Manuale di Antropologia Manuale di Antropologia

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Michela Zucca
COLLANA DI STORIA E ANTROPOLOGIA
Manuale di
Antropologia
Š
SIMONE
EDIZIONI
Gruppo Editoriale
- Simone
Estratto
della Esselibri
pubblicazione
Collana di storia
e antropologia
Estratto della pubblicazione
Estratto della pubblicazione
Tutti i diritti riservati
Vietata la riproduzione anche parziale
Il catalogo aggiornato è consultabile sul sito: www.simone.it
ove è anche possibile scaricare alcune pagine saggio dei testi pubblicati
Finito di stampare nel mese di aprile 2011
da «Pittogramma s.r.l.» - Via Santa Lucia, 34 - Napoli
per conto della Esselibri S.p.A. - Via F. Russo 33/D - 80123 Napoli
Grafica di copertina di Giuseppe Ragno
Premessa
L’antropologia, come dice il termine stesso (dal greco ànthropos uomo, e lògos
parola, discorso) è la scienza che studia l’uomo sotto diversi punti di vista: sociale, culturale, morfologico, psico-evolutivo, artistico-espressivo, filosoficoreligioso e in genere dei suoi comportamenti all’interno di una società.
Questo manuale cerca di abbracciare in maniera sintetica i numerosi aspetti che
costituiscono questa materia: l’evoluzione e le caratteristiche fisiche degli esseri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti
della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie (primatologia);
le reti di relazioni sociali, i comportamenti, gli usi e i costumi, gli schemi di
parentela; le leggi e le istituzioni politiche; le ideologie, le religioni e le credenze, gli schemi di comportamento; i modi di produzione, di consumo o di scambio dei beni; i meccanismi percettivi e le relazioni di potere. Alcuni capitoli sono
corredati di schede di approfondimento.
Data l’enorme varietà di fenomeni che ricadono nell’ambito degli studi antropologici e che genera, di conseguenza, una molteplicità di sottodiscipline, il
volume pone l’attenzione soprattutto al rapporto tra: cultura e società. Da qui
derivano infatti le definizioni di antropologia culturale, di antropologia sociale,
di antropologia simbolica ecc. L’utilizzo di queste etichette comporta diverse
letture teoriche dell’antropologia, che possono essere in linea di massima messe
in relazione con le diverse tradizioni di studi, per cui da qui la differenziazione
tra antropologia inglese, francese, tedesca, statunitense e italiana.
Estratto della pubblicazione
Parte Prima
Storia di una disciplina
relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
Estratto della pubblicazione
Capitolo 1
Barbari, selvaggi, primitivi:
le «società di interesse etnografico»
1. Nascita dell’antropologia
La maggior parte degli studiosi fa risalire la nascita dell’antropologia «in quanto scienza» alla seconda metà del XIX secolo. In
realtà, nonostante l’etnocentrismo presente in tutte le culture del
mondo, l’uomo ha sempre avuto chiara la coscienza di non essere
il solo sulla superficie della Terra. E, probabilmente, da quando ha
iniziato a ragionare, ha dimostrato interesse verso i propri simili.
Interesse mischiato a paura, spesso mascherato da sentimento di
superiorità verso gli altri, ma comunque interesse.
Dai maori australiani agli inuit eschimesi, dai bantu ai cheyenne,
ai cinesi, è significativo come numerose popolazioni abbiano
conservato, nella propria lingua originale, un vocabolo con cui
indicano se stessi che significa «gli uomini». Questo ha portato
allo sviluppo di regole diverse all’interno delle comunità e
all’esterno: ciò che era permesso, e addirittura incoraggiato fra
«gli uomini», era sconsigliato e talvolta proibito a chi veniva da
fuori. Ancora oggi, in Europa, nei piccoli paesi, nessuno ruba e
si lasciano le automobili aperte: il controllo sociale è fortissimo
perché essere disonesti «coi paesani» sarebbe fortemente condannato. Ma imbrogliare sui prezzi i turisti è talvolta considerato titolo di merito, e la furbizia viene ritenuta una qualità positiCapitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» Estratto della pubblicazione
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va. Questo atteggiamento può provocare meccanismi di esclusione e di giustificazione del rifiuto che possono portare fino alla guerra.
Nonostante la paura, però, quando ci si riunisce sotto le tende, attorno ad un
bivacco, al riparo di un igloo, all’aperto vicino alle bestie, così come in salotto
o in una cucina attorno al fuoco, e si comincia a raccontare, le storie riguardano
quasi sempre loro, gli altri: i diversi, che possono essere gli spiriti dell’altro
mondo, i morti, i santi, i demoni; ma che spesso e volentieri sono uomini che
vengono da lontano, che appartengono ad altre tribù. E così si parla di come
vivono, delle case in cui abitano, di quello che mangiano, dei vestiti che si mettono addosso, degli dei che adorano, dei loro strani costumi matrimoniali e
sessuali.
Il bisogno di conoscere, e di confrontarsi con gli altri, è tanto profondo nella
specie umana, che popolazioni molto isolate, prive di scrittura, hanno conservato attraverso la storia orale, il mito, la leggenda eventi isolati ed eccezionali di
incontro con genti di altre culture. Quando non esisteva la possibilità di muoversi, si ricorreva perfino all’uso di sostanze psicotrope per poter viaggiare, per
poter incontrare «persone che vengono da lontano». Ricordi curati e tramandati come tesori preziosi, eredità conoscitiva essenziale per le generazioni future,
che magari non potranno godere delle stesse opportunità.
L’antropologia è nata con l’uomo. Da sempre sono esistiti specialisti in grado
di raccontare e analizzare le differenze e le somiglianze delle varie razze umane, di spiegarle secondo teorie prodotte dalla cultura di origine e dall’esperienza accumulata: sciamani, griots, cantastorie, ma anche filosofi, viaggiatori,
commercianti, soldati. Da Erodoto a Marco Polo, da Giulio Cesare ai missionari cristiani, molti uomini, partiti con la consapevolezza della superiorità
della propria etnia, conosciuti popoli diversi da vicino, sono stati lontani da casa
il tempo sufficiente per dimenticare, almeno in parte, l’educazione e la formazione ricevuta in patria, e acquisire quello sguardo distante e tranquillo che
consente di vedere gli altri come entità culturali autonome, straordinarie, portatrici addirittura di elementi di civiltà in molti casi più avanzati di quelli di
provenienza.
Ognuno di loro, a modo suo, ha composto un report scientifico, che è stato letto
e riletto, oppure ascoltato, raccontato e cantato innumerevoli volte, commentato,
confutato e discusso e confrontato con altre fonti, più recenti o più antiche, per
decenni secoli e millenni.
10 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
Ognuno di loro, a modo suo, è stato un antropologo. Che poi l’antropologia sia
stata codificata come scienza solo poco più di un secolo fa non ci esime dal
dovere di un rapido excursus nel passato, per cercare di capire come i nostri
predecessori interpretassero l’esistenza di altre civiltà.
Anche l’antropologia è un prodotto culturale della storia, e come tale va studiata e compresa nel suo sviluppo.
2. Le antiche cronache di viaggio
Tutte le società sono di interesse etnografico. Basta saperle analizzare, cogliendone peculiarità e differenze, ma anche ricchezza culturale e comune appartenenza al genere umano. È chiaro che, a differenza di oggi, epoca in cui ci si
sposta facilmente, gli uomini del passato conducevano una vita molto più sedentaria. O meglio, ci si muoveva per ragioni ben determinate, che non avevano
nulla a che spartire con la ricerca antropologica: interessi commerciali, spedizioni militari, motivi religiosi. I viaggi duravano anni, e durante il tragitto si
incontravano altri uomini. Spesso si imparava un’altra lingua e si comunicava
direttamente; comunque si aveva il tempo di parlare a lungo, di conoscere a
fondo gli usi e i costumi dei popoli che si incontravano nel corso del cammino.
Ricordiamo che il substrato culturale comune da cui esce l’Occidente considerava chiunque vivesse al di fuori dell’impero — greco, romano e poi cristiano
— barbaro, e quindi incivile; e in seguito, infedele, cioè bisognoso di conversione, in ogni modo, inferiore. Si mettevano sullo stesso piano civiltà strutturate, urbane, dotate di governo centralizzato e di apparato burocratico vecchio di
secoli, con eserciti e flotta commerciale, come quella egiziana e persiana, e tribù
nomadi che vivevano di caccia e di raccolta, o dei frutti della foresta, senza
conoscere la proprietà privata, come i celti. Erano tutti, e comunque, barbari.
Il viaggiatore però, proprio come l’antropologo (e forse come chiunque altro
costretto ad un lungo soggiorno lontano da casa), subiva una trasformazione
esistenziale. Superate le resistenze culturali, si accorgeva, oltre che della diversità degli altri, anche del valore della loro civiltà rispetto alla propria. Infine, li
accettava come simili nella loro differenza, riconosceva loro il diritto di esistere
nella loro specificità e li apprezzava.
Al ritorno in patria, raccontava cose favolose, che dai più magari non venivano
nemmeno credute.
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» 11
Ma qualcuno di loro ci ha lasciato documenti fondamentali per ricostruire la
storia e la mentalità degli antichi popoli, documenti che costituiscono, di fatto,
i primi trattati antropologici, le prime monografie etnografiche.
2.1 L’intellettuale: Erodoto
Perché Erodoto si mise in cammino, nessuno lo sa. Si sa invece che nacque ad
Alicarnasso (Caria), colonia greca, fra il 490 e il 480 a.C., da antica e ricca famiglia. Fra il 455 e il 447 si collocano, secondo l’ordine più probabile, i suoi
viaggi a Babilonia, in Scizia, Colchide, Peonia, Macedonia, Siria, Libia, Cirene,
Egitto. È attestato che la pubblica lettura dei propri scritti ad Atene gli procurasse compensi: siamo di fronte ad un intellettuale di professione. Ci ha lasciato
un’opera in otto libri, in cui racconta le guerre dell’impero persiano contro Atene, e in cui, intercalate alle vicende belliche in senso stretto, ci dà le più complete descrizioni dei popoli europei e asiatici che incontrò, o di cui ebbe notizia
da altri viaggiatori.
Il suo interesse principale è costituito dalla terra e dagli uomini che la abitano e,
poiché essi vivono nel tempo, dagli avvenimenti. Geografia, etnografia, storia.
Nel proemio, Erodoto presenta la propria opera come «esposizione di un’indagine». I mezzi di cui dispone per la sua ricerca sono la visione diretta in primo
luogo e poi ciò che apprende da altri, direttamente oppure mediatamente; infine
la voce, la fama, l’opinione: e spesso onestamente distingue fra le varie fonti da
cui attinge per la narrazione. Sembra che conoscesse solo il persiano: quindi,
ignorando le lingue dei paesi visitati, non poté che rimettersi a racconti di greci,
dove ne trovava o a quelli, naturalmente interessati e ottenuti attraverso interpreti, di informatori locali. Le parole scritte (iscrizioni, papiri) erano mute per
lui. Tuttavia, non accetta ad occhi chiusi quanto gli viene raccontato: sottopone
a critica (o semplicemente al buon senso) molte tradizioni, manifestando apertamente la propria incredulità. Di fronte a versioni varie e in contrasto fra loro,
le riferisce in maniera imparziale, ritenendo esaurito il proprio compito e lasciando la responsabilità della scelta al lettore.
Erodoto considera l’osservazione personale il mezzo principale per capire la
realtà. Ma non solo: i dati forniti dalla propria esperienza e dalle deposizioni di
altri costituiscono una materia che offre risultati utili solo attraverso una valutazione critica. Cioè una decodificazione antropologica. Il risultato però non è
12 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
l’affermazione della superiorità della civiltà greca, ma la giustificazione della
relatività culturale, come nel famoso episodio in cui riferisce le diverse usanze
di greci e indiani nel trattare i cadaveri dei propri morti. Gli uni li bruciano, gli
altri li mangiano: ed entrambi ritengono disgustose e impraticabili abitudini
diverse dalle proprie. Ed entrambi sono più che comprensibili all’interno della
società di origine: per ogni popolo le proprie tradizioni sono le migliori. E tutte
meritano rispetto, in quanto espressione specifica e unica di diverse concezioni
del mondo.
Le digressioni, i racconti, gli episodi, tutto quello che arricchisce le storie erodotee, hanno sempre lo scopo di ampliare e approfondire, anche indirettamente,
la conoscenza dell’elemento umano. È l’uomo il centro della sua opera: e da qui
scaturisce il fascino ineguagliabile e la simpatia che ancora oggi, dopo 25 secoli, suscitano in noi queste descrizioni di genti lontane.
2.2 Il condottiero: Cesare
Il «figlio più grande di Roma» nacque verso il 100 a.C., da un’aristocratica famiglia romana. Inizia giovanissimo una carriera militare e politica che lo porta
in breve tempo ai vertici del potere. Cesare è una personalità fuori del comune,
non solo e non tanto per le sue capacità di statista, ma anche e soprattutto per la
sua cultura. Con l’intuizione precoce del genio, aveva compreso l’insostenibilità
dei vecchi ordinamenti, e la precarietà del regime oligarchico, che pure in quegli
anni celebrava il suo trionfo. La funzione del princeps, con un’autorità pari a
quella dei monarchi ellenistici, sin dal principio apparve a lui come il necessario
punto d’arrivo della sua ambizione e della crisi costituzionale romana. Il servizio
militare lo condusse — per anni — a viaggiare in ogni angolo di quello che poi
sarebbe diventato uno dei più estesi, e più longevi, imperi della storia.
Fra una campagna e l’altra, un dibattito in Senato e una congiura, l’assunzione
di importanti cariche pubbliche (questore, edile, pontefice massimo, console) e
l’elaborazione della riforma agraria, Cesare trova anche il tempo di scrivere, e
di diventare uno dei più originali e raffinati scrittori latini. La sua prosa è la più
limpida del mondo antico.
Quando dalla zona nord occidentale dell’impero arriva la minaccia dell’invasione cimbrica e si profila quella dell’irruzione degli elvetici, Cesare si fa assegnare un quinquennio di proconsolato nella Gallia Cisalpina, poi un altro quinquennio in cui si occupa di consolidare le proprie conquiste, passando prima il Reno,
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» Estratto della pubblicazione
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e poi addirittura la Manica, spingendosi fino in Britannia. Nello spazio di pochi
anni, respinti gli elvezi, ricacciati i germani di Ariovisto che avevano occupato
la Gallia oltre il Reno, domate le tribù guerriere della Gallia Belgica, assoggettate l’Aquitania e le regioni occidentali, sconfitti i germani e il gallo Vercingetorige, riuscì a sottomettere tutte le Gallie al dominio di Roma. Di quegli anni
gloriosi restano i sette libri del De Bello Gallico, un capolavoro della letteratura
memorialistica. Le sue descrizioni dei costumi dei «barbari», le sue ricerche
storiche sui popoli da sottomettere, sono condotte per scopi politici e militari:
ciononostante, anni di permanenza in un ambiente completamente diverso, il
contatto diretto e quotidiano con le orgogliose tribù celtiche e germaniche, la
conoscenza approfondita delle loro abitudini e del loro modo di pensare, riempiono il conquistatore di stupore e di ammirazione.
Nel libro VI del De Bello Gallico, Cesare lascia descrizioni sulle terre e i costumi
dei galli e dei germani che ancora oggi fanno testo per stile e per metodo. Pur avvalendosi di letture per informarsi sulle zone che avrebbe visitato (anzi, sicuramente, servendosi di qualunque fonte avesse a disposizione), Cesare fornisce informazioni di prima mano, basate sull’osservazione diretta, riferite in terza persona. E
riconosce il valore del nemico, oltre che in campo militare, anche da un punto di
vista culturale. I barbari non sono poi tanto barbari quando li si conosce a fondo.
2.3 Il funzionario statale: Tacito
Secondo una lettera di Plinio il Giovane, Tacito nacque fra il 55 e il 60 d.C. È
sconosciuto il luogo di origine della famiglia. Fu educato a Roma; professò
l’eloquenza e fu investito di tutte le magistrature fino al consolato. Fu il più
grande storiografo e annalista romano. Ad un certo punto, per ignote ragioni,
lasciò la capitale per diversi anni, per recarsi non si sa bene dove né con quale
funzione: forse come propretore in Germania o nella Gallia Belgica. Il soggiorno fra i germani spiegherebbe la conoscenza approfondita di quei popoli, che lo
spinse a scrivere quella che si può considerare la prima monografia antropologica dell’antichità: il De Germania.
L’argomento del libro esula dal carattere della produzione storiografica tacitiana.
È un piccolo trattato su un popolo straniero, e si presenta come qualcosa di
unico e di singolare. La prima parte parla dei germani in generale, dei confini e
della condizione del paese, della vita pubblica e privata dei suoi abitanti. La
seconda sezione si occupa delle singole stirpi.
14 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Tacito non esprime giudizi negativi sui germani, anzi. Spesso si è considerato il
De Germania come un documento in cui Tacito avesse voluto offrire ai degenerati romani degli esempi di sani costumi: quasi una specie di pamphlet dal
contenuto politico e morale. In realtà, la Germania è «semplicemente» uno studio geografico, etnografico, antropologico di grande precisione e rigore.
2.4 Il mercante: Marco Polo
Marco Polo, nato a Venezia da una famiglia di mercanti nel 1254, compie, prima
col padre Niccolò e con lo zio Matteo, poi da solo, lunghi viaggi in Oriente,
arrivando fino in Cina e in Giappone. Alla corte del Gran Khan, il condottiero
tartaro che era riuscito a conquistare la Cina, ricopre incarichi amministrativi e
diplomatici di primaria importanza, che lo portano a viaggiare da un capo all’altro dell’impero, ad imparare numerose lingue, a conoscere a fondo luoghi e
genti di cui nessuno, in Europa, immaginava l’esistenza. Tornato in patria dopo
ventiquattro anni di assenza, viene fatto prigioniero durante una battaglia e in
carcere detta le sue memorie, che costituiscono Il Milione, suggestivo libro di
viaggi ma anche documento antropologico di eccezionale valore. Le sue descrizioni di nazioni e di città, di riti, tradizioni, modi di vivere e di intendere la vita,
ognuno ugualmente giustificato e giustificabile, tendono a confrontarsi con la
cultura di origine, ponendo gli «infedeli» quanto meno su un piano di parità —
e talvolta di superiorità — con i cristiani. Alla sua epoca ma anche nei secoli
successivi, si conquista un’enorme popolarità, contribuendo in maniera rilevante ad accrescere il patrimonio delle conoscenze geografiche. Tanto che Cristoforo Colombo, in base alle informazioni ricavate dal Milione, quando sbarcò in
America, credette di essere arrivato in Giappone.
Marco Polo percorre quei paesi lontani, ancora favolosi per gli uomini del tempo, cogliendone sì il lato meraviglioso e fiabesco, ma con animo aperto, dotato
di una curiosità inestinguibile per tutti gli aspetti della vita umana, specie per
quelli economici. È sempre pronto a mettere in discussione credenze tradizionali, a sfatare pregiudizi, a riferire quanto ha visto con i suoi occhi così come lo
ha potuto osservare.
L’educazione cristiana che ha ricevuto da bambino non costituisce, per Marco
Polo, uno schermo nella comprensione del diverso. Il tipo di culto praticato da
ciascun popolo è uno degli elementi ricorrenti nelle sue descrizioni. Le quattro
religioni fondamentali dell’universo medioevale (cristianesimo, islamismo,
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» 15
ebraismo, buddismo) sono collocate allo stesso livello, mentre viene sospeso il
giudizio, con una posizione che sfiora l’agnosticismo, su quale sia il vero dio.
La tendenza di Marco Polo è quella di rappresentare il fatto religioso come
fatto magico.
Il centro della sua ricerca è comunque l’uomo, la sua cultura, le civiltà che costruisce. Il Milione descrive la ricchezza: non soltanto quella che si misura nel
diametro delle pietre preziose e nella purezza delle perle, ma specialmente quella che deriva dalla straordinaria diversità umana, dalla capacità di adattarsi
all’ambiente in maniera creativa e produttiva, di sfruttare le sue risorse per riuscire a vivere meglio.
3. Il Rinascimento e la scoperta di umanità «altre»
Il Rinascimento corrisponde alla convalescenza economica, politica e demografica di un’Europa devastata dalla guerra dei Cent’anni e dalla peste nera. Ma
questa «guarigione» si nutre di apporti esterni che digerisce lentamente: viaggi
in paesi lontani, conquista di Costantinopoli nel 1453. Dopo la fuga dei letterati bizantini verso l’Europa meridionale, l’Occidente si scopre incivile. Uomini
come Rabelais, Erasmo, Montaigne pensano che la civiltà si sia degradata, perdendo la memoria dell’antichità classica; da cui l’urgenza di riappropriarsi, attraverso la lettura, della cultura dei grandi uomini del passato: Platone, Aristotele, Plutarco, Seneca. I politici illuminati, da Enrico il Navigatore a Isabella la
Cattolica, da Elisabetta I d’Inghilterra a Francesco I, si appassionano per le innovazioni tecniche che arrivano dal Mediterraneo orientale, come la bussola, il
timone di poppa e la vela triangolare, che permettono alle navi di risalire il
vento e le correnti, tecnica perduta dopo i vichinghi. Il mare si apre alla navigazione oceanica. Dopo essersi lasciati trasportare dagli alisei lungo le coste africane, e più lontano ancora, si saprà anche ritornare.
Nel giro di cinquant’anni, dal 1460 al 1510, le coste dei continenti del pianeta
sono cartografate dagli europei. Vengono scoperte umanità fino ad allora sconosciute, diverse, che pongono dei problemi: sono degli uomini come noi? Possiedono un’anima immortale anche loro? Discendono da Adamo? La genesi della
riflessione antropologica è contemporanea alla scoperta dell’America. Il Rinascimento esplora degli spazi — geografici ma anche mentali — fino ad allora
ancora inimmaginabili, e inizia ad elaborare dei discorsi sugli abitanti dei nuovi
16 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
territori. Purtroppo però l’estrema diversità delle società umane raramente viene
considerata come un dato di fatto, di cui prendere atto: di solito, viene vista come
un’aberrazione nei confronti di una civiltà superiore, che richiede una giustificazione.
Ogni giorno di più si diffondono i racconti dei primi professionisti della comunicazione: i missionari. Si levano voci in difesa delle culture americane, tentando di dimostrare la loro peculiarità e ricchezza. Accanto ad una conversione
imposta dei popoli del Nuovo Mondo, e spesso largamente criticata, trova spazio
anche lo studio della lingua degli indios, in particolar modo del nàhuatl, e dei
loro costumi, fin da subito.
La figura dell’altro, dell’uomo di cui si ignorava l’esistenza, dell’alieno, comincia ad assumere due aspetti: quella dell’antico saggio, dotato di una sapienza e
di un’esperienza arcaica, legata alla natura, molto superiore alla nostra, e quella
del selvaggio semi-umano. Entrambi fanno pesare sull’Occidente il loro sguardo critico e mettono in dubbio i suoi sistemi di riferimento culturale. L’uno
partendo da ragioni filosofiche, l’altro dall’innocenza naturale.
La questione, purtroppo, non era solo culturale, ma prevalentemente politica ed
economica. Se l’altro è semi-umano, a metà fra l’animale e l’uomo, e se oltre ad
essere una specie di bestia adora i demoni, allora può essere usato o eliminato
secondo i bisogni dei più civili e dei più forti. Cosa che puntualmente accadde,
con la riduzione in schiavitù e lo sterminio di milioni di americani, prima, e con
l’etnocidio (che, in molti casi, continua fino ad oggi) poi.
Ma, anche se a livello accademico il dibattito continuò, e gli intellettuali discussero per secoli sulle testimonianze che venivano da oltre oceano, in realtà la
percezione comune dei «popoli nuovi» si formò sulla paura e sul disprezzo.
3.1 Il prete: Bartolomé de Las Casas
Nasce a Siviglia nel 1474, figlio di Pedro de Las Casas, uno degli uomini che
avevano partecipato alla seconda spedizione di Colombo nelle Indie. Dal 1502 è
a Santo Domingo: partecipa alle azioni contro gli indios e comincia a svolgere
attività missionaria. Diventa cappellano militare, ottiene incarichi importanti, ma
nel 1515 rinuncia perché li ritiene incompatibili con la sua missione religiosa. Da
quel momento, si dedica completamente alla difesa e all’evangelizzazione dei
nativi americani, fino alla fine dei suoi giorni. Scrive la Historia de las Indias, in
cui descrive magistralmente i popoli americani, e sostiene vittoriosamente una
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» Estratto della pubblicazione
17
disputa pubblica con Ginès de Sepùlveda, contro il diritto di conquista. Bartolomé de Las Casas è un uomo dell’establishment, un domenicano, non un rivoluzionario. Il suo sforzo di relativizzazione culturale è intenso e sofferto. Ma il
prete cristiano ha viaggiato per anni, ha visto e conosciuto, ha condiviso il destino e tentato di dare un futuro diverso a popolazioni che i re consideravano
solo manodopera a basso costo per le miniere d’oro. Per questo fa affermazioni
che, anche dopo secoli, suscitano scalpore. È un uomo che è andato a vivere in un
universo totalmente diverso dal suo, con compiti assegnati di repressione, conquista, distruzione culturale, con un background personale di provenienza di disprezzo e di senso di superiorità. Però è uno che ha visto, e che è cambiato, schierandosi contro la sua stessa civiltà di origine. Può essere considerato il prototipo
dell’antropologo impegnato in difesa delle minoranze, o dei popoli in via di estinzione. Non perderà mai la speranza (anche contro l’evidenza dei fatti, che davano
ragione agli schiavisti) nella possibilità di un destino diverso per gli indios.
Le sue pagine più belle e più interessanti descrivono i costumi, le consuetudini,
la vita degli indios. Cerca di difendere strenuamente le capacità razionali dei
nativi, giudicati come entità umane, culturali e storiche, e comincia una lenta
rivalutazione dell’indigeno. Mostra le correlazioni che esistono fra ambiente
fisico, organismi viventi — uomini compresi — e sistemi di adattamento culturale alla natura; indaga sull’artigianato, sul commercio, sulle istituzioni religiose, civili, politiche, militari. Certo, questa gente ha «qualche difetto» anche per
il buon frate: è dedita all’antropofagia, ma egli la difende citando Plinio; alla
sodomia, che l’autore spiega ricorrendo a Galeno; ai sacrifici umani, che, del
resto, la Spagna stessa non è immune dal compiere o dall’aver compiuto. Ma le
leggi degli indios, benché diverse dalle sue, sono «molto giuste e buone».
3.2 L’umanista: Michel de Montaigne
Michel de Montaigne nasce in Francia nel 1532. Dall’infanzia, viene educato a
parlare latino, e viene cresciuto nel culto degli Antichi. Figlio di un magistrato,
seguirà le orme del padre, alternando l’assunzione di importanti cariche pubbliche e lo svolgimento di delicati incarichi politici a lunghi soggiorni nel castello
di famiglia per potersi dedicare agli studi e scrivere i Saggi, opera fondamentale della cultura europea, che comincia a mettere in crisi la centralità dell’uomo
rinascimentale. È l’inventore del giro d’Europa, che diventerà presto un’istituzione e una moda etno-filosofica per tutti gli scrittori dei secoli seguenti.
18 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
Montaigne è, prima che filosofo, umanista: prova a realizzare in se stesso l’idea­
le della persona onesta e saggia. Cerca di riscoprire i tratti comuni della condizione umana fra i vari popoli, ma, ribaltando la concezione di fiducioso antropocentrismo del Rinascimento, denuncia la fragilità dell’uomo, alla perenne
ricerca di verità e di certezze che gli sono precluse per i suoi stessi limiti. Accetta una realtà multiforme, magmatica, in cui la verità non esiste; e approda alla
tolleranza: accetta usanze e credenze, leggi e forme di vita non perché vi presti
fede, ma semplicemente perché esistono. I selvaggi non sono superiori né inferiori a noi, sono solo differenti. È uno dei primi intellettuali a rifiutare l’idea di
superiorità della civiltà occidentale ed europea, a favore delle società considerate incivili appena scoperte nel Nuovo Mondo: ecco perché possiamo inserirlo
fra i fondatori dell’antropologia.
Nel 1580, quando escono i Saggi, i contatti con l’America (e la crisi culturale
europea) duravano da quasi un secolo. Anche se l’etnologia come scienza non
era ancora nata, ne esistono già, in Montaigne, alcune problematiche: la confutazione dell’etnocentrismo, la contingenza delle civilizzazioni, l’analisi comparata delle società. Nel Saggio dedicato ai «cannibali», dopo aver difeso gli indios
americani, racconta del suo incontro a Rouen con tre indiani americani, fra i
quali un capo tribù, che, di loro volontà, avevano attraversato l’Atlantico per
visitare l’Europa, ed erano stati ricevuti dal re. Carlo IX li accoglie e mostra loro
la città. In quell’occasione, conduce una vera e propria inchiesta etnografica. Le
interviste e lo scambio di pareri sulle leggi, sui costumi e le tradizioni degli indios,
le loro critiche di fronte alla gioventù del re francese, che comanda persone
tanto più anziane di lui per diritto ereditario, lo stupore davanti al contrasto, per
loro inconcepibile, fra la povertà dei mendicanti e la ricchezza dei notabili, riempiono Montaigne di ammirazione verso i «barbari», per la loro «purezza»,
perché crede che obbediscono ancora alle leggi di natura. È nato il mito del «buon
selvaggio» e l’interesse per i popoli «esotici».
3.3 Il professore: Giovan Battista Vico
Giovan Battista Vico rappresenta uno dei pensatori più originali del periodo
preilluminista. Non lo si può definire un difensore dei popoli extraeuropei o uno
studioso delle culture indigene: anzi, una delle sue maggiori preoccupazioni
riguarda l’esistenza di grandi civiltà del passato, che realizzarono insigni scoperte nelle arti, nella scienza, nella letteratura, dimostrando di sapersi reggere
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» Estratto della pubblicazione
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politicamente senza conoscere l’esistenza del vero Dio. Ma fu il primo ad enunciare la teoria di un passato comune dell’umanità, di evoluzioni parallele di civiltà diverse, e di possibili progressi non lineari, ovvero di regressi («ritorno alla
barbarie»). In altre parole, malgrado la sua formazione cattolica, è uno dei pochi
occidentali che non concepisce la vicenda umana come il necessario cammino
verso il miglioramento e la redenzione finale, ma come qualcosa di molto più
complesso, ancora tutto da studiare e da capire. In quest’ottica, la «scienza nuova» è proprio la storia, che cerca di capire le motivazioni delle azioni dell’essere più complicato e più misterioso di ogni altro: l’uomo.
Vico nasce a Napoli nel 1668. Grammatica, logica, filosofia scolastica, discipline giuridiche sono le basi della sua educazione, come di tutti gli intellettuali del
tempo. Poi trova un posto da precettore, e così riesce ad approfondire gli studi
umanistici e politico-giuridici. Nel 1695 apre uno studio privato di retorica e
ottiene la cattedra di eloquenza all’università. È straordinariamente informato e
conscio della rivoluzione scientifica che sta avvenendo in Francia e in Inghilterra in diversi campi: dalla geografia alla fisica, dalla medicina alla chimica,
dall’astronomia alla geometria. Riesce ad individuare, con sconcertante chiarezza mentale, l’«insufficienza degli umani sforzi» nell’indagare il comportamento
dell’uomo, per eccesso di fiducia nella scienza: fiducia che andrà accrescendosi
nei secoli; divario, fra «sapere umanistico» e «sapere scientifico», ancora ben
lontano dal colmarsi, oggi.
Secondo lui, la storia passa attraverso tre età:
• quella degli dei, in cui in cui si afferma la fantasia e la creazione poetica, e
in cui si crede negli dei;
• quella degli eroi;
• quella degli uomini, in cui trionfa la ragione e l’intelligenza.
I «selvaggi» non sono i depositari di una qualche sapienza arcaica e originaria. Il
loro non è un mondo super-storico, ma pre-storico. In sintesi: non si possono
attribui­re loro le nostre stesse idee, ma comprenderli nella loro realtà così distinta dalla nostra e tanto difficile da decifrare. Il primitivo è assimilato al fanciullo:
le tribù dei nativi rappresentano l’infanzia del genere umano, dominate dall’immaginazione, incapaci di spiritualità e di astrazione, assoggettate ai bisogni del
corpo e dei sensi, governate dalle passioni. Ma si tratta di una fase in cui è passata ogni civiltà, anche la più grande e, soprattutto, la ricaduta nella barbarie è
20 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
un pericolo reale, anzi probabile, per la teoria dei cicli storici, che ogni società
dovrebbe cercare di evitare.
3.4 Il mito del (buon) selvaggio
Dopo il barbaro, il selvaggio: la cultura occidentale rielabora, a partire da diversi
presupposti, la figura dell’altro, del non conosciuto, dell’inconoscibile. Il selvaggio,
a differenza del barbaro, non è più chiunque sta al di fuori dei confini fisici dell’impero: è colui che è depositario di una cultura non paragonabile alla nostra. È diventato qualcosa di più dell’infedele da convertire. I cinesi sono pagani, ma nessuno
oserebbe mai mettere in dubbio la loro civiltà. Anche perché, a parte la religione,
le due società sono confrontabili l’una con l’altra: entrambe sono dotate di uno
stato, di istituzioni, di regole morali e sessuali ben definite. I selvaggi invece sono
definiti e descritti non secondo la presenza di qualità, ma secondo l’assenza: senza
morale, senza religione, senza scrittura, senza legge, senza stato, senza coscienza,
senza ragione, senza scopi, senza arte, senza passato, senza avvenire. Una vera e
propria metafora zoologica, che cerca di scaraventare nel regno animale le tante
tribù di nativi che, grazie all’evoluzione dei sistemi di trasporto e alle conquiste
coloniali, sempre di più venivano in contatto con gli europei, in ogni continente.
Si formano così quei pregiudizi che, nel bene o nel male, impiegheranno secoli per
sparire, e che non sono ancora totalmente cancellati dalla storia della nostra mentalità. E quindi i selvaggi possono essere sintetizzati da queste caratteristiche:
• l’apparenza fisica: vanno in giro nudi, o vestiti di pelli di animale;
• i comportamenti alimentari: mangiano la carne cruda, e spesso sono addirittura cannibali;
• il linguaggio: parlano una lingua incomprensibile.
Ma l’incubo di una natura malvagia in cui vegeta un selvaggio abbrutito è evidentemente suscettibile di capovolgersi nel suo contrario: il sogno di una natura
benigna, che prodiga i suoi doni ad un selvaggio felice. I termini dell’attribuzione restano rigorosamente identici, e anche se cambia il giudizio morale, non per
questo la conoscenza della realtà aumenta. La figura del buon selvaggio non
troverà la sua formulazione più sistematica e radicale se non due secoli dopo il
Rinascimento, con Rousseau, l’Illuminismo e poi il Romanticismo.
Tanto più la società europea, e le sue classi intellettuali e dirigenti, si allontanano da un rapporto quotidiano con l’ambiente, e si urbanizzano in metropoli su
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» 21
cui la rivoluzione industriale incombe, tanto più cresce la nostalgia di una natura incontaminata, non più selva oscura da combattere fra mille pericoli, ma paradiso perduto che dava i suoi frutti senza bisogno di lavorare. Il clima culturale è cambiato, e gran parte del pubblico è infinitamente più disponibile di prima
a lasciarsi persuadere che a società costrette all’astrazione, al calcolo e all’impersonalità dei rapporti umani, se ne contrappongano altre, basate sulla solidarietà comunitaria, cullate dall’abbondanza di una natura generosa. Nasce la
«nostalgia del neolitico», che spingerà tanti antropologi a recarsi negli ultimi
recessi inesplorati del globo.
La parola etnografico (etnographisch) appare per la prima volta nel 1792, dalla
penna dello storico tedesco Schläzer: definiva «un metodo lineare per trattare la
storia particolare (dei popoli)», e suggeriva un sistema di descrizione e classificazione dei popoli analogo a quello di Linneo per le specie animali. In francese,
il termine «ethnologie» si incontra per la prima volta nel 1787, nel libro di Chavannes Saggi sull’educazione naturale col progetto di una scienza nuova. Questa etnologia oscilla fra due modelli: lo studio delle scienze della natura — conoscenza della materia inerte di Newton o Lavoisier, e di quella vivente di
Linneo — e il modello letterario dei racconti di viaggio, dei saggi filosofici o
politici.
La comparsa della parola che cerca di delimitare un campo di studio non è indizio della sua nascita (ciò che noi intendiamo oggi con etnologia è qualcosa di
molto diverso), ma è la dimostrazione di un’esigenza sociale e culturale condivisa: quella di spiegare, in qualche modo, la differenza, l’alterità di alcuni popoli che si sono incontrati sulla terra.
L’immagine che l’Europa si fa dell’alterità (e di conseguenza di se stessa) non
cessa di oscillare fra i due piatti di una bilancia ideale. Alternativamente, si è
pensato che il selvaggio:
• era un mostro, una bestia sotto spoglie umane, a metà strada fra animalità e
umanità; ma anche che eravamo noi i mostri, e che lui poteva darci delle
lezioni di umanità;
• viveva un’esistenza dolorosa e miserabile, o al contrario viveva in uno stato
di beatitudine, appropriandosi senza sforzo dei prodotti della natura, quando
l’Occidente era costretto al duro lavoro nell’industria;
• era lavoratore e coraggioso, o essenzialmente pigro;
22 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
• non aveva anima e non credeva in nessun dio, o era profondamente religioso;
• viveva nel terrore perpetuo del sovrannaturale, o, al contrario, nell’armonia
e nella pace;
• era un anarchico sempre pronto a massacrare i propri simili, o un comunista
deciso a condividere tutto, fino e comprese le sue mogli;
• era straordinariamente bello, o spaventosamente brutto;
• era mosso da un impulso criminale di cui non ci si poteva fidare, o doveva
essere considerato come un bambino bisognoso di protezione;
• era sessualmente un bruto, che conduceva una vita orgiastica di perversione
continua, o un represso, che obbediva strettamente ai tabù e ai divieti imposti dal gruppo;
• era arretrato, stupido e di una brutale semplicità, o profondamente virtuoso
e intelligente;
• era un animale, un vegetale, una cosa, un oggetto senza valore, o rappresentava un’umanità da cui avevamo tutto da imparare.
In effetti, questa alterità fantastica non ha molto a che spartire con il reale. L’altro — l’indiano, il tahitiano, ma anche, più recentemente, il basco, il bretone,
l’alpino, il contadino — è utilizzato come supporto di un immaginario in cui il
luogo di riferimento non è l’America, Tahiti, i Paesi Baschi, la Bretagna, o le
Alpi. I selvaggi costituiscono degli oggetti-pretesto che possono essere utilizzati in vista dello sfruttamento economico, della conversione religiosa, dell’emozione espressione delle proprie speranze. Osservando gli altri, e cercando di
descriverli, secondo un’ideologia piuttosto che un’altra, non si capisce come
sono veramente, e come vivono. In compenso emergono i sogni, le paure, le
idiosincrasie della società europea occidentale, che cerca di rifiutare il diverso
per pau­ra, in nome della propria superiorità, o di esaltarlo per poter credere
nell’esistenza di una società in cui gli uomini non sono corrotti dalla civiltà.
D’altra parte, in questo periodo, attraverso l’osservazione diretta di una comunità, o la riflessione a distanza su un gruppo umano, gli intellettuali meno ortodossi cominciano, molto timidamente, a gettare le basi se non di una scienza
antropologica, quanto meno di un sapere antropologico.
Capitolo 1 - Barbari selvaggi, primitivi: le «società di interesse etnografico» Estratto della pubblicazione
23
I Germani di Tacito: una società matrifocale
Tacito si stupisce perché i Germani lasciano qualsiasi loro affare alle loro donne: amministrazione del patrimonio, conduzione dell’azienda di famiglia, gran parte delle professioni a
parte alcune, molto specifiche; e poi tutte le decisioni importanti. I maschi, quando non sono
in battaglia, passano la giornata in stato semi catatonico, ad oziare, lasciando fare ogni cosa
alle mogli, fidandosi ciecamente di loro senza controllarle né preoccuparsi di ciò che fanno.
La religione, poi, è matriarcale; sono le donne che gestiscono il rapporto col divino e interpretano i presagi. Si tratta della descrizione di un sistema sociale matrilineare tipico di una
società guerriera, come quella irochese per esempio, dove la figura importante in famiglia
non è il padre, ma il fratello della madre (1).
Non hanno fretta di far sposare le ragazze; esse hanno lo stesso vigore giovanile dei maschi,
e simile la statura: prendono marito quando hanno la medesima prestanza e robustezza del
loro compagno, e i figli rinnovano la forza dei genitori. Lo zio materno onora come un padre
i figli delle sorelle. Ritengono anzi che nelle donne vi sia qualcosa di inviolabile e di provvidenziale, non osano sottovalutare i loro consigli o trascurare i loro responsi. Abbiamo visto
sotto l’impero del divo Vespasiano Veleda, a lungo ritenuta dea da parecchie persone; ma
anche un tempo venerarono Albruna e parecchie altre donne, non per adulazione tanto meno
per farne delle dee (2).
È difficile credere che le donne dei Germani non combattessero: è significativo il fatto che i
fidanzati si scambino doni fra i quali i più apprezzati consistono appunto in armi, dei quali
entrambi devono essere degni; armi che poi vengono passate alle nuore, quindi in linea femminile; e che una donna non pensi di essere estranea alla guerra! È quanto meno improbabile che gentili fanciulle che come dono di nozze si scambiassero spade daghe e lance con la
suocera, oltre che farne e riceverne come pegno d’amore, poi non toccassero e non fossero
allenate ad usarle… È anche comprensibile come tali mariti si accontentassero di una sola
moglie…. (3).
Sono soddisfatti di una sola moglie, ad eccezione di pochissimi. Non è la moglie a portare
la dote al marito, bensì il contrario. Intervengono i genitori e i parenti e valutano i doni,
scelti non per soddisfare i piaceri femminili o affinché la novella sposa se ne adorni, ma che
consistono in buoi, in un cavallo bardato, in uno scudo con framea e spada. In cambio di
questi doni si riceve la moglie, che, a sua volta, porta qualche arma al marito: questo è il
legame più solido, questo l’antico rito, queste le divinità nuziali. E affinché la donna non si
ritenga estranea ai pensieri di gloria militare o esente dai pericoli della guerra, quando si
celebra il matrimonio le viene ricordato che viene come compagna nelle fatiche e nei pericoli, per subire e affrontare la stessa sorte, così in pace come in guerra. Questo significano
i buoi aggiogati, questo il cavallo bardato, questo il dono delle armi. Così deve vivere, così
morire: sappia di ricevere armi che dovrà consegnerà inviolate e degne ai figli, che le nuore
riceveranno a loro volta, per trasmetterle ai nipoti (4).
24 Parte Prima - Storia di una disciplina relativamente giovane
Estratto della pubblicazione
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