INTRODUZIONE ALLA CHIRURGIA PALLIATIVA E DI SALVATAGGIO: DEFINIZIONE,
CRITERI DECISIONALI E OBIETTIVI IN CHIRURGIA VETERINARIA
Marina Martano, Med Vet, PhD, Facoltà di Medicina Veterinaria di Grugliasco –
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Per “palliazione”, in oncologia, si intende “qualsiasi trattamento volto al controllo dei sintomi
clinici e al prolungamento della sopravvivenza”, cioè al miglioramento della qualità di vita
dell’animale. Tale definizione, quindi, implica la non possibilità di cura del tumore, in quanto in
stadio troppo avanzato, oppure a causa della localizzazione o dell’istotipo, o più semplicemente per
la non volontà del proprietario a procedere con trattamenti più aggressivi o costosi. Quest’ultimo
punto è quello che differenzia la medicina veterinaria da quella umana, per la quale è assai raro che
un individuo rinunci ad una possibilità di cura, anche a fronte di maggiori sofferenze.
Le indicazioni per una chirurgia palliativa sono rappresentate da tutte le cause di ostruzione
meccanica a strutture vitali causate dalla neoplasia, quali masse che occludono l’uretra, gli ureteri o
il retto (applicazione di stents), masse faringee o intraorali (compresa l’applicazione si sonde per la
nutrizione enterale). Anche la stabilizzazione di fratture patologiche, sebbene raramente effettuata,
può alleviare il dolore ad esse correlato, così come la decompressione del midollo spinale può
risolvere temporaneamente i sintomi dovuti al suo schiacciamento da parte di masse neoplastiche.
Un intervento effettuato più frequentemente è la splenectomia in caso di rottura di masse tumorali al
suo interno (prevalentemente emangiosarcomi). Tale intervento è seguito nella quasi totalità dei casi
da disseminazione metastatica del tumore agli organi endoaddominali, ma risolve la fase acuta di
emorragia e consente una buona ripresa dell’animale, garantendogli generalmente alcuni mesi di
buona qualità di vita (se non sono già presenti altre alterazioni, quali metastasi polmonari o CID).
Un capitolo a parte riveste il trattamento delle metastasi, soprattutto di quelle polmonari e in minor
misura di quelle epatiche. Sebbene non si tratti di una pratica molto diffusa, in casi selezionati
l’escissione chirurgica di 1 o più noduli polmonari può prolungare la sopravvivenza dell’animale
senza peggiorarne la qualità di vita. In medicina umana tale procedura in pazienti selezionati ha
permesso addirittura di incrementare significativamente la percentuale di sopravvivenza a 5 anni per
tumori caratterizzati da prognosi infausta.
In tutti i casi i fattori da considerare prima di intraprendere una chirurgia palliativa sono, innanzi
tutto, lo stato generale dell’animale, determinato in base ad apposite scale di valutazione (quale
quella di Karnofsky). Per poter affrontare una chirurgia, seppur palliativa, l’animale deve infatti
essere in condizioni fisiche tali da consentirgli una buona ripresa nel post-operatorio e garantirgli
una vita dignitosa una volta eliminata la causa del disagio. Oltre a questo vanno valutate mortalità e
morbilità legate all’intervento chirurgico; se la morbilità o le complicanze post-operatorie sono
elevate, i potenziali vantaggi dell’intervento potrebbero infatti esserne vanificati. L’asportazione
chirurgica di un carcinoma infiammatorio, ad esempio, non solo non porta alcun beneficio in
termini si mitigazione del dolore e prolungamento della sopravvivenza, ma addirittura può
diminuire quest’ultima e aumentare il disagio già notevole dell’animale a causa della difficoltà di
guarigione della ferita. Infine, la chirurgia palliativa è da considerare quando altri mezzi meno
invasivi non risultano efficaci; ne è un esempio l’amputazione di un arto non seguita da
chemioterapia in caso di osteosarcoma. L’intervento ha prevalentemente la finalità di eliminare il
dolore, cosa che può essere ottenuta anche con poche sedute di radioterapia, che offre il vantaggio
di conservare l’arto. Se però l’arto è fratturato l’amputazione può essere un’opzione alternativa alla
stabilizzazione della frattura.
In tutti i casi in cui si procede ad una chirurgia palliativa il proprietario dell’animale deve comunque
essere opportunamente informato sulla finalità dell’intervento, non volto alla cura del tumore, bensì
al miglioramento temporaneo della qualità di vita.
Un discorso simile ma non del tutto sovrapponibile è quello della chirurgia “di salvataggio”, intesa
come “terapia attuabile quando altre hanno fallito o si conosce in partenza il non completo rispetto
delle regole della chirurgia oncologica”. È il caso ad esempio del reimpianto degli ureteri nell’utero
o nel colon in seguito a cistectomia totale nel tentativo di asportare completamente una neoplasia a
questo livello, della tracheostomia permanente dopo asportazione di grosse masse laringee, o della
pull-through rettale con approccio anche per via addominale per l’escissione di grosse masse colorettali.
In questo caso l’intento non è solamente quello di alleviare temporaneamente i sintomi della
malattia, ma anche di effettuare un tentativo di cura o di aumento della sopravvivenza a lungo
termine, anche a fronte di interventi molto complessi. Le probabilità di successo della chirurgia di
salvataggio, che si differenzia da quella palliativa proprio per la maggior complessità, sono in ogni
caso più basse rispetto a quelle ottenibili con chirurgie d’elezione e la scelta del paziente deve
essere attentamente valutata, così come molto importante è la dedizione del proprietario, poiché le
complicanze post-operatorie possono essere importanti.