Centro per la Filosofia Italiana IL CONTRIBUTO ANNO XXVII, NUMERO 2–3 2005 IL CONTRIBUTO Direttore responsabile Giuseppe Prestipino Direttore di redazione Teresa Serra Segreteria di redazione Rocco D. Brienza Giuseppe Cantarano Aniello Montano Comitato scientifico Mario Alcaro, Rocco D. Brienza Giuseppe Cantarano, Santino Cavaciuti Pietro Ciaravolo, Aldo Masullo Aniello Montano,Teresa Serra Giuseppe Tortora Direzione e redazione Centro per la Filosofia Italiana Palazzo Annibaldeschi via Annibaldeschi, 2 00040 Monte Compatri (Roma) tel. 06 94288758 – 06 9485407 www.filosofia–italiana.org direzione@filosofia–italiana.org La rivista ha periodicità quadrimestrale. 88-548-0273-5 XXXX-XXXX- ISBN ISSN Quota d’iscrizione abbonante euro 30,00 Editore Aracne editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 Modalità di pagamento Versamento sul c/c postale n. 39227004 intestato al Centro per la Filosofia Italiana Palazzo Annibaldeschi Tutti i diritti riservati. Gli scritti apparsi su questo numero possono essere pubblicati altrove purché se ne dichiari la fonte. INDICE QUESTO FASCICOLO pag. 5 Fabio Frosini La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli pag. 7 pag. 33 pag. 49 pag. 85 pag. 97 pag. 109 pag. 137 pag. 151 pag. 155 Maurizio Cambi Utopia e tempo storico. La città del sole di Tommaso Campanella Giuseppe Prestipino Nelle antichità discoverte. La Città ideale di Vico Paolo De Lucia L’utopia ecclesiale di Vincenzo Gioberti Lino Di Stefano Il problema della libertà di espressione Santi Lo Giudice Abitare insieme la terra Cinzia Posenato Parole di bioetica DISCUTIAMO… Giuseppe Cantarano In dialogo con Pietro Ciaravolo RECENSIONI Aniello Montano Giovanni Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile 3 Indice 4 Aniello Montano Jean Paul Sartre, La mia biografia in un film. Una confessione Francesco De Carolis Hilary Putnam, Fatto/Valore fine di una dicotomia Giuseppe Cantarano Giancristiano Desiderio, Le uova e la frittata. Filosofia e libertà in Benedetto Croce, Hannah Arendt, Isaiah Berlin Informazioni del Centro per la filosofia italiana per i lettori e i collaboratori pag. 157 pag. 158 pag. 159 pag. 163 QUESTO FASCICOLO I primi quattro saggi raccolti in questo fascicolo hanno origine da relazioni tenute l’11 giugno 2005 a Monte Compatri in un incontro organizzato dal Centro per la Filosofia Italiana nel quadro di un più ampio progetto di attività seminariali sul tema “Per una nuova Città del Sole”. Quell’incontro era stato preceduto, nell’estate del 2004, da una conferenza tenuta, nella sede del Centro, da Massimo Cacciari sul tema “L’utopia di Dante”. Cacciari aveva commentato felicemente i due canti del Paradiso dai quali si sprigiona una sorta di “ecumenismo” religioso e culturale che accomuna non soltanto i due ordini rivali dei domenicani e dei francescani, ma anche la cultura cristiana e quella araba rappresentata specialmente dall’averroismo. L’allusione alle lacerazioni del nostro presente e alla necessità, invece, di un fecondo dialogo planetario era proposta dall’oratore, sia pure in modo indiretto e discreto. Ci spiace che, per gli impegni anche politico–amministrativi subentrati nel frattempo, l’autore non abbia potuto mettere per iscritto quella conferenza, consentendoci così di poter aprire questo fascicolo con una sua riflessione su Dante pensatore utopico. Tommaso d’Aquino, nel riaffermare il primato dei beni spirituali sui beni e sulle forze materiali, chiarisce la proprietà che hanno i primi di non diminuire, anzi di crescere, se sono condivisi o, come egli propriamente si esprime, comunicati. Dante fa suo un tale concetto, ma (distanziandosi in ciò anche dai corollari politici del tomismo) tende a porre sullo stesso piano la guida dei soggetti spirituali e quella dei corpi quando sostiene che il potere imperiale è, direttamente dalla volontà divina (non per l’intermediazione papale), chiamato alla sua universale missione terrena. Dal panteismo bruniano e dal messianismo campanelliano, attraverso il provvidenzialismo vichiano, fino al neoguelfismo (nazionalistico, ma “rinnovatore”) di Gioberti, la presenza del divino nel mondo dei corpi, dei beni materiali, della forza primitiva come di quella generatrice degli ordinamenti civili e nazionali torna in primo piano. 5 6 Questo fascicolo Per Machiavelli, il Principe si fa laicamente Stato nazionale moderno, non più come potere parallelo al potere spirituale, e tende a bilanciare variamente, invece, l’uso della forza e il ricorso al consenso. Anche il pensiero successivo riproporrà, in forme mutate, il dilemma tra forza e consenso. Vi sarà chi, come Gentile, ritenendo che possa dispiegarsi soltanto una forza spirituale dell’atto e nell’atto, giudicherà il consenso come la diretta emanazione dalla forza, anche nella sua più cruda materialità impiegata dallo Stato in quanto espressione suprema della nazione. Ma Gramsci, richiamandosi a Machiavelli e prefigurando il futuro dopo aver analizzato la modernità avanzata, porrà al vertice il consenso e mostrerà nella forza il corollario, o la necessaria armatura, della capacità di suscitare il consenso. L’utopismo storico guarda sovente (sempre?) anche a un passato idealizzato, oltre o più che a un futuro possibile? Vi sono in Italia pensatori, tra Ottocento e Novecento, animati da una “volontà di futuro” e tuttavia, a rigore, alieni da ogni progetto utopico o perché, come alcuni positivisti tra i quali si distingue Ardigò, ancorati a una visione deterministica, o perché, come Labriola, seguaci del pensiero antiutopico di Marx. Ma, se in quest’ultimo l’avversione all’utopia nasce forse da un eccesso di “scientismo” metodologico, nel Gramsci anti–determinista e quindi anti–scientista nasce invece da uno storicismo che, pur distanziatosi da quello crociano, riecheggia motivi crociani: la storia è tutta storia contemporanea. Il passato è presente, o è materia del presente, e il futuro prende forma nel presente. Forma e materia: concetti aristotelici non a caso recepiti dalla tradizione hegeliana. Ma il nuovo immanentismo storicistico rifiuta sia il presupposto di un Motore immobile sia l’idea–limite di una Meta ultima. Storicismo assoluto è quello capace di storicizzare anche se stesso, storicizzando le categorie portanti del pensabile (lo storicismo crociano, in certo modo, ancora le assolutizzava) e perciò storicizzando l’atto del pensare (che l’attualismo gentiliano, a suo modo, assolutizzava). L’idealismo che, al presente, “beatifica” una prassi umana materiata invece di lotte feroci per il predominio o per la sopravvivenza, l’idealismo diverrà “vero” come “filosofia dell’avvenire”? Giuseppe Prestipino LA REPUBBLICA IMMAGINATA DA NICCOLÒ MACHIAVELLI Fabio Frosini 1. La verità del Principe e le due “immaginazioni” §1. Scrive Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere: L’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al giorno d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale1. Gramsci assegna in questo modo proprio al “realista” Machiavelli (e pensiamo al modo in cui il pensiero del Segretario era presentato in quel giro di anni nel contesto del regime fascista) un’istanza “utopica” che desidero in questo contributo riprendere e tentare di mettere a fuoco. Certo, parlando di “utopia” occorre intendersi. Altra cosa sono infatti i piani cervellotici orditi a tavolino nei minimi dettagli, di cui Gramsci era un critico feroce; altra è la concretezza realistica che l’istanza utopica possiede, e che Giuseppe Prestipino ci ha insegnato a riconoscere, a inquadrare e a valorizzare2. Se l’utopia — pensiamo a Moro o a Campanella — in quanto descrizione di un mondo possibile è anche un’anticipazione di esigenze e rivendicazioni che spesso solo dopo alcuni secoli diventano perfettamente comprensibili, certamente 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 19772, p. 431. 2 Cfr. Giuseppe Prestipino, Realismo e utopia. In memoria di Lukács e Bloch, Editori Riuniti, Roma, 2002, in particolare pp. 9–31. 7 8 Fabio Frosini il Principe rientra, almeno in parte, in questa tipologia3. «Esso — ha scritto Giuliano Procacci — non è che formalmente un trattato De principatibus, come suona il titolo, […] sostanzialmente esso è una monografia sul principato nuovo come protagonista e veicolo di una rigenerazione politica»4. Questa rigenerazione era possibile ai tempi di Machiavelli ma — e questo vorrei tentare di mostrare — è possibile ancora oggi. Essa pertanto va molto al di là di quel riscatto nazionale dell’Italia «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» [P, XXVI.3]5, che trovò in Hegel e in Francesco De Sanctis i suoi primi e piú illustri rappresentanti; incorpora un’istanza inevasa, non solo nella cultura italiana, ma nella cultura moderna. Come si è detto, il Principe è stato quasi unanimemente giudicato una scrittura di tipo “realistico”. Mi riferisco qui evidentemente a una particolare accezione di “realismo”, quella che è stata spesso e viene tuttora estratta dalla frase: «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso piú conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» [P, XV.3]. Sulla base di questo passaggio si è attribuito all’autore del Principe l’intento di scrivere “come le cose stanno” e non come “dovrebbero stare”: la politica va tutta disposta sul terreno dell’utile, e dunque va radicata nelle passioni egoistiche che caratterizzano universalmente l’essere umano. L’innovazione, quando c’è, consiste nella presa del potere, non nella istituzione di un potere piú giusto. Questo riferimento alla lettura crociana (che sarebbe inattuale se i suoi effetti non continuassero a prolungarsi ancora oggi negli scritti di un influente interprete come Gennaro 3 Cfr. ancora Gramsci, Quaderni, cit., p. 951: «Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del “mito” sorelliano, cioè dell’ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come “fantasia” concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva». 4 Giuliano Procacci, Machiavelli rivoluzionario, Introduzione a Niccolò Machiavelli, Opere scelte, a cura di Gian Franco Berardi, Editori Riuniti, Roma, 1969, pp. XIII–XXXVI, qui XXVIII. 5 Citerò il Principe sempre dall’edizione curata da Giorgio Inglese (Einaudi, Torino, 1995), con P seguito dal numero del capitolo in cifre romane e da quello del capoverso in cifre arabe. La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli 9 Sasso)6 vuole da subito indicare cosa io non intendo fare. Non intendo fare una lettura del Principe come teoria della politica in quanto sia stata preventivamente separata dall’etica. E non solo perché questa lettura finisce col restituirci l’immagine di Machiavelli come di un uomo segnato dall’amarezza e dal disgusto dinnanzi alle miserie dell’umanità, che è non solo del tutto estranea alla personalità storica del Segretario (come possiamo conoscerla dalle sue lettere e dalle testimonianze su di lui)7, ma anche, in definitiva, essa sí di carattere cristiano, con quel suo pessimismo antropologico della caduta, che rivendica e contrario un mondo purificato e pacificato di “uomini buoni”. Invece quando, in quello stesso capitolo XV, l’autore del Principe osserva che «molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere» [P, XV.4], sta rivendicando precisamente la dimensione della mondanità e della terrestrità, condizione quanto si vuole scomoda e piena di “inconvenienti” (termine che cade spesso sotto la penna del Segretario), ma inaggirabile perché solo al suo interno — e dunque entro i suoi termini, nella sua provvisoria e finita “natura” — è possibile vivere, e quindi concretamente costruire qualcosa come dei “valori”8: Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara piú presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni [P, XV.5] 9. Il “come si dovrebbe vivere” è un’astrazione — essa sí utopia in senso negativo — e in quanto tale non è affatto la “bontà” che si contrappone alla “cattiveria”, ma la pratica della “bontà” in quanto valore 6 Cfr. soprattutto Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, 2 tomi, Il Mulino, Bologna, 19933 (19581). 7 Sulla personalità di Niccolò cfr., per un quadro d’insieme, Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, settima edizione italiana accresciuta e riveduta, Sansoni, Firenze, 1978, e la piú recente sintesi di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma–Bari, 1998. 8 Sul quadro cosmologico rinascimentale, nel quale Machiavelli inserisce le vicende mondane, cfr. Antony J. Parel, The Machiavellian Cosmos, Yale Univ. Press, New Haven and London, 1992. 9 Tutti i corsivi nel testo di Machiavelli, qui e altrove, sono ovviamente miei. 10 Fabio Frosini assoluto, indipendente dalle condizioni nelle quali esso si deve di volta in volta investire. Non dunque il richiamo alla sfera del dover essere viene criticato da Machiavelli, ma l’uso di un certo dover essere che risulta dalla contrapposizione dell’assoluto e puro al relativo e spurio, e pertanto è unilateralità e astrazione, mentre al contrario è nella mescolanza degli elementi, nella natura spuria che consiste per lui la reale pratica etico–politica. Non solo, essa consiste nel saper entrare e uscire dai “valori” — dai singoli abiti morali — nella consapevolezza della loro incompiutezza e insufficienza a definire una volta per tutte le azioni che in essi possono o non possono ricadere: «Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità» [P, XV.6]. Il comportamento che Machiavelli suggerisce al principe è dunque fondato non sull’assolutezza dei valori, ma su di un altro genere di “assoluto” — la “necessità” — che però, designando l’insieme delle circostanze concrete date di volta in volta, non è altro che il nome generico assegnabile alla sfera di ciò che è relativo e, al contempo, al modo che il principe ha di conoscerla. §2. Veniamo cosí a un ulteriore punto. La frase sulle “repubbliche immaginate” non istituisce affatto una contrapposizione del piano immaginario a quello vero, perché la “verità effettuale della cosa”, come viene subito dopo tratteggiata, è essa stessa tutta disposta sul piano dell’immaginazione: Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti piú alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero […]; alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno piatoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele [P, XV.7–9]. e cosí via. Dunque le cose “vere” sono esse stesse la proiezione di una “persona” (nel senso tecnico di dramatis persona) nello specchio della reputazione presso gli “spettatori”, dunque in una circolazione del “dire pubblico”, in breve, in una serie di immagini/immaginazioni diverse e al limite contrapposte. Potremmo dire che quella delle repubbliche immaginate è un’immaginazione privata e perciò illusoriamente unitaria, La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli 11 mentre quella “vera” è l’immaginazione pubblica e perciò concretamente plurale e, al limite, frantumata in immagini contrapposte. La verità si dispone e si definisce dunque nello spazio dell’apparenza10: definire e conoscere il vero è un processo immaginativo, laddove l’espressione “verità effettuale” vuole indicare proprio questo carattere efficace ed effettivo del vero–immaginario cosí definito, in alternativa al vero–immaginario inefficace di chi crede che esistano valori indipendenti dalla prassi e assoluti, cioè puri e immutabili. La verità effettuale sta dunque in ciò, che il principe deve di volta in volta conoscere la “necessità” incombente, e praticare quei valori che gli permettono di salvare lo stato, laddove però questi “valori” sono sempre delle “apparenze”, sono cioè un mostrarsi del principe sulla scena della reputazione, dell’immaginazione popolare, e qui sta non da ultimo la loro efficacia11. L’agire non può pertanto per Machiavelli essere separato dall’apparire: agire è apparire, e questo vale per ogni uomo, e per i principi solo in modo eminente. Ma se agire è apparire, allora agire è già produrre effetti sul terreno dell’immaginazione, modificare l’immaginazione altrui e, al contempo e inscindibilmente, immaginare. Chi agisce — l’attore sulla scena — non fa parte di un’umanità diversa e superiore a quella degli altri. Il criterio vale infatti per ciascun uomo, il principe se ne differenzia quantitativamente non qualitativamente: tutti sono al contempo e di volta in volta attori e spettatori (in altri termini, non esiste un mondo segreto dei politici diverso da quello dell’umanità comune). Agire, cioè essere attore, vuole dire pertanto interagire con l’immaginazione che ciascuno di noi ha degli altri e di sé stesso: significa dunque scontrarsi ogni volta con limiti precisi, dati da un’immaginazione preesistente, dai limiti delle passioni proprie e altrui12. Conoscere la “necessità” significa in questo contesto riuscire a individuare l’azione–immaginazione piú adatta ad una Su questo punto interessanti notazioni in Agnès Cugno, Machiavel et le problème de l’être en politique, “Revue philosophique de la France et de l’Etranger”, CXXIV (1999), 1, pp. 19–33. 11 Dicendo “non da ultimo” intendo alludere all’intreccio tra apparenza e verità, cioè tra reputazione e intreccio reale delle pratiche di dominio e di liberazione nel governo principesco: questione importantissima e non abbordabile, se non liminarmente, in questa sede. 12 Cfr. su questo punto Stefano Visentin, La virtú dei molti. Machiavelli e il repubblicanesimo olandese della seconda metà del Seicento, in Immaginazione e contingenza, a cura di Fabio Frosini, Fabio Raimondi, Stefano Visentin, ETS, Pisa, in corso di stampa [2005]. 10 12 Fabio Frosini data congiuntura, il “valore” che in date circostanze esprime e produce la massima efficacia, cioè la massima potenza, cioè la massima verità. Ma questa efficacia–potenza–verità non potrà essere conosciuta in astratto. Di qui la difficoltà (e la rarità della vera virtú principesca): «Se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtú, e seguendola sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo» [P, XV.12]. Il gioco delle apparenze è tutto in questo rovesciarsi delle immaginazioni dei valori nei loro contrari, e nella capacità, che il principe e qualsiasi uomo virtuoso deve mostrare di avere, di saper mettere radicalmente in questione le immaginazioni proprie e altrui, rischiando di “apparire” vizioso. Ma questo rischio riguarda anche il teorico. Torniamo cosí allo statuto della teoria consegnata al Principe: essa è o meglio aspira ad essere un processo immaginativo vero, nel senso che aspira ad essere un’immaginazione della necessità. Ma se la necessità — come insegna la teoria — è nell’effettualità dell’azione (nel senso che non può essere conosciuta in anticipo), la verità della teoria non consisterà in precetti (ciò che corrisponderebbe a un’immaginazione privata e chiusa) ma nell’apertura della teoria alla prassi, in un processo immaginativo aperto e per definizione mai concluso. La verità del libro intitolato De principatibus non potrà dunque che essere una “verità effettuale”, e il libro assumere il suo pieno significato solo insieme agli effetti da esso prodotti, al progetto che esso proietta nel gioco delle apparenze, insomma alla sua capacità di modificare l’immaginazione (la reputazione) su di un punto decisivo, producendo nuova azione e nuova reputazione, diventando cioè immagine e immaginazione pubblica. 2. Il Principe a riscontro della storia di Niccolò Per poter saggiare questo carattere di “verità effettuale” del Principe sarà opportuno leggerlo “a riscontro”, cioè nella filigrana di complessi di eventi via via piú ampi e interconnessi, nei quali esso, come in cerchi concentrici, si inscrive. I tre livelli che prenderò in considerazione saranno nell’ordine la vita di Machiavelli, la storia di Firenze e la storia d’Italia. Per il primo di essi possiamo prendere le mosse da questo giudizio di Augustin Renaudet: «il Principe non rappresenta che l’occupazione La Repubblica immaginata da Niccolò Machiavelli 13 di qualche mese, dedicata allo studio di un’ipotesi illusoria»13. Un giudizio non molto differente, anche se molto piú articolato, è quello, risalente al 1925, di Federico Chabod14, il quale anche parla a proposito del Principe di «illusione», illusione che fosse ancora possibile porre rimedio alla materia corrotta dell’Italia del Cinquecento con i mezzi — il «Signore nuovo» — che meglio ne rappresentavano proprio la malattia15. Cosí, proprio ponendo il Principe a confronto con l’Utopia di Tommaso Moro, Chabod poteva concludere che mentre opere come questa, «a primo aspetto piú fallaci, rivelano in quel tempo, in Europa, il fremere di nuovi germi di vita», quell’altra, «a tutte infinitamente superiore per potenza immaginativa e per drammaticità di rilievo, palesa invece lo spegnersi di una vita gloriosa, che ha compiuto il suo corso»16. Il Principe fu effettivamente scritto, come risulta dalla celebre lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, nell’arco di pochi mesi. Non solo: dato che nella precedente, del 26 agosto dello stesso anno, ancora non vi è traccia neanche dell’intenzione di scriverlo, proponimento e sua realizzazione furono praticamente tutt’uno, e si dipanarono in pochissime settimane. È vero che non sappiamo cosa esattamente fosse lo «opusculo De Principatibus» di cui Niccolò dà notizia nella ricordata missiva del 10 dicembre 151317, cioè quanti capitoli comprendesse e in quale forma. Su questo punto, a cominciare da Chabod e Meinecke18, fino ad oggi19 la discussione è aperta. Ma a noi basterà per ora limitarci a fissare che all’altezza del dicembre 1513 una qualche parte del Principe, se non tutta l’opera, era pronta almeno in una prima elaborazione20. Augustin Renaudet, Machiavel, Gallimard, Paris, 19552, pp. 175 s. Federico Chabod, Del Principe di Niccolò Machiavelli, “Nuova Rivista Storica”, IX (1925), pp. 35–71, 189–216, 437–73; ora in Id., Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino, 1964, pp. 29–135. 15 Cfr. ivi, pp. 82–90. 16 Ivi, pp. 89 s. Il riferimento a Utopia è ivi, a p. 90 n. 17 Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di Franco Gaeta, Feltrinelli, Milano, 19812, p. 304. 18 Cfr. Friedrich Meinecke, Anhang zur Einführung, in Niccolò Machiavelli, Der Fürst, übers. v. E. Merian–Genast, Hobbing, Berlin, 1923, pp. 38–47; e Federico Chabod, Sulla composizione de Il Principe di Niccolò Machiavelli (1927), in Id., Scritti su Machiavelli, cit., pp. 137–93, ma la tesi era già accennata in Id., Del Principe di Niccolò Machiavelli (1925), ivi, pp. 29–135, qui pp. 34–5 n. 19 Mi riferisco al dibattito tra Giorgio Inglese, curatore dell’edizione critica del Principe (De principatibus, testo critico a cura di Giorgio Inglese, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 1994), e Mario Martelli (Saggio sul Principe, Salerno Editrice, Roma, 1999). 20 Tornerò su questo problema infra, cap. 4. 13 14