Storia locale e spazi di cittadinanza. La storia

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16-05-2006
14:41
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Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Il Trentino come laboratorio di cittadinanza attiva e differenziata
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ISTITUTO PROVINCIALE PER LA RICERCA, L’AGGIORNAMENTO E LA SPERIMENTAZIONE EDUCATIVI
ec
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Progetto triennale di ricerca
ecit
Cover Ecit
Storia locale
e spazi
di cittadinanza
La storia locale
e la sua conoscenza
come componenti
di cittadinanza vissuta
a cura di
Quinto Antonelli e Luigi Dappiano
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
Servizio Università e Ricerca Scientifica
Storia locale
e spazi di cittadinanza
La storia locale
e la sua conoscenza
come componenti
di cittadinanza vissuta
a cura di
Quinto Antonelli
e Luigi Dappiano
Deliverable n. 8
Settembre 2005
Indice
1.
2.
3.
4.
5.
Presentazione
L’espansione della scolarità in Trentino tra gli Asburgo e il Fascismo
Produzione, comunicazione e controllo della memoria locale
Le pratiche di scrittura: tra memoria individuale e collettiva
La restituzione della memoria.
Condizioni materiali e problemi metodologici
6. Memoria e formazione storica:
elementi per l’educazione alla cittadinanza
3
8
25
40
44
52
3
1. Presentazione
Il deliverable prende ad oggetto la storia del Trentino a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento. Il punto di vista che si assume non mette in primo piano gli
eventi, ma la loro memorizzazione e comunicazione, così come ci viene restituita da
alcune fonti documentarie privilegiate: archivi di varia tipologia (pubblici, privati,
familiari), scritture autobiografiche, interviste, ecc.
Nostro intento non è quello di presentare un saggio compatto e concluso, ma
di fornire ai partecipanti al progetto del materiale di riflessione. Il carattere
parzialmente magmatico del deliverable è dato dall’esigenza di acquisire e, ove
possibile, integrare sia i risultati del dibattito che, speriamo, si avvierà attorno alle
nostre riflessioni, sia i risultati e le riflessioni a cui approderanno gli altri gruppi di
ricerca ECIT.
Il riferimento iniziale alla seconda metà dell’Ottocento è dato dal fatto che in
quel periodo iniziano (e non solo in Trentino) alcuni processi epocali, il cui effetto è
stato quello di potenziare in modo straordinario i limiti spaziali e temporali delle
memorie: l’emigrazione di massa consente di fare esperienza (diretta o indiretta) di
luoghi a volte impensabili e inauditi; l’espansione della scolarità consente l’accesso
alla lettura e alla scrittura di fasce di popolazione tradizionalmente escluse; il
rafforzarsi degli stati e il loro dotarsi di efficaci apparati ideologici è teso ad
esercitare un controllo sulle memorie nel mentre ne favorisce la produzione e la
comunicazione. Successivamente, l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa
amplia le memorie individuali, e spesso sovrappone ad esse ciò che Halbwachs
chiama “memorie collettive”, cioè le rappresentazioni del passato conservate e
trasmesse mediante l’interazione comunicativa dei membri di un gruppo1. Questo è
l’ambito storico – locale in cui cercheremo di capire la correlazione tra memoria del
Il riferimento è al capitolo “Memoria collettiva e memoria storica”, in M. Halbwachs, La memoria
collettiva, Unicopli, Milano 1987 (trad. it. di P. Jedlowski).
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passato, comunicazione sociale e prassi della cittadinanza e cercheremo di seguirne
l’evolversi.
Un’attenzione particolare la dedicheremo al problema della restituzione della
memoria, perché questo ci permetterà di cogliere l’ambivalenza costitutiva della
memoria stessa, come modo di conservazione del passato, fattore d’azione nel
presente e prefigurazione del futuro. Il discorso ci consegnerà alcune indicazioni per
il nostro presente e per le prassi di cittadinanza che la restituzione della memoria può
favorire: ovvero, cercheremo anche di capire come la restituzione della memoria
possa dar luogo ad un processo formativo finalizzato all’educazione alla
cittadinanza.
1.1 Definizioni preliminari
Nel deliverable ricorreranno alcune espressioni chiave, di cui la nostra
ricostruzione non può fare a meno e che pertanto richiedono una delucidazione
semantica, per evitare equivoci e incomprensioni.
La prima espressione è quella di “memoria locale”. Come risulta evidente, una
memoria locale travalica le semplici memorie individuali per presentarsi come
“memoria collettiva”. Sopra abbiamo dato una rapida definizione di memoria
collettiva, ripresa da Halbwachs. Per entrare più nel dettaglio, possiamo considerare
la memoria collettiva come lo scenario comunicativo e linguistico entro cui le
memorie individuali tracciano i loro solchi. Le memorie individuali sono infatti
sempre intessute di ricordi di altri, ed anzi l’esperienza dell’intreccio dei propri
ricordi con quelli altrui è per ciascuno un fatto quotidiano.
Nel momento in cui la memoria collettiva si presenta come la modalità
preminente di accesso al passato, essa allaccia in modo non più districabile
l’oggettività della conoscenza del passato e la plausibilità del suo ricordo. L’accesso
al passato diventa allora un processo continuo di ricostruzione del passato a partire
dalle categorie di pensiero, dagli affetti, dagli interessi, dai bisogni formativi che
agiscono nel presente.
Storia locale e spazi di cittadinanza
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Nella dialettica memoria collettiva – memorie individuali, il primo termine
fornisce il terreno della durata, della diacronia che viene condensata in una
temporalità sincronica, mentre la sua interrogazione, introducendo e portando alla
luce anche la profondità dell’oblio e di ciò che è presente “sottotraccia”, produce
discorso, strategia di ricordo che scioglie la sincronia in una temporalità diacronica.
È in questo scarto che gli individui maturano l’esperienza della propria storicità e il
senso della propria appartenenza, ed è sempre questo scarto che pone il problema
della comunicazione e del controllo delle memorie, per tracciare un confine di
accettabilità tra i discorsi possibili. In questo senso, la memoria collettiva non è solo
un ambito di condivisione, ma è anche un terreno di confronto e spesso di
conflitto2.
Ma la memoria locale non è soltanto una memoria collettiva: essa è una
memoria collettiva che ingloba anche una dimensione spaziale e si spazializza essa
stessa in un paesaggio, conformato in modo tale da rendere possibile una
distribuzione di “luoghi della memoria”, cioè un sistema di richiami, più o meno
intenzionali, al passato. Come memoria locale “estroflessa”, il paesaggio elabora una
complessa mnemotecnica, in cui presente e passati convivono sia in verticale, come
stratificazioni, sia in orizzontale, come distribuzione territoriale. Questa caratteristica
è strettamente legata alla presenza, nella cultura di una comunità, di una categoria
geografica che determina atteggiamenti, entra nella costituzione di mentalità, si
deposita in iconografie e scritture più o meno colte, talvolta diventa progetto.
La seconda espressione è quella di “apparato ideologico di Stato” (AIS). La
nozione è stata introdotta da Louis Althusser3, che definisce un AIS come una
“realtà che si presenta all’osservatore immediato sotto forma di istituzioni distinte e
Possiamo dunque parlare, più che di memoria collettiva, di una pluralità di memorie collettive, la
cui integrazione comporta che alcune di esse diventino egemoni su altre. Quanto più una società è
complessa, tanto più sono numerose e diversificate le memorie collettive locali che in essa si
costituiscono, e tanto più la memoria sociale risultante diventa un terreno a più strati, in cui la
memoria ufficiale svela le sue tensioni con immagini del passato sotterranee. A questo riguardo,
molte delle osservazioni di Antonio Gramsci mostrano ancora una forte attualità.
3
L. Althusser, “Ideologia e apparati ideologici di Stato”, in Critica marxista, n° 5, 1970, pp. 23-65.
2
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specializzate”4 e mostra nel suo funzionamento “un massiccio contenuto
prevalentemente ideologico ma in via secondaria repressivo, al limite, ma solo al
limite, molto attenuato, dissimulato, ovvero simbolico”.5 Gli AIS sono dunque realtà
istituzionali e pubbliche la cui funzione primaria è conservare e perpetuare le
condizioni oggettive, soggettive e simboliche per la sussistenza e la sopravvivenza di
un sistema politico-sociale, con particolare riguardo alla distribuzione dei poteri
formali e informali. A questo proposito, giustamente Althusser individua nel sistema
scolastico e formativo l’apparato ideologico fondamentale, attorno a cui ruotano
tutti gli altri AIS.
È dunque evidente, e qui andiamo oltre la definizione originaria di Althusser,
che gli Stati cominciano a dotarsi di apparati ideologici man mano che traducono il
governo della memoria locale, e conseguentemente dei sentimenti di identità e di
appartenenza, in un problema politico vitale. Ma la memoria locale, come si è visto,
è intrinsecamente stratificata e dinamica e spesso conflittuale, quando memorie
diverse raggiungono la soglia di legittimità e riescono a raccontarsi. Ponendosi il
problema del governo della memoria locale, gli AIS tendono di conseguenza, e pur
nella loro vocazione repressiva, a diventare a loro volta terreni di conflitto. Essi
definiscono un linguaggio e producono discorsi, ma non possono evitare a priori
l’emergere di discorsi alternativi che condividano il medesimo linguaggio.
La terza espressione, infine, è quella di “dispositivo”, originariamente
introdotta da Michel Foucault, che con questa nozione intende designare un insieme
strutturato e solo parzialmente visibile di norme, oggetti, rituali, fantasmi, proiezioni,
tecniche, metodologie, prescrizioni, soggetti6. Il dispositivo è sia la rete che si
stabilisce tra elementi eterogenei, sia la natura del loro legame reciproco, sia la
funzione strategica cui tale insieme risponde. In questo senso, gli AIS inglobano un
“dispositivo di memoria”, cioè un insieme semi-strutturato di pratiche (e noi, in
Ivi, p. 35.
Ivi, p. 36.
6
Si veda ad esempio il capitolo “Il dispositivo di sessualità”, in M. Foucault, La volontà di sapere,
Feltrinelli, Milano 1978 (trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci).
4
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7
questo deliverable, ci concentreremo soprattutto sulle pratiche di scrittura) che punta a
scandire e colonizzare i tempi della memoria locale, a gestirne gli spazi, a produrne e
diffonderne i relativi discorsi, a permettere e controllare l’esperienza del ricordo, a
costituire e strutturare le identità soggettive.
D’altra parte, il dispositivo di memoria attraversa la dimensione istituzionale
degli AIS, ma non si identifica con essa. Un apparato ideologico fornisce a un
dispositivo di memoria intenzionalità precise ed individuabili, lo coniuga ad altri
dispositivi di potere (soprattutto ai dispositivi pedagogici), ma così facendo permette
il sorgere di intenzionalità diverse o semplicemente alternative – e sovente ne
permette il sorgere per il fatto stesso di doverle reprimere. Ancor meno gli apparati
ideologici sono in grado di controllare un dispositivo di memoria, quando agisce
senza che sia visibile e individuabile una specifica intenzionalità rammemorativa,
ovvero quando questa intenzionalità è diffusa a livello sociale. Di per sé, un
dispositivo di memoria è dunque abitabile in differenti modi, non escluse le modalità
oppositive e resistenziali.
La nostra breve narrazione storica si potrebbe inserire in un progetto teso a
ricostruire da una parte il modo e l’efficacia con cui gli apparati ideologici,
funzionanti in Trentino negli ultimi cento cinquant’anni, hanno attivato dispositivi
di memoria, dall’altra le caratteristiche di questi dispositivi, le pratiche e le esperienze
che li hanno costituiti, le intenzionalità da cui sono stati attraversati. È evidente che
un progetto di questo tipo trascende i limiti e le funzioni del presente deliverable e del
progetto in cui concretamente si inserisce; la nostra attenzione si concentrerà
pertanto, tra gli apparati ideologici, su quelli finalizzati al governo della scolarità e
della formazione e, tra i dispositivi di memoria, su quelli che si intersecano in modo
più sistematico con dispositivi pedagogici ed educativi. Leggendo la dialettica tra
questo tipo di apparati e questo tipo di dispositivi, potremo delineare alcune
significative traiettorie di “cittadinanza vissuta”, con le sue soglie e le sue
preclusioni, e potremo soprattutto connotare ciò che chiamiamo “identità” come
comportamento emergente, piuttosto che come caratteristica permanente.
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2. L’espansione della scolarità in Trentino tra gli Asburgo e il
Fascismo
2.1 La scuola prima dello Stato. Sembrerebbe un paradosso, anzi è il
"paradosso delle Alpi" il fatto, ormai noto, che uno dei tratti distintivi dell'area
alpina è costituito da una alfabetizzazione precoce (a partire dal XVI secolo) e che i
livelli di istruzione, per quanto differenziati da valle a valle, sono mediamente più alti
che nelle pianure circostanti. Insomma, l'affermazione di Paolo Viazzo secondo cui
"l'alfabetizzazione tenderebbe a crescere con l'altitudine"7 attende ancora qualche
conferma, anche se ricerche locali piemontesi, lombarde e trentine hanno
ampiamente dimostrato l'esistenza e l'ampia diffusione di iniziative semi e
parascolastiche (promosse dalle comunità locali, da congregazioni religiose, dalle
confraternite, dalle parrocchie, da singoli privati, da emigranti) ben prima
dell'intervento dello Stato8.
Così se si guarda (come si fa spesso) alla Riforma di Maria Teresa (1774) come
all'atto costitutivo e fondante di una pratica scolastica che è diventata tradizione, si
indulge ad un'ottica consolidata ma pigra, che va corretta riconoscendo che
alfabetismo e analfabetismo vengono da lontano, si connettono con la vita e i suoi
bisogni e che rispondono solo in parte alle sollecitazioni ed alle urgenze della
politica9.
P. P. Viazzo, Comunità alpine:ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Il
Mulino, Bologna 1990, pp. 180-190.
8
Tra la vasta bibliografia cfr. almeno P. F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Laterza,
Roma-Bari 1991; X. Toscani, Scuole e alfabetismo nello Stato di Milano da Carlo Borromeo alla Rivoluzione,
La Scuola, Brescia 1993. Per il Trentino rimando alla bella ricerca di L. Vadagnini, Strutture e forme
dell'alfabetizzazione nelle valli di Cembra e di Fiemme dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Per una
storia della scuola elementare trentina: alfabetizzazione ed istruzione dal Concilio di Trento ai giorni nostri, a cura
di Q. Antonelli, Comune di Trento, Trento 1998, pp. 20-68.
9
Cfr. X. Toscani, Scuole e alfabetismo, cit.
7
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9
Le scuole comunali di grammatica (o di latino) sono presenti dalla metà del
Quattrocento nelle cittadine di Trento e di Rovereto come nella maggior parte dei
comuni italiani, dove il maestro diventa, accanto al medico-chirurgo, un pubblico
funzionario. I maestri comunali operano in un regime di monopolio, sono gli unici
legittimati a tenere una scuola di grammatica e di latino, mentre rimane libero
l'insegnamento della lettura e della scrittura in volgare e dell'abaco. È una scuola a
pagamento graduato e propone un curricolo a tre stadi che da un primo corso
propedeutico alla scrittura conduce allo studio del latino. Molti studenti la utilizzano
unicamente come occasione di alfabetizzazione: imparano l'alfabeto, cominciano a
compitare, leggono il Salterio (primo e unico libro di lettura), recitano orazioni e
prescrizioni, scrivono infine copiando su carta rigata per poi abbandonare la scuola.
Nelle due cittadine, ci sono anche i maestri privati che trasformano le loro case
in altrettante scuole, facendo spesso concorrenza sul loro stesso terreno ai maestri
comunali.
Nelle valli e nei paesi montani dal XVI al XVIII secolo, vanno costituendosi
scuole richieste, volute e mantenute dalle comunità locali dove il clero insegna la
lettura, la scrittura e il far di conto. Nelle valli di Cembra e di Fiemme, nel corso di
un secolo e mezzo (dal 1615 al 1780), tutti i paesi aprono una scuola. I maestri sono
perlopiù i sacerdoti, i cappellani o i primissari, che vengono esplicitamente incaricati
di tenere un insegnamento corrispondente alle esigenze della popolazione.
In Val di Fiemme, la Regola di Cavalese, mediante un lascito dei baroni
Welsperg, ottiene fin dal 1615 l'insegnamento da parte del primissario della lettura,
della scrittura, della grammatica latina e dell'aritmetica ai ragazzi del paese. E quando
il pievano Grossi si sottrae all'obbligo di istituire quella prima scuola, gli abitanti
ricorrono al Vescovo con motivazioni di ordine sociale ed economico (i firmatari
sono boschieri e commercianti di legname): senza scuola sembra venir meno il
futuro dei loro figli10.
In Primiero è la Confraternita della Madonna del Confalone a istituire nel 1543
la prima forma scolastica. Facendosi forte della decisione di quarant'anni prima del
10
L. Vadagnini, Strutture e forme dell'alfabetizzazione, cit., pp. 23-24.
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vescovo Antonio Pizzamano di concedere alla confraternita stessa un sacerdote al
fine di istruire nella grammatica i loro figli ("docere, instruere et erudire in gramatica
filios eorum"), i confratelli decidono che venga formalmente attuata quella vecchia
ordinanza11.
Se qui l'inizio è molto precoce e irrituale, altrove sono le comunità di paese, tra
Sei e Settecento, ad introdurre nel contratto con il primissario o con il curato
l'obbligo di far scuola.
Più difficile capire se anche le bambine godessero di qualche forma di
istruzione in assenza di un convento femminile, dove tradizionalmente erano accolte
ed avviate alle pratiche devote, ai lavori donneschi (cucito, ricamo), ad una condotta
morale ed eventualmente all'apprendimento della lettura e della scrittura (mai del
calcolo aritmetico).
Esistono poi, in tutti i paesi, le scuole della "dottrina cristiana". Dopo il
Concilio di Trento, la repressione dell'eresia e il ferreo controllo dottrinale si
accompagnano come si sa, al risveglio della devozione, alla predicazione, alla
diffusione dell'istruzione religiosa. Da qui le scuole domenicali della "dottrina
cristiana" che, sorte negli anni Trenta del Cinquecento, vengono riprese, approvate e
potenziate dal Concilio che le pone sotto la guida dei vescovi. Si trattava di
"imprimere Christo nelle nude menti de' fanciulli": di insegnare le verità della fede e
le regole del buon comportamento, ciò che bisognava credere e fare12. Insegnare la
dottrina voleva dire molte cose: si cominciava con il segno della croce e si
proseguiva con le preghiere fondamentali della devozione cristiana (il Padre nostro,
l'Ave Maria, il Credo), con gli articoli di fede, coi precetti della Chiesa e i giorni di
Cfr. P. Leonelli, Contributo alla storia della scuola nella Valle di Primiero, rel. Francesco De Vivo,
Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Padova, anno acc. 1969-70, pp. 20-23.
12
La letteratura sulle scuole di dottrina cristiana è divenuta in questi anni assai ricca, si veda almeno
M. Turrini, Riformare il mondo a vera vita christiana: le scuole di catechismo nell'Italia del Cinquecento, "Annali
dell'Istituto storico italo-germanico in Trento", VIII, 1982, pp. 407-489; X. Toscani, Catechesi e
catechismi come fattore di alfabetizzazione in età moderna, "Annali di storia dell'educazione", 1, 1994, pp.
17-36. Per quanto riguarda Trento e il Trentino cfr. L. Vadagnini, Strutture e forme
dell'alfabetizzazione…, cit.; Piera Graifenberg, Poveri fanciulli abbandonati che crescono come piante nei boschi!
Scuola e alfabetizzazione a Trento nella seconda metà del Settecento, Comune di Trento, Trento 2003.
11
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digiuno. Si passava poi alla morale, ai vizi e alle virtù, alle opere di misericordia, con
esempi di buona condotta quotidiana: "manualetti e fogli volanti raccoglievano
insomma sotto questo termine una gran quantità di cose. Impararle voleva dire
mandarle a memoria, con l'aiuto di ritmi, canzoncine, immagini, con lo stimolo di
premi, piccoli o grandi"13.
Va rilevato che l'insegnamento della dottrina cristiana non si traduceva in un
processo di alfabetizzazione (in quella sede i bambini non imparavano a leggere e a
scrivere), ma certo entravano in un contesto che li familarizzava con la scrittura,
venivano in contatto con i libretti di preghiera, il catechismo e le didascalie delle
immagini esibite per devozione.
Lungo il Seicento appaiono, per la prima volta, anche gli studi superiori, i
ginnasi: nel 1625 a Trento per iniziativa dell'Ordine dei Gesuiti, nel 1672 a Rovereto
per merito del Consiglio cittadino14. Se il primo viene fondato seguendo le
indicazioni della "Ratio studiorum" gesuitica, pure il secondo non si allontana da
quelle prescrizioni pedagogiche che enfatizzavano come scopo principale della
nuova istituzione scolastica l'educazione cristiana della gioventù (fuggire i vizi, amare
le virtù, coltivare la pietà).
Le regole indicano a maestri ed allievi comportamenti, rituali, devozioni,
impegni religiosi: ogni quindici giorni gli allievi sono tenuti a confessarsi e a
comunicarsi, riportando al maestro l'attestato; ogni giorno la scuola è preceduta dalla
messa; l'inizio la fine delle lezioni sono segnati dalla preghiera; tutti i giorni di vigilia
e ogni sabato gli allievi devono assistere alla spiegazione del vangelo. Inoltre i
maestri durante le lezioni devono eccitare lo zelo religioso degli allievi.
I ginnasi, a rigore, possono essere definiti "scuole latine". Il curricolo che
caratterizza le cinque classi (le prime tre di "grammatica" e le ultime due di
"umanità") ruota intorno all'apprendimento del latino: dallo studio mnemonico della
A. Prosperi, Tribunali della coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, p. 626.
Cfr. L. de Finis, Dai maestri di grammatica al Ginnasio Liceo di via S. Trinità in Trento, Società di studi
di scienze storiche, Trento 1987; Q. Antonelli, "In questa parte estrema d'Italia..." Il Ginnasio Liceo di
Rovereto (1672-1945), Nicolodi, Rovereto 2003.
13
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grammatica fino all'attenta lettura di Virgilio, Cicerone, Orazio. E il curricolo
umanistico durerà a lungo, fin dentro l'Ottocento.
2.2. La scuola dello Stato. Il testo della riforma scolastica di Maria Teresa,
Allgemeine Schulordnung15, viene emanato il 6 dicembre 1774, nella fase finale di
un lungo processo riformatore, tendente a riorganizzare lo Stato in senso
assolutistico-illuminato. Quello che verrà comunemente chiamato il Regolamento
teresiano viene a fornire un’organizzazione unitaria ad un complesso di iniziative
preesistenti, scuole della “dottrina cristiana”, di abaco e di grammatica, promosse da
privati, da comunità di paese e di valle, da parrocchie o da istituti religiosi16.
Anticipando “tanto la Rivoluzione quanto la Restaurazione con una politica
scolastica di grande modernità”17, la riforma definisce, con una certa gradualità,
l’obiettivo della capillare diffusione della scuola di base. Viene sancito l’obbligo
scolastico per tutti i ragazzi tra i sei e i dodici anni. Quanto alle materie
d’insegnamento, la scuola teresiana è, nel suo disegno generale, distante dalle scuole
di latinità quanto da finalità immediatamente professionalizzanti o perlomeno
addestrative: è piuttosto una scuola di alfabetizzazione, sia nel senso più
propriamente didattico (leggere, scrivere e far di conto) che educativo (la religione, i
buoni costumi, i doveri dei sudditi).
Nel testo teresiano sono frequenti i richiami al metodo di insegnamento, che
doveva a tutti gli effetti costituire la differenza qualificante con le scuole del passato.
I maestri dunque sono tenuti ad imparare presso le scuole normali “il metodo” e poi
a servirsene “a puntino”. Il Methodenbuch, messo a punto da Felbiger prescriveva
con ordine, chiarezza e minuziosità il processo didattico che ruotava intorno ad
La traduzione italiana assumerà per titolo quello di “Ordine generale per le scuole normali,
principali ed ordinarie”: cfr. La scuola di base secondo il regolamento teresiano: 1774 - Die Volksschule nach
der Teresianischen Regelung: 1774, a cura di R. Stenico, “Civis”, Trento 1985.
16
Cfr. La scuola prima dello Stato, parte prima di Per una storia della scuola elementare trentina, cit., pp. 1180.
17
X. Toscani, La politica scolastica nel Regno Lombardo-Veneto (scuole elementari), in Il Lombardo Veneto
1814-1859: storia e cultura, a cura di N. Dacrema, Campanotto, Udine 1996, p. 60.
15
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alcune indicazioni basilari: insegnamento simultaneo; interrogazione catechetica;
metodo delle lettere (una modalità associativa fonema-monema finalizzata
all’apprendimento della letto-scrittura); metodo delle tabelle (il contenuto
dell’insegnamento viene riassunto ed esposto su una tabella con il massimo
ordine)18. La rigidità e la schematicità del metodo obbedivano ad alcune finalità del
tutto comprensibili: fornire ai molti maestri, privi di una preparazione specifica,
precise indicazioni in grado di formare un primo background professionale;
garantire l’uniformità dell’insegnamento in tutte le scuole dei territori asburgici;
controllare, anche politicamente attraverso i libri di testo, la formazione dei sudditi.
All’indomani della promulgazione dell’Allgemeine Schulordnung, il Capitanato
circolare di Rovereto sollecita le autorità delle varie giurisdizioni ad istituire le nuove
scuole, a iniziare proprio da Rovereto dove nel febbraio del 1775 viene aperta la
Cesarea regia scuola normale ai confini d’Italia, diretta dal sacerdote Giovanni Marchetti.
Divisa in tre classi con annessa una classe in lingua tedesca, opera come modello per
le scuole che di lì a poco dovranno sorgere in tutti i paesi del Circolo ai confini d’Italia.
La preparazione va per le lunghe, un po’ dappertutto. Nel 1786, a dodici anni
dalla riforma di Maria Teresa, le scuole “normali” maschili (in cui si insegnava
secondo il “metodo”) erano 6919 e 19 quelle femminili, collocate nel Circolo ai
Cfr. la voce Felbiger, Johann, Ignaz, von, redatta da Francesco De Vivo, in Enciclopedia pedagogica, a
cura di Mauro Laeng, La Scuola, Brescia 1989. Una traduzione italiana “compendiata” del
Methodenbuch si avrà nel 1785 a cura di Giovanni Marchetti, primo direttore della Scuola normale di
Rovereto: G. Marchetti, Compendio del metodo prescritto per i maestri delle Scuole Normali, Capitali, e Triviali
italiane negl'Imp. Reg. Dominj, in cui principalmente si dimostra, come si debbano insegnare quegli oggetti, che sono
determinati nell'ordine generale delle Scuole, Marchesani, Roveredo 1785.
19
Ci rifacciamo alla statistica riportata da S. Hölzl, La scuola dell'obbligo nel Circolo ai confini d'Italia, cit.,
p. 141, che però non è del tutto affidabile. Hölzl fa corrispondere ad ogni luogo citato una scuola e
considera i maestri relativi, tutti come insegnanti in quella stessa scuola. Ora se per Rovereto questa
lettura può funzionare (ad una scuola maschile corrispondono 9 maestri, ma vi sono compresi
anche i tre insegnanti di tedesco della scuola tedesca annessa – e si tralascia di considerare
l’esistenza delle due scuole femminili), per Vallarsa (che comprende una trentina di piccoli centri)
tutto ciò non ha senso. Qui non esiste un’unica scuola con quattro insegnanti, così come si
potrebbe capire dalla tabella di Hölzl: i quattro insegnanti stanno invece ad indicare l’esistenza di
quattro diverse scuole che si trovano disseminate in Vallarsa. Simile è il caso di Dro/Ceniga (tre
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confini d’Italia: nei distretti di Rovereto, Folgaria, Nomi, Valle di Gresta, Penede,
Arco, Drena, Levico, Telvana, Castellalto, Ivano, Primiero, Castelfondo, Spor,
Belfort (Molveno, Andalo), Flavon. Le scuole maschili sono provviste
complessivamente di 92 insegnanti: 59 scuole ne hanno uno, 10 sono articolate in
più classi. In 40 scuole non si tiene alcun insegnamento per le ragazze; in 10 casi le
ragazze frequentano eccezionalmente scuole promiscue.
La frequenza dei ragazzi in età dell’obbligo sembra buona con una percentuale
dell’80-90%, meno soddisfacente, come si può constatare, è la frequenza delle
ragazze, per le quali, anche in località piuttosto grandi come Levico, non esistono
scuole femminili.
Fuori dal Circolo ai confini d’Italia, nei territori del Principato vescovile, la scuola
normale fatica a diffondersi. In molti villaggi rimangono in funzione le vecchie
scuole dei sacerdoti, incaricati di insegnare dalle comunità. La riforma di Maria
Teresa, insomma, nonostante gli inviti del governo di Innsbruck, non viene recepita
nei territori del Principe Vescovo. A partire dalla città di Trento, che vedrà
l’introduzione delle scuole ispirate alla riforma solo nel 1795, in virtù del legato
testamentario lasciato da Carlo Sebastiano Trapp20.
In questi territori il modello scolastico è quello tradizionale dei sacerdotimaestri, diffusosi tra Sei e Settecento nelle valli trentine: una scuola di breve durata
(solo stagionale), non obbligatoria, a pagamento graduato, direttamente controllata
dalle comunità.
Si tratta di una situazione molto fluida, poco omogenea, poco formalizzata:
tradizione e innovazione si confrontano e a volte si sovrappongono.
2.3. Dopo lo scioglimento del Principato vescovile e dopo le guerre
napoleoniche, nel 1816 la Contea tirolese subisce un assestamento definitivo (fino
insegnanti) interpretato come un unico paese con un’unica scuola, mentre i luoghi sono due con
due scuole distinte.
20
Proclama di Pietro Vigilio Vescovo e Principe di Trento. In: Archivio di Stato di Trento, Libri
copiali, II, n. 89, c. 88.
Storia locale e spazi di cittadinanza
15
alla Grande Guerra): viene divisa in Circoli, due dei quali, con sede in Trento e
Rovereto, coprivano il territorio trentino.
Gubernium, Capitanato, Magistrato cittadino entrano direttamente nella
“nuova” organizzazione scolastica che il Governo di Vienna estende, dopo la
definitiva annessione, anche alle terre del Tirolo meridionale. E lo fa richiamando in
vita il Politische Verfassung der deutschen Schulen in den K. K. deutschen
Erbstaaten, ovvero la sistematica raccolta di istruzioni, tese a regolamentare ogni
aspetto dell’organizzazione scolastica elementare, emanata da Francesco I nel 180521.
Il Regolamento politico, dunque, da un lato riconferma l’impianto scolastico di
Maria Teresa e di Giuseppe II, ma dall’altro mette in piedi una rigida armatura
capace di regolare la scuola in modo uniforme in tutta la Monarchia, entro cui
accentua il primato della religione nella formazione degli alunni e quello della Chiesa
nei compiti di sorveglianza e di direzione.
La struttura scolastica viene affidata interamente alla gestione ecclesiastica:
l’Ordinariato vescovile ne assume il controllo, pedagogico, didattico, morale (sui
testi, gli oggetti dell’insegnamento, gli insegnanti) attraverso gli ispettori distrettuali
(perlopiù i decani) e approva l’assunzione degli insegnanti.
Gli obiettivi e gli interessi della scuola vengono a coincidere con quelli della
chiesa così come i confini della parrocchia e del decanato vengono a soprapporsi a
quelli civili entro una unica strategia educativa.
Alle autorità civili rimangono le incombenze amministrative: all’ispettore locale
il compito di incoraggiare le famiglie e di raccogliere le tasse scolastiche;
all’Amministrazione comunale e al Capitanato distrettuale il dovere di procurare
l’edificio, l’arredamento e gli stipendi per i maestri.
2.4. Il 1848 è l'anno, non casuale, in cui si mette in discussione l'antico assetto
delle Scuole di grammatica per proporre progetti di riforma che porteranno, l'anno
Cfr. Regolamento politico per le Scuole elementari dell’I.R. Provincie austriache ad eccezione dell’Ungheria, del
Regno Lombardo Veneto e della Dalmazia, Vienna 1847. L’edizione riporta il testo del 1805 e le
ordinanze posteriori e in nota quelle in corso nelle singole provincie.
21
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
16
successivo, alla promulgazione del vasto e ambizioso Entwurf der organisation der
Gymnasien und Realschulen in Österreich. La riforma istituisce un nuovo corso
ginnasiale di otto classi e muta sensibilmente l'asse formativo degli studi: accanto al
latino, al greco, all'italiano fanno la loro comparsa la geografia e la storia, la filosofia
(uno studio propedeutico), e poi la matematica, la fisica e la storia naturale. Inoltre
con l'istituzione delle Realschulen viene riconosciuto il ruolo, ormai centrale,
dell'istruzione tecnico scientifica nella formazione dei sudditi. Una immediata
ricaduta si ha a Rovereto nel 1854 con la nascita della Scuola reale elisabettina22.
2.5. Alla fine degli anni Sessanta l'organizzazione scolastica cambia
bruscamente. Al Parlamento una maggioranza liberale decide di sottrarre la scuola al
controllo della Chiesa: "la suprema direzione e la sorveglianza di tutto ciò che
s’attiene all’istruzione e all’educazione" spetta ora allo Stato. Che nel maggio 186923
emana quella che verrà definita la legge "fondamentale", una legge-quadro, che viene
a modificare profondamente sia la struttura che l’attività didattica della scuola di
base.
La legge si apre con una dichiarazione di tolleranza: "Ogni scuola popolare,
alla cui fondazione o mantenimento lo Stato, la Provincia od il Comune
contribuiscono tutte o parte delle spese, è un istituto pubblico e come tale
accessibile alla gioventù indipendentemente dalla professione religiosa".
In luogo della vecchia divisione tra scuole, si istituiscono le "scuole popolari
generali" e le "scuole civiche", con il compito, queste ultime, di "offrire a chi non
frequenta scuole medie una coltura superiore", ovvero nozioni di fisica e di
geometria, di computisteria, di disegno geometrico e a mano libera. C’è da
aggiungere che sul piano delle materie d’insegnamento, allo scrivere, leggere e far di
Cfr. M. A. Spagnolli, L'istruzione tecnico-scientifica nell'epoca della trasformazione socioeconomica del Trentino:
la Realschule di Rovereto dal 1849 al 1914, in Una scuola per la città: dalla Realschule all'Istituto Tecnico
Fontana: storia e prospettive (1855-1995), a cura di Q. Antonelli e P. Buccellato, Osiride, Rovereto
1999, pp. 19-94.
23
Legge del 14 Maggio 1869, nella quale su stabiliscono le massime fondamentali dell’azienda d’istruzione rispetto
alle scuole popolari, in “Bollettino delle Leggi dell’Impero”, puntata XXIX, n. 62, 1869.
22
Storia locale e spazi di cittadinanza
17
conto, si aggiunge per tutti lo studio delle scienze naturali, della geografia e della
storia e fanno la loro comparsa il canto e la ginnastica.
L’obbligo scolastico viene innalzato ai 14 anni, per otto anni complessivi di
scuola. Per la formazione dei maestri e delle maestre si introducono gli istituiti
magistrali di quattro anni, con annesse le scuole di pratica (scuole elementari
modello dove i maestri possano far pratica).
Più tardi, nel 1892 la Dieta di Innsbruck completerà la riforma approvando la
legge sulla "sorveglianza sulla scuola" che prevedeva l'istituzione di veri e propri
organi consiliari. Solo in piccola parte elettivi, composti ai vari livelli (locale,
distrettuale e provinciale) da rappresentanti della Chiesa cattolica, della scuola, delle
comunità locali e dell’Amministrazione dello Stato, sono tenuti a controllare e a
dirigere segmenti diversi della scuola.
Con la Legge del 1869 e con la Legge provinciale n. 7 sulla "sorveglianza" del
1892 vengono così fornite alla scuola elementare tirolese (e quindi anche trentina)
una organizzazione ed una articolazione, certo imperfette e passibili di
miglioramenti, ma in grado di avviare un processo di crescita complessiva
dell’istruzione e della qualificazione professionale, nonché di evidenziare
l’importanza se non il prestigio della scuola di base.
2.6. Nella fase transitoria del dopoguerra, il Trentino conserva in gran parte
l’organizzazione scolastica precedente compresi i suoi organismi di sorveglianza (i
consigli scolastici locali). La scuola popolare mantiene l’orario, il calendario ed anche
i programmi della scuola austriaca con l’avvertenza di adeguare l’insegnamento della
storia e della geografia alla nuova realtà nazionale. Rimane l’obbligo di frequenza
fino ai 14 anni24. E in quanto alle maestre viene a cadere, finalmente, il "nubilato
obbligatorio".
Quanto al futuro gli insegnanti si dividono: gli aderenti alla Associazione
magistrale cattolica, che si richiama ora a "Nicolò Tommaseo", e i maestri laici
Cfr. G. Ferretti, La scuola nelle terre redente. Relazione a S. E. il Ministro (Giugno 1915 – Novembre
1921), Vallecchi, Firenze 1923.
24
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
18
racconti intorno alla rivista "Scuola Redenta", sostengono sulle rispettive testate
progetti diversificati, che finiscono per addensarsi intorno all’eredità più vistosa
dell’organizzazione scolastica austriaca: gli organismi di sorveglianza decentrati (in
particolare il Consiglio scolastico locale) e l’insegnamento religioso impartito dal
parroco25. Per i maestri cattolici, in sostanza, l’impianto della scuola austriaca andava
conservato, enfatizzandone gli aspetti di scuola popolare comunale e cattolica
(soggetta anche al controllo delle famiglie e del parroco).
Diversa è naturalmente la posizione dei maestri laici che vedono di buon
occhio la normativa italiana in fatto di insegnamento religioso e fanno
dell’abolizione del consiglio scolastico locale il loro cavallo di battaglia: "Noi siamo
pienamente per una scuola laica, e appunto perciò chiediamo ad alta voce
l’abolizione del Consiglio scolastico locale che rappresenta appunto un’ingerenza
della gerarchia ecclesiastica nel governo della scuola"26.
In sintesi, "da una parte abbiamo i cattolici schierati dietro la bandiera della
scuola cristiana e autonoma: l’associazione indissolubile dei due termini è tipica del
linguaggio di quel dibattito. Dall’altra parte abbiamo i laici, propensi a valorizzare il
ruolo unificatore dello Stato e a chiudersi in una scuola dei maestri, con un
atteggiamento evidentemente ostile verso un più stretto rapporto non solo scuolafamiglia, ma anche scuola-realtà locale"27.
Ma nel 1923 il tempo del confronto e dello scontro scade irrimediabilmente: la
riforma Gentile metterà tutti a tacere. Sopprimendo ogni rappresentanza elettiva e
ogni organo di gestionale locale (sostituiti da Consigli scolastici regionali e consigli di
Non è il caso di ricostruire in questa sede tutta l’articolazione del confronto; si rimanda per
questo ai lavori di F. Rasera, Dopoguerra e primo fascismo in Trentino nella storiografia locale, in “Materiali
di lavoro”, n. 3, 1978; A. Vadagnini, La questione scolastica, in Il Trentino nel primo dopoguerra. Problemi
economici e sociali, a cura di A. Leonardi, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 1987,
pp. 461-480; Q. Antonelli, Dall’attivismo alla “bonifica” fascista, in Per una storia della scuola elementere
trentina, cit. pp. 213-227.
26
“La Scuola Redenta”, 15 dicembre 1920.
27
F. Rasera, Dopoguerra e primo fascismo…, cit. p. 15.
25
Storia locale e spazi di cittadinanza
19
disciplina di nomina ministeriale), riformando lo stato giuridico, inasprendo le
sanzioni disciplinari, elimina d’un colpo il confronto politico e sindacale.
2.7. Sulla rivista diretta da Ferrière, a beneficio di un pubblico francese,
Giuseppe Lombardo Radice riassume nel 1926 il senso della sua riforma (perché
suoi sono i programmi per le scuole elementari) quale attuazione dei principi e dei
metodi della scuola attiva: ovvero la riforma "capovolge, letteralmente, la tradizione
didattica, trasportando l’interesse dal maestro allo scolaro; convertendo la didattica
da ‘arte di insegnare’ in ‘arte di osservare il fanciullo e di promuovere e disciplinare
le sue spontanee manifestazioni e le sue attività creative’. Diffonde perciò un poco
in tutte le scuole lo spirito delle scuole nuove"28. Si tratta, in realtà, di un attivismo
assai particolare e sfumato in grado però di dar vita ad una didattica meno
nozionistica e mnemonica e più capace di sviluppare le capacità e le abilità
individuali attraverso le attività: il gioco, il canto, il disegno, la scrittura spontanea, la
ricerca ambientale (linguistica e folklorica), il lavoro.
Nel Trentino i nuovi programmi trovano un’accoglienza molto positiva ed un
ambiente del tutto favorevole. Se già nel contesto della scuola austriaca il Lombardo
Radice delle Lezioni di didattica era, per i maestri del “Didascalico” il pedagogista di
riferimento, a metà degli anni Venti (divenuti i più attivi di quei maestri, nel
frattempo, direttori didattici ed ispettori) la scuola trentina si trova, esemplarmente
in quanto redenta, in prima linea ad interpretare ed applicare la riforma.
Giuseppe Giovanazzi, già direttore del “Didascalico” divenuto ora ispettore,
pur tra qualche contraddizione, si rivela, tra i divulgatori della riforma, quello più
genuinamente attivistico: “La nuova scuola - scrive nell’introduzione al suo volume
Per la scuola attiva - trasportò il suo centro di gravità dal maestro all’alunno.
L’attività del primo può considerarsi culturalmente utile soltanto nella misura che
essa riesce a destare la fattività del secondo. L’educatore studia l’alunno per aiutare
Scritto originariamente per la rivista “Pour l'ère nouvelle”, il testo dal titolo La scuola attiva nella
riforma Gentile e le classi di differenziazione didattica si trova pubblicato in G. Lombardo Radice,
Orientamenti pedagogici per la scuola italiana, vol. II, Paravia, Torino 1931, pp. 61-85.
28
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
20
questo a conoscere sè stesso, studia l’ambiente per promuoverne e guidarne
l’esplorazione da parte degli alunni. […] Una scelta, una limitazione e un metodo di
studio sono necessari. La scuola attiva crede, però, non giovi stabilirli dal di fuori,
ma occorra invece che essi derivino dall’attività dell’alunno e del maestro uniti in
comunità di lavoro”29.
Sono parole d’ordine che vengono variamente mediate dai direttori didattici.
Nel 1923, in seguito alla riforma, era giunto a Trento anche il nuovo
Provveditore Luigi Molina, un funzionario statale piemontese, che immediatamente
si rende conto delle particolarità della regione e della delicatezza del passaggio
dall’ordinamento austriaco a quello italiano. Operando entro le strette disposizioni
ministeriali decisamente accentratrici, Molina cerca comunque di valorizzare alcuni
elementi del vecchio sistema e innanzitutto il fatto che la scuola elementare trentina
(a differenza di quella italiana) si era sviluppata (e aveva predisposto un percorso
curricolare) su otto anni di scuola effettivamente obbligatori.
Laico (con un fondo di laicismo forse massonico) e nazionalista, Molina
allaccia immediatamente un rapporto di stima e di fiducia con gli uomini della nuova
“Scuola Redenta”. Chiama Arcangelo Confalonieri, già direttore del “Didascalico” a
collaborare come redattore unico al bollettino del Provveditorato “Schola”, in prima
linea nell’opera di divulgazione degli aspetti pedagogici e didattici della riforma. E
poi, valorizza gli ispettori Giovanazzi, Dalpiaz e Dossi30.
Nel Trentino, per merito di Molina (che è funzionario ambizioso) a ridosso
della riforma viene messa in campo una serie ben coordinata di iniziative di
aggiornamento e di promozione didattica. La relazione-studio sulle scuole della
circoscrizione scolastica di Trento (1925-1926) dell’ispettore Riccardo Dalpiaz (con
presentazione di Giuseppe Lombardo Radice), dà conto minutamente del frenetico
G. Giovanazzi, Per la scuola attiva: contributo di esperienza all'attuazione dei nuovi programmi per le scuole
elementari, Vallardi, Milano 1926, p. 12. Sulla figura e l'opera di Giovanazzi si veda a cura di G.
Colangelo, L'educatore militante: antologia del pensiero didattico di Giuseppe Giovanazzi (1885-1944),
Didascalie-libri, Trento 2002.
30
L. Molina, Non fu impresa facile la mia: dalle memorie di Luigi Molina, regio provveditore a Trento, in
“Archivio Trentino”, 2, 2001, pp. 227-244.
29
Storia locale e spazi di cittadinanza
21
attivismo: conferenze e lezioni pratiche per gli insegnanti; “gruppi d’azione” che in
riunioni mensili approfondiscono argomenti e tecniche legate alla scuola attiva;
diffusione e incremento delle biblioteche magistrali; mostre didattiche temporanee
di circolo con scopi di esemplarità; convegni, gare e scambi di visite; referendum su
quesiti didattici con il fine di coinvolgere tutti i maestri e “promuovere in ciascuno
un riesame dei procedimenti personali finora usati”31.
La nuova scuola uscita dalla riforma è continuamente sollecitata (e obbligata) a
proiettarsi sulla scena pubblica, sia per mostrare gli esiti didattici, sia per
sensibilizzare i cittadini alle necessità scolastiche. Perché questa è una riforma avara,
tesa al risparmio: disegna una scuola creativa, ricca di strumenti, di laboratori, di
“musei didattici”, ma sottrae gli investimenti e, al loro posto, istituisce la festa
annuale “per la dote della scuola”32, una manifestazione pubblica (una recita, un
saggio ginnico, una lotteria, ovvero “trattenimenti a tipo dilettevole ed istruttivo”)
tesa a sollecitare la generosità della comunità.
Cure particolari vengono prestate alla nascita e alla diffusione dei giornalini
scolastici che diventano divulgatori della riforma: il contenuto “è formato da squarci
di diari, di componimenti mensili e annuali illustrati; da resoconti delle lezioni, di
studi lessicali, di corrispondenze interscolastiche, di piccoli componimenti teatrali, di
sperimenti vari; di resoconti su coltivazioni e allevamenti fatti in classe, su lezioni
all’aperto, su conferenze; riportano disegni interessanti; quesiti originali, giuochi,
arguzie infantili; iniziative particolari, gare ecc. ecc. che il direttore raccoglie
direttamente o ritira o si fa spedire dalle varie scuole e che riproduce poi, di quindici
in quindici giorni, su fogli di carta volante con ciclostile o con poligrafo, seguendo
un determinato ordine dimostrativo”33.
Gli anni scolastici 1926-1927, 1927-1928 (anni, non c’è dubbio, proficui da un
punto di vista didattico, segnati dalla sperimentazione della riforma) sono nello
R. Dalpiaz, Esperienze didattiche di un ispettore trentino: relazione-studio sulle scuole della circoscrizione
scolastica di Trento (1925-1926), Associazione per il Mezzogiorno, Roma 1928 (2° edizione corretta).
32
Cfr. la circolare n. 100 del 13 gennaio 1924, riportata in: “Schola. Bollettino del R. Provveditorato
agli studi della Venezia Tridentina”, a. I, nn. 3-4, 1924.
33
R. Dalpiaz, Esperienze didattiche di un ispettore trentino, cit., p. 28.
31
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
22
stesso tempo anche gli anni che vedono provveditore, ispettori, direttori ed
insegnanti impegnati ad introdurre in quel medesimo microcosmo scolastico le
condotte, le parole d’ordine, i simboli, o in altre parole, la strategia pedagogica del
fascismo.
Non sono contraddizioni personali. Vengono qui alla luce taluni aspetti di quel
complesso rapporto che legò gli intellettuali al regime fascista: qui, nel caso dei
trentini, quel rapporto è agevolato dalla scelta irredentisca prima e nazionalistica poi.
Comunque sia è un fatto che questi nostri uomini di scuola non trovano
contraddizione tra pedagogia della spontaneità e irregimentazione balillistica. Un
giornalino provinciale come “Il Balilla del Trentino”, che uscirà diretto da
Giovanazzi e sorretto da una schiera di maestri del vecchio “Didascalico” per due
anni dal 1930 al 1931, sta lì a dimostrare come sia possibile ospitare i testi di un
bambino “creatore di lingua” dentro una cornice fortemente ideologica e quindi
pedagogicamente autoritaria34.
L’ansia educativa del fascismo penetra anche nella didattica, anche là nella
scrittura “spontanea” dei bambini, dove il tema ha ripreso il sopravvento per
rendere omaggio al Duce del fascismo.
La scuola elementare degli anni Trenta (anche trentina) si presenta fortemente
“bonificata” dal fascismo che impone agli insegnanti atti di fedeltà al regime e che,
sul piano didattico, svuota i programmi di Lombardo Radice, riorganizzando la
scuola come strumento di propaganda e di irregimentazione militare.
Non è privo di significato il titolo che Giuseppe Giovanazzi, ispettore colto e
innovatore, convinto sostenitore - come si ricorderà - della riforma e della scuola
attiva, apporrà nel 1935 al suo nuovo commento ai programmi della scuola
elementare: La scuola del Balilla35. Come a dire che alla natura del bambino o alla
cultura del fanciullo deve sostituirsi, al centro delle preoccupazioni del maestro,
Sul “Balilla del Trentino” cfr. G. Colangelo, Un ambiguo contenitore di buone scritture bambine: “Il
Balilla del Trentino” (1930-1931), in Per una storia della scuola elementare, cit., pp. 228-245.
35
Paravia, Torino 1935.
34
Storia locale e spazi di cittadinanza
23
l’essenza tutta politica del “Balilla”, ovvero l’esigenza della sua formazione
ideologica.
Ed è altrettanto malinconico leggere, nel decennale della riforma (1933), le
parole di Ilario Dossi, mite ispettore sulla cui spalla hanno pianto decine di maestre
in difficoltà (anch’egli fautore della riforma al pari di Giovanazzi e Finotti). In un
resoconto sulla mostra didattica trentina permanente, voluta dall’Associazione
Fascista della Scuola, Dossi descrive i nuovi compiti dei maestri: “I nostri maestri,
nella loro gran maggioranza, sono veramente i ‘sacerdoti voluti dal Duce’, giacché
mettono nel compimento del dovere il centro della loro vita, si assoggettano a
severa disciplina e lavorano con passione attorno ad un’opera che non ha tregua che
va dalla scuola elementare alle Organizzazioni giovanili fasciste, al Dopolavoro, alle
Opere assistenziali, alle scuole serali, alle Colonie marine e montane, agli aiuti
disinteressati di ogni genere alla popolazione tra cui vivono”36. E di seguito
descrivendo le quattro aule della mostra didattica, rileva soprattutto quanto ha
riferimento con “l’educazione dell’uomo nuovo”: i ritrattini del Duce, le fotografie
di Balilla, Piccole Italiane e Avanguardisti; gli album delle Opere del Regime; le
cartine geografiche “rappresentanti a colori diversi le bonifiche, gli acquedotti, le
nuove vie di comunicazione”; i diari “celebranti le commemorazioni nazionali, le
cerimonie patriottiche, la esaltazione di fatti e di opere immortali, mentre squadre di
Balilla, di Piccole Italiane e scolaresche percorrono le vie dei villaggi montani,
bandiere in testa, al canto gioioso degli inni patriottici”; le ricerche, le misurazioni, i
confronti tesi ad esaltare l’intelligente laboriosità del popolo italiano; le cartine
storiche animate della Grande Guerra, i disegni degli eroi, le raccolte di reperti
archeologici, finalizzati per un verso a erigere “nel cuore dei fanciulli un altare
imperituro d’ammirazione, di riconoscenza, d’amore alla memoria dei Martiri” e
dall’altro ad alimentare “l’orgoglio per l’origine romana della nostra stirpe”37.
I. Dossi, La Mostra didattica permanente dell’A.F.S., in Problemi della scuola elementare nel decennale della
Riforma, Tip. ed. Mutilati e Invalidi, Trento 1933, pp. 7-11. La mostra viene aperta a Trento il 29
aprile 1933 presso la scuola elementare “Francesco Crispi”, con lo scopo di enfatizzare i risultati
della riforma Gentile.
37
Ivi.
36
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
24
Le parole di Dossi costituiscono la pietra tombale della riforma: mutato il
ruolo del maestro, svuotata la riforma, snaturata la pratica attivistica. Che rimane?
Apriamo un registro scolastico a caso (scuola elementare maschile di
Rovereto): anno 1938-1939, classe quarta. La parte centrale è occupata dal
programma didattico settimanale a partire dal 18 ottobre. In bella vista troviamo il
tema della settimana, su cui si concentra la maggior parte degli interventi del
maestro. A lato continuano a scorrere lezioni sistematiche e d’occasione. Dal 2 al 12
novembre si celebra il “Ventennale della Vittoria”; dal 12 al 18 dicembre si
ricordano le “Istituzioni del Regime per il miglioramento e il potenziamento della
razza”. La ricorrenza del “XVI annuale della Milizia” (dal 30 gennaio al 5 febbraio)
innesca una ricerca locale (è la scuola attiva?): “Le varie specialità di Milizia che gli
alunni hanno possibilità di vedere nella loro città (Mil. ordinaria-ferroviaria-stradaleforestale). La sede locale della Milizia”. 6-12 febbraio: il titolo “Niente sprechi!”
rimanda ad una trasmissione dell’Ente Radio Rurale (che era entrata già nei primi
anni Trenta come ulteriore sussidio didattico) e ruota intorno al concetto di
Autarchia. Dal 20 al 26 marzo le osservazione, le riflessioni e le letture si riferiscono
al “Ventennale dei Fasci di Combattimento”; dal 24 al 30 aprile si ricorda Guglielmo
Marconi. La settimana dall’8 al 14 maggio è dedicata al “Nostro Impero” (qui anche
la “bella scrittura” concorre ad illustrare il tema: “Frasi del Duce relative all’Impero:
Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo
lavoro…”). Dal 22 al 28 maggio si ricorda “L’Intervento dell’Italia: 24 maggio
1915”.
(È il caso di ricordare che la simbologia e la mitologia fasciste contaminano
anche le lezione più “sistematiche”, quelle di aritmetica e di geometria, come hanno
dimostrato Gabrielli e Guerrini, che hanno incluso (ahimé!) in un loro repertorio
“nero” anche i due testi di aritmetica di Costante Finotti, dove appare il meccanismo
di trasformazione del contesto: “Le righe e le file cessavano di essere composte da
fanciulli e si popolavano di balilla in divisa, così come i disegni geometrici si
orientavano su soggetti come i fasci littori o i cannoni: si agiva cioè forzando
Storia locale e spazi di cittadinanza
25
l’immaginario del bambino verso una costellazione di riferimenti politici o ideologici
proposti come naturali”38).
3. Produzione, comunicazione e controllo della memoria
locale
3.1 Apparati ideologici di Stato e dispositivi di memoria.
Quanto abbiamo finora ricostruito storicamente può essere concettualizzato
ponendo in primo piano la dialettica tra apparati ideologici a carattere formativo e
dispositivi di memoria a prevalente carattere pedagogico. L’obiettivo non è tanto
impostare una storia del Trentino che metta al centro questa dialettica39, quanto
mostrare alcune dinamiche significative che questa dialettica fa emergere.
Cominciamo considerando il caso del Trentino asburgico tra il 1869 e lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale. Secondo un’opinione diffusa, il sistema
scolastico austriaco istituito nel 1869, erede modernizzatore della celebrata
tradizione teresiana, si caratterizzava per efficienza, ordine e razionalità40. Ed in
effetti, se privilegiamo come indicatore l’elevamento del tasso di scolarità e di
alfabetizzazione, questa opinione appare fondata. Diverso, e molto più mosso, è
G. Gabrielli e M. Guerrini, I “problemi” del fascismo. Può la matematica essere veicolo di ideologie? Immagini
e documenti sulla matematica nel periodo fascista, Bologna, s.d., catalogo della mostra omonima. Il
riferimento è a C. Finotti, Esercizi di Aritmetica secondo il programma della IIa classe elementare. Sussidiario
per le famiglie, Rovereto 1934; Esercizi di Aritmetica secondo il programma della Ia classe elementare. Sussidiario
per le famiglie, Rovereto 1935.
39
Benché siamo convinti della necessità di progettare una storia del Trentino che assuma un simile
approccio.
40
Cfr., come recente riproposta dell’opinione, L. De Finis, Un sistema educativo al servizio del territorio,
in Storia del Trentino. Volume VI. L’età contemporanea. Il Novecento, a cura di A. Leonardi e P. Pombeni,
Il Mulino, Bologna 2005, pp. 349-393.
38
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
26
però il giudizio sul sistema scolastico asburgico, e sui suoi effetti nella realtà trentina,
se privilegiamo come indicatore la formazione di “bravi sudditi”, cioè l’esplicita
intenzionalità ideologica dell’apparato scolastico41.
Prendiamo il caso delle scuole elementari di paese, dove apparentemente il
sistema ha potuto sviluppare con più efficacia la sua funzione di apparato
ideologico. Difficilmente questo sarebbe stato possibile, se le scuole si fossero
avvalse solo dell’efficienza e della razionalità interne del sistema. L’apparato
ideologico ha potuto funzionare nella misura in cui è riuscito ad interagire con un
particolare dispositivo educativo, intrinseco alla struttura fortemente nucleata delle
comunità periferiche trentine.
Specifichiamo meglio questo aspetto. Gli insediamenti rurali diffusi in
Trentino alla fine dell’Ottocento42 erano organizzati in modo tale da presentare un
nucleo microurbano, fasce concentriche di orti, campi e prati a proprietà privata e
una cintura più esterna di pascoli e boschi a proprietà prevalentemente collettiva.
Questo assetto favoriva un’organizzazione sociale del paese capace di investire
l’intera comunità, con scambi continui di prestazioni d’opera tra gruppi familiari e
continue ricombinazioni generazionali delle proprietà private, attraverso eredità e
matrimoni, in funzione dei bisogni della popolazione. Come nota giustamente
Giovanni Kezich43, si ebbe, su queste basi, il costituirsi “di un contesto politico
paesano che assume importanza primaria a fronte di un parallelo relativo
depotenziarsi dei legami sociali vuoi di ordine inferiore (familiare), vuoi superiore
(nazionale)”44. Ciò comportò una marcata valenza identitaria del “campanile” e una
sua dislocazione eccentrica rispetto alla contrapposizione nazionalistica tra italiani e
tedeschi; possiamo parlare di un forte spirito comunitario, in grado di elaborare
simbologie ed autorappresentazioni e di trasmetterle di generazione in generazione,
Un’intenzionalità ideologica che risulta particolarmente esplicita da un’analisi dei libri di lettura in
adozione presso le scuole elementari.
42
Ma il discorso vale ancora, quasi inalterato, per gli insediamenti che troviamo negli anni Sessanta
del secolo scorso.
43
G. Kezich, Per una definizione del contesto antropologico, in Storia del Trentino…, cit. pp. 725-741.
44
Ivi, p. 730.
41
Storia locale e spazi di cittadinanza
27
conservandosi anche in occasione di diaspore particolarmente drammatiche, quali
l’emigrazione trans-oceanica e la vicenda dei profughi di guerra.
Molto più che le articolazioni istituzionali dello Stato, furono quelle locali della
Chiesa cattolica ad attraversare ed interpretare le esigenze e le aspettative delle
comunità di paese, conservandone la memoria attraverso gli archivi parrocchiali,
garantendo la continuità e la riconoscibilità simbolica dei passaggi cruciali della vita
della comunità (nascite, morti, matrimoni, momenti collettivi), fornendo infine, con
il movimento cooperativo, un modello conforme per l’organizzazione del lavoro e
delle risorse economiche. È comprensibile dunque come il dispositivo pedagogico
che attraversava le comunità fosse strettamente legato alle funzioni esercitate dal
clero, compreso l’insegnamento: il passaggio della professione di maestro dallo stato
religioso a quello laicale assicurò probabilmente all’Austria “insegnanti per la
maggioranza fedeli, fautori dell’unità nazionale”45, ma essi poterono svolgere la loro
funzione di “formatori di bravi sudditi” in quanto integrati nella comunità ed
interpreti delle sue aspettative formative46.
A controprova del discorso, spostiamo l’osservazione sui principali centri
urbani di fondo valle, dove un tale assetto comunitario era assente o debole. Qui
l’intenzionalità ideologica dell’apparato scolastico si manifestava con molta maggiore
chiarezza, ma con altrettanta chiarezza si manifestava la sua fragilità e la sua
incapacità di sintesi. Il depotenziarsi dei legami sociali comunitari e il rafforzarsi di
quelli nazionali (di due nazionalità contrapposte) finì per rendere l’apparato
L. De Finis, Un sistema educativo…,cit., p. 350.
Questo equilibrio di sussidiarietà che, soprattutto dopo il 1892, si riuscì a realizzare tra Stato laico
e articolazioni della Chiesa cattolica fu comunque il risultato di forti tensioni che, sulla questione
dell’insegnamento primario, vide in Tirolo la contrapposizione tra i liberali, che puntavano alla
piena laicizzazione dell’istruzione e all’applicazione integrale delle legge fondamentale del 1869, e i
clerico-conservatori, favorevoli al mantenimenti dei privilegi e delle facoltà delle gerarchie
ecclesiastiche. È il periodo della cosiddetta Kulturkampf, che investì soprattutto il Tirolo tedesco, ma
ebbe anche forti riflessi sul Tirolo italiano. Per una ricostruzione di queste vicende, cfr. Ch. H. von
Hartungen, Il Kulturkampf in Tirolo (1867-1892), in A scuola! A scuola! Popolazione e istruzione dell’obbligo
in una regione dell’area alpina secc. XVIII-XX, a cura di Q. Antonelli, Museo storico in Trento, Trento
2001, pp. 47-69. Nello stesso volume cfr. anche P. Graifenberg, «Povere creature già troppo maltrattate
dagli Dei!». Le maestre nel Trentino austriaco, pp. 71-91.
45
46
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
28
scolastico un terreno di scontro, a partire dagli asili fino ai gradi superiori47. La posta
in gioco non era tanto il controllo dell’apparato, quanto la sua permeabilità a
dispositivi di memoria conflittuali; la reazione repressiva delle autorità austriache
fece sì che il conflitto finisse per coinvolgere tutte le articolazioni sociali che
avessero una qualche finalità formativa o rammemorativa: dalle associazioni culturali
a quelle sportive, dalle biblioteche alle società alpinistiche fino alla stessa Chiesa
cattolica.
Di particolare interesse è il modo in cui, a partire dalle realtà urbane di
fondovalle, si cercò di organizzare lo stesso paesaggio trentino come un dispositivo
di memoria a forte valenza ideologica e pedagogica, subordinandolo a intenzionalità
identitarie e nazionali. Come gran parte delle città europee, anche Trento e Rovereto
furono investite alla fine dell’Ottocento dalla tendenza a “decorare” le città, nei suoi
punti nevralgici, con una statutaria celebrativa e spesso monumentale, accompagnata
da lapidi, da rilievi murali e da un uso sempre più didascalico della toponomastica
urbana. Le finalità pedagogiche sono evidenti, e trascendono il livello estetico spesso
scadente dei risultati: fare del paesaggio un “libro della memoria”, capace di
esercitare una funzione maieutica e di consolidamento rispetto alle identità
individuali e collettive; esemplare, da parte “italiana”, è la vicenda del Monumento a
Dante, inaugurato a Trento nel 1896.
Dalle città, questo sforzo contrapposto di significazione del paesaggio non
tardò ad estendersi a tutto il territorio del Tirolo italiano, con una concorrenza nella
denominazione dei luoghi che vide protagoniste le società alpinistiche e geografiche
di opposta nazionalità. In questo contesto si inseriscono anche le vicende dei
naturalisti trentini, su cui ha attirato l’attenzione Renato Mazzolini48: “Nel corso
dell’Ottocento si formò in Trentino una piccola e inedita comunità scientifica locale
Per un esame analitico delle caratteristiche di questo scontro, cfr. S. Benvenuti, «È mission di questa
Lega d’istruir la nostra prole». La politica scolastica della Pro Patria e della Lega Nazionale, in A scuola! A
scuola!..., cit. pp. 93-107.
48
Cfr. ad es. R. G. Mazzolini, Il territorio nell’osservazione dei naturalisti trentini dell’Ottocento, in Le radici
dell’autonomia. Conoscenza del territorio e intervento pubblico in Trentino secc. XVIII-XX, a cura di L. Blanco,
Franco Angeli, Milano 2005, pp. 99-110.
47
Storia locale e spazi di cittadinanza
29
di tipo informale, di cui i collezionisti erano parte integrante e significativa. … la
motivazione che condusse molti individui a dedicarsi in particolare al collezionismo
naturalistico era di natura mista, cioè scientifica, pedagogica e politica assieme. … la
componente politica [è] consistita nel desiderio di numerosi naturalisti di
appropriarsi cognitivamente del proprio territorio per affermarne l’identità naturale,
l’italianità e l’autonomia dal Tirolo e dall’Austria”49. Notiamo a questo proposito che
si tratta delle stesse motivazioni che condussero Cesare Battisti a dedicarsi agli studi
geografici. Appare inoltre evidente come, passando dagli insediamenti rurali alle
realtà urbane di fondovalle, mutasse lo scenario e il significato stesso di “identità
trentina”, dislocata su livelli diversi e destinati a incrociarsi con crescente difficoltà50.
La dialettica che si instaurò tra apparati ideologici e dispositivi di memoria, in
epoca fascista, presenta naturalmente numerose discontinuità, ma anche alcune
significative linee di continuità con la situazione asburgica. Una di queste è data
innanzitutto dalla permanenza degli assetti sociali nei paesi soprattutto di alta e
media montagna, che creò tensioni tra il dispositivo di memoria diffuso e l’apparato
scolastico italiano, almeno fino all’instaurazione del regime concordatario, il quale
diede vita ad un nuovo equilibrio di sussidiarietà tra Stato laico e articolazioni
cattoliche locali51.
Una seconda linea di continuità è ravvisabile nei centri urbani di fondovalle
dove, in assenza delle tensioni nazionalistiche che avevano caratterizzato il periodo
prebellico, l’apparato ideologico fascista tentò di realizzare ciò che non era riuscito
all’apparato asburgico, cioè trasformare le proprie articolazioni in dispositivi di
Ivi, p. 100.
Ciò spiega in parte perché la mediazione autonomistica tra un’identità “municipalista” ed una
“nazionale” poté essere raggiunta, nel secondo dopoguerra, in un contesto di sicura centralità –
sociale, culturale, educativa e politica – dell’universo cattolico, interpretata da una classe dirigente,
quella democratico-cristiana, che proveniva in larga misura dalle valli maggiori.
51
A questo proposito, si veda il materiale raccolto da due classi quinte dell’Istituto di Istruzione di
Tione e pubblicato in Fascismo e Giudicarie, a cura di S. Bertoni e R. Paoli, Museo storico in Trento,
Trento 2005. Interessante è inoltre la testimonianza di Luigi Molina sul periodo di transizione
(collocabile tra il ’23 e il ’25) dall’ordinamento austriaco a quello italiano: L. Molina, Non fu impresa
facile la mia…, cit.
49
50
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
30
memoria, caratterizzati da un’unica intenzionalità nazionale e finalizzati a
promuovere un’identità collettiva fortemente strutturata e costantemente
rappresentata in termini storici. Su questo argomento esiste ormai una letteratura
vastissima, che prende in esame i programmi, i libri di testo, i quaderni degli scolari,
le ritualità militaresche; meno approfondito, ma comunque decisivo per
comprendere la tendenziale identificazione tra apparato ideologico fascista e
dispositivo pedagogico di memoria, è il modo in cui il fascismo riprese e sviluppò la
tendenza a trasformare il paesaggio, soprattutto urbano, in uno scenario in cui
memoria locale e storia patria potevano convergere e dar luogo ad un’unica trama.
Trento in particolare, in quanto città redenta e luogo del “martirio” di Battisti, Filzi e
Chiesa, fu fatta oggetto di interventi architettonici ed urbanistici atti a sottolinearne
le valenze ideologiche e rammemorative52.
Per cogliere le faglie di discontinuità tra la situazione asburgica e quella
fascista, non dobbiamo dunque fermarci all’ovvio cambio di intenzionalità che
attraversa l’apparato ideologico formativo: si tratta infatti di un cambio di
intenzionalità che modifica solo in superficie la dialettica tra apparato ideologico e
dispositivi di memoria. Né dobbiamo fermarci all’altrettanto ovvia transizione tra
due ordinamenti scolastici diversi: come ricorda Luigi Molina, si trattò di una
transizione che privilegiò spesso soluzioni di compromesso53. Le vere discontinuità
ci portano piuttosto a qualcosa che era stato elaborato e “messo a dimora” nel
cantiere della Grande Guerra: ci riferiamo da una parte alle pratiche educative e
comunicative sperimentate in quel contesto, dall’altra al ruolo crescente che, nel
medesimo contesto, vennero ad assumere i mezzi di comunicazione, con le loro
Per un primo approccio alla questione, anche se il problema del rapporto tra apparati formativi,
dispositivi di memoria e significazione del paesaggio rimane ancora in secondo piano, si vedano:
Illusioni di pietra, a cura di M. Martignoni, Museo storico in Trento, Trento 2001; B. Zanon, Territorio,
urbanistica, ambiente: l’organizzazione del paesaggio umano, in Storia del Trentino…, cit., pp. 601-652 (part.
pp. 605-620).
53
L. Molina, Non fu impresa facile la mia…, cit.
52
Storia locale e spazi di cittadinanza
31
irriducibili peculiarità tecniche, linguistiche e retoriche.54 Lo specifico del progetto
ideologico fascista, il suo tentativo cioè di fare del Fascismo un gigantesco
dispositivo di memoria nazionale con la fisionomia di un apparato ideologico di
Stato, è strettamente legato a questi due fattori, a queste due “emergenze storiche”,
su cui è dunque necessario soffermarsi.
In un recente volume55, Antonio Gibelli ha ricostruito il processo di
nazionalizzazione dell'infanzia lungo la prima metà del secolo scorso. L'aumento
della scolarizzazione e la diffusione delle pratiche di scrittura verificatosi tra
Ottocento e Novecento avevano permesso l'inclusione dei bambini, dei ragazzi e dei
giovani nelle strategie educative dello Stato che non passano solo attraverso la
scuola. Questa circostanza era poi stata sfruttata, nel corso della Grande Guerra, per
“militarizzare” l’immaginario giovanile e sollecitarne un costante coinvolgimento
emotivo nelle vicende belliche.
Nei diversi luoghi, dalla stampa periodica per ragazzi alla scuola, i mediatori
del discorso nazionalistico spiegavano la guerra ricorrendo al registro mistico/eroico
alternato a quello banalizzante, in grado di ridimensionare gli aspetti tragici della
guerra e di ridurla a qualcosa di ovvio e comune, qualcosa che poteva essere
ricondotto "nei confini rassicuranti dell'ambiente domestico"56, qualcosa che la
gente (i bambini) poteva scegliere e dominare.
L'immaginario proposto ai ragazzi venne popolato da piccoli combattenti
attratti dal richiamo irresistibile della patria: il paradigma era quello del bambino
orfano, privato della famiglia naturale e che trovava nell'esercito una più larga,
solidale comunità protettiva57.
Dalla letteratura alla vita, il coinvolgimento dei ragazzi negli eventi bellici era a
volte così totale che il gioco della guerra diventava vero: e i ragazzi scappavano di
Cfr. A. Gibelli, L'officina della guerra: la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati
Boringhieri, Torino 1991.
55
A. Gibelli, Il popolo bambino: infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005.
56
Ivi, p. 126.
57
Cfr. Q. Antonelli, Piccoli eroi: bambini, ragazzi e guerra nei libri italiani per l'infanzia, "Annali del Museo
storico italiano della guerra", 4, 1995, pp. 63-101.
54
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
32
casa, si agitavano, si offrivano, pretendevano di esserci anche loro, di venire usati, di
combattere e morire per la patria58. Il movimento scoutistico laico (CNGEI)
divenne il punto di attrazione per frotte di ragazzi intenzionati a mettersi al servizio
dell'esercito59. Citando Agostino Gemelli, Gibelli può così parlare della " profonda
pressione dell'evento guerra sull'immaginario infantile, la sua invadenza, la sua
tendenza a fornire codici che modificano la vita e il mondo dell'infanzia,
avvicinando assai più che nel passato le guerre mimetiche e quella reale"60.
Ma in prossimità del fronte, il confine tra realtà e simulazione si faceva
davvero esile e i bambini cessavano di essere solo vittime "consenzienti": nei
territori coinvolti dalla guerra essi venivano terrorizzati dalla soldataglia aggressiva,
subivano le mutilazioni prodotte dalle bombe inesplose, pativano più degli adulti
restrizioni e privazioni alimentari61.
La seconda tappa nel processo di nazionalizzazione delle masse infantili si aprì
nel dopoguerra, con il culto dei caduti. Cominciò a questo punto ad entrare in
azione un dispositivo di memoria: per i giovani trentini, passati da una nazione
all'altra, questo passaggio fu marcato da una complessa liturgia laico-religiosa (il
culto dei martiri, l'inaugurazione delle lapidi, le visite ai luoghi "sacri" dei
combattimenti, i parchi della rimembranza, i saluti, i vessilli, le guardie d'onore) con
lo scopo di costruire una nuova memoria collettiva, la memoria della guerra italiana
destinata a soppiantare quella, privata e familiare, della guerra combattuta dalla parte
dell'Austria, in Galizia, sul fronte orientale. Nel quarto anniversario dell'entrata in
Esemplare il caso del figlio di Cesare Battisti, Gigino: nel luglio del 1915 a 14 anni scappa di casa
e raggiunge Bergamo per arruolarsi con i volontari ciclisti; messo in collegio minaccia il suicidio;
raggiunge successivamente Milano dove si procura un falso documento d'identità; nel febbraio del
1916 si ripresenta presso una caserma di Padova; dà in smanie perché non viene arruolato e dichiara
che sarà "soldato o lazzarone".
59
A questo proposito Mario Isnenghi parla di "una crescita di cittadinanza, precoce e accelerata
dalle circostanze" (M. Isnenghi, Giocare alla guerra, "Giudizio universale", 5, 2005, p. 63).
60
A. Gibelli, Il popolo bambino, cit., p. 141.
61
Il racconto di Giuseppe Boschet, feltrino, 11 anni, è un documento straordinario sulla durezza
dell'occupazione straniera tra il 1917 e il 1918 e testimonia di una fame disperata. Cfr. La Grande
Guerra negli occhi di un bambino: il quaderno di Giuseppe Boschet, Ed. DBS-Biblioteca civica di Seren del
Grappa, 1994.
58
Storia locale e spazi di cittadinanza
33
guerra dell'Italia, tutte le scolaresche della provincia di Trento furono
massicciamente chiamate a riconoscersi pubblicamente nella nuova identità "per
conto proprio ed evidentemente anche per conto degli adulti". Le lettere (una
scrittura dovuta e ideologica) si rivelarono in questa occasione come un esercizio
formale, un'autocertificazione d'italianità.
Ma furono altre le lettere che ci permettono oggi di cogliere la pervasivistà del
nuovo dispositivo di memoria. Ci riferiamo alle lettere indirizzate ai familiari dei
martiri, alla Vedova Battisti e a Mamma Filzi. Collettive ed individuali, esse
provenivano dalle tante scuole italiane intitolate ai martiri trentini e raccontavano i
riti di un vero e proprio culto: il santo nome, l'altarino con l'immagine, i fiori, la
lampada votiva, la preghiera mattutina, l'anniversario. Raccontavano di una
devozione che nel caso di Amelia Filzi, direttamente coinvolta nel processo di
costruzione nazionalistica, si estese anche alla "Mamma Santa" che, in visita nelle
varie scuole, donava ai bambini il suo "santo bacio". Gibelli nota giustamente che
"attraverso i contatti con i genitori degli eroi caduti si manifestano forme di
adozione e di condivisione del dolore fortemente ritualizzate, ma che non sembrano
puramente convenzionali. Al centro di questi processi è in verità soprattutto la
figura della madre degli eroi, mentre assai più in ombra resta quasi sempre il
padre"62.
La scommessa del regime, e siamo alla terza tappa del processo, consistette nel
rendere permanente la mobilitazione totale intrapresa dalla nazione in guerra, nel
trasformare l'arruolamento dei bambini nella nazione da misura eccezionale e
provvisoria a condizione ordinaria. Così il regime non solo prese ad offrire "belle"
favole all'infanzia (storie di piccoli eroi in camicia nera), ma organizzò realmente il
gioco della guerra, con precoci richiami alle armi, divise, fuciletti, gradi, gerarchie, un
esercito63.
A. Gibelli, Il popolo bambino, cit., p. 215. Sulle madri degli "eroi" cfr. anche M. d'Amelia, La mamma,
Il Mulino, Bologna 2005.
63
A questo proposito, Lucio Villari ha sostenuto che la sottile fascinazione del fascismo sui
giovanissimi nasceva da un rapporto rovesciato rispetto a quella esercitata sugli adulti: se a questi si
faceva balenare il mito della giovinezza, ai primi si faceva intravvedere una precoce maturità. Cfr. L.
62
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
34
Il meccanismo si riattivò, infinitamente potenziato, allo scoppio della guerra
d’Africa, quando nelle aule scolastiche l'avvenimento fu vissuto quasi in presa
diretta: radio, cartine geografiche, bandierine a segnare la conquista, scambi
epistolari, cerimonie, manifestazioni pubbliche. Di nuovo troviamo la
banalizzazione della guerra ridotta a "gioco da ragazzi", sulle figurine, sulle cartoline,
condita questa volta dal fascino misterioso dell'esotico a dal richiamo al ruolo della
tecnologia nel dominio del primitivo64.
Alla lunga, però, l'appuntamento dei balilla con l'avventura fu un
appuntamento mancato: alla fine degli anni Trenta l'indifferenza se non il disgusto
per le parate e per le esercitazioni del sabato (con l'affanno dei professori a segnare e
a punire gli assenti) traspaiono dalle rievocazioni memorialistiche così come dalle
storie scolastiche65. Questo esito può essere spiegato prendendo in considerazione il
secondo fattore che caratterizzò la specificità del progetto ideologico fascista, cioè il
ruolo crescente che assunsero i nuovi mezzi di comunicazione. Torneremo più
diffusamente su questo punto, nel prossimo paragrafo. Per il momento, ci limitiamo
a segnalare l’effetto che la diffusione di mezzi di comunicazione, sempre più di
massa, ha avuto sul funzionamento degli apparati ideologici formativi nel periodo
fascista, e sulla loro capacità di subordinare e rendere funzionali i dispositivi di
memoria.
Quello tra fascismo e mezzi di comunicazione fu un rapporto bivalente. Da
una parte infatti il fascismo vide nei mezzi di comunicazione uno strumento
formidabile di trasmissione ideologica e di formazione collettiva, una volta
sottomessi ad un’autorità centrale in grado di orientare e intenzionare il flusso dei
messaggi; dall’altra, tuttavia, la logica stessa di questi mezzi, il loro carattere
tendenzialmente di massa unito, con un paradosso solo apparente, a modalità di
fruizione tendenzialmente individuali o per piccoli gruppi, il fatto stesso che il
Villari, Nota al racconto, in T. Kezich, Il campeggio di Duttogliano, Studio Tesi, San Daniele del Friuli,
1981, pp. 67-72.
64
A. Gibelli, Il popolo bambino, cit., p. 301.
65
Cfr. Q. Antonelli, Fare gli italiani tra "redenzione" e fascismo: le scuole di Rovereto, in Rovereto 1919-39, a
cura del Laboratorio di storia, Nicolodi, Rovereto 2000, pp. 243-346.
Storia locale e spazi di cittadinanza
35
destinatario (ascoltatore o spettatore) abbia un rapporto diretto e fisico col mezzo,
anziché col produttore di messaggi, rende problematico un asservimento ideologico
“a maglie strette”, fortemente prescrittivo, mentre fornisce ai dispositivi di memoria
linguaggi, simboli, informazioni da assemblare e riassemblare in modi anche
imprevedibili. In altre parole, la diffusione dei mezzi di comunicazione crea un
contesto nel quale i sistemi linguistici e simbolici fortemente prescrittivi finiscono
per scontrarsi con “comportamenti emergenti” attivati da quegli stessi mezzi66, la
qual cosa da alla dialettica tra apparato ideologico formativo e dispositivi di memoria
una connotazione profondamente diversa rispetto a quella teorizzata dal fascismo.
Diversamente da quanto accadde nel periodo asburgico, l’apparato ideologico
formativo fascista in Trentino, come nel resto d’Italia, trovò una contestazione
crescente e diffusa (benché non sempre consapevole) non tanto per l’elaborazione
di dispositivi di memoria esplicitamente alternativi – e chi ne avrebbe avuto la forza,
come la Chiesa cattolica, evitò finché possibile di scendere su questo terreno –
quanto per l’emergere di comportamenti indotti dalla diffusione della radio, del
cinema, del fonografo, e di cui ci restituisce le tracce più una storia del gusto che una
storia politica67.
Un ulteriore chiarimento terminologico: nella teoria dei sistemi complessi si dice emergente un
comportamento non predicibile che si manifesta quando un numero di agenti opera in un ambiente,
dando origine a comportamenti più complessi in quanto collettività. L’emergenza è determinata sia
dalla quantità di interazioni tra gli agenti (maggiore è il numero di agenti interattivi, maggiore è la
probabilità che emergano nuovi tipi di comportamento), sia dall’organizzazione delle interazioni e
dalla natura del legame tra gli agenti (ciò distingue le interazioni che danno luogo ad emergenze da
quelle che rimangono a livello di “rumori di fondo”). La nozione di “comportamento emergente”
sembra essere particolarmente utile, e non in modo solo metaforico, per descrivere l’azione di un
dispositivo di memoria in un ambiente caratterizzato dalla presenza di mezzi di comunicazione
tendenzialmente di massa. Ciò spiega altresì perché possiamo definire l’identità (ma anche la
“cittadinanza vissuta”) un comportamento emergente, e la memoria locale un fenomeno emergente.
67
Per una pionieristica esplorazione di questo territorio, rimandiamo al saggio di R. Pegoretti, «Duce,
tu sei la luce!»: suggerimenti per un percorso tra architettura, fascismo e le produzioni dell’Istituto nazionale Luce, in
Illusioni di pietra, cit.
66
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
36
Lungo questa direzione, la vera frattura fu però prodotta dalla seconda guerra
mondiale. Pur con intenti diversi, e non sempre condivisibili68, Lia De Finis ha
giustamente richiamato l’attenzione sulle forme di riorganizzazione scolastica
avanzate in Trentino tra il 1943 e il 1945 ad opera di Giovanni Gozzer e riproposte
dallo stesso, con l’appoggio di C.W. Washburne, nell’immediato dopoguerra69.
L’istituzione dei centri scolastici di vallata, con il coinvolgimento diretto delle realtà
territoriali nella loro gestione, era per molti aspetti una risposta contingente ad una
situazione d’emergenza, ma nascondeva probabilmente anche l’intuizione che
l’efficacia di un apparato ideologico formativo non sta nella forza delle sue
prescrizioni discorsive ma nella sua capacità di interagire con le realtà territoriali e di
riconoscerne i dispositivi di memoria attivi, utilizzandone l’efficacia pedagogica70.
Questa intuizione trova il suo vero respiro, anche oltre la consapevolezza di
chi la ebbe, e non si riduce ad una miseranda riproposizione delle vecchie scuole
municipali asburgiche, se viene intrecciata all’accelerazione delle innovazioni che
contemporaneamente si ebbero nel campo dei trasporti e delle comunicazioni e che
dovevano riproporre al nuovo sistema formativo il problema sul quale era fallito
l’apparato ideologico fascista. Ci sembra ancora valido, a questo proposito, quanto
scriveva Alberto Caracciolo quasi vent’anni fa71: grazie a queste innovazioni “la casa
colonica si avvicinava improvvisamente al villaggio, la scuola alla sala di spettacolo,
l’ufficio o la fabbrica all’abitazione, e insomma ciascuna persona alle altre. Ogni
circuito di idee, di commerci, di culture, di associazionismo, acquistava maggior
respiro, moltiplicava lo scambio di realtà ed esperienze dei singoli. … Dal 1945 al
1950 il numero di radioabbonati aumentò quasi del doppio, mentre l’ampliata rete
Soprattutto quando lasciano trapelare una certa qual tendenza encomiastica, riguardo le
vicissitudini della scuola trentina e la sua tradizione di silenzioso ed operoso rigore.
69
L. De Finis, Un sistema educativo…, cit., pp.370-373.
70
Possiamo così interpretare quanto riportato da De Finis nel saggio citato: “L’annuario per l’anno
1943-1944 che il professor Gozzer … riuscì a comporre per il centro scolastico Castelnuovo-Borgo
Valsugana, … aveva per titolo Pragmateia … e per scopo stabilire un ponte tra passato e futuro” (p.
372).
71
A. Caracciolo, Caratteristiche della vita privata nell’Italia contemporanea, in La vita privata. Il Novecento, a
cura di P. Ariès e G. Duby, Laterza, Roma-Bari 1988, pp.3-32
68
Storia locale e spazi di cittadinanza
37
elettrica consentiva di portare, accanto ai telefoni pubblici disseminati ormai in ogni
Comune, apparecchi privati di prezzo relativamente modesto fino in sperduti
casolari. … Le avvisaglie della grande avanzata dei mass media, che si era avvertita
già prima della guerra ma in funzione di propaganda e di informazione quanto mai
monocorde e prevalentemente ufficiale, ora si ripresentavano non solo con più
forza, ma con più libertà, varietà espressiva, appetibilità di fruizione”72.
Nonostante le molte incertezze e le traiettorie spesso “epicicliche” assunte
dalle dinamiche istituzionali e dal dibattito che le ha accompagnate, riteniamo di
poter individuare in questo crescente intreccio una linea di continuità, che ci
permette di seguire l’evoluzione degli apparati ideologici formativi da sessant’anni a
questa parte. In ambienti dominati dalla centralità dei mezzi di comunicazione, tali
apparati hanno progressivamente spostato la funzione ideologica dal carattere
prescrittivo al carattere localizzato dei loro discorsi, dal contenuto degli enunciati al
contesto delle enunciazioni. Riferendoci più specificatamente alla dialettica tra
apparati e dispositivi di memoria, possiamo dire che, progressivamente, gli apparati
hanno abbassato la soglia di legittimità dei discorsi rammemorativi, contemplando
(o addirittura incentivando) anche discorsi alternativi, purché tali discorsi
riconoscessero negli apparati il contesto della loro enunciabilità e il luogo della loro
conservazione. Cambiano ovviamente i meccanismi di esclusione: un discorso
rammemorativo viene escluso non perché ne venga interdetta l’enunciazione ma
perché, rimanendo esterno all’apparato, quel discorso non accede all’archiviazione e
alla circolazione formativa.
In questo modo, gli apparati ideologici formativi hanno progressivamente
cessato di presentarsi come “normalizzatori” dei dispositivi di memoria e hanno
cominciato ad agire con crescente chiarezza al loro interno, fornendo il legame
reciproco tra gli elementi che lo compongono e organizzandone le interazioni. Così
facendo, gli apparati si sono proposti come condizioni per l’emergere di
comportamenti rammemorativi, come soglie di accesso alla memoria locale e a
progetti identitari anche diversificati.
72
Ivi, pp. 17-18.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
38
Quanto accaduto in Trentino negli ultimi sessant’anni, nel contesto
istituzionale determinato dallo Statuto di autonomia e dai processi di
provincializzazione degli apparati formativi, è a questo proposito esemplare per
seguire il passaggio degli apparati da una fisionomia centralizzata ad una
distribuita73, caratterizzata da un legame reticolare e comunicativo tra agenti
formativi diversi (scuole, musei, biblioteche, istituti, aziende, famiglie, associazioni,
ecc.) che, nel loro insieme interattivo, condizionano l’emergere – non predicibile se
osservato dalla prospettiva di un solo agente - di comportamenti identitari e di
profili di cittadinanza.
3.2. L’espansione tecnologica e mediatica. Sono dunque lo sviluppo
tecnologico e l’espansione sociale dei mezzi di comunicazione a scandire, secondo
un ritmo sempre più accelerato, le metamorfosi della dialettica formativa tra
dispositivi di memoria e apparati ideologici di Stato negli ultimi cento cinquanta
anni, favorendo l’evolversi dei primi in sistemi sociali complessi e la trasformazione
dei secondi in apparati distribuiti, in sintonia col carattere sempre più distribuito e
complesso assunto dalle successive generazioni tecnologiche dei mezzi di
comunicazione74. Precisiamo meglio l’argomento e spieghiamo perché queste
metamorfosi sono rilevanti per definire le attuali soglie di “cittadinanza vissuta”.
Noi possiamo considerare un territorio come il Trentino, con la sua fisionomia
riconosciuta di regione storica, un sistema integrato a tre dimensioni, rappresentate
da un paesaggio, da generi di vita strutturati e dalla conoscenza che gli abitanti
hanno delle condizioni “di luogo” nelle quali vivono. L’integrazione di queste tre
dimensioni è garantita dalla presenza territoriale di reti di comunicazione
telematiche, tele/radiofoniche, istituzionali, editoriali, o anche meno strutturate,
come le reti familiari e quelle associative. Il ruolo che queste reti svolgono è
Il “sistema formativo integrato”, di cui oggi si parla, è chiaramente un sistema distribuito, in cui
tuttavia permane qualche residuale vocazione centralistica.
74
Il web rappresenta ovviamente l’ultima generazione in questa evoluzione dal semplice al
complesso e dal centrato al distribuito.
73
Storia locale e spazi di cittadinanza
39
decisivo: esse sono simultaneamente il connettivo del territorio come sistema e il
vettore attraverso il quale il sistema può trasmettere conoscenza di sé e della propria
storia e valorizzare le proprie peculiarità. Ciò significa che, sul piano locale, quei
luoghi di comunicazione nei quali la trasmissione di conoscenza si concreta in una
produzione di memoria e in un’azione formativa operano come veri e propri agenti
di coesione75: su di essi si intrecciano interessi, si sostanziano solidarismi, si
sviluppano relazioni; attraverso essi, una regione storica si radica in tipi territoriali e
consolida generi di vita.
E qui dobbiamo segnalare un paradosso. Quando le reti comunicative
presentano un carattere tendenzialmente di massa (pensiamo ovviamente, in primo
luogo, alle reti telematiche e a quelle tele/radiofoniche) danno luogo, nella loro
relazione con il territorio, ad un effetto a doppio taglio. Da una parte infatti esse
continuano a funzionare come connettivi di sistema, strutturando generi di vita e
rivolgendosi spesso, in modo privilegiato, agli abitanti della regione; dall’altra,
tuttavia, il flusso di messaggi che transita attraverso queste reti è in larga misura
delocalizzato e fa riferimento ad esperienze rispetto alle quali il territorio
concretamente abitato fornisce, per bene che vada, uno scenario occasionale.
In altre parole, l’azione spontanea di queste reti crea una forbice tra i generi di
vita strutturati localmente e le conoscenze/consapevolezze del luogo in cui si vive,
le quali tendono a standardizzarsi secondo modelli e stereotipi che filtrano
qualunque riferimento a ciò che è localizzato. Si tratta, come ben si vede, di una
forbice che mette in discussione lo stesso carattere integrato del sistema territoriale.
Il problema investe direttamente quei luoghi nei quali, come dicevamo sopra,
la trasmissione di conoscenza si concreta in una produzione di memoria e in
un’azione formativa, cioè investe l’efficacia degli apparati ideologici formativi. Su
questo punto dovremo tornare, trattando delle questioni relative alla “restituzione
della memoria”; esso segnala comunque quello che secondo noi rappresenta il
passaggio fondamentale di un’”educazione alla cittadinanza vissuta”: riprenderemo il
discorso nell’ultimo paragrafo e soprattutto nel nostro prossimo contributo.
75
Sono tali luoghi a caratterizzare il profilo distribuito di un apparato ideologico formativo.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
40
Una considerazione conclusiva su questo argomento. Sarebbe interessante,
anche se oltrepassa le funzioni del presente deliverable, approfondire il modo in cui la
memoria locale assorbe i linguaggi e le retoriche dei mezzi di comunicazione,
diventando memoria iconica, cinematografica, musicale, ipermediale, a seconda del
linguaggio comunicativo con cui vengono conservati e secondo cui vengono
assemblati ricordi, tracce, testimonianze. Queste retoriche si trasmettono infatti ai
comportamenti che emergono dai dispositivi di memoria: consapevolezze
identitarie, sentimenti di appartenenza, profili di cittadinanza vissuta possono essere
rappresentati come degli addensamenti cognitivi ed emotivi che “nuotano” in un
melting pot linguistico, composto di parole, immagini, suoni, colori, sapori, gesti, al di
fuori del quale questi addensamenti non potrebbero sopravvivere.
4. Le pratiche di scrittura: tra memoria individuale e collettiva
4.1. All'origine delle pratiche adulte di scrittura (consideriamo naturalmente
solo il caso delle scritture della gente comune) esiste, come abbiamo rilevato nei
paragrafi precedenti, l'universo delle scritture sollecitate dallo Stato: contratti, atti di
compravendita, ricevute, lettere di affari, carte dotali, testamenti.
La scuola qualche volta lascia una traccia più profonda e per qualche tempo sui
quaderni scolastici si continua a scrivere ripetendo e ampliando le sollecitazioni
scolastiche, così succede che i quaderni di scuola si possano trasformare in “libri di
famiglia” o in diari.
Poiché la scuola asburgica – ma è una caratteristica della didattica ottocentesca
– insegna a scrivere per modelli: modelli di lettera, modelli di diario, memorie
modello.
(Nel “piccolo diario” che inizia a scrivere il 10 novembre 1912, all’età di 12
anni, Caterina Pezzé confessa di scrivere per imitazione: “Ho fatto il proposito di
Storia locale e spazi di cittadinanza
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scrivere ogni domenica una piccola pagina, su questo notes, di quello che si fa in
iscuola. Ho letto quel libricino, il Mantea, intitolato “memorie di coleggio” ed è
perciò che mi sono messa in testa di far questo”76).
All'apprendimento scolastico si aggiungono poi le occasioni della vita. Il
servizio militare diventa per molti giovani un secondo luogo di acculturazione
insieme colta e popolare.
C'è poi l'uso del tener agenda frequente tra commercianti, artigiani, contadini:
è la registrazione privata di entrate ed uscite della famiglia, di ore lavorate, di
giornate di lavoro prestate, delle condizioni atmosferiche, di acquisti, vendite.
Tra le scritture domestiche troviamo i libri di casa, i libri dei conti, le agende prestampate utilizzate per la registrazione della contabilità familiare, le agende di
annotazioni metereologiche, i ricettari. Troviamo veri e propri zibaldoni, contenitori
di testi diversi: indirizzi, preghiere, minute di lettere, resoconti delle vendemmie,
conteggi, preventivi per lavori edilizi, contratti di compravendita, testamenti.
Ma sono gli storici "eventi separatori" (l'emigrazione da lavoro a partire dalla
seconda metà dell'Ottocento e poi la Grande Guerra) i grandi momenti della
scrittura popolare (o della gente comune): eventi centrali nella vita di ogni persona
che determinando lontananza, dissesto emotivo, sradicamento producono bisogno
di scrittura.
La lettera, ma anche il diario o la memoria autobiografica, coprono una parte
dello spazio precedentemente occupato dalla narrazione orale, introducendo un
nuovo modo di raccontare, di interpretare e di riferire. La lontananza geografica, la
diversità delle esperienze, una volta che è scomparso il destinatario della
comunicazione orale, stimolano e motivano la scrittura producendo una
comunicazione differita e l'esigenza di un lettore fittizio che sostituisca l'ascoltatore.
4.2. Una digressione sulle scritture soggettive (le scritture dell'io). Scrive uno
dei nostri autobiografi, Domenico Zeni, in una premessa - giustificazione della sua
C. Pezzé Batesta, Piccolo diario di Caterina, a cura di M. Simonetti Federspiel, Grop Ladin da Moena
– Ghedina e Tassotti Ed., Bassano del Grappa 1995, p. 41.
76
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
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scrittura poco disinvolta: "Io ò comperato questo libro soltanto per fare una
memoria di un poco di quello che io passo nel tempo che sono prigioniero vedendo
che è un imposibile tenere in memoria (quello) che succede in questo tempo fino a
che viene la pace. Fin'ora o fato unpò di memoria su di un picolo libreto adeso sono
arivato a comperarmi uno melio che se questo, mi sono pensato di comperarlo
vedendo che con facilita succede dei casi che non si crederia altro che queli che toca,
se Iddio un giorno manda la desiderata pace si ramenta questi casi".
Domenico Zeni, contadino in tempo di pace, soldato austroungarico nel
tempo della Grande Guerra, espone in due punti e con grande lucidità il bisogno
prepotente di scrittura: la memoria 'biologica' è insufficiente a ritenere tutto quello
che succede nel tempo della guerra e della prigionia; anche un piccolo quaderno è
insufficiente, ci vuole un libro per poter conservare la memoria di tutti quei casi così
straordinari e incredibili tanto che ne possono rendere testimonianza solo coloro a
cui è dato di viverli. In altre parole solo la permanenza della scrittura è in grado,
trasformandoli in racconto, di rammentare in tempo di pace, gli eventi della guerra.
La riflessione di questo nostro scrivente ci rimanda direttamente alle riflessioni
su memoria e scrittura elaborate da filosofi contemporanei.
In particolare Emilio Lledò (ma riflessioni simili si trovano anche nelle opere
di Aldo Giorgio Gargani, soprattutto in Il testo del tempo) entro una rilettura del Fedro
di Platone conduce alcune osservazioni molto illuminanti su cui ci permettiamo di
sostare77.
La memoria è costruzione. "Questa costruzione modifica la nostra natura.
Siamo ciò che siamo andati accumulando in noi stessi; risultato di una serie di atti
che, alla frontiera tra la coscienza e le cose, hanno determinato i comportamenti e
orientato l'azione". In altri termini la memoria ha a che fare non solo con il passato,
ma anche con l'identità e quindi con la propria persistenza nel futuro. Domenico
Zeni e con lui tutti gli altri nostri scriventi passando attraverso l'emigrazione e la
guerra, sono mutati; le esperienze così intense trasformatesi in ricordi costituiscono
la sostanza di una nuova identità.
77
E. Lledò, Il solco del tempo. Il mito platonico della scrittura e della memoria, Laterza, Roma-Bari 1994.
Storia locale e spazi di cittadinanza
43
Anche uno storico come Mario Isnenghi, pur da una diversa prospettiva, aveva
lambito questo tema dell'identità e della scrittura: "Un altro momento interessante,
sempre in rapporto alla domanda su quando scrive il personaggio popolare, è
quando egli si costituisce in quanto io, in quanto identità, in quanto personaggio,
proprio perché sente il bisogno di scrivere di sé e lo fa, cosa che precedentemente
non aveva avuto voglia, occasione, bisogno di fare. Dunque un'identità minacciata
che si reintegra e si ricostituisce (ma anche che si forma e si diversifica) nel
momento in cui scrive. Minacciata l'identità, ma nello stesso tempo costituenda e
costituita: non è, credo, un'acrobazia verbale, ma una situazione dialettica effettiva.
Questo è un grande tema che lasciamo tracciato, affrontato ma ancora tutto da
discutere nei prossimi incontri: il costituirsi dell'io (degli io) popolare, le forme, i
luoghi di questa costituzione, la nascita per scontro sul mutamento"78.
Ritornando al filosofo spagnolo, Lledò scrive in un altro passaggio: "La
scrittura opera il prodigio di riscattare il tempo dal suo flusso inarrestabile, dal suo
sprofondare nel passato, e lo mantiene vivo, trasformandolo anzi in futuro; poiché
attraverso la scrittura ogni tempo è già futuro e attende un possibile lettore"79.
E in modo più articolato: “Ogni momento dell’esistenza è vita e morte. Il
tempo consente di esistere alla possibilità e, con essa, alla realtà. Ma tutto il reale
umano, nel suo semplice essere presente, già manifesta il suo perire. Il momento in
cui la vita si accende porta con sé anche il suo spegnersi e sparire. E, tuttavia,
conoscere e ricordare sono due modi di superare le strettoie del circolo vita-morte in
cui il tempo chiude l’esistenza. La conoscenza permette di prendere coscienza della
nostra esperienza naturale e di ampliarla, allargando con la riflessione il suo dominio
ristretto. La memoria permette di raccogliere, nella nostra immediata stessità, gli altri
istanti che, perduti all’esperienza immediata dei sensi, restano, per opera di quella
stessa esperienza corporale, nella carne della memoria. Le parole scritte, strumento
della memoria, svincolano l’esperienza stessa dal limite dell’immediatezza, situandola
M. Isnenghi, intervento di discussione in I luoghi della scrittura autobiografica popolare, "Materiali di
Lavoro", n. 1-2 / 1990, pp. 310-311.
79
E. Lledò, Il solco del tempo, cit., p. 23.
78
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
44
in uno spazio nuovo, sul versante opposto rispetto alla soggettività. In ciò il
linguaggio scritto libera il suo significare dalle forme dell’articolazione fonetica, ossia
dai condizionamenti dell’effimero presente”80.
5. La restituzione della memoria.
Condizioni materiali e problemi metodologici
5.1. È esistito un tempo storico (fino al secondo dopoguerra) in cui luoghi e
momenti della giornata erano dedicati ai racconti: il “filò” (o i momenti di veglia,
variamente detti) erano situazioni familiari allargate, dove i più anziani
trasmettevano un sapere narrativo tradizionale e/o raccontavano qualche evento
della storia personale o collettiva.
Li trasmettevano alle generazioni più giovani, così come in altri momenti
trasmettevano istruzioni professionali e conoscenze locali (sul territorio, ad
esempio). Gran parte insomma della formazione delle giovani generazioni (i ragazzi,
i giovani che non uscivano dal paese o dalla valle che non emigravano per lavoro o
che non entravano in seminario) avveniva attraverso narrazioni, attraverso storie. E
queste storie (che poi erano anche storie di vita) trasmettevano un sapere
caratterizzato da un lato dalla fragilità (si trattava di un sapere orale e non scritto e
quindi poco stabile, un sapere socialmente subalterno, continuamente minacciato dai
saperi più forti) e dall'altro dall'essere locale (si tratta di un sapere circoscritto, legato
ad un territorio specifico).
Ad un certo punto del Novecento un più moderno e accelerato sviluppo
economico ha profondamente modificato le tradizionali forme di vita, ha soppresso
i luoghi e i momenti di trasmissione del sapere locale, dell’immaginario narrativo,
80
Ivi, p. 27.
Storia locale e spazi di cittadinanza
45
della memoria storica. Sono subentrati altri luoghi altri momenti, altri saperi e con la
televisione un immaginario (un insieme di storie) non legato al locale,
apparentemente non subalterno, perché uguale per tutti.
In tutto questo, ci sembra che sia entrato in crisi anche però un certo modo di
parlarsi e di trasmettersi informazioni tra generazioni: una cultura diffusa che
privilegia sempre le novità e il presente, per esempio, stenta a considerare un valore
la trasmissione di ricordi, di memoria o semplicemente dell’esperienza vissuta.
Perfino le specificità del territorio vengono meno e sembrano importare di meno.
Scrive a questo proposito un antropologo come Franco La Cecla: "Viene ammesso
che l'ambiente sia una componente importante della vita di ognuno, ma gran parte
dei funzionamenti delle nostre società avanzate si basano su una diffusa indifferenza
al dove. Da questo punto di vista la nostra è una società ascetica, che cioè si priva di
un rapporto affettivo con le cose e sostiene che le operazioni principali della nostra
vita non hanno bisogno di un rapporto con dei luoghi determinati. [...] Una tale
impostazione astratta della vita risponde bene alla defisicizzazione e delocalizzazione
progressiva dell'ambiente moderno"81.
Se decliniamo il tema in senso pedagogico dobbiamo notare con Paolo Bartoli
che “cominciano ormai ad essere numerose le ricerche e le analisi che hanno messo
in evidenza i vistosi cambiamenti del senso del tempo nelle nuove generazioni, che
hanno cercato di portare allo scoperto le fratture e le sconnessioni tra memoria
individuale e collettiva, tra biografia e storia, che, in definitiva, hanno descritto la
progressiva perdita di rilevanza del passato e del futuro nella soggettività dei giovani,
a fronte di una inedita enfatizzazione o di una rassegnata accettazione di un presente
dilatato e totalizzante. Senza i raccordi e la rete di corrispondenze che facevano del
presente il passaggio stretto e veloce che consentiva allo ieri di trascorrere nel
domani, il passato e il futuro si sconnettono e si allontanano indefinitamente,
venendo mano mano a perdere la possibilità di porsi come momenti forti
dell’esperire e come vincoli credibili dell’agire. Il passato, censurato, rifiutato,
denunciato o semplicemente smarrito, non saprebbe attraverso chi e quali
81
F. La Cecla, Perdersi: l'uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 89-90.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
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soddisfazioni chiedere al presente; il futuro, perdute molte delle certezze e delle
speranze che spingevano ad attraversare il presente di corsa, sembra ritirarsi lontano,
rifiutarsi di accogliere desideri e progetti”82.
5.2. La scuola di base ha avuto storicamente (lungo il Novecento, intendiamo)
un interesse intermittente nei confronti del territorio in cui veniva a trovarsi e nei
confronti della comunità che lì risiedeva. Da un lato tende a presentarsi come
portatrice di un sapere astratto (il leggere, scrivere e far di conto) valido ovunque,
spesso in contrasto con le abitudini linguistiche locali (penso alla battaglia senza
quartiere contro il dialetto). Dall’altra, in alcuni momenti e movimenti pedagogici,
cerca di entrare in rapporto invece con la realtà locale, attraverso il vissuto (le storie)
dei bambini. Mi riferisco in modo specifico alla lunga, variegata e complessa vicenda
di un movimento che va sotto il nome di “scuola attiva”.
Negli anni Venti l’influenza di un pedagogista come Giuseppe Lombardo
Radice (che contribuisce anche alla Riforma Gentile nel 1923) è piuttosto forte e
indirizza la scuola elementare verso un’apertura alla realtà locale, alla storia reale dei
bambini, alla loro cultura (scrittura autobiografica nei diari, il dialetto, la storia locale
ecc.).
L’ispirazione di Lombardo Radice si esaurisce abbastanza presto, ma rimane
come caratteristica professionale in una certa classe insegnante su su fino agli anni
Cinquanta83.
Qualche decennio più tardi, a partire dagli anni Cinquanta il Movimento di
Cooperazione Educativa (MCE) riprende con maggior impegno e rigore l’idea, il
concetto, la proposta della scuola attiva, ma rovesciandola in qualche modo: non è la
realtà che entra nella scuola, ma è la scuola che va in cerca della realtà, dell’ambiente
che si vuol conoscere.
P. Bartoli, Nuove generazioni ed esperienza del tempo: alcune note antropologiche, in Tempo, memoria, identità,
a cura di P. Faltera e G. Lazzarin, La Nuova Italia, Firenze 1986, p. 121.
83
Cfr. ad esempio la bella raccolta di giornalini scolastici curata da Maria Floretta, C'è posto per tutti:
gli anni Cinquanta raccontati nel giornalino scolastico di Cloz, Comune di Cloz 1998.
82
Storia locale e spazi di cittadinanza
47
Si incomincia a dare una grande importanza alla memoria (orale e scritta), alle
storie di vita della gente comune, all’intreccio tra storia soggettiva e Storia.
Strumento indispensabile diventa l’intervista a testimoni privilegiati (gli anziani) e si
riattiva a scuola quel flusso di memorie tra generazioni che si andava invece
esaurendo nella società e nelle famiglie.
5.3. Quale memoria? La memoria innanzitutto delle donne e degli uomini in
guerra.
Nelle memorie depositate all'Archivio della scrittura popolare84, così come
nelle interviste agli anziani, i ricordi della guerra (della prima come della seconda)
occupano un posto assolutamente rilevante (il Novecento che abbiamo alle spalle è
stato, dal punto di vista quantitativo, di gran lunga il più distruttivo dell’intera storia
universale. In esso, ci dicono le statistiche, il numero dei morti a cause delle sue
guerre devastanti è stato più del triplo di quello complessivo delle vittime di tutti i
conflitti combattuti nei precedenti diciannove secoli che ci separano dall’inizio
dell’era cristiana. Le vittime dei conflitti dal I alla fine del XIX secolo non superano i
quaranta milioni: sono 110 milioni le vittime delle guerre novecentesche).
Sono storie di soldati combattenti, di prigionieri e di internati nei campi
prigionia e di concentramento; sono storie di donne profughe (con il loro trauma
della partenza e successivamente “l’angoscia territoriale”); storie di vita quotidiana
vissuta in un contesto di guerra.
È una memoria che va salvaguardata di per sé naturalmente, ma che la scuola
può elaborare anche in due direzioni diverse: verso finalità didattiche (la guerra è il
luogo che più di altri rende visibile in che modo la storia personale di un individuo è
in rapporto con la Grande Storia e lo studio di questo rapporto può essere il
percorso che conduce i ragazzi ad interessarsi della storia); verso finalità educative
più generali: proprio la memoria di alcuni eventi come quelli citati (il fenomeno dei
profughi, l’internamento in campi di prigionia) può essere recuperata e letta in modo
esemplare. Il termine e la proposta sono di un intellettuale bulgaro-francese Tzvetan
84
Presso il Museo storico in Trento.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
48
Todorov che in un saggio breve quanto fondamentale scrive che la memoria di un
fatto traumatico (e si riferisce alla sterminio nazista degli ebrei) può essere rivissuta
in termini letterali o esemplari. Quando i ricordi si rivivono in termini letterali (alla
lettera) rimangono unici, privati, forse anche inspiegabili. Ma se ne faccio un esempio
(diventando appunto esemplari), apro questo ricordo all’analogia e alla
generalizzazione e il passato può diventare principio d’azione per il presente; utilizzo
il passato in vista del presente85.
Il caso delle donne profughe trentine, durante il periodo della Grande Guerra,
allontanate dai propri paesi, rinchiuse in campi di raccolta, sottoposte a regolamenti
e divieti, finisce inevitabilmente, quasi un secolo dopo, per evocare altri abbandoni,
altri viaggi, altre vite d’esilio, altri internamenti forzati.
Ci si permetta di procedere ancora con questa analogia storica. Come si
diventa profughe? Il primo atto che muta d’un colpo lo status delle donne è
naturalmente quello della partenza, luogo autobiografico per eccellenza,
continuamente ripercorso e raccontato. Lo è anche per i soldati. Ma c’è qualcosa di
diverso in queste partenze amare e angosciate. Mentre gli uomini acquistano una
divisa, un ruolo, uno status per quanto non amato e non desiderato, e hanno a
disposizione delle retoriche di corpo ed una struttura di sostegno, le donne partendo
perdono tutto: la casa e il mondo affettivo che essa poteva significare, un’identità
riconosciuta, la rete sociale del paese, mentre non acquistano nulla. La partenza
provoca un senso di amputazione, ben sperimentato anche dai profughi che
verranno e che Slavenka Drakulic, una scrittrice croata, cercherà di descrivere nel
suo diario di profuga di fine millennio: “… improvvisamente mi sono sentita come
se mi fossi svegliata con le mani e gambe amputate. O peggio ancora, come se mi
trovassi nuda nel mezzo della stanza, scuoiata della mia pelle, spogliata di ogni cosa
per me significativa, del senso stesso. Non sapevo che cosa fossi tenuta a fare, con
questa mia pelle, proprio non lo sapevo”86.
85
86
T. Todorov Gli abusi della memoria, Ipermedium, Napoli 1996.
Sl. Drakulic, Balkan Express, Il Saggiatore, Milano 1993, pp. 41-42.
Storia locale e spazi di cittadinanza
49
La memoria dell'emigrazione per lavoro, in secondo luogo, ci riporta ad uno
dei nodi cruciali della storia trentina e italiana.
La nuova linea di confine verso sud dopo la Terza guerra d’Indipendenza,
l’imposizione di dazi sui generi d’importazione e di esportazione ed una grave crisi
agricola causano nella seconda metà dell'Ottocento una delle più grandi ondate
migratorie che si conoscano.
La stessa situazione igienico-sanitaria del Trentino non era buonissima: in
questi ultimi decenni dell'Ottocento scoppia la pellagra, in ritardo rispetto al Veneto
e alla Lombardia; la mortalità infantile rimane molto alta (230 morti su mille nati);
mentre la vita media oscilla tra i 36 e i 37 anni di vita.
Così tra il 1874 e il 1889 più di ventimila trentini dovettero abbandonare i
propri paesi per trasferirsi stabilmente in America, del sud principalmente (in
Brasile) (si noti: ventimila su una popolazione complessiva di 345.000 abitanti).
A ciò bisogna aggiungere l’emigrazione temporanea all’interno dell’Impero, nel
Vorarlberg, a Vienna, in Bosnia o in Germania, in Svizzera, in Francia. Scrive Cesare
Battisti: “Ci mancano dati per valutarne esattamente l’importanza: sappiamo
unicamente che dalla sola stazione di Trento partono annualmente circa 25.000
operai; che circa altri 20.000 partono dalle altre stazioni trentine e che il Vorarlberg
occupa nei sui cotonifici operaie per la massima parte trentine”87.
La direzione migratoria verso il nord portava nei luoghi dove erano in
costruzione le grandi reti ferroviarie e altre opere (stradali e minerarie) di altrettanto
grande impegno.
Si trattava di una nuova categoria di lavoratori girovaghi e (perlopiù) stagionali
che veniva affiancandosi a quelle più tradizionali degli arrotini, dei calderai, degli
spazzacamini, dei carbonai, degli imbianchini, dei venditori ambulanti di figurine di
gesso o di stampe, dei gelatai, dei Salamutschi-Mann, i venditori friulani di salami.
87
C. Battisti, Il Trentino, Zippel Ed., Trento 1898, p. 238.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
50
I nuovi operai, più o meno qualificati, erano chiamati aisempòneri in Trentino,
“esampònari nel vicino bellunese, lisampòneri nel friulano (i tre termini derivati dal
termine tedesco Eisenbahn, ferrovia)”88.
Coloro che partivano per l’aisempòn erano tagliapietre e scalpellini, muratori,
sterratori, carpentieri, fabbri ferrai, operai alle gallerie, minatori, portamine, addetti
all’esplosione di mine, seguiti da una manovalanza scarsamente qualificata. Si
muovevano generalmente in piccoli gruppi, assoldati da capo-uomini che quasi
sempre provenivano dalla loro valle, se non dal loro stesso paese.
“Questa gente è di una tale modestia - scriveva nel 1881 l’Illustrirtes Wiener
Extrablatt - che solo così si spiega, che riescano a risparmiare quasi l’intera paga,
nonostante lavorino così a buon mercato da battere qualunque concorrente.
Quando partono da casa, vi lasciano moglie e figli, fanno indirizzare tutte le loro
lettere fermo posta e si recano all’Ufficio Postale, pure a gruppo, per ritirare le
lettere a loro destinate. Una persona di fiducia, eletta da ogni gruppo al suo interno,
custodisce i loro risparmi. Dove hanno trovato lavoro per un periodo più lungo,
costruiscono delle baracche, lì vivono isolati dal resto del mondo”89.
Al seguito degli impresari gli aisempòneri finivano in zone remote, in
Transilvania90 o in Anatolia, come racconta una celebre pagina di Mario Rigoni
Stern: nella stalla, alla sera, “si incontravano gli uomini della contrada a passare la
parola. Parlavano delle esperienze di lavoro, delle stagioni, degli incontri che
R. M. Grosselli, Reddito e vita sotto altri cieli: la cultura della mobilità nel Trentino alpino: tragitti e numeri del
flusso migratorio dal Medioevo alla Prima Guerra Mondiale, in Dal Trentino al Vorarlberg: storia di una corrente
migratoria tra Ottocento e Novecento, a cura di K. H. Burmeister e R. Rollinger, Provincia autonoma di
Trento, Trento 1998, p. 39.
89
“Illustrirtes Wiener Extrablatt”, 23 marzo 1881, citato in R. Johler, Mir parlen italiano: la costruzione
sociale del pregiudizio etnico: storia dei trentini nel Vorarlberg, Museo storico in Trento, Trento 1996, p. 35.
Edizione italiana di Mir parlen Italiano un spreggen Dütsch piano: Italienische Arbeiter in Vorarlberg 18701914, Schriftenreihe der Rheticus-Gesellschaft, Feldkirch 1987.
90
“Poveretti i Predazzani, / Sono andati in Transilvagna / per trovare la cuccagna, / E infrattant i
se ha ingannà” recita la prima strofa della Canzone composta e cantata in Transilvania da Tomaso Bosin e
Antonio Facchini di Predazzo, pubblicata da Lorenzo Felicetti nella sua Memoria storica della colonia di
lavoratori di Predazzo e di altri paesi di Fiemme emigrati in Transilvania nell’anno 1851, Tip. Tabarelli,
Cavalese 1908.
88
Storia locale e spazi di cittadinanza
51
avevano fatto girando il mondo, dei costumi della gente, dei caratteri delle donne
straniere. […] Qualcuno, lavorando sulle ferrovie, era arrivato persino in Anatolia, e
raccontava di come per difendersi dai lupi dovevano alla notte accendere dei grandi
fuochi ai margini dei baraccamenti e come dovevano lavorare sotto la vigilanza dei
soldati perché c’erano i banditi bulgari e macedoni che facevano scorrerie. Qualche
volta, sottovoce, cantavano la canzone degli esenponnar: gli sterratori che spianavano
le montagne e gettavano i ponti sui fiumi per far passare la strada ferrata”91.
La condizione dell’emigrante è tale che lo mette a contatto con persone e
culture diverse: deve imparare lingue diverse dalla sua, compie insomma delle
esperienze che lo formano e lo modificano.
In altre parole gli emigranti si trovano esposti all'influsso di nuove culture
politiche e religiose e/o allo sfaldamento delle identità precedenti. Lo sappiamo: è
nei cantieri e negli opifici di Bregenz o di Dornbirn, ad esempio, che i Trentini
vengono a contatto, spesso per la prima volta, con le organizzazioni sindacali e con
le idee socialiste. E sono sempre i cantieri delle grandi ferrovie del nord, i luoghi in
cui muratori, operai, sterratori, minatori si trasformarono in aisemponeri, in barabbi,
caratterizzati da comportamenti trasgressivi e marginali.
E ancora, è girando le piazze e i mercati di mezzo mondo che i venditori
ambulanti (i kromeri) finiscono per trascurare ogni dovere religioso e portare a casa questa è l'accusa delle autorità cattoliche trentine - "ogni sorta di principi storti, e di
spropositi e di cattivi costumi".
Insomma l'emigrazione è un formidabile motore di cambiamento e di
trasformazione, il luogo privilegiato del farsi e del disfarsi delle identità personali.
Anche dell'identità religiosa come nel caso dei figli di Leopoldo Carraro di
Villa Agnedo, Gregorio, Pietro, Sebastiano, Raffaele, emigrati a Barmen
(Wuppertal), in Renania, per lavorare alla costruzione della ferrovia. Come ci
91
M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, Einaudi, Torino 1978, pp. 22-23.
Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
52
racconta Teodoro Tiso, i quattro fratelli vengono a contatto con la predicazione
evangelica e abbandonano la Chiesa cattolica92.
6. Memoria e formazione storica: elementi per l’educazione
alla cittadinanza
Quest’ultimo paragrafo, ponendosi a conclusione delle nostre riflessioni
storiche e metodologiche, vuole presentare e anticipare i principali contenuti del
nostro prossimo contributo al progetto, dal titolo “La formazione storica come
vettore di cittadinanza vissuta”.
Nelle pagine precedenti abbiamo sostenuto, e cercato di argomentare, la tesi
secondo cui la “cittadinanza vissuta” è un comportamento emergente nel quale è
implicito, anche se spesso al di sotto della soglia di consapevolezza, un approccio
alla memoria locale. Abbiamo ripercorso alcune modalità, secondo noi centrali, di
questa emergenza, collegandole in particolare all’azione degli apparati ideologici
formativi e alle dinamiche dei dispositivi di memoria, nelle quali abbiamo inscritto le
pratiche di scrittura e la loro diffusione di massa, ed esemplificandole storicamente
col riferimento alle esperienze della Grande Guerra e dell’emigrazione.
Una conseguenza di questa tesi appare chiara: l’educazione alla cittadinanza
vissuta non può prescindere da un’educazione alla memoria locale, in assenza della
quale ci troveremmo con profili di cittadinanza puramente formali. E qui si apre la
nuova questione: cosa significa “educare alla memoria locale”? Il discorso coinvolge
nuovamente l’azione degli apparati ideologici formativi, in quanto soglie di accesso
alla memoria. Ma educare alla memoria significa anche riconoscere e superare le
T. Tiso, Se Iddio lo permette: i protestanti evangelici in Valsugana nella storia delle famiglie Carraro e Tiso,
Mosaico/Croxarie, Borgo Valsugana-Strigno 2003.
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Storia locale e spazi di cittadinanza
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valenze ideologiche di questo accesso, al fine di evitare un corto circuito tra processi
identitari e processi formativi, con effetti di esclusione socialmente ed eticamente
insostenibili, oltre che contraddittori rispetto al contesto comunicativo e massmediale in cui avviene l’accesso alla memoria.
L’educazione alla memoria locale va intesa come un processo di formazione
del senso storico, cioè della capacità di leggere storicamente il luogo in cui si vive, a
partire dalle tracce depositate e dai dispositivi di memoria attivi, e di inscriverne le
vicende in storie e dinamiche su scala più ampia. Si tratta di una capacità non solo
transitiva, come lo sguardo di un osservatore esterno, ma anche riflessiva: esperire la
storicità del luogo in cui si vive comporta infatti un’esperienza formativa della
propria storicità, cioè della storicità della propria memoria e della propria identità
acquisita.
E qui torniamo all’argomento che ci interessa: l’educazione alla memoria locale
come educazione alla cittadinanza vissuta. La situazione problematica in cui ci
muoviamo è quella che abbiamo già segnalato ripetutamente: per promuovere ed
estendere le forme della cittadinanza vissuta, gli apparati ideologici formativi93
devono orientare la propria azione in maniera tale da sincronizzare i generi di vita
strutturati territorialmente e le conoscenze/consapevolezze che gli abitanti hanno
delle condizioni “di luogo” nelle quali vivono. Ciò che chiamiamo “identità” non è
la premessa etnica che legittima questa operazione, ma l’effetto sociale che emerge
in corso d’opera.
Il prossimo deliverable sarà dunque dedicato ad approfondire questo argomento
e si interrogherà sul modo in cui l’educazione alla memoria locale può essere
articolata come processo di formazione del senso storico.
Cioè, ripetiamo, quei luoghi di comunicazione presenti in un territorio nei quali la trasmissione di
conoscenza si concreta in una produzione di memoria locale e in un’azione formativa: scuole,
biblioteche, musei, centri di ricerca, ecc.
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Educazione alla cittadinanza e interculturalità
Deliverable n. 8
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