IMPUGNAZIONE DEL TESTAMENTO OLOGRAFO: LA “TERZA VIA” DELLE SEZIONI UNITE.
Nota a Cass. civ., Sez. Unite, 15 giugno 2015, n. 12307
DI MASSIMO TERESI1
SOMMARIO: 1. Il fatto processuale. 2. La contestazione dell’autenticità del testamento olografo tra querela di falso e
disconoscimento di scrittura proveniente da “terzo”. 3. Una impervia “terza via”. 4. L’effetto dell’arresto della
sentenza delle Sezioni Unite nei giudizi pendenti.
1.Il fatto processuale.
Deceduto Tizio, la vedova Caia ne faceva pubblicare il testamento olografo con il quale le veniva
attribuito l'intero patrimonio. Gli altri quattro eredi, premesso che il defunto era caduto in stato di
incoscienza dal momento in cui era stato colto da ictus e sino al decesso, convenivano in giudizio
Caia impugnando il testamento, a loro dire falso per difetto di autenticità; pertanto, essi invocavano
il riconoscimento della loro qualità di eredi e l’attribuzione dei beni del de cuius, la declaratoria di
indegnità della vedova e la condanna della medesima alla restituzione dei frutti percepiti,
deducendo infine che appariva che le disposizioni testamentarie contenessero, al più, la
manifestazione della volontà del defunto di voler assegnare alla consorte il solo usufrutto dei beni
ereditari, competendo ad essi attori la nuda proprietà.
Rigettata la domanda in primo grado, sull'assunto che il testamento olografo disconosciuto dagli
attori sarebbe stato impugnabile soltanto con querela di falso e che tale mezzo, pur ritualmente
proposto, era rimasto sfornito di prova, gli eredi pretermessi interponevano l'appello, in
concomitanza con la proposizione di un autonomo giudizio per querela di falso.
Sia il giudice del gravame sia quello della querela accoglievano le istanze degli eredi esclusi, ma
mentre la sentenza di appello sulla querela di falso veniva poi annullata in cassazione, a causa di
un difetto di contraddittorio, senza che le parti riassumessero poi il processo, il giudizio di appello
avverso la sentenza del giudizio “principale”, rilevata la mancata impugnazione in parte qua della
sentenza di primo grado affermativa della necessità della querela, e constatato che il separato
processo per querela di falso si era estinto per mancata riassunzione, terminava con il rigetto del
gravame.
Avverso questa ultima sentenza proponevano due autonomi ricorsi per cassazione gli eredi esclusi
lamentando, da un lato, la violazione e falsa applicazione degli artt. 214 e ss. e 221 c.p.c. e ss.,
sostenendo che per contestare la genuinità del testamento olografo sarebbero stati ammissibili sia
la querela di falso sia il disconoscimento della scrittura privata, seguito dalla verificazione,
dall’altro, chiedendo la conferma del principio di diritto secondo il quale il testamento olografo
può essere disconosciuto, ex art. 214 c.p.c. ss. dall'erede legittimo che ne contesti l'autenticità e
che l'onere della proposizione dell'istanza di verificazione incombe su chi vanti diritti in forza di
esso.
1
AVVOCATO
DOTTORE DI RICERCA IN DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
1
La seconda sezione della Suprema Corte, con ordinanza n. 28586 del 20 dicembre 2013, investita
dei ricorsi riuniti, e con riguardo al comune motivo relativo allo strumento processuale utilizzabile
per contestare l'autenticità del testamento olografo, rimetteva gli atti al Primo Presidente, il quale
li trasmetteva a sua volta alle Sezioni Unite, ritenendo opportuna la risoluzione del contrasto2.
Invero, nell’ordinanza di rimessione si ricorda anche che le stesse Sezioni Unite, con la sentenza
n. 15169 del 23 giugno 2010, chiamate a dirimere altro contrasto circa i modi di contestazione
delle scritture private provenienti da terzi estranei alla lite, in un obiter dictum, avevano indicato
nella querela di falso lo strumento processuale idoneo a privare di efficacia il testamento olografo3;
tuttavia, proprio l’allocazione del principio all’interno di un obiter dictum impediva il superamento
della cennata contrapposizione.
2.La contestazione dell’autenticità del testamento olografo tra querela di falso e
disconoscimento di scrittura proveniente da “terzo”.
E’ noto che in subiecta materia, si sono negli anni fronteggiati due orientamenti.
a)Secondo un primo indirizzo, il testamento olografo, nonostante i requisiti di forma di cui all'art.
602 c.c., resterebbe ontologicamente una “scrittura privata”, sicché è sufficiente che colui contro
il quale sia prodotto non riconosca la scrittura, da ciò derivando l'onere della parte, che alla
efficacia di quella scheda abbia invece interesse in quanto fonte della delazione ereditaria,
dimostrarne la genuinità, gravando su tale parte anche l'onere probatorio finalizzato alla
dimostrazione della qualità di erede; nessuna rilevanza può attribuirsi, in quest’ottica, alla
posizione processuale assunta nel caso specifico dalle parti, essendo irrilevante che la falsità del
documento sia fatta valere in via principale dall'erede legittimo che abbia proposto l'azione, ovvero
se la scheda testamentaria sia stata disconosciuta da costui nell’ambito di un giudizio introdotto
dall’erede testamentario ai fini del riconoscimento dei propri diritti derivanti dal testamento4.
Nel solco della giurisprudenza favorevole allo strumento processuale della verificazione, dunque,
non si esclude tout court il ricorso alla querela di falso, riconoscendone la alternatività, o meglio
la diversa funzione, degli strumenti processuali5, ma si sottolinea la ininfluenza sull'onere
Questi i termini della “richiesta” alle Sezioni Unite: “dica la Corte se all’erede legittimo deve ritenersi consentita la
facoltà di disconoscere, ai sensi e per gli effetti degli artt. 214 e ss. c.p.c., il testamento olografo fatto valere contro
di lui, e se tale disconoscimento può essere esercitato anche in sede di azione di petitio hereditatis, nel corso della
quale l’erede legittimo esplicitamente contesti l’autenticità del predetto testamento; dica la Corte se merita conferma
il principio di diritto secondo il quale il testamento olografo può essere disconosciuto ex artt. 214 e segg. c.p.c.
dall’erede legittimo che disconosca l’autenticità del testamento e che l’onere della proposizione dell’istanza di
verificazione del documento contestato incombe su chi vanti diritti in forza di esso”.
2
3
Intervenendo sul contrasto relativo ai modi di contestazione delle scritture provenienti da terzi, la pronuncia ne
attribuisce l'efficacia di “prove atipiche”, potendo essere liberamente contestate dalle parti; la Suprema Corte nega,
però, che il testamento olografo possa annoverarsi in tale categoria, stante la incidenza sostanziale e processuale
intrinsecamente elevata ad esso riconosciuta.
4
La tesi che, ascrivendo il testamento olografo tra le scritture private, considera bastevole il disconoscimento della
parte contro la quale è prodotto perché chi vanti diritti su di esso debba avanzare istanza di verificazione, come
ricordano le stesse Sezioni Unite, trova un risalente precedente nella pronuncia n. 3371 del 16 ottobre 1975: la querela
di falso si renderebbe necessaria solo quando la scrittura abbia acquistato l'efficacia di piena prova ex art. 2702 c.c.
(per riconoscimento tacito o presunto), o all'esito del procedimento di verificazione.
5
Cass., 22 aprile 1994, n. 3883.
2
probatorio della posizione processuale assunta dalle parti stesse in quanto esso onere ricadrebbe
sempre sulla parte che dal testamento voglia trarre giovamento e che a tal fine propone l'istanza di
verificazione, salva la diversa opzione eletta dalla controparte di promuovere la querela di falso6.
Anche in tempi più recenti la giurisprudenza7 ha confermato che, essendo la querela di falso ed il
disconoscimento/verificazione istituti preordinati a finalità diverse, il testamento olografo non
perderebbe la sua natura di scrittura privata per il fatto di dover rispondere ai requisiti di forma
imposti dalla legge, siccome esso trae la sua efficacia dal riconoscimento, espresso o tacito, che
compia il soggetto contro il quale la scrittura è prodotta: quest'ultimo, per impedire tale effetto e
contestare l'intera scheda testamentaria deve proporre il disconoscimento, che comporta a carico
della controparte l'onere di dimostrare, in contrario, che la scrittura non è stata contraffatta e
proviene effettivamente dal suo autore apparente.
b) Il contrapposto orientamento, pur non giungendo ad attribuire al testamento olografo la qualifica
di “atto pubblico”, partendo dalla elevata rilevanza sostanziale, e conseguentemente processuale,
del documento in parola ne inferisce che la contestazione della sua autenticità si risolve in
un'eccezione di falso innestabile nel processo civile esclusivamente nelle forme di cui all'art. 221
ss. c.p.c. , con onere probatorio a carico della parte che in tal guisa contesti la genuinità della
scheda.
Anche tale filone ha origini risalenti8 ed argomenta anzitutto dal fatto che il disconoscimento può
provenire soltanto da chi sia autore dello scritto o da un suo erede. Già in precedenza, peraltro, si
era affermato che il principio di cui all'art. 2702 c.c. (il quale disciplina l'efficacia in giudizio della
scrittura privata riconosciuta o presupposta tale) e la procedura di disconoscimento e di
verificazione ex art. 214 ss. c.p.c. , sono istituti applicabili alle sole scritture provenienti dalle parti
del processo e alla ipotesi di negazione della propria scrittura o della propria firma da parte di quel
soggetto contro il quale sia stato prodotto lo scritto9: l’erede legittimo che contesta l'autenticità
della scheda olografa deve ritenersi perciò estraneo alla “scrittura” testamentaria, per cui non
legittimato alle modalità descritte dall'art. 214, comma 2, c.p.c.. 10
Nella già ricordata sentenza delle SS.UU. n. 15169 del 2010 la Suprema Corte distingueva,
nell’ambito dell’ampia categoria delle scritture provenienti da terzi, due sottocategorie: la prima,
contenente la generalità delle scritture, a efficacia probatoria limitata, la seconda, comprensiva di
atti di particolare incisività perché essi stessi titolo esecutivo del diritto fatto valere, a valenza
sostanziale e processuale "particolarmente pregnante", per la contestazione di ciascuna delle quali
viene indicava un distinto strumento processuale.
6
Cass., 12 aprile 2005, n. 7475; Cass., 11 novembre 2008, n. 26943.
Cass., 23 dicembre 2011, n. 28637.
8
Cass., 3 agosto 1968, n. 2793.
9
Cass., 18 marzo 1966, n. 766; più di recente Cass., 30 ottobre 2003, n. 16362.
10
Anche Cass., 28 maggio 1971, n. 1599, concludeva per la legittimità del solo disconoscimento, ma in ragione della
qualifica di “erede” attribuita alla parte che in quel giudizio specifico contestava un testamento olografo: l'erede
istituito col testamento, agendo con la petitio heraeditatis in quanto investito di un titolo di legittimazione fino al
momento in cui non ne sia dichiarata giudizialmente la caducazione, conserva tale veste anche nei confronti di altro
soggetto che pretenda avere diritto alla eredità in base a successiva disposizione testamentaria, essendo perciò
legittimato a contestare l'efficacia del testamento posteriore mediante il mero disconoscimento, senza necessità di
proporre querela.
7
3
Con la pronuncia da ultimo richiamata l'attenzione della giurisprudenza di legittimità, come si
nota, inizia a spostarsi dal rapporto tra scrittura e soggetto (terzo) contro cui è prodotta, al valore
intrinseco del documento11.
c) Infine, le Sezioni Unite ricordano, nella decisione del 2015 in commento, il pronunciamento
risalente al 1951 (15 giugno), n. 1545, in cui la S.C., premessa la legittimità della proposizione di
un'azione di accertamento negativo circa la provenienza delle scritture private e del testamento
olografo, aveva affermato che l'onere della prova spetta all'attore che chieda di accertare
l‘alterazione del documento.
Tale ultima è la tesi infine accolta dalle Sezioni Unite: le aporie cui giungono entrambe le soluzioni
fin qui contesesi il campo sarebbero irrisolvibili e, pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto di dover
accogliere una “terza via”, ovvero la necessità della proposizione di un’azione di accertamento
negativo che ponga una quaestio nullitatis (o meglio quaestio inexistentiae) in seno al processo.
Ciò consente, secondo la pronuncia in esame, da un lato, di mantenere il testamento olografo tra
le scritture private; dall'altro, di evitare la necessità di escogitare un criterio che consenta una
distinzione nell’ambito della categoria delle scritture private la cui valenza probatoria risulterebbe
di incidenza sostanziale e processuale da richiedere la querela di falso, non potendo per esse
parlarsi di “prove atipiche”; dall'altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto
caratterizzato da tale peculiarità renda “troppo gravosa la posizione processuale dell'attore che si
professa erede”, addossandogli l'intero onere probatorio; infine, di evitare che la soluzione della
controversia nel merito sia eccessivamente rallentata dalla querela di falso, consentendo invece di
pervenire ad una soluzione “tutta interna al processo”.
Viene, pertanto, affermato il seguente principio di diritto: “La parte che contesti l'autenticità del
testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della
scrittura, e l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento
negativo, grava sulla parte stessa”.
3.Una impervia “terza via”.
E’ innegabile che la particolare funzione del testamento olografo abbia generato, e a volte
alimentato, le insonnie degli interpreti sotto l’aspetto della relativa impugnazione per falsità.
Si cercherà di capire, nel presente paragrafo, se nonostante la difficile coabitazione di siffatto
documento con le regole del processo civile fosse necessaria la via, davvero “a sorpresa”,
escogitata dalle Sezioni Unite per sbrogliare la attorcigliata matassa.
E’ noto che uno degli argomenti più frequentemente a sostegno della tesi della necessità della
querela fa leva sul valore sostanziale intrinsecamente elevato del testamento olografo; di qui, uno
degli ultimi approdi giurisprudenziali sul tema aveva suscitato (a ragione) critiche nella parte in
cui aveva introdotto una distinzione tra “scritture e scritture” (provenienti da terzi), in quanto tale
distinzione, oltre a mischiare il piano processuale e quello sostanziale, generando confusione tra il
contenuto del documento e lo strumento processuale funzionale al suo
riconoscimento/disconoscimento in giudizio, non garantisce un solido fondamento normativo e,
11
Della necessità della querela trovasi recente conferma nella pronuncia in Cass., 24 maggio 2012, n. 8272.
4
per attribuire a tali documenti un regime giuridico "rafforzato", avrebbe dovuto, invece, rinvenirsi
nel sistema un’esplicita copertura.
L’assenza di copertura normativa aveva, quindi, indotto perplessità nelle stesse Sezioni Unite, se
è vero che tra le motivazioni a sostegno della “terza via” oggi imboccata vi era quella per la quale
tra i suoi effetti (positivi) poteva annoverarsi l’ “evitare la necessità di individuare un (assai
problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture
private[…]”.
Orbene, se questo è vero, è altresì vero che, se si tengono a mente le categorie generali si ricorda
che l’azione di accertamento mero sia volta, regolarmente, alla declaratoria di esistenza (o
inesistenza) di diritti o di status, mentre in tal caso essa sarebbe tesa a dare certezza circa un fatto
(la provenienza della sottoscrizione); se è vero, allora, che le ipotesi tassative in cui l’ordinamento
processuale ammette la giurisdizione di accertamento su meri fatti siano proprio i procedimenti
descritti dagli artt. 221 ss. e 216 ss. c.p.c.12, se ne dovrebbe trarre che una “nuova” ipotesi di tutela
cognitiva su “fatti” dovrebbe essere riconosciuta da un’espressa previsione normativa.
L'indirizzo favorevole al semplice disconoscimento della scheda testamentaria si è da sempre
scontrato con due obiezioni principali.
La prima di esse prendeva di mira il rapporto tra autore del testamento e parti in causa, poiché il
testamento proviene, si è detto, pur sempre da un terzo rispetto alle parti del processo, perciò solo
esulando, secondo i sostenitori della querela di falso, dalla fattispecie di cui all’art. 214 c.p.c.: il
disconoscimento di una scrittura, si dice, non può provenire da terzi, poiché tale strumento è
riservato alle parti contro cui il documento è rivolto, e agli eredi o aventi causa, che possono
limitarsi a non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del suo autore. La fattispecie in esame si
riferirebbe, invece, ad una scrittura del de cuius prodotta contro gli eredi a fondamento di una
pretesa eccepita nei loro riguardi, mentre, prodotto il testamento, deve escludersi che chi lo contesti
possa qualificarsi, sic et simpliciter, erede, poiché detta qualifica in capo ai parenti che lo
impugnano richiede la dimostrazione della falsità del testamento: per il successibile ex lege non
residuerebbe, dunque, che lo strumento della querela di falso.
L’obiezione non pare dirimente, non tanto perché la scheda olografa, pur materialmente
proveniente da chi non è “parte” del processo, è caratterizzata da una sua così specifica peculiarità
che la posizione di “parte” del destinatario della attribuzione deriva dalla devoluzione ereditaria,
comportando che essa scheda comunque non possa considerarsi una scrittura di terzo “estraneo”
(tout court) alla lite, ma piuttosto perché la norma non richiede, ai fini della legittimazione al
rimedio processuale, che la qualità di "terzo" ivi indicata sia stata oggetto di previo accertamento.
Ben potrebbe darsi, d’altronde, che il testamento, di cui si controverta, non disponga affatto di
tutte le sostanze del de cuius, con la conseguenza che la qualità di erede (legittimo, o testamentario
in forza di precedente testamento) non sia in contestazione, o sia stata già oggetto di accertamento
aliunde.
Di fatto, poi, la contestazione della provenienza e/o autenticità del testamento olografo, come
ricordano le stesse Sezioni Unite nella pronuncia in commento, è spesso proposta proprio da chi,
pur beneficiando di una quota inferiore a quella spettantegli, è comunque anche erede
La ragione è intuibile, in quanto l’accertamento della genuinità o della falsità del documento ha indirette
ripercussioni sui rapporti giuridici che in esso trovano la propria base sostanziale.
12
5
testamentario, cosicché “nei suoi confronti non potrebbe porsi alcuna questione di accertamento
della sua qualità di erede”.
A conforto, infine, si ricordi che la stessa giurisprudenza ha avuto modo, in altre occasioni, di
ammettere colui il quale sia istituito erede in forza di precedente testamento alla dichiarazione di
“non conoscere" ai sensi dell'art. 214, comma 2, c.p.c., un successivo testamento invocato nei suoi
confronti13.
Condivisibile, invece, quanto osservato dalla Suprema Corte circa la non decisività della indagine
circa il rapporto tra successione legittima e successione testamentaria. Si è affermato, in tema, che
l'art. 457, comma 2, c.c.14, attribuirebbe alle norme sul testamento valenza dispositiva, a fronte di
quella suppletiva della legittima: questa preminenza inciderebbe sulla ripartizione dell'onere
probatorio nel processo, perché la contestazione del testamento olografo si traduce in una azione
di accertamento negativo quando, a fronte della "posizione consolidata" attribuita dal testamento
all'erede vocato, chi voglia impugnarlo avrebbe l'onere di dimostrare la falsità della provenienza o
la insussistenza dei requisiti di validità, in ossequio all'art. 2697 c.c..
In verità, a prescindere dal fatto che dal dato normativo sostanziale non è ricavabile in maniera
inequivocabile quanto da esso si pretenderebbe far discendere, in ogni caso, se anche fosse in
astratto configurabile tale rapporto tra regola ed eccezione, ciò non potrebbe avere le implicazioni
processuali che, da parte dei fautori della tesi della querela di falso, si auspicano in punto di scelta
(obbligata) del mezzo idoneo ad infirmare l’autenticità della scheda e, in via mediata, del relativo
riparto probatorio15. A monte, peraltro, come ricorda la Suprema Corte nella sentenza in
commento, la presunta preminenza della successione testamentaria è contestata, sino ad invertirne
il rapporto con quella legittima, finendo con l’attribuire a quest'ultima funzione primaria,
residuando alla vocazione testamentaria un carattere soltanto suppletivo: di qui, la legittimità del
(solo) disconoscimento della scheda testamentaria.
Che, poi, la falsificazione della scheda olografa, nel diritto penale, sia equiparata, quoad poenam,
al medesimo reato avente ad oggetto gli atti pubblici, secondo quanto previsto dall'art. 491 c.p.,
mentre la stessa condotta criminosa, a differenza che per le scritture private, è perseguibile d'ufficio
ai sensi del successivo art. 493 bis, non pare possedere carica persuasiva tale da superare la mera
suggestione, giacché del valore intrinsecamente elevato, sul piano sostanziale, del testamento
rispetto alle “altre” scritture nessun dubita, ed è tale caratteristica, il cui vulnus genera anche un
sensibile allarme sociale, ad aver determinato una disciplina penalistica peculiare.
13
Cass. 5 luglio 1979, n. 3849; Cass. 6 aprile 1962, n. 724, in Foro it., 1962, 1, 2118; Cass. 3 agosto 1968, n. 2793.
In dottrina, si veda BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia e le successioni, Milano, 2005, 757.
14
“Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria”.
Le stesse Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, osservano che “Il percorso interpretativo che la caratterizza
appare altrettanto impervio, e conduce a risultati assai poco certi, alla luce dei rilievi sollevati dai fautori dell'indirizzo
favorevole al disconoscimento, i quali sottolineano come nella specie non si controverta sul valore della fonte della
successione (legale o testamentaria, che resta il thema probandum), ma sullo strumento probatorio utilizzabile per
dare ingresso nel processo al documento stesso”.
15
6
Se è vero, come affermato dalla Suprema Corte con un arresto recente 16, che il disconoscimento
non preclude il successivo esperimento della querela, laddove la scrittura sia da considerarsi
riconosciuta, disconoscimento e querela di falso potrebbero allora considerarsi strumentali al
perseguimento di effetti diversi, entrambi legittimamente auspicabili dalle parti: mentre, infatti, il
disconoscimento mira ad impedire che la scrittura acquisisca valore di prova privilegiata nello
specifico procedimento in cui viene effettuato, con conseguente efficacia inter partes, la querela
di falso ambisce ad un effetto più ampio e definitivo17, ovvero quello della negazione della
genuinità del documento e, quindi, della completa rimozione del suo valore probatorio con effetti
erga omnes, estendendo l’accertamento all'intero testo.
Lo scioglimento dell’eterno dualismo di cui si è detto potrebbe allora non stare nella opzione
esclusiva per l'uno o l'altro dei rimedi, ma nell’offrire soluzioni variabili a seconda dell'interesse
perseguito dalla parte contro cui il documento venga prodotto, quando la contestazione riguardi
l'autografia, e dunque la provenienza dal de cuius: fermo restando, infatti, che la querela di falso
sarà esperita quando sussista l'esigenza di inficiare l’attendibilità dell’intero testo, con efficacia
dell’accertamento spendibile erga omnes, non può escludersi che l'erede, contro cui il testamento
olografo sia stato prodotto, ritenga bastevole il disconoscimento18.
L’ottica funzionale del mezzo processuale rispetto allo scopo, che si è cercato di valorizzare,
potrebbe spiegare anche la presunta “inadeguatezza” del disconoscimento del testamento,
trovandosi il documento in deposito presso un notaio per la pubblicazione (art. 620 c.c.), mentre
per la querela di falso l'art. 224 c.p.c. prevede il sequestro del documento quale misura più elevata
per la sua custodia quando è tenuto presso un depositario: l’uso di forme procedimentali diverse
troverebbe conforto nella prospettiva delle differenti utilità che da essi la parte voglia trarre.
Pertanto, anche alla luce del principio di “salvaguardia dell'unità e della stabilità
dell'interpretazione giurisprudenziale (massimamente di quella del giudice di legittimità e, in essa,
di quella delle Sezioni Unite)”, ormai da considerare alla stregua di un “criterio legale di
16
Cass. 23 dicembre 2014, n. 27353, in Pluris: la Corte afferma, peraltro, che il riconoscimento di cui all'art. 214
c.p.c. non potrebbe che riguardare la sola sottoscrizione del testamento olografo, e non quindi il suo contenuto, mentre
la querela di falso consente anche di contestare quest'ultimo; Trib. Catania 19 giugno 2012, in Corriere merito, 2012,
12,, 1106 ss., con nota di SGOBBO; Cass., 23 dicembre 2003, n. 19727; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 14 ottobre
2010.
17
MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2000, 218. Si è ritenuto, pertanto, in via generale, che
l'avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della verità del documento, all'esito del giudizio di
verificazione, non sempre costituisca una preclusione alla proponibilità della querela di falso, come nel caso in cui la
verificazione abbia avuto ad oggetto la falsità della sola sottoscrizione e la querela abbia, invece, ad oggetto la falsità
del testo della scrittura (in termini generali VERDE, Diritto processuale civile, 2. Processo di cognizione, Bologna,
2015, 89), ovvero nel caso in cui l'impugnativa di falso verta su fatti successivi al giudizio di verificazione
(MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, cit., 219). In giurisprudenza v. Cass. n. 3880 del 18 giugno 1980,
ove si legge che la querela postula l'esistenza di una scrittura riconosciuta, mentre il disconoscimento, investendo la
provenienza stessa del documento, mira a impedire che la scrittura medesima acquisti efficacia probatoria, con la
conseguenza che chi contesti l'autenticità della sottoscrizione, onde impedire che all'apparente sottoscrittore di essa
venga imputata la dichiarazione nella sua totalità, deve disconoscere la sottoscrizione e non già proporre la querela
di falso, mentre, allorché sia accertata l'autenticità della sottoscrizione, chi voglia contestarne la provenienza ha
l'onere di proporre la querela di falso.
18
Nel caso in cui, ad esempio, non vi siano controinteressati, una sentenza di accertamento della successione
legittima, previo esito negativo della verificazione, sarebbe integralmente satisfattiva per la posizione dell’erede
legittimo, apparendo in tal caso sostanzialmente infruttuoso, e dunque inutilmente gravoso, porre a suo carico l’onere
di promuovere il subprocedimento incidentale di querela di falso.
7
interpretazione delle norme giuridiche”19, si ha la sensazione che la nuova “via” su cui si è
incamminata la Suprema Corte non sia meno irta di quelle in precedenza battute.
4. L’effetto dell’arresto della sentenza delle Sezioni Unite nei giudizi pendenti.
Al di là delle critiche che possono muoversi contro la sentenza in commento, è indubitabile che
con essa bisogna allo stato fare i conti e domandarsi, dunque, quale sia la sorte di quei giudizi nei
quali le parti, facendo affidamento su uno dei due orientamenti giurisprudenziali applicati
precedente all’ultima “virata”, abbiano proposto, ex parte eredi legittimi, il mero disconoscimento
della scheda olografa, onerando quelli testamentari della prova della genuinità del documento a
mezzo della verificazione ex art. 216 c.p.c., ovvero la querela di falso.
Vanno, dunque, esaminate le posizioni processuali alla luce del nuovo orientamento inaugurato
dalla Suprema Corte, principalmente sotto l’aspetto della eventuale decadenza dal far valere in
giudizio il proprio diritto, quando esso sia in qualche modo connesso con l’accertamento
dell’autenticità della scheda testamentaria.
A)Immaginiamo, allora, che l’erede legittimo, fidando nella opzione ermeneutica che predicava la
sufficienza del proprio disconoscimento per far sì che l’onere dell’accertamento nel(l’eventuale)
subprocedimento di verificazione ricadesse su chi avesse aspirato alla qualifica di erede in forza
del testamento olografo, avesse per l’appunto dichiarato di non riconoscere la scrittura o la
sottoscrizione del de cuius; a questo punto, la casistica si biforca, potendo immaginarsi a1) che
l’erede (o presunto tale) testamentario abbia proposto l’istanza di verificazione (aderendo, in
buona sostanza, all’opzione interpretativa della controparte) ovvero, a2) ritenendo inefficace il
disconoscimento, in adesione alla opposta tesi della necessità della querela di falso, abbia lasciato
spirare il termine20 per la proposizione dell’istanza di verificazione21.
19
Cass., Sez. Unite, Ord., 6 novembre 2014, n. 23675. La Corte prosegue osservando che per derogare a tale principio
“occorre […] che vi siano buone ragioni. E, quando si tratta di interpretazione delle norme processuali, occorre che
vi siano ottime ragioni, come insegna il "travaglio" che ha caratterizzato negli ultimi anni l'evoluzione
giurisprudenziale di queste Sezioni Unite civili con riguardo all'overruling in materia di interpretazione di norme
processuali, posto che, soprattutto in tale ambito, la "conoscenza" delle regole (quindi, a monte, l'affidabilità,
prevedibilità ed uniformità della relativa interpretazione) costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra
i cittadini e di "giustizia" del processo medesimo”. E proseguendo: “Un overruling delle sezioni unite in materia
processuale può, pertanto, essere giustificato solo quando l'interpretazione fornita dal precedente in materia risulti
manifestamente arbitraria e pretestuosa e/o comunque dia luogo […] a risultati disfunzionali, irrazionali o ‘ingiusti’".
20
In relazione ai termini per la proposizione dell'istanza di verificazione, l'orientamento non è uniforme. Secondo la
giurisprudenza più recente l’istanza è proponibile entro il termine perentorio previsto per tutte le altre istanze
istruttorie delle parti (Cass., 2 agosto 2011, n. 16915, in Giust. Civ., 2012, 6, 1545; Cass., 7 febbraio 2005, n. 2411;
nello stesso senso, in giurisprudenza di merito, Trib. Trento 4 febbraio 2010; Trib. Milano 20 febbraio 2003). Il
dibattito si è sviluppato anche in dottrina: nel primo senso, sul presupposto che si tratti di un accertamento non
autonomo, alcuni autori hanno così motivato l'applicabilità delle preclusioni istruttorie di cui all'art. 184 c.p.c.,
considerando esperibile la verificazione fin quando è possibile la produzione del documento (DENTI, Verificazione
della scrittura privata, in NN.D.I., XX, Torino, 1975, 673); nel secondo senso, invece, altri autori, sul presupposto
che l'istanza di verificazione non si identifichi con la mera proposizione di un mezzo di prova in senso tecnico, ne
hanno giustificato la sottrazione agli effetti impeditivi di qualsiasi anteriore preclusione (COMOGLIO, Le prove civili,
Torino, 2004, 342).
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Non in tal modo manifestando una volontà di non avvalersi del documento come mezzo di prova (come è in genere
nel caso di mancata verificazione: Cass., 16 febbraio 2012, n. 2220, in Foro it., 2012, 6, 1808; Cass., 2 agosto 2011,
n. 16915, in Giust. Civ., 2012, 6, 1545), ma proprio perché abbia valutato la infruttuosità del mero disconoscimento
effettuato dalla controparte.
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B)L’altro caso potrebbe invece vedere l’erede testamentario convenuto nel procedimento
(incidentale o principale) di querela di falso promosso dall’erede legittimo, il quale contesti la
genuinità della scheda in forza della quale il primo abbia preteso la delazione.
Orbene, l’ipotesi più semplice da risolvere sembrerebbe essere proprio quest’ultima, in quanto l’
”in sé” della querela di falso, sia pur rientrante nell’ambito dei processi cd. “a contenuto
oggettivo”22, è in ogni caso la richiesta di un accertamento negativo della genuinità del documento
della cui falsità si è denunciato: il petitum, pertanto, non è distante o apprezzabilmente diverso da
quello che la Corte di Cassazione sembra aver pensato per l’autonoma azione di “accertamento
negativo” di cui ha parlato nella sentenza in commento. Dunque, pendente il giudizio di querela
di falso sulla genuinità della scheda olografa, promosso dall’erede legittimo per minare alla base
la delazione ereditaria in favore di quello testamentario, tale processo, sia pur con la presenza del
pubblico ministero, sembra poter proseguire senza particolari impedimenti, anche se con alcuni
accorgimenti formali. Si pensi, ad esempio, al caso in cui la citazione introduttiva non contenesse
“l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità”, come prescritto dall’art. 221, comma 2,
c.p.c.: in tal caso, il giudice non potrebbe (più) pronunciare la nullità della citazione, essendo in
facoltà della parte attrice depositare le “prove” della falsità, compresa l’indicazione di eventuali
testimoni a suffragio, fino alla seconda memoria dell’art. 183, comma 6, c.p.c., e, in ogni caso,
qualora non lo facesse non andrebbe incontro ad una pronuncia di inammissibilità, bensì di
infondatezza nel merito della domanda; ed ancora esemplificando, qualora la parte non avesse
“personalmente” confermato la querela nella prima udienza, il giudice non potrebbe dichiararne la
inammissibilità, potendo il giudizio incedere verso la fase di trattazione ed istruzione; infine, non
sarebbe più necessaria l’informativa al p. m.23, qualora questa non sia stata ancora effettuata, e la
eventuale mancanza di tale attività, alla luce del nuovo orientamento, non avrebbe conseguenze di
sorta24.
Veniamo ora al caso dell’erede legittimo che avesse semplicemente disconosciuto la scheda,
dichiarando di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione del de cuius; a questo punto,
dobbiamo immaginare che l’erede testamentario abbia introdotto il subprocedimento incidentale
di verificazione e che tale procedimento sia pendente (al momento della pubblicazione della
sentenza in commento): in tal caso, è difficile immaginare che il procedimento in corso sia
“convertibile” in una causa di accertamento negativo: a differenza dell’ipotesi esaminata supra,
anzitutto, l’onere della prova è invertito, dovendo l’erede testamentario, che avesse promosso il
subprocedimento di verificazione, provare la genuinità della sottoscrizione, circostanza che, a
prescindere da chi sia stato attore e chi convenuto in senso formale, appare inconciliabile con il
riparto probatorio del giudizio di accertamento negativo che la Suprema Corte vuole,
22
BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Il processo ordinario, Bari, 2010, 134.
L’obbligatorietà del suo intervento, previsto per l’appunto a pena di nullità nei giudizi di falso, è assolta con la
informazione circa il procedimento (Cass., 24 ottobre 2008, n. 25722).
24
Siccome, tuttavia, essendo obbligatorio l'intervento del pubblico ministero (art. 221, comma 3, c.p.c.), il giudizio
di falso rientra indirettamente nell'elencazione di cui all'art. 50 bis, n. 1 e quindi, in relazione ad esso, pronuncia
sempre il collegio (Cass., 23 febbraio 2007, n. 4231), non si nasconde che la soluzione predicata potrebbe comportare
una nullità della sentenza ex art. 50 quater c.p.c. almeno in quelle ipotesi nelle quali, pendente il giudizio di querela
di falso in via incidentale, la causa non sia di per sé (dunque a prescindere dalla proposizione della querela) devoluta
alla trattazione collegiale, ipotesi quest’ultima che invece ricorre nei casi di cui all’art. 50 bis, comma 1, n. 6, c.p.c.,
e cioè “nelle cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima”. Se , tuttavia, si accetta
l’idea per la quale il giudizio, sia pur incardinato nelle forme delle querela di falso, una volta “reindirizzato” verso
quelle, meno rigide, dell’accertamento negativo circa la genuinità della scheda, allora il problema non dovrebbe più
sussistere, stante il fatto che tale ultimo giudizio non rientra nelle ipotesi in cui vi è riserva di collegialità.
23
9
evidentemente, azionato dall’erede legittimo. Rebus sic stantibus, all’erede legittimo non
resterebbe che azionare l’accertamento negativo della genuinità della scheda testamentaria: l’aver
ottemperato “nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione” all’onere del
disconoscimento dovrebbe porre esso erede legittimo comunque al riparo dagli effetti del
riconoscimento del documento, in quanto la decadenza nella quale egli fosse incorso sarebbe
“incolpevole” e gli darebbe diritto ad una rimessione in termini25.
Tuttavia, considerato che la parte (nella specie, l’erede legittimo) che sostenga la non autenticità
della propria apparente sottoscrizione (nella specie, di quella del de cuius) non è tenuta ad attendere
di essere citata in giudizio da chi affermi una pretesa sulla base del documento per poi effettuare
il disconoscimento, ma può legittimamente assumere l'iniziativa del processo per vedere accertata
la non autenticità della sottoscrizione26, è da ritenere che nella ipotesi in cui l’erede legittimo abbia
promosso un giudizio di tal fatta, essendo anche in questo caso l’oggetto del procedimento
l’accertamento negativo della genuinità della sottoscrizione e valendo per esso le “ordinarie regole
probatorie”27, allora deve ritenersi che il procedimento di “verificazione” (negativa)
eventualmente promosso dall’erede legittimo sia proseguibile come accertamento negativo della
genuinità della scheda.
Infine, v’è da esaminare il caso in cui, disconosciuta la scheda testamentaria da parte dell’erede
legittimo, la controparte non abbia avanzato istanza di verificazione volta a far confermare la
provenienza della sottoscrizione dall’autore apparente. In tal caso, esclusa la ricorrenza di ogni
ipotesi di inutilizzabilità del documento/testamento olografo in danno dell’erede testamentario,
come sarebbe stato qualora fosse stato applicabile il meccanismo di cui agli artt. 214 e 216, comma
1, c.p.c., stante il nuovo orientamento delle Sezioni Unite, l’erede legittimo dovrà senz’altro
attivarsi per promuovere un accertamento negativo autonomo al fine di far dichiarare la falsità del
testamento.
25
Ci sembra infatti che in tal caso ricorrano tutti i tratti del cd. overruling giurisprudenziale, in quanto: a) si verte in
materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) tale mutamento è stato “imprevedibile”
in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale da indurre la parte ad un
ragionevole affidamento su di esso; c) l'overruling comporta un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa
(Cass., ord., 9 gennaio 2015, n. 174; Cass., 11 marzo 2013, n. 5962).
26
Cass., 12 ottobre 2001, n. 12471.
27
V’è da dire, per completezza, che tale orientamento in tema di riparto dell’onere probatorio fu contestato in dottrina,
in quanto “ non è dato di ravvisare alcun reale argomento che valga a giustificare anche soltanto in parte siffatto
irragionevole distinguishing, […]. È però evidente, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, che le regole
sull'onere della prova concernono il merito della lite ed operano in tutte le cause; le regole in materia di
disconoscimento e di verificazione attengono invece direttamente all'istruzione e trovano spazio - congiuntamente
alle prime, non già in luogo delle stesse - soltanto in quelle cause ove sia in contestazione l'efficacia probatoria di una
scrittura privata. Una cosa è, insomma, stabilire quale delle parti debba provare un certo fatto, e di conseguenza
sopporti il rischio della mancata dimostrazione di esso; altra, e ben diversa, è verificare se le prove acquisite al
giudizio siano effettivamente idonee a dimostrare quel fatto, o se viceversa siano prive di efficacia in tal senso”
(ROMANO, in Banca Borsa Titoli di Credito, 2002, 3, 253 ss.).
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