisibilità e la molteplicità delle cose. Ma, a parere di Zenone, a conclusioni ancora più
assurde portano le teorie che sostengono tali aspetti. E questo ci porta a parlare della
questione del “metodo” utilizzato da Zenone: la dialettica.
PUNTO N. 2 – IL METODO DI ZENONE: LA DIALETTICA
Come dicevamo prima, nelle sue prese di posizione, Zenone fa uso di un nuovo apparato
logico-argomentativo. Ma di cosa si tratta? Il metodo di cui Zenone si serve è, come notò
Aristotele, quello della dialettica. La dialettica consiste nell’ammettere in via d’ipotesi
l’affermazione dell’avversario per ricavarne poi conseguenze che la confutano e ne
evidenziano l’assurdità. In sostanza si nega la tesi dell’avversario utilizzando le sue stesse
premesse. Tale è il procedimento di Zenone che ammette ipoteticamente (!) la molteplicità e
il mutamento per dimostrarne poi l’assurdità.
Con Zenone, quindi, la potenza di astrazione concettuale e di speculazione di Parmenide si
traduce in nuove, più sottili e raffinate capacità logico-analitiche e argomentative. E non
sarà inutile sottolineare che la forza analitico-argomentativa dei suoi ragionamenti ha avuto,
non a caso, una profonda influenza sugli sviluppi della filosofia greca. Uno dei principali
meriti di Zenone è stata, inoltre, la sottolineatura della problematicità e della complessità
logico-linguistica di concetti come quelli di continuità, divisibilità, infinito, ecc.,
l’approfondimento e la chiarificazione dei quali saranno essenziali per lo sviluppo della
matematica e della fisica moderne.
Ma parlando di Zenone non sentiamo solo dire che il suo metodo era quello della dialettica.
Spesso si sente che Zenone ha utilizzato la reducio ad absurdum. Che cos’è? Abbiamo visto
che le argomentazioni di Zenone accettano, sotto forma di ipotesi, le tesi degli avversari per
dimostrarle poi paradossali e contraddittorie attraverso uno stringente ed elegante
ragionamento logico. Questo è esattamente il metodo chiamato ad absurdum (con sottinteso
il sostantivo reductio) con cui dalla contraddizione della conclusione si deduce l’assurdità
della premessa. Dunque, come scrive Giovanni Reale, “nasce così quel metodo di
dimostrazione che, invece di provare direttamente una data tesi, partendo da determinati
principi, cerca di provarla riducendo all’assurdo la tesi contraddittoria” (Cfr. G. Reale,
Storia della filosofia antica, op. cit., p. 133)
Molto famosa – e infatti l’abbiamo utilizzata anche noi – è poi l’espressione “i paradossi di
Zenone”. Ma che cos’è un “paradosso”? Il ragionamento dialettico di Zenone, come
abbiamo visto mira ad evidenziare come ammettendo la realtà della molteplicità e del
movimento comporta inevitabilmente una contraddizione. Un “paradosso” (dal greco
paradoxos «che va contro l’opinione comune») è, letteralmente, "un ragionamento
apparentemente valido fondato su asserzioni apparentemente vere che conducono o ad una
contraddizione o ad una conclusione falsa". Zenone avrebbe ideato ben quaranta (!)
paradossi – argomenti logicamente validi, le cui conclusioni vanno contro (parà) l’opinione
comune (doxa) – a sostegno della teoria dell’unità e indivisibilità dell’essere. E, in
particolare, quattro contro il movimento. Questi paradossi – come abbiamo già detto –
utilizzano una forma di dimostrazione, quella per assurdo, che consiste nell’assumere
provvisoriamente un’ipotesi e nello svolgerla logicamente, fino a dedurne una
contraddizione. Un altro modo con cui questi argomenti sono talvolta definiti è “aporie” (in
greco aporia «passaggio impraticabile», «strada senza uscita»). Nella storia della filosofia
ne incontreremo un bel po’, quindi non sarà male abituarsi fin d’ora all’idea. Ce ne sono
alcune spassosissime. Per esempio quelle relativi all'onnipotenza divina, presenti nelle
discussioni della Scolastica medievale: Dio può creare un masso troppo pesante per essere
mosso da Dio stesso? Se non può crearlo c'è qualcosa che Dio non può fare e pertanto Dio
non è onnipotente. Se può crearlo ci sarà, dopo quella creazione, qualcosa che Dio non potrà
fare. Un bel rompicapo, vero?
→ A proposito del “paradosso”, possiamo leggere un breve articolo di P. Odifreddi,
comparso in “Tuttoscienze” il 17 Aprile del 1996.
PUNTO N. 3 – CONTRO LA MOLTEPLICITÀ E CONTRO IL MOVIMENTO
IL PROBLEMA. E’ possibile dimostrare con argomenti razionali la verità della dottrina del
sommo Parmenide, secondo il quale solamente l’essere esiste? E’ possibile dimostrare
l’esistenza del non-essere?
LA SOLUZIONE. Zenone, come sappiamo, non cerca di dimostrare direttamente la tesi del
maestro. Più sottilmente, si limita invece a confutare le tesi degli oppositori, ossia di coloro
che sostengono l’esistenza del non-essere. Attraverso ragionamenti che “fanno venire il mal
di testa” (secondo la definizione di Aristotele), Zenone riesce a dimostrare che affermare la
realtà di una qualsiasi manifestazione del non-essere (il movimento, la traslazione dei corpi,
la molteplicità, la velocità) conduce a conclusioni ancor più paradossali.
Come dicevamo, Zenone presenta alcuni argomenti sulla molteplicità e sul movimento che
conducono a conclusioni paradossali. Sarà purtroppo necessario prenderliin esame.
Cominciamo con quelli contro la molteplicità.
CONTRO LA MOLTEPLICITÀ
Zenone presenta due argomenti principali.
Primo argomento. Se si ammette che le cose sono molte, esse dovrebbero essere tante
quante sono, non di più ne di meno: quindi il loro numero dovrebbe essere finito. Eppure,
anche così, il loro numero non può che essere infinito, perché fra le une e le altre cose vi
saranno sempre altre cose e, fra queste e le prime, altre cose ancora e così via all’infinito.
Ad esempio, se le cose fossero solo due (A e B), inevitabilmente queste sarebbero separate
da uno spazio C, cioè da una terza cosa. Ma C, per essere distinto da A e da B, sarebbe
separato da loro – rispettivamente – da un’altra cosa D e da un’altra cosa E e così via
all’infinito. Quindi, per assurdo, le cose, finite di numero, sarebbero infinite.
(tra “A” e “B” c’è evidentemente uno “spazio”, cioè in fondo “qualcosa”, un altro ente, che
chiameremo “C”):
(ma così facendo si creano altri due spazi che a loro volta richiedono una moltiplicazione
infinita degli enti)
Ecco il frammento:
Se gli enti sono molti è necessario che siano tanti quanti sono e non di più ne di meno. Ma se sono tanti quanti sono
saranno limitati. Se gli enti sono molti sono infiniti: sempre infatti in mezzo agIi enti ve ne sono altri e in mezzo a
questi di nuovo degli altri. E in tal modo gli enti sono infiniti.
Simplicio, Fisica, 140, 27 = DK 29 B 3, in I Presocratici, vol. I, p. 304.
Secondo argomento. Con un procedimento analogo, Zenone giunge a dimostrare che, posta
la realtà del molteplice questo è, a un tempo, grande e piccolo.
Ecco il frammento:
Se esiste, è necessario che ciascuna cosa abbia una certa grandezza e spessore e che in essa una parte disti dall’altra. Lo
stesso ragionamento vale anche della parte che sta innanzi: anche questa infarti avrà grandezza e avrà una parte che sta
innanzi. Questo vale in un caso come in tutti i casi: nessuna infatti di tali parti sarà l’ultima e non è possibile che non ci
sia una parte a precedere l’altra. Così, se sono molti, è necessario che essi siano piccoli e grandi: piccoli fino a non
avere grandezza, grandi fino a essere infiniti.
Simplicio, Fisica, 140, 34 = DK 29 B 2, in I Presocratici, vol. I, PP. 303-4.
Questo argomento, come quello precedente, si fonda sul presupposto (non esplicitato)
dell’infinita divisibilità degli enti, principio non solo «logico» (per il pensiero non si dà
alcuna contraddizione quando si pensa che una grandezza possa essere infinitamente divisa),
ma anche «ontologico» (gli enti sono divisibili all’infinito non solo nel pensiero, ma anche
nella realtà). Secondo Zenone, ogni ente, avendo necessariamente una certa grandezza e un
certo spessore, ha sempre una parte che gli sta innanzi; questa, a sua volta, ha anch’essa una
parte che gli sta innanzi e così via all’infinito. Gli enti, dunque, se sono molteplici, sono
formati da infinite unità e quindi le cose esistenti sono, a un tempo, infinitamente grandi
(perché ogni unità è composta di parti infinite) e infinitamente piccole (perché tutto ciò che
esiste può essere frammentato all’infinito fino a non avere grandezza e quindi ad annullarsi).
Anche in questo caso la contraddizione indica che l’ipotesi di partenza, secondo cui il tutto è
composto di elementi molteplici, è assurda.
CONCLUSIONI.
Se le cose sono molteplici allora dovrebbero essere sia finite (una quantità determinata) sia
infinite, perché separate l’una dall’altra da altre cose (le quali avrebbero bisogno di altre
cose per risultare separate). L’Essere è uno e pertanto è indivisibile. È inoltre imperituro e
immobile. Chi sostiene il contrario cade nell’assurdo. Rendere evidente l’assurdità della
divisibilità dell’Essere: questa è la via scelta da Zenone per dimostrare la veridicità della
posizione eleatica.
CONTRO IL MOVIMENTO
Tra gli argomenti di Zenone i più famosi sono quelli contro la realtà del movimento. E,
come se non bastasse, sono ben quattro. Prima di prenderli in esame è importante vedere
come Aristotele li riporta.
Quattro sono gli argomenti di Zenone intorno al movimento […]. Primo, quello sulla inesistenza del movimento per la
ragione che il mosso deve giungere prima alla metà che non al termine […]. Ragione per cui il ragionamento di Zenone
assume […] che non si possano percorrere elementi spaziali infiniti o toccare nella traslazione uno per uno infiniti
elementi spaziali in un tempo determinato.
Aristotele, Fisica, VI (2) 9, 239b; 2, 231a = DK29 A 25, in I Presocratici, vol. I, p.294.
a) Il primo è quello della dicotomia (dal greco dichotomìa «divisione in due parti»). E’
quello detto anche “dello stadio”. Non si può arrivare all’estremità dello stadio, giacché
bisognerebbe arrivare prima alla metà di esso e prima ancora alla metà di questa metà e così
via all’infinito. Ma non è possibile percorrere in un tempo finito infinite parti di spazio. In
altre parole se un corpo si sposta da un estremo all’altro di uno spazio dato, prima di
completare il percorso dovrà certamente raggiungere la metà della distanza; e prima di
questa metà dovrà raggiungere la metà della metà e così via all’infinito, perché in qualsiasi
spazio dato si trova un numero infinito di punti e, afferma Zenone, “tu non puoi toccare un
numero infinito di punti, l’uno dopo l’altro, in un tempo finito”.
b) Il secondo argomento è quello del piè veloce Achille, che, pur rimanendoci male, non
potrà mai superare (anzi: nemmeno raggiungere) la tartaruga beffarda. Se lasciamo infatti
alla tartaruga anche solo un passo di vantaggio, non sarà mai raggiunta dal piè veloce
Achille. Difatti, prima di raggiungerla, Achille dovrà raggiungere la posizione occupata
precedentemente dalla tartaruga, che nel frattempo si sarà spostata di un intervallo, sia pure
minimo, di spazio; così la distanza tra Achille e la tartaruga non si ridurrà mai a zero, pur
diventando sempre più piccola. Il mitico eroe si avvicinerà sempre più alla pur lenta
tartaruga senza però raggiungerla mai. Un po’ come la cattedra e gli aspiranti insegnanti di
Filosofia…
In altri termini, partendo dall’ipotesi della divisibilità infinita dello spazio, un oggetto in
movimento non potrà mai superare una distanza, anche se questa è minima e se la sua
velocità è altissima, in quanto dovrà prima coprire il numero infinito di punti di cui consta
quello spazio, quindi dovrà impiegare un tempo infinito.
Leggiamo il passo:
Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi
insegue giunga in precedenza là di dove si mosse chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un
qualche vantaggio. Questo ragionamento è lo stesso di quello della dicotomia, ma ne differisce per il fatto che la
grandezza successivamente assunta non viene divisa per due. Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il più
lento non viene raggiunto ed ha lo stesso fondamento della dicotomia […] , di modo che la soluzione sarà, per forza, la
stessa.
Aristotele, Fisica, VI (2) 9, 239b = DK 29 A 26, in I Presocratici, vol I, pp, 295-96.
Si tenga presente che anche in questi due argomenti il presupposto su cui Zenone si fonda è
la possibilità di suddividere lo spazio fisico all’infinito e quindi l’identificazione tra
divisibilità geometrica e divisibilità fisica. Già Aristotele aveva notato (non senza una certa
ironia) che entrambi i ragionamenti avevano la medesima struttura argomentativa:
[…] nell’un ragionamento e nell’altro infatti la conseguenza è che non si arriva al termine, divisa che si sia in qualche
modo la grandezza data; ma c’è di più nel secondo che la cosa non può essere realizzata neppure dal più veloce
corridore immaginato drammaticamente nell’inseguimento del più lento […].
Aristotele, Fisica, VI (2) 9, 239b = DK 29 A 26, in I Presocratici, vol. I, p. 296.
c) Il terzo argomento è quello “della freccia immobile”. Esso afferma per assurdo che una
freccia in movimento sarebbe, in realtà, ferma. Il moto può essere rappresentato come una
serie di spazi occupati – uno dopo l’altro – dalla freccia. Ma in ciascuno spazio occupato la
freccia è ferma. Se questo è vero, allora il movimento della freccia è formato da una
successione di spazi-istanti nei quali essa è ferma: cioè il movimento è impossibile, perché
non può esser composto unicamente da momenti di immobilità.
Se ammettiamo che il tempo sia composto di istanti, cioè di tante unità una successiva
all’altra, la freccia scoccata dall’arco non raggiungerà mai il bersaglio. In un istante x la
freccia è in un punto detta sua traiettoria, in quell’istante essa è ferma in quel punto. E così
in ogni istante la freccia è ferma in un punto. Se il tempo è un susseguirsi di istanti, per la
freccia si verifica un susseguirsi di stati di quiete, quindi essa, nel tempo, è ferma. Inoltre, se
ammettiamo la divisibilità dello spazio, la freccia scoccata dal punto A, prima di
raggiungere il punto B in cui è situato il bersaglio, dovrà passare per il punto M posto a
metà fra A e B, ma prima di raggiungere il punto M dovrà transitare per M’, mediano fra A
e M, e quindi per M” , a metà percorso fra A e M’, e così via, all’infinito, per cui la freccia
non arriverà mai al bersaglio.
Leggiamo il passo:
Il ragionamento di Zenone, assumendo che tutto ciò che è lungo uno spazio uguale a se o si muove o è in quiete, e che
nulla si muove nell’istante e che sempre il mosso è lungo uno spazio uguale a sé in ogni istante, pare che proceda così:
la freccia che si muove, che è in ogni istante lungo uno spazio uguale a sé, non si muove dal momento che nulla si
muove nell’istante; ma ciò che non si muove è in quiete, dal momento che tutto o si muove o è in quiete; allora la
freccia che si muove finche si muove è in quiete per tutto il tempo della traslazione.
Aristotele, Fisica, VI (Z) 9, 239b = DK 29 A 27 , in I Presocratici, vol I, p. 296.
L’argomentazione – diciamolo ancora – si fonda sul presupposto che in ogni istante di
tempo la freccia copre uno spazio pari alla sua lunghezza. Ma dire che un oggetto occupa
uno spazio identico alla propria lunghezza non è diverso dall’affermare che esso non si
muove. Se quindi la freccia è ferma in ogni istante di tempo, lo sarà anche per tutto il tempo
(formato di istanti) che passa dal momento in cui è stata scoccata al momento in cui ha
raggiunto il bersaglio, dato che la somma di tanti stati di quiete non può generare il
movimento.
d) L’ultimo argomento, il quarto, è “quello dello stadio”. Un po’ più complesso da
visualizzare, non è che una variante dei precedenti: se due corpi A e B si muovono in esso
con uguale velocità (rispetto a un punto di riferimento fisso C che è a metà strada) e in
direzioni opposte, nel momento in cui si incrociano essi hanno una velocità relativa (cioè
relativa a B per quanto riguarda A e relativa ad A per quanto riguarda B) che risulta doppia
di quella relativa a C. Ma come può la velocità di ciascuno dei due corpi (A e B) essere il
doppio di se stessa? Possiamo vedere questo ragionamento anche da un altro punto di vista,
facendo un esempio. La velocità di un corpo, dice Zenone, misurata rispetto alla immobilità
di un secondo corpo che sta fermo e rispetto al moto di un terzo corpo che corre in direzione
opposta ad uguale velocità appare diversa: infatti appare doppia in relazione al terzo corpo.
Un esempio per chiarire questo ragionamento: supponiamo tre treni disposti in tre binari
paralleli, di cui i primi due corrano in direzioni opposte con una velocità identica di 100 Km
orari, ed il terzo sia fermo. Ora la velocità del treno posto al centro apparirà di 100 Km orari
nei confronti del treno che è immobile e di 200 Km orari nei confronti del treno che si
muove nel senso opposto. Con questa argomentazione Zenone intende dimostrare che, se il
movimento esistesse, la metà del tempo, corrisponderebbe all’intero: e ciò è
necessariamente assurdo.
Leggiamo il passo:
Il quarto ragionamento è quello delle masse uguali che si muovono lungo masse uguali in senso contrario, le une dalla
fine dello stadio, e le altre dalla metà con uguale velocità. In esso [Zenone] crede che si provi che sono un tempo uguale
il tempo metà e il tempo doppio.
Aristotele, Fisica, VI (2) 9, 239b = DK 29 A 28, in I Presocratici, vol. I, p. 298.
Occorre i questo caso notare come Zenone abbia inconsapevolmente anticipato la teoria
della relatività. Ovviamente con questa radicale differenza: che ciò che per Einstein è realtà
(= la relatività del movimento) per Zenone è un assurdo logico, che testimonia
l’impensabilità razionale del nostro mondo, e quindi la tesi parmenidea circa il suo carattere
apparente o illusorio. Come ulteriore esempio circa la teoria della relatività possiamo
ricordare la Legge di Dyer sulla relatività: “La vita è breve, ma un film di tre ore è
interminabile”.
Diciamo daccapo che l’argomento dello stadio si fonda sul paradosso di due masse che,
muovendosi alla stessa velocità, ma l'una in direzione opposta all'altra, in uno stesso
intervallo di tempo T percorrono uno spazio S che è, contemporaneamente, uguale (se il
movimento è posto in relazione al riferimento di partenza che è fermo) e doppio (se il
movimento è misurato in relazione alle masse che si muovono). Infatti la velocità con cui le
masse si muovono può essere considerata in modo assoluto (se prendiamo come riferimento
il punto di partenza) o relativo (se mettiamo in relazione il reciproco allontanarsi delle
masse tra loro). Nel primo caso in un intervallo di tempo T le due masse percorrono lo
stesso spazio S; nel secondo caso durante lo stesso intervallo T la distanza coperta sarà 2S,
cioè doppia (le masse si muovono in direzione opposta e quindi lo spazio che le separa è
doppio rispetto al punto di partenza). Anche in questo caso si giunge quindi a una
contraddizione che può essere eliminata solo ammettendo come privo di ogni plausibilità
razionale il presupposto dell'opinione comune che afferma la realtà del movimento.
CONSEGUENZE GENERALI
1) l’assurdità del divenire e del molteplice. Dagli argomenti esposti contro la molteplicità e
il movimento deriva l’assurdità delle teorie della molteplicità e del divenire, che è ben
superiore – conclude ironicamente Zenone – a quella che i critici hanno attribuito a
Parmenide. Le assurdità in cui incorrono quelle teorie sono dovute in particolare alle
difficoltà concettuali che (come abbiamo già visto con i Pitagorici) il concetto di infinito
pone ai pensatori greci, soprattutto quando (come in questo caso) viene connesso ai concetti
di grandezza e di movimento.
2) conferma delle tesi di Parmenide. Di conseguenza, con tutti questi argomenti, Zenone
vuole indirettamente confermare la tesi del maestro secondo cui l’essere vero e logico non è
quello in cui viviamo. Infatti coloro che scambiano l’apparente con il reale, parlando di
molteplicità, movimento ecc. sono costretti ad avvolgersi in difficoltà mentali inestricabili.
DISCUSSIONE SULLA POSIZIONE DI ZENONE
Qual è il punto debole dei ragionamenti di Zenone?
Possibile risposta: Zenone immagina il punto spaziale come convenzionale ed in esteso,
mentre in realtà ha una certa estensione, e lo confonde perciò col punto matematico; inoltre,
nello stesso modo, considera fittizi e privi di durata gli istanti di tempo che invece hanno
una certa misura temporale.
Le discussioni critiche sull’argomento del piè veloce Achille.
Di tale argomento si può dare anche una esposizione matematica. Supponiamo che 1 sia la
lunghezza della distanza che, dapprima, esiste tra il punto A (Achille) e il punto T (la
tartaruga), che si muovono con velocità diverse, tra le quali il rapporto è 1 : 100
Ora, quando A avrà percorso il tratto 1, T sarà avanzato di 1/100 e, quando A avrà percorso
il tratto 1 + 1/100, T sarà avanzato ancora di 1/1002 e così via.
Achille (A) ha percorso il tratto 1, ma la lenta tartaruga (T) ha già fatto un pezzettino di
strada (1/100).
Achille (A) ha percorso il tratto 1 ed ha completato anche il tratto ulteriore (1/100), ma la
lenta tartaruga (T) ha fatto un altro, seppur minuscolo pezzettino di strada (1/1002).
E così ad libitum…
La distanza tra A e T potrà insomma sì diminuire progressivamente, ma non potrà mai
ridursi a zero, perché, per quanto minima, è sempre costituita di parti. Il punto A infatti
dovrebbe completare l’incompletabile, cioè la serie illimitata di termini 1 + 1/100 + 1/1002
+ 1/1003 … Ma ciò vuol dire che Achille sarà costretto a correre all’infinito.
Abbiamo già notato come il presupposto concettuale (e la forza logica) di questi argomenti
sia la tesi che, accettata l’infinita divisibilità dello spazio, il movimento di un corpo dato
non raggiungerà mai la sua meta, poiché, dovendo superare gli infiniti punti di cui consta
qualsiasi distanza, dovrà impiegare un tempo infinito. Aristotele cercherà di risolvere il
problema distinguendo tra piano reale e piano della possibilità mentale di aumentare
indefinitamente, o diminuire indefinitamente. Una qualsiasi la possibilità mentale di
aumentare indefinitamente, o diminuire indefinitamente, una qualsiasi quantità data. Ma se
nella realtà esistono solo distanze finite, il movimento raggiungerà la sua meta, poiché si
compirà in un tempo finito, infatti è vero che il tratto finito AB può essere indefinitamente
scomposto nella metà della metà (AB = ½ + ¼ + 1/8 + 1/16 ecc.) però tale progressione
infinita non può mai superare la quantità finita data 1 = AB . Analogamente è vero che,
supposto che il rapporto di velocità tra Achille e la tartaruga sia di 100 a 1, Achille
raggiungerà la tartaruga quando avrà percorso un tratto pari a 1/99 dello spazio interposto,
in quanto Achille allora ne avrà percorso 100/99 e avrà quindi d’un tratto superato quella
quantità finita di 1/99 di metro che non è mai raggiunta dalla progressione infinita 1/100 +
1/10000 + 1/1000000 ecc. Si noti tuttavia come la confutazione aristotelica (pur con tutti i
suoi meriti) sia valida solo se si presuppone che lo spazio reale sia finito.
Ora, poiché l’ipotesi della divisibilità all’infinito è logicamente e matematicamente
legittima, la difficoltà dell’argomento risiede proprio nel dover ammettere una sfasatura tra
piano logico-matematico e piano fisico-reale. Per questo motivo, alcuni matematici-filosofi,
a partire da Bertrand Russell (Principles of Matematics, 1903) tendono piuttosto ad esaltare
Zenone per aver individuato possibilità della divisione all’infinito e quindi per aver posto il
concetto che sta alla base del calcolo infnitesimale, che, tra l’altro, offre validi strumenti di
soluzione dell’argomento dell’Achille, stavolta su base matematica avanzata, diversa da
quella aristotelica-tradizionale.
Tuttavia, secondo alcuni, sul piano logico-filosofico, i primi due argomenti, se si ammette
l’infinita divisibilità dello spazio, rimangono tuttora inconfutati e inconfutabili.
PUNTO N. 4 – LE APORIE LEGATE AL CONCETTO DI INFINITO.
Gli argomenti di Zenone rivestono grande importanza per il pensiero filosofico e
matematico. La matematica pitagorica aveva rappresentato gli enti come insiemi finiti di
punti, finche la scoperta degli irrazionali non aveva mostrato come le grandezze spaziali
constassero di un numero infinito di parti. Ciò appariva paradossale, perché – come Zenone
stesso rileva – ciò che consta di infinite parti, per quanto piccole, dovrebbe essere
illimitatamente grande. Una via d’uscita dalla difficoltà sembrava quella di ammettere che
punti, linee e piani non fossero altro che enti ideali: i punti dovevano essere pensati come
privi di qualsiasi estensione, le linee come grandezze a una sola dimensione, i piani come
realtà bidimensionali, prive di spessore. In tal modo, infatti, si poteva concepire come in uno
spazio finito si “affollassero” infiniti punti, linee, piani. Zenone si era impigliato nel
confutare questo tentativo di soluzione: da enti privi di estensione non potranno mai
derivare grandezze estese, così come sommando linee a una sola dimensione non si può
ottenere una superficie, ne aggiungendo gli uni agli altri infiniti piani senza spessore
costruire un solido. Zenone ebbe l’indubbio merito di mettere a nudo le aporie legate aI
concetto di infinito: sarebbe spettato ai matematici il compito di individuare i metodi per
trattare questa dimensione degli oggetti senza cadere in gravissime contraddizioni. La
serietà dei paradossi di Zenone è provata dal fatto che, solo in età moderna, il pensiero
matematico riuscì a elaborare una teoria quale l’analisi infinitesimale, in grado di risolvere
le contraddizioni legate al problema dell’infinito.
INTRODUZIONE AL CONCETTO DI INFINITO
"L'idea di infinito si affaccia nella storia dell'uomo
nel momento stesso in cui egli incomincia ad
interrogarsi sul senso della sua presenza sulla Terra, e
si pone le domande fondamentali che ci assillano
ancora oggi: l'inizio, il futuro, la fine, le dimensioni
del tempo e dello spazio, le spiegazioni ultime. Da
allora l'infinito non ha smesso di porre interrogativi,
di stimolare riflessioni e ricerche, di generare
paradossi e di alimentare polemiche in cui la violenza
verbale è pari almeno alla posta in gioco."
(Tullio Regge - "L'infinito")
Infinito, illimitato o indeterminato?
Inizieremo subito col dire che il termine infinito è piuttosto equivoco. In primo luogo perché
se ne possono dare più definizioni, a seconda dell'apprezzamento, positivo o negativo; nel
primo caso diremo che l'infinito. concentra tutti gli attributi massimi che possiamo pensare
di qualcosa, e in particolar modo la perfezione e la potenza, nel secondo che l'infinito,
essendo ciò che non ha né limite né forma, è l'imperfetto e il manchevole (così è stato
pensato, per esempio, da Parmenide). In secondo luogo l'equivocità dipende dal contesto in
cui dell'infinito si parla: si può discorrere infatti di infinito in matematica, in teologia, in
cosmologia, in metafisica... dunque avremo tanti infiniti: l’infinito matematico, l’infinito
teologico, l’infinito cosmologico, ecc. Si può insomma dire che esistono diversi tipi di
infinito (e anche questa affermazione potrebbe sembrare equivoca… poi chiariremo):
Ma quale relazione c’è tra i termini “infinito” e “illimitato”, “indeterminato” o “indefinito”?
Questa molteplicità di significati molto probabilmente ha un’origine etimologica e deriva
dal corrispondente greco di infinito, ápeiron, che viene da a (alfa) privativo + péras,
"limite". L'ápeiron è, secondo Anassimandro, il principio di tutto, ciò da cui tutto proviene e
in cui tutto deve tornare. Ma già Aristotele precisava che il girare in circolo senza termine,
come in un anello senza castone, non è segno di infinito, per avere il quale bisogna “che non
si prenda mai il medesimo punto” (Fisica, III, 6, 207a). Quando questo succede, non si ha
propriamente l'infinito, ma l'illimitato. Questa distinzione è stata ripresa in età
contemporanea da Bernhard Riemann (1826-1866), il matematico tedesco che costruì la
geometria ellittica o sferica; mentre l'illimitatezza appartiene all'estensione (si potrebbe dire:
è un concetto qualitativo), la seconda [l'infinità] appartiene alla misura (è un concetto
quantitativo). Ne risulta che può senza difficoltà concepirsi uno spazio illimitato e pur
finito. Orbene, il sistema di geometria ellittica poggia appunto essenzialmente sull'ipotesi
che lo spazio sia finito: in particolare ciò si riflette sulla "retta" che, a differenza del caso
euclideo e iperbolico, è chiusa e finita. È noto che queste riflessioni sono alla base della
teoria della relatività di Einstein e della sua visione del mondo, illimitato, appunto, ma
finito.
Alcuni pensatori hanno voluto anche distinguere tra infinito e indefinito. Per esempio
Cartesio (1596-1650): "Io qui distinguo tra l'indefinito e l'infinito. Non c'è niente che io
chiamo propriamente infinito, se non ciò in cui non posso riscontrare limiti da ogni parte,
nel qual senso Dio solo è infinito. Ma le cose di cui solo per qualche aspetto io non vedo un
termine, come l'estensione degli spazi immaginari, la moltitudine dei numeri, la divisibilità
delle parti della quantità e altre cose simili, io le chiamo indefinite e non infinite, perché non
in ogni loro parte sono senza fine né limiti" (Principi di filosofia, Risposte alle Prime
Obiezioni, 10). Quindi mentre l'indefinito è attributo del reale, infinito si può dire solamente
di Dio.
La concezione negativa dell'infinito
La filosofia greca ha molto discusso dell'infinito, ma generalmente per criticarlo ed
esorcizzarlo, come se si trattasse di un pericoloso elemento di confusione. In questo senso il
pensiero dei pitagorici e i paradossi di Zenone si può dire che abbiano tracciato la strada. I
primi hanno pensato alla coppia limite/illimitato (nel senso ancora generico di ápeiron)
come alla prima delle dieci opposizioni che sono alla base della serie dei numeri, la quale
appunto nasce dalla delimitazione di una quantità indeterminata. Il positivo sta nel limite,
che porta ordine e misura, mentre l'infinito-illimitato è qualcosa di incompiuto, di
manchevole, quindi imperfetto.
Ma chi affronta in modo sistematico e completo il problema è Aristotele, il quale tratta
l'infinito da più punti di vista, l'infinito matematico, l'infinito come principio e come
processo, ma soprattutto l'infinito spaziale, per l'evidente connessione con il problema della
infinità e dell'infinità del cosmo.
Aristotele distingue l'infinito attuale dall'infinito potenziale; il primo va inteso come realtà e
come grandezza, il secondo come processo che non ha mai fine. Ebbene, il primo non può
esistere, né come realtà, cioè come ente a sé, né come attributo di una realtà. Gli argomenti
contro l'infinito attuale intendono soprattutto dimostrare l'inconcepibilità di un corpo
infinitamente esteso; Aristotele svolge numerose considerazioni. Tra l'altro sostiene: "Tutto
il sensibile è per natura in qualche luogo, e per ciascuna cosa particolare vi è un luogo, e
questo è il medesimo per la parte e per il tutto, ossia per tutta la terra e per una sola zolla,
per il fuoco e per una sola favilla" (Fisica, III, 5, 205a). Ora, il luogo è inteso da Aristotele
come "immobile limite del contenente"; in altre parole, ogni spazio contiene qualcosa e si
pone agli estremi di questo, così come "il luogo non è il cielo, ma, per così dire, l'estremità
del cielo" (IV, 5, 212b).
Tra l'altro, ammettere un universo infinito significa togliere senso alle distinzioni alto/basso,
centro/periferia, laddove sembra incontrovertibile che ci sia un basso, che è il luogo verso
cui tende una cosa pesante, e che ci sia un centro dell'universo, che è il luogo occupato dalla
terra, com'è provato dal fatto che essa non si muove. "Ma è impossibile che nell'infinito ci
siano queste determinazioni. Insomma: se è impossibile che un luogo sia infinito e se ogni
corpo è in un luogo, è impossibile che vi sia un qualche corpo infinito" (III, 205b-206a).
L'universo per Aristotele è perfetto, ma proprio perché compiuto è finito. L'infinito attuale è
anche impensabile; pensato può essere solo qualcosa di definito, che ha una forma, cioè una
qualche determinazione.
Esiste solo l'infinito potenziale, che è tale per addizione (la serie dei numeri) o per
sottrazione (lo spazio; l'estensione spaziale quindi tollera l'infinito solo come infinita
divisibilità): nel primo caso ad un numero se ne può aggiungere sempre un altro,
indefinitamente; nel secondo la divisibilità non ha termine, perché, come aveva già
sostenuto Anassagora (V secolo a.C.) prima di Aristotele, ciò che è risultato di una divisione
mantiene pur sempre una grandezza, e quindi è ulteriormente divisibile. infinito vuol dire
incompiuto, ciò che manca di qualcosa; "l'infinito non è ciò al di fuori di cui non c'è nulla,
ma ciò al di fuori di cui c'è sempre qualcosa" (Fisica, III, 6, 207a).
Data tale concezione dell'infinito, qualsiasi ragionamento che comporti un processo
all'infinito è fallace. È così che si dimostra, per esempio, l'esistenza di Dio: ogni cosa è
mossa da un motore ad essa esterno; di motore in motore, non si può risalire all'infinito,
perché altrimenti nessuna cosa si muoverebbe qui ed ora; bisogna arrestarsi a un primo
motore immobile, che è Dio. Stessa cosa per i principi primi di ogni scienza; in geometria,
per esempio, un teorema si deduce da un precedente teorema; ma è impossibile compiere
un'infinità di passaggi logici a ritroso, occorre che ad un certo punto sussistano principi
primi indimostrabili.
Questa sistemazione aristotelica rimane pressoché definitiva fino all'Ottocento. Nel XVIII
secolo Kant ripete ancora la concezione negativa dell'infinito quando tratta delle prime due
"antinomie della ragion pura", se cioè il mondo sia finito o infinito nel tempo e nello spazio,
e se la divisibilità del mondo si arresta o procede all'infinito; per concludere appunto che
ogni volta che la ragione si imbatte nell'infinito non riesce a dare soluzioni possibili.
La concezione positiva dell'infinito
La concezione positiva è di matrice cristiana: l'infinito è Dio, l'Assoluto. Il cristianesimo
peraltro concepisce Dio come infinità di potenza più che come infinità di grandezza
(preceduto in ciò, del resto, dal filosofo neoplatonico Plotino, III secolo d.C.).
Delle numerose riflessioni sull'infinità di Dio, tra le più originali sono quelle di Anselmo
d'Aosta (1033-1109), che definisce Dio l’id quo maius cogitari nequti, "l'essere di cui non si
può pensare nulla di maggiore". Questa definizione è utilizzata da Anselmo per dimostrare
la stessa esistenza di Dio.
All'inizio dell'età moderna Nicola Cusano (1401-1464) utilizza la nozione di infinito per
negare invece ogni rapporto tra logica e teologia. La conoscenza, egli dice, è proporzione tra
noto ed ignoto: si può conoscere ciò che non si conosce ancora, solo se questo possiede una
qualche relazione col già noto. Ora, la distanza tra finito e infinito (Dio) non può venire mai
percorsa, per quanto si ampli la mia conoscenza, in quanto finiti et infiniti nulla proportio,
"non esiste proporzione possibile tra finito ed infinito". La conclusione è che non si può
conoscere Dio con processi logici; "così ora viene rifiutata qualsiasi specie di teologia
"razionale", ed al suo posto subentra la "teologia mistica" (Cassirer). Ciò non significa però
avvicinarsi a Dio solo con il sentimento e con l'estasi; Cusano elabora una complessa
dottrina che prevede il ricorso ad immagini, come quella della circonferenza, la cui
curvatura sia ampliata all'infinito, per le quali non vale il principio di non contraddizione,
ma la coincidenza degli opposti. Ciò consente un'impostazione originale del rapporto tra
Dio e il mondo, infinito e finito: essi si richiamano costantemente, perché Dio, coincidenza
degli opposti, è massimo, e in quanto tale "complica" (cioè include) in sé tutte le cose, ed è
minimo, cioè è capace di manifestarsi nell'universo così come in ogni singola cosa. Da una
parte quindi nulla può essere al di fuori di Dio, dall'altra Dio è in ogni cosa; questo è
l'aspetto essenziale dell'essere delle cose, ed è per questo che noi non le possiamo
comprendere del tutto, proprio perché la loro più vera natura è divina.
È attraverso complesse mediazioni, in cui svolge un ruolo importante proprio la teologia
mistica, che si giunge alla più originale filosofia dell'infinito nell'età moderna, quella di
Georg Friedrich Hegel (1770-1831), del quale, ha sostenuto ancora Cassirer, "il Cusano con
meravigliosa acutezza anticipa i pensieri fondamentali". Basti accennare al fatto che Hegel
realizza completamente l'infinito nella molteplicità dei finiti, dichiara cioè che l'infinito si
attua attraverso la natura e la storia. Il filosofo tedesco critica con decisione la nozione di
infinito potenziale, sostenendo che esso è un prodotto dell'intelletto astraente, e che non è
che "cattiva infinità", proprio in quanto non si realizza mai.
Il vero infinito consiste invece nella molteplicità delle determinazioni della realtà (le cose
finite), ciascuna delle quali, presa per se stessa, certamente è nulla, diventando qualcosa
solo come momento dell'Assoluto. L'Assoluto è razionalità, ma questa razionalità infinita
non fugge via continuamente, ma si concretizza nel divenire del mondo. "La novità del
discorso hegeliano sta essenzialmente in questo, nell'aver creato la nozione di infinito
globalmente determinato e nell'aver identificato tale nozione con quella dello sviluppo
razionale" (Micheli). In tal modo è anche superato il limite posto dalla riflessione di Cusano
circa l'impossibilità di comprendere l'intima essenza delle cose; per Hegel evidentemente
niente è per definizione incomprensibile, niente appartiene a una razionalità astratta, che
abiti fuori del mondo.
L'infinito nella matematica moderna
Poco tempo dopo le riflessioni di Hegel, ma in modo del tutto indipendente, anche la
matematica è pervenuta a un concetto positivo di infinito
È stato il matematico tedesco di origine russa Georg Cantor (1845-1918) a scoprire un
nuovo genere di numeri, i transfiniti (cioè al di là dei finiti), che sono numeri attualmente
infiniti. Il punto di partenza è una nuova teoria del numero, interpretato nei termini di
insieme, definito "molteplicità che si lasci pensare come uno, cioè ogni intero di elementi
definiti che per mezzo di una legge si possa riunire in un tutto". Ora, dati due insiemi, essi si
dicono equivalenti quando i loro rispettivi elementi si possono porre in corrispondenza
biunivoca, quando cioè ad ogni elemento di uno di essi corrisponde uno ed un solo elemento
dell'altro. Ebbene, partendo da questi presupposti, si giunge alla conclusione che i numeri
finiti e i numeri infiniti hanno in comune alcune proprietà, come per esempio la potenza o
numero cardinale, che è quel concetto generale, che ci si forma degli elementi dell'insieme,
quando si astrae dalla loro natura e dal loro ordine. In altre parole, siccome il numero non
dipende più dall'operazione del contare, è possibile determinare un numero infinito
attraverso la nozione di corrispondenza biunivoca. L'operazione è possibile nella misura in
cui ci si libera dalla credenza che per poter pensare l'insieme bisogna aver prima considerato
separatamente tutti i suoi elementi.
La differenza fondamentale tra insieme finito e insieme infinito è che, mentre il primo non è
mai equivalente ad una sua parte, l'infinito si può mettere in corrispondenza biunivoca con
un suo sotto-insieme. Per esempio, l'insieme dei numeri interi positivi è equivalente al sottoinsieme dei numeri pari.
Bibliografia
I Presocratici, testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, 1993, Tomo I.
A. Koyré, Dal mondo chiuso all'universo infinito [1957], Milano, Feltrinelli, 1970.
L. Lombardo Radice, L'infinito, Roma, Editori Riuniti, 1981.
R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dei greci [1934], Firenze, La Nuova Italia, 1954.
P. Zellini, Breve storia dell'infinito, Milano, Adelphi, 1992.
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