il contributo - Aracne editrice

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Centro per la Filosofia Italiana
IL CONTRIBUTO
ANNO
XXVII, NUMERO 2–3
2005
IL CONTRIBUTO
Direttore responsabile
Giuseppe Prestipino
Direttore di redazione
Teresa Serra
Segreteria di redazione
Rocco D. Brienza
Giuseppe Cantarano
Aniello Montano
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Aniello Montano,Teresa Serra
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Tutti i diritti riservati.
Gli scritti apparsi su questo numero
possono essere pubblicati altrove
purché se ne dichiari la fonte.
INDICE
QUESTO FASCICOLO
pag.
5
Fabio Frosini
La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli
pag.
7
pag.
33
pag.
49
pag.
85
pag.
97
pag.
109
pag.
137
pag.
151
pag.
155
Maurizio Cambi
Utopia e tempo storico.
La città del sole di Tommaso Campanella
Giuseppe Prestipino
Nelle antichità discoverte.
La Città ideale di Vico
Paolo De Lucia
L’utopia ecclesiale di Vincenzo Gioberti
Lino Di Stefano
Il problema della libertà di espressione
Santi Lo Giudice
Abitare insieme la terra
Cinzia Posenato
Parole di bioetica
DISCUTIAMO…
Giuseppe Cantarano
In dialogo con Pietro Ciaravolo
RECENSIONI
Aniello Montano
Giovanni Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile
3
Indice
4
Aniello Montano
Jean Paul Sartre, La mia biografia in un film.
Una confessione
Francesco De Carolis
Hilary Putnam, Fatto/Valore fine di una dicotomia
Giuseppe Cantarano
Giancristiano Desiderio, Le uova e la frittata. Filosofia e libertà
in Benedetto Croce, Hannah Arendt, Isaiah Berlin
Informazioni del Centro per la filosofia italiana
per i lettori e i collaboratori
pag.
157
pag.
158
pag.
159
pag.
163
QUESTO FASCICOLO
I primi quattro saggi raccolti in questo fascicolo hanno origine da
relazioni tenute l’11 giugno 2005 a Monte Compatri in un incontro organizzato dal Centro per la Filosofia Italiana nel quadro di un più
ampio progetto di attività seminariali sul tema “Per una nuova Città del
Sole”. Quell’incontro era stato preceduto, nell’estate del 2004, da una
conferenza tenuta, nella sede del Centro, da Massimo Cacciari sul tema
“L’utopia di Dante”. Cacciari aveva commentato felicemente i due
canti del Paradiso dai quali si sprigiona una sorta di “ecumenismo”
religioso e culturale che accomuna non soltanto i due ordini rivali dei
domenicani e dei francescani, ma anche la cultura cristiana e quella
araba rappresentata specialmente dall’averroismo. L’allusione alle lacerazioni del nostro presente e alla necessità, invece, di un fecondo dialogo planetario era proposta dall’oratore, sia pure in modo indiretto e
discreto. Ci spiace che, per gli impegni anche politico–amministrativi
subentrati nel frattempo, l’autore non abbia potuto mettere per iscritto
quella conferenza, consentendoci così di poter aprire questo fascicolo
con una sua riflessione su Dante pensatore utopico.
Tommaso d’Aquino, nel riaffermare il primato dei beni spirituali sui
beni e sulle forze materiali, chiarisce la proprietà che hanno i primi di
non diminuire, anzi di crescere, se sono condivisi o, come egli propriamente si esprime, comunicati. Dante fa suo un tale concetto, ma (distanziandosi in ciò anche dai corollari politici del tomismo) tende a porre
sullo stesso piano la guida dei soggetti spirituali e quella dei corpi quando sostiene che il potere imperiale è, direttamente dalla volontà divina
(non per l’intermediazione papale), chiamato alla sua universale missione terrena. Dal panteismo bruniano e dal messianismo campanelliano,
attraverso il provvidenzialismo vichiano, fino al neoguelfismo (nazionalistico, ma “rinnovatore”) di Gioberti, la presenza del divino nel mondo
dei corpi, dei beni materiali, della forza primitiva come di quella generatrice degli ordinamenti civili e nazionali torna in primo piano.
5
6
Questo fascicolo
Per Machiavelli, il Principe si fa laicamente Stato nazionale moderno, non più come potere parallelo al potere spirituale, e tende a bilanciare variamente, invece, l’uso della forza e il ricorso al consenso.
Anche il pensiero successivo riproporrà, in forme mutate, il dilemma
tra forza e consenso. Vi sarà chi, come Gentile, ritenendo che possa
dispiegarsi soltanto una forza spirituale dell’atto e nell’atto, giudicherà
il consenso come la diretta emanazione dalla forza, anche nella sua più
cruda materialità impiegata dallo Stato in quanto espressione suprema
della nazione. Ma Gramsci, richiamandosi a Machiavelli e prefigurando il futuro dopo aver analizzato la modernità avanzata, porrà al vertice il consenso e mostrerà nella forza il corollario, o la necessaria armatura, della capacità di suscitare il consenso.
L’utopismo storico guarda sovente (sempre?) anche a un passato
idealizzato, oltre o più che a un futuro possibile? Vi sono in Italia pensatori, tra Ottocento e Novecento, animati da una “volontà di futuro” e
tuttavia, a rigore, alieni da ogni progetto utopico o perché, come alcuni positivisti tra i quali si distingue Ardigò, ancorati a una visione deterministica, o perché, come Labriola, seguaci del pensiero antiutopico di
Marx. Ma, se in quest’ultimo l’avversione all’utopia nasce forse da un
eccesso di “scientismo” metodologico, nel Gramsci anti–determinista e
quindi anti–scientista nasce invece da uno storicismo che, pur distanziatosi da quello crociano, riecheggia motivi crociani: la storia è tutta
storia contemporanea.
Il passato è presente, o è materia del presente, e il futuro prende
forma nel presente. Forma e materia: concetti aristotelici non a caso
recepiti dalla tradizione hegeliana. Ma il nuovo immanentismo storicistico rifiuta sia il presupposto di un Motore immobile sia l’idea–limite di una Meta ultima. Storicismo assoluto è quello capace di storicizzare anche se stesso, storicizzando le categorie portanti del pensabile (lo storicismo crociano, in certo modo, ancora le assolutizzava) e
perciò storicizzando l’atto del pensare (che l’attualismo gentiliano, a
suo modo, assolutizzava). L’idealismo che, al presente, “beatifica”
una prassi umana materiata invece di lotte feroci per il predominio o
per la sopravvivenza, l’idealismo diverrà “vero” come “filosofia dell’avvenire”?
Giuseppe Prestipino
LA REPUBBLICA IMMAGINATA
DA NICCOLÒ MACHIAVELLI
Fabio Frosini
1. La verità del Principe e le due “immaginazioni”
§1. Scrive Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere:
L’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può
misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al
giorno d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale1.
Gramsci assegna in questo modo proprio al “realista” Machiavelli
(e pensiamo al modo in cui il pensiero del Segretario era presentato in
quel giro di anni nel contesto del regime fascista) un’istanza “utopica”
che desidero in questo contributo riprendere e tentare di mettere a
fuoco. Certo, parlando di “utopia” occorre intendersi. Altra cosa sono
infatti i piani cervellotici orditi a tavolino nei minimi dettagli, di cui
Gramsci era un critico feroce; altra è la concretezza realistica che
l’istanza utopica possiede, e che Giuseppe Prestipino ci ha insegnato a
riconoscere, a inquadrare e a valorizzare2. Se l’utopia — pensiamo a
Moro o a Campanella — in quanto descrizione di un mondo possibile
è anche un’anticipazione di esigenze e rivendicazioni che spesso solo
dopo alcuni secoli diventano perfettamente comprensibili, certamente
1
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di
Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 19772, p. 431.
2
Cfr. Giuseppe Prestipino, Realismo e utopia. In memoria di Lukács e Bloch, Editori
Riuniti, Roma, 2002, in particolare pp. 9–31.
7
8
Fabio Frosini
il Principe rientra, almeno in parte, in questa tipologia3. «Esso — ha
scritto Giuliano Procacci — non è che formalmente un trattato De principatibus, come suona il titolo, […] sostanzialmente esso è una monografia sul principato nuovo come protagonista e veicolo di una rigenerazione politica»4. Questa rigenerazione era possibile ai tempi di Machiavelli ma — e questo vorrei tentare di mostrare — è possibile ancora oggi. Essa pertanto va molto al di là di quel riscatto nazionale dell’Italia «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» [P,
XXVI.3]5, che trovò in Hegel e in Francesco De Sanctis i suoi primi e
piú illustri rappresentanti; incorpora un’istanza inevasa, non solo nella
cultura italiana, ma nella cultura moderna.
Come si è detto, il Principe è stato quasi unanimemente giudicato
una scrittura di tipo “realistico”. Mi riferisco qui evidentemente a una
particolare accezione di “realismo”, quella che è stata spesso e viene tuttora estratta dalla frase: «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa utile
a chi la intende, mi è parso piú conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» [P, XV.3]. Sulla base
di questo passaggio si è attribuito all’autore del Principe l’intento di
scrivere “come le cose stanno” e non come “dovrebbero stare”: la politica va tutta disposta sul terreno dell’utile, e dunque va radicata nelle
passioni egoistiche che caratterizzano universalmente l’essere umano.
L’innovazione, quando c’è, consiste nella presa del potere, non nella
istituzione di un potere piú giusto. Questo riferimento alla lettura crociana (che sarebbe inattuale se i suoi effetti non continuassero a prolungarsi ancora oggi negli scritti di un influente interprete come Gennaro
3
Cfr. ancora Gramsci, Quaderni, cit., p. 951: «Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del “mito” sorelliano, cioè dell’ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come “fantasia”
concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva».
4
Giuliano Procacci, Machiavelli rivoluzionario, Introduzione a Niccolò Machiavelli,
Opere scelte, a cura di Gian Franco Berardi, Editori Riuniti, Roma, 1969, pp. XIII–XXXVI,
qui XXVIII.
5
Citerò il Principe sempre dall’edizione curata da Giorgio Inglese (Einaudi, Torino, 1995),
con P seguito dal numero del capitolo in cifre romane e da quello del capoverso in cifre arabe.
La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli
9
Sasso)6 vuole da subito indicare cosa io non intendo fare. Non intendo
fare una lettura del Principe come teoria della politica in quanto sia stata
preventivamente separata dall’etica. E non solo perché questa lettura
finisce col restituirci l’immagine di Machiavelli come di un uomo
segnato dall’amarezza e dal disgusto dinnanzi alle miserie dell’umanità,
che è non solo del tutto estranea alla personalità storica del Segretario
(come possiamo conoscerla dalle sue lettere e dalle testimonianze su di
lui)7, ma anche, in definitiva, essa sí di carattere cristiano, con quel suo
pessimismo antropologico della caduta, che rivendica e contrario un
mondo purificato e pacificato di “uomini buoni”.
Invece quando, in quello stesso capitolo XV, l’autore del Principe
osserva che «molti si sono immaginati repubbliche e principati che non
si sono mai visti né conosciuti in vero essere» [P, XV.4], sta rivendicando precisamente la dimensione della mondanità e della terrestrità, condizione quanto si vuole scomoda e piena di “inconvenienti” (termine
che cade spesso sotto la penna del Segretario), ma inaggirabile perché
solo al suo interno — e dunque entro i suoi termini, nella sua provvisoria e finita “natura” — è possibile vivere, e quindi concretamente
costruire qualcosa come dei “valori”8:
Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che
lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara piú presto la ruina
che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni [P, XV.5] 9.
Il “come si dovrebbe vivere” è un’astrazione — essa sí utopia in
senso negativo — e in quanto tale non è affatto la “bontà” che si contrappone alla “cattiveria”, ma la pratica della “bontà” in quanto valore
6
Cfr. soprattutto Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 2
tomi, Il Mulino, Bologna, 19933 (19581).
7
Sulla personalità di Niccolò cfr., per un quadro d’insieme, Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, settima edizione italiana accresciuta e riveduta, Sansoni, Firenze, 1978, e la
piú recente sintesi di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma–Bari, 1998.
8
Sul quadro cosmologico rinascimentale, nel quale Machiavelli inserisce le vicende
mondane, cfr. Antony J. Parel, The Machiavellian Cosmos, Yale Univ. Press, New Haven and
London, 1992.
9
Tutti i corsivi nel testo di Machiavelli, qui e altrove, sono ovviamente miei.
10
Fabio Frosini
assoluto, indipendente dalle condizioni nelle quali esso si deve di volta
in volta investire. Non dunque il richiamo alla sfera del dover essere
viene criticato da Machiavelli, ma l’uso di un certo dover essere che
risulta dalla contrapposizione dell’assoluto e puro al relativo e spurio, e
pertanto è unilateralità e astrazione, mentre al contrario è nella mescolanza degli elementi, nella natura spuria che consiste per lui la reale pratica etico–politica. Non solo, essa consiste nel saper entrare e uscire dai
“valori” — dai singoli abiti morali — nella consapevolezza della loro
incompiutezza e insufficienza a definire una volta per tutte le azioni che
in essi possono o non possono ricadere: «Onde è necessario, volendosi
uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e
non usarlo secondo la necessità» [P, XV.6]. Il comportamento che Machiavelli suggerisce al principe è dunque fondato non sull’assolutezza
dei valori, ma su di un altro genere di “assoluto” — la “necessità” —
che però, designando l’insieme delle circostanze concrete date di volta
in volta, non è altro che il nome generico assegnabile alla sfera di ciò
che è relativo e, al contempo, al modo che il principe ha di conoscerla.
§2. Veniamo cosí a un ulteriore punto. La frase sulle “repubbliche
immaginate” non istituisce affatto una contrapposizione del piano immaginario a quello vero, perché la “verità effettuale della cosa”, come
viene subito dopo tratteggiata, è essa stessa tutta disposta sul piano dell’immaginazione:
Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e
massime e’ principi, per essere posti piú alti, sono notati di alcune di queste
qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto
liberale, alcuno misero […]; alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno
crudele, alcuno piatoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele [P, XV.7–9].
e cosí via. Dunque le cose “vere” sono esse stesse la proiezione di una
“persona” (nel senso tecnico di dramatis persona) nello specchio della
reputazione presso gli “spettatori”, dunque in una circolazione del “dire
pubblico”, in breve, in una serie di immagini/immaginazioni diverse e
al limite contrapposte. Potremmo dire che quella delle repubbliche immaginate è un’immaginazione privata e perciò illusoriamente unitaria,
La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli
11
mentre quella “vera” è l’immaginazione pubblica e perciò concretamente plurale e, al limite, frantumata in immagini contrapposte. La verità si dispone e si definisce dunque nello spazio dell’apparenza10: definire e conoscere il vero è un processo immaginativo, laddove
l’espressione “verità effettuale” vuole indicare proprio questo carattere
efficace ed effettivo del vero–immaginario cosí definito, in alternativa
al vero–immaginario inefficace di chi crede che esistano valori indipendenti dalla prassi e assoluti, cioè puri e immutabili.
La verità effettuale sta dunque in ciò, che il principe deve di volta in
volta conoscere la “necessità” incombente, e praticare quei valori che gli
permettono di salvare lo stato, laddove però questi “valori” sono sempre
delle “apparenze”, sono cioè un mostrarsi del principe sulla scena della
reputazione, dell’immaginazione popolare, e qui sta non da ultimo la loro
efficacia11. L’agire non può pertanto per Machiavelli essere separato dall’apparire: agire è apparire, e questo vale per ogni uomo, e per i principi
solo in modo eminente. Ma se agire è apparire, allora agire è già produrre effetti sul terreno dell’immaginazione, modificare l’immaginazione
altrui e, al contempo e inscindibilmente, immaginare. Chi agisce — l’attore sulla scena — non fa parte di un’umanità diversa e superiore a quella degli altri. Il criterio vale infatti per ciascun uomo, il principe se ne differenzia quantitativamente non qualitativamente: tutti sono al contempo e
di volta in volta attori e spettatori (in altri termini, non esiste un mondo segreto dei politici diverso da quello dell’umanità comune). Agire, cioè essere attore, vuole dire pertanto interagire con l’immaginazione che ciascuno di noi ha degli altri e di sé stesso: significa dunque scontrarsi ogni volta
con limiti precisi, dati da un’immaginazione preesistente, dai limiti delle
passioni proprie e altrui12. Conoscere la “necessità” significa in questo
contesto riuscire a individuare l’azione–immaginazione piú adatta ad una
Su questo punto interessanti notazioni in Agnès Cugno, Machiavel et le problème de
l’être en politique, “Revue philosophique de la France et de l’Etranger”, CXXIV (1999), 1,
pp. 19–33.
11
Dicendo “non da ultimo” intendo alludere all’intreccio tra apparenza e verità, cioè tra
reputazione e intreccio reale delle pratiche di dominio e di liberazione nel governo principesco: questione importantissima e non abbordabile, se non liminarmente, in questa sede.
12
Cfr. su questo punto Stefano Visentin, La virtú dei molti. Machiavelli e il repubblicanesimo olandese della seconda metà del Seicento, in Immaginazione e contingenza, a cura di
Fabio Frosini, Fabio Raimondi, Stefano Visentin, ETS, Pisa, in corso di stampa [2005].
10
12
Fabio Frosini
data congiuntura, il “valore” che in date circostanze esprime e produce la
massima efficacia, cioè la massima potenza, cioè la massima verità. Ma
questa efficacia–potenza–verità non potrà essere conosciuta in astratto. Di
qui la difficoltà (e la rarità della vera virtú principesca): «Se si considera
bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtú, e seguendola sarebbe
la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la
sicurtà e il bene essere suo» [P, XV.12]. Il gioco delle apparenze è tutto in
questo rovesciarsi delle immaginazioni dei valori nei loro contrari, e nella
capacità, che il principe e qualsiasi uomo virtuoso deve mostrare di avere,
di saper mettere radicalmente in questione le immaginazioni proprie e
altrui, rischiando di “apparire” vizioso.
Ma questo rischio riguarda anche il teorico. Torniamo cosí allo statuto della teoria consegnata al Principe: essa è o meglio aspira ad essere un
processo immaginativo vero, nel senso che aspira ad essere un’immaginazione della necessità. Ma se la necessità — come insegna la teoria —
è nell’effettualità dell’azione (nel senso che non può essere conosciuta in
anticipo), la verità della teoria non consisterà in precetti (ciò che corrisponderebbe a un’immaginazione privata e chiusa) ma nell’apertura
della teoria alla prassi, in un processo immaginativo aperto e per definizione mai concluso. La verità del libro intitolato De principatibus non
potrà dunque che essere una “verità effettuale”, e il libro assumere il suo
pieno significato solo insieme agli effetti da esso prodotti, al progetto che
esso proietta nel gioco delle apparenze, insomma alla sua capacità di modificare l’immaginazione (la reputazione) su di un punto decisivo, producendo nuova azione e nuova reputazione, diventando cioè immagine e
immaginazione pubblica.
2. Il Principe a riscontro della storia di Niccolò
Per poter saggiare questo carattere di “verità effettuale” del Principe
sarà opportuno leggerlo “a riscontro”, cioè nella filigrana di complessi di
eventi via via piú ampi e interconnessi, nei quali esso, come in cerchi concentrici, si inscrive. I tre livelli che prenderò in considerazione saranno
nell’ordine la vita di Machiavelli, la storia di Firenze e la storia d’Italia.
Per il primo di essi possiamo prendere le mosse da questo giudizio
di Augustin Renaudet: «il Principe non rappresenta che l’occupazione
La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli
13
di qualche mese, dedicata allo studio di un’ipotesi illusoria»13. Un giudizio non molto differente, anche se molto piú articolato, è quello, risalente al 1925, di Federico Chabod14, il quale anche parla a proposito del
Principe di «illusione», illusione che fosse ancora possibile porre rimedio alla materia corrotta dell’Italia del Cinquecento con i mezzi — il
«Signore nuovo» — che meglio ne rappresentavano proprio la malattia15. Cosí, proprio ponendo il Principe a confronto con l’Utopia di Tommaso Moro, Chabod poteva concludere che mentre opere come questa,
«a primo aspetto piú fallaci, rivelano in quel tempo, in Europa, il fremere di nuovi germi di vita», quell’altra, «a tutte infinitamente superiore
per potenza immaginativa e per drammaticità di rilievo, palesa invece lo
spegnersi di una vita gloriosa, che ha compiuto il suo corso»16.
Il Principe fu effettivamente scritto, come risulta dalla celebre lettera
del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, nell’arco di pochi mesi. Non
solo: dato che nella precedente, del 26 agosto dello stesso anno, ancora
non vi è traccia neanche dell’intenzione di scriverlo, proponimento e sua
realizzazione furono praticamente tutt’uno, e si dipanarono in pochissime settimane. È vero che non sappiamo cosa esattamente fosse lo «opusculo De Principatibus» di cui Niccolò dà notizia nella ricordata missiva
del 10 dicembre 151317, cioè quanti capitoli comprendesse e in quale
forma. Su questo punto, a cominciare da Chabod e Meinecke18, fino ad
oggi19 la discussione è aperta. Ma a noi basterà per ora limitarci a fissare
che all’altezza del dicembre 1513 una qualche parte del Principe, se non
tutta l’opera, era pronta almeno in una prima elaborazione20.
Augustin Renaudet, Machiavel, Gallimard, Paris, 19552, pp. 175 s.
Federico Chabod, Del Principe di Niccolò Machiavelli, “Nuova Rivista Storica”, IX (1925),
pp. 35–71, 189–216, 437–73; ora in Id., Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino, 1964, pp. 29–135.
15
Cfr. ivi, pp. 82–90.
16
Ivi, pp. 89 s. Il riferimento a Utopia è ivi, a p. 90 n.
17
Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di Franco Gaeta, Feltrinelli, Milano, 19812, p. 304.
18
Cfr. Friedrich Meinecke, Anhang zur Einführung, in Niccolò Machiavelli, Der Fürst, übers.
v. E. Merian–Genast, Hobbing, Berlin, 1923, pp. 38–47; e Federico Chabod, Sulla composizione de
Il Principe di Niccolò Machiavelli (1927), in Id., Scritti su Machiavelli, cit., pp. 137–93, ma la tesi
era già accennata in Id., Del Principe di Niccolò Machiavelli (1925), ivi, pp. 29–135, qui pp. 34–5 n.
19
Mi riferisco al dibattito tra Giorgio Inglese, curatore dell’edizione critica del Principe
(De principatibus, testo critico a cura di Giorgio Inglese, Istituto Storico Italiano per il Medio
Evo, Roma, 1994), e Mario Martelli (Saggio sul Principe, Salerno Editrice, Roma, 1999).
20
Tornerò su questo problema infra, cap. 4.
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