Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016

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Dipartimento Jonico in Sistemi Giuridici ed Economici
del Mediterraneo: Società, Ambiente, Culture
Jonian Department - Mediterranean Economic and Legal
Systems: Society, Environment, Cultures
ANNALI 2016 – anno IV
(Estratto)
Maria R. Piccinni
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016: il principio di bilateralità e l’insindacabilità delle
scelte del governo nella stipulazione delle intese con le confessioni religiose
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Maria Rosaria Piccinni
BREVI NOTE A CORTE COST. N. 52/2016: IL PRINCIPIO DI BILATERALITÀ E
L’INSINDACABILITÀ DELLE SCELTE DEL GOVERNO NELLA
STIPULAZIONE DELLE INTESE CON LE CONFESSIONI RELIGIOSE. ∗
ABSTRACT
Il contributo prende in esame la Sentenza della The contribution examines the Judgment of the
Corte Costituzionale n. 52 del 16 marzo 2016, Constitutional Court n. 52 of 16 March 2016,
la quale rappresenta il punto di approdo di un which is the landing point of a complex judicial
complesso iter giudiziario riguardante la process concerning the request of the UAAR
richiesta dell’UAAR (Unione Atei, Agnostici (Union of Atheists, Agnostics and Rationalists)
e Razionalisti) di stipulare un’Intesa con lo to have an agreement with Italian State according
Stato italiano ai sensi dell’art. 8 Cost. Le to art. 8 Cost. The main issues in this
questioni sottese a tale pronunciamento, sono pronouncement, are multiple and complex, and
molteplici e complesse e riguardano la concern the definition of religion in Italian law,
definizione
di
confessione
religiosa the meaning of the equal freedom accorded by
nell’ordinamento giuridico italiano, il the Constituent Assembly to religious
significato dell’uguale libertà riconosciuta dal confessions, and the nature of the act by which
Costituente alle confessioni religiose, nonché the Government decides whether to begin
la natura (e di conseguenza la sindacabilità in negotiations for the conclusion of an agreement.
sede giudiziaria) dell’atto con cui il Governo
decide se dare avvio alle trattative per la
stipulazione di un’Intesa.
UAAR – Confessioni religiose – Intese
UAAR – Religious groups - Agreements
SOMMARIO: 1. La vicenda giudiziaria. – 2. Le argomentazioni della Corte Costituzionale nella sentenza
n. 52/2016. – 3. Il problema della definizione giuridica di “confessione religiosa” e la
dimensione della libertà religiosa negativa: il caso UAAR. – 4. L’art. 8 della Costituzione tra
principio di bilateralità e indisponibilità. – 5. L’avvio delle trattative: diritto o mero interesse
di fatto?
1. La Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 52 del 10 marzo 2016, ha risolto un
conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente del Consiglio dei Ministri avverso la
Corte di Cassazione, sancendo che il Governo non ha l’obbligo di avviare le trattative
∗
Saggio sottoposto a referaggio secondo il sistema del doppio cieco.
Maria Rosaria Piccinni
per la stipulazione di un’Intesa ex art. 8, comma terzo Cost. e che il mancato
soddisfacimento della richiesta di un’Intesa non può essere soggetto ad un sindacato in
sede giurisdizionale. Tale pronuncia rappresenta il punto di approdo di un articolato
excursus giurisprudenziale che ha avuto origine nel 2003 attraverso un ricorso presso
il TAR Lazio, a cui hanno fatto seguito sentenze del Consiglio di Stato e delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione.
Il casus belli è la delibera del Consiglio dei Ministri del 27 novembre 2003, con la
quale, recependo il parere dell’Avvocatura generale dello Stato, si decideva di
respingere la richiesta dell’UAAR (Unione Atei, Agnostici e Razionalisti) e di non
avviare le trattative volte alla stipulazione dell’Intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma,
della Costituzione, ritenendo che la professione di ateismo non possa essere
assimilata ad una confessione religiosa, né, pertanto, regolata in modo analogo a quanto
esplicitamente disposto dall’art. 8 della Costituzione per le sole confessioni religiose. 1.
L’UAAR impugnava innanzi al TAR Lazio tale delibera, sul presupposto della
violazione degli artt. 3 e 8 Cost., lamentando disparità di trattamento e violazione del
principio costituzionale di laicità dello Stato.
In base alle argomentazioni addotte dall’UAAR, se la professione dell’ateismo
rientra nell’esercizio della libertà di religione, così come riconosciuto nella delibera
impugnata, il rifiuto di trattare la ricorrente come una confessione religiosa
rappresenterebbe una disparità di trattamento, in violazione delle norme costituzionali
sull’eguaglianza e sull’uguale libertà di tutte le confessioni religiose e del principio
1
Cfr. Delibera del Consiglio dei Ministri del 27 novembre 2003 e nota della Presidenza del Consiglio
del 5 dicembre 2003, prot. USG/5140/03. I.6.7. «Il Consiglio dei Ministri ha condiviso il parere espresso
dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale ritiene che la professione dell’ateismo, certamente da
ammettersi al pari di quella religiosa quanto al libero esercizio in qualsiasi forma, individuale ed
associata, purché non integrante riti contrari al buon costume (art. 19 della Costituzione), non possa
essere regolata in modo analogo a quanto esplicitamente disposto dall’art. 8 della Costituzione per le
sole confessioni religiose. La possibilità ivi contemplata di addivenire ad una regolamentazione
bilaterale dei rapporti mediante la conclusione di intese è infatti, secondo il Consiglio dei Ministri,
espressamente riservata alle confessioni religiose diverse dalla cattolica. Sostiene inoltre l’Avvocatura
Generale nel citato parere che per “confessione religiosa” si intende generalmente un fatto di fede rivolto
al divino vissuto in comune tra più persone che lo rendono manifesto nella società tramite una propria
particolare struttura istituzionale. La connotazione oggettiva voluta dal Costituente nel quadro dell’art.
8, secondo comma, è chiaramente individuata da un contenuto religioso di tipo positivo, di tal che il
Consiglio dei Ministri, concorde l’Avvocatura dello Stato, ha ritenuto la norma non estensibile per
analogia a situazioni non riconducibili a quella fattispecie». In realtà l’UAAR aveva richiesto già nel
1991 l’avvio delle trattative, richiesta che fu respinta nel 1996 con una semplice “missiva” del
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, impugnata con ricorso straordinario al Capo
dello Stato con varie motivazioni, tra cui la mancanza della deliberazione del Consiglio dei Ministri
richiesta dall’art. 2, lett l), della legge n. 400/1988, per tutti gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art.
8 della Costituzione. A seguito dell’accoglimento di tale ricorso l’UAAR cercò di forzare l’avvio del
procedimento per l’Intesa mediante la richiesta di un intervento sostitutivo della Magistratura
amministrativa; dichiarato inammissibile. Dopo diversi anni caratterizzati da scambi di note e
comunicazioni, una nuova richiesta di Intesa fu respinta con deliberazione del Consiglio dei Ministri del
27 novembre del 2003. Per la ricostruzione della vicenda si rinvia a Berlingò, 2014, 6; Alicino, 2013,
185 ss.
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Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
stesso di laicità, il quale presuppone, in base all’interpretazione adottata dalla tesi
difensiva dell’UAAR, «equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni
religiose, tra le quali sarebbe ricompreso anche l’ateismo in forma organizzata».
Il TAR Lazio, Sezione prima, con sentenza 31 dicembre 2008, n. 12539, dichiarava il
ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione, ritenendo che la
determinazione impugnata avesse natura di atto politico non impugnabile innanzi al
giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, co. I, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.
Avverso tale pronuncia l’UAAR proponeva appello innanzi al Consiglio di Stato,
sez. IV, il quale, con la sentenza 18 novembre 2011, n. 6083, ribaltava la sentenza di
primo grado affermando la sussistenza del sindacato giurisdizionale amministrativo e
rinviando la causa al giudice di prime cure.
Il focus della questione riguardava la delimitazione della categoria degli “atti
politici” sottratta al sindacato giurisdizionale: data la non impugnabilità di tali atti, in
deroga ai principi fondamentali in materia di diritto di azione e tutela delle situazioni
giuridiche soggettive, ex artt. 24 e 113 Cost., si tratta di previsioni eccezionali, per le
quali è opportuno che siano individuati criteri definitori ben precisi. La dottrina e la
giurisprudenza prevalente ritengono fondamentale la sussistenza, nella definizione di
“atto politico”, di due requisiti, uno di carattere soggettivo e l’altro di carattere
oggettivo: il primo è che «l’atto debba promanare da un organo di vertice della pubblica
amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa
pubblica al massimo livello»; il secondo riguarda l’oggetto dell’atto, che «deve
concernere la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella
loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione»2.
Il Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 6083/2011, ha escluso la natura politica
delle scelte relative all’avvio di trattative finalizzate alla conclusione di un’Intesa. In
particolare, nella citata Sentenza viene affermato che l’art. 8 Cost., al comma 3
costituisce una norma sulle fonti, che sancisce l’obbligo della bilateralità per la
regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose e pone una riserva
di legge assoluta in materia, sia pure limitando la sovranità legislativa del Parlamento,
che non può apportare modifiche al testo dell’Intesa.
La norma individua nell’Intesa lo strumento tecnico-giuridico più adatto a tener
conto della specificità delle confessioni religiose e ad assicurarne l’uguaglianza
2
Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2007, nr. 209; Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, nr. 1397; id.,
29 febbraio 1996, nr. 217. Anche la Corte Costituzionale ha evidenziato che l’individuazione di aree
sottratte al sindacato giurisdizionale va confinata entro limiti rigorosi: «Gli spazi della discrezionalità
politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello
costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi
la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui
l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di
governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano
l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto,
sindacabile nelle sedi appropriate» (Corte Cost. 5 aprile 2012 n. 81). Dickmann, 2012; Bilancia, 2012;
Blando, 2012; Pagano, 2013, 863 ss.
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Maria Rosaria Piccinni
sostanziale, fungendo da strumento di raccordo tra diritto dello Stato e ordinamenti
religiosi.
A parere del Consiglio di Stato, pur restando salva la potestà del legislatore di non
tradurre in legge i contenuti di un’eventuale Intesa, l’art. 8 è una norma posta, come
corollario del principio di uguale libertà, nell’interesse delle confessioni religiose, le
quali nell’esercizio della propria autonomia organizzativa possono chiedere di
addivenire ad una definizione bilaterale dei propri rapporti con lo Stato. Sulla base di
tali argomentazioni, in questa sede molto sinteticamente riportate, si concludeva che
«quanto meno l’avvio delle trattative può addirittura considerarsi obbligatorio sol che
si possa pervenire a un giudizio di qualificabilità del soggetto istante come confessione
religiosa».
Per quanto riguarda l’accertamento dell’ascrivibilità dell’organizzazione
richiedente al novero delle “confessioni religiose”, per il Consiglio di Stato non può
essere ritenuto un atto insindacabile, bensì esercizio di una discrezionalità valutativa
come ponderazione di interessi. Per tali motivi, in accoglimento delle richieste
dell’UAAR, il Consiglio di Stato annullava la pronuncia impugnata, rinviando la causa
al Giudice di primo grado.
Avverso questa pronuncia, il Consiglio dei Ministri proponeva tempestivo ricorso
per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, sulla base della considerazione
che il rifiuto espresso nei confronti dell’UAAR, motivato peraltro dalla non
qualificabilità dell’associazione istante come confessione religiosa, fosse da
considerare atto politico non giustiziabile.
Le ragioni addotte dall’Avvocatura dello Stato a sostegno di tale tesi si fondano
sulla considerazione che le confessioni religiose acattoliche che mirino ad un’Intesa
sarebbero portatrici di una mera aspirazione di fatto, che coinvolge la responsabilità
politica del Governo, non la responsabilità dell’amministrazione. Inoltre, anche dopo
la stipula di un’Intesa il Governo è libero di non darvi ulteriore corso in sede legislativa;
peraltro le confessioni religiose sono libere di organizzarsi e la mancanza dell’Intesa
non compromette la garanzia di eguale libertà.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione 3, con sentenza n. 16305 del 2013,
premettendo di aderire all’orientamento largamente condiviso che confina la categoria
degli atti politici in ambiti operativi molto ristretti (per i motivi già sopra richiamati),
hanno confermato la tesi già espressa dal Consiglio di Stato, sostenendo che la
qualificazione dell’organizzazione richiedente come confessione religiosa costituisca
esercizio di discrezionalità tecnica da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri
e sia pertanto sindacabile in sede giurisdizionale.
La Cassazione sostiene tali argomentazioni ritenendo che il primo comma dell’art.
8 Cost. (che sancisce l’uguale libertà delle confessioni religiose) costituisce il
3
Tra gli autorevoli commenti si segnalano i seguenti: Pasquali Cerioli, 2012a; Canonico, 2012a; Di
Prima, 2015, 131 ss.; Bertolini, 2012, 625 ss; Fascio, 2012, 1204 ss.
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Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
presupposto interpretativo del terzo comma: in sintesi, dato che la stipulazione
dell’Intesa sarebbe finalizzata ad una più compiuta attuazione dei valori di eguaglianza
tra confessioni religiose, l’attitudine di un’organizzazione a stipulare accordi con lo
Stato (art. 8, comma 3) non potrebbe essere sottoposta all’assoluta discrezionalità del
Governo, a pena di sacrificare l’eguale libertà (art. 8, comma 1).
Da questo punto di vista, secondo la Cassazione, il Governo avrebbe avuto
l’obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8 Cost. per il solo fatto che vi fosse
stata una richiesta, a prescindere dalle evenienze verificabili nel prosieguo dell’iter
legislativo della correlata legge di approvazione. Veniva così confermata
l’interpretazione più garantista, che in mancanza di precisi parametri legislativi prevede
l’obbligo del Governo di avviare le trattative con le confessioni o organizzazioni che
ne facciano richiesta, per le quali tuttavia non è configurabile un diritto all’Intesa 4.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, in nome proprio e per conto del Consiglio
dei Ministri, non condividendo tale orientamento, sollevava dinanzi alla Corte
Costituzionale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, osservando che la Corte
di Cassazione, con la sentenza n. 16305 del 2013, avrebbe illegittimamente esercitato
il suo potere giurisdizionale, menomando la funzione di indirizzo politico che la
Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma, 92 e 95
Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi «insuscettibile di controllo da
parte dei giudici comuni».
In base alla tesi difensiva sostenuta dall’Avvocatura dello Stato, non può essere
previsto alcun obbligo all’avvio delle trattative per la conclusione dell’intesa ex art. 8,
terzo comma, Cost., trattandosi di atto politico libero che rientra tra le determinazioni
sottratte al controllo dei giudici. Così come il Governo è libero di non dare seguito alla
stipulazione dell’intesa, omettendo di esercitare l’iniziativa per l’approvazione della
legge prevista dall’art. 8, terzo comma, Cost., a maggior ragione dovrebbe essere
libero, nell’esercizio delle sue valutazioni politiche, di non avviare alcuna trattativa:
l’apertura delle trattative, pertanto, non è un diritto, ma un «interesse di mero fatto non
qualificato, privo di protezione giuridica». Sulla base di tali considerazioni si
demandava alla Corte Costituzionale il compito di dichiarare l’insindacabilità, ad opera
dei giudici comuni, del rifiuto del Consiglio dei Ministri di avviare le trattative con
l’UAAR per la stipulazione dell’Intesa.
4
Colaianni, 2014a. Secondo l’Autore, se la generalizzazione dell’obbligo di avviare trattative è
funzionale ad impedire una «immotivata e incontrollata selezione degli interlocutori confessionali»
frenando l’arbitrio del Governo in violazione dell’eguale libertà sancita dall’art. 8 cost., bisogna
riconoscere che non esiste un diritto all’eguaglianza se non nella misura di un meta-diritto, cioè di
un’aspettativa a non essere discriminati, la quale trova protezione, come in generale nei confronti del
potere amministrativo in presenza di un provvedimento (l’avvio delle trattative) che soddisfa l’interesse
legittimo allo svolgimento imparziale dell’azione amministrativa, in conformità alle regole poste
dall’ordinamento e in funzione della non disparità di trattamento.
393
Maria Rosaria Piccinni
2. La Corte Costituzionale, nel dirimere il conflitto, parte dall’esegesi dell’art. 8
Cost. e dal valore che lo strumento delle Intese assume nella regolazione dei rapporti
tra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Il metodo della
negoziazione bilaterale è stato ritenuto dal legislatore il più idoneo a dare attuazione al
principio di uguale libertà tra le confessioni religiose, tenendo ben presente le
specificità di ognuna nel riconoscimento delle peculiari esigenze manifestate. Per
evitare che una disciplina unilaterale da parte dello Stato potesse generare disparità di
trattamento e diseguaglianze, il legislatore ha voluto garantire, attraverso la disciplina
degli accordi bilaterali, l’“uguaglianza sostanziale”, che consiste non nell’attribuire a
ciascuno lo stesso trattamento, bensì nel valorizzare le differenze e rimuovere gli
ostacoli per una compiuta partecipazione alla vita democratica e per un effettivo
riconoscimento dei diritti fondamentali 5.
Tuttavia, prosegue la Corte, i primi due commi dell’art. 8 Cost. garantiscono alla
confessioni religiose l’uguale libertà e la potestà di auto-organizzazione: si tratta di
norme fondamentali a tutela della libertà religiosa in forma associata, che prescindono
dalla stipulazione di Intese, tanto è vero che, per costante giurisprudenza della stessa
Corte Costituzionale, non sono ammesse discriminazioni tra confessioni religiose in
base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con
lo Stato tramite accordi o intese (si vedano, ex multis, le sentenze n.195/1993 e n.
346/2002 in tema di edilizia di culto, le quali hanno affermato che la mancanza di
stipulazione di un’Intesa non può essere motivo di discriminazione nell’accesso ai
contributi pubblici in materia di edilizia di culto) 6.
Per tale ragione, la Corte Costituzionale ha ritenuto non condivisibile quanto
sostenuto dalla Corte di Cassazione, la quale invece asseriva che l’esclusione dalle
trattative per l’Intesa pregiudica l’uguale libertà delle confessioni religiose. Pur in
assenza di una legge generale sulla libertà religiosa, tale libertà è riconosciuta e
garantita dagli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione, che la tutelano indistintamente in
forma individuale e associata, in conformità al carattere laico e pluralista che
caratterizza l’impianto costituzionale.
Per Corte Costituzionale dunque (confutando le argomentazioni della Corte di
Cassazione), l’ art. 8, III co., della Costituzione non è una norma procedurale
5
Tra la vasta letteratura giuridica sul punto cfr. Finocchiaro, 1958a; Casuscelli, 2000a, 66 ss; Tozzi,
1990, 166 ss.; Randazzo, 2008.
6
Cfr. Corte Cost., sent. n. 195 del 1993, in www.giurcost.org, che ha dichiarato l’incostituzionalità
dell’art. 1 della legge della Regione Abruzzo 16 marzo 1988 n. 29 nella misura in cui in materia di
edilizia di culto, subordinava la concessioni di contributi pubblici alle sole confessioni che avessero
stipulato un’Intesa con lo Stato. Conformemente, Corte Cost., sentenza n. 346/2002, in Quad. dir. pol.
eccl., n. 3/2002, pp. 701-706, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge della Regione
Lombardia 9 maggio 1992, n. 20. Per approfondimenti cfr. D’Andrea, 2003, 667 ss; Parolin, 2003, 351
e ss. Cfr. Corte Cost., sentenza n. 346/2002, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 3/2002, pp.
701-706.
Più in generale, sulla questione, cfr. Tozzi, 2006, 335 ss.; Persano, 2008.
394
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
meramente servente e dipendente dal primo comma, finalizzata a realizzare i principi
di uguaglianza e uguale libertà, ma ha un significato e un valore autonomo, che è quello
di estendere anche alle confessioni religiose diverse dalla Cattolica il “metodo
bilaterale”, ove sussista il requisito di una concorde volontà delle parti in tal senso, tra
cui pre-requisito fondamentale è da intendersi la disponibilità del Governo ad avviare
le trattative.
Pertanto è da ritenersi insindacabile da parte dei giudici comuni il rifiuto, opposto
dal Governo, all’avvio delle trattative preordinate alla conclusione di un’intesa ex art.
8, terzo comma, Cost., almeno finché il legislatore non decida di emanare una
normativa esplicita che regoli il procedimento, indicando parametri oggettivi per
l’individuazione degli interlocutori. La sindacabilità delle scelte del Governo, in tal
senso, costituirebbe una violazione del principio di bilateralità, il cui presupposto, come
poc’anzi evidenziato, è proprio la libera e comune volontà di entrambe le parti, il cui
momento genetico è da ravvisarsi nella scelta dell’avvio delle trattative. Oltretutto,
argomenta la Consulta, il procedimento che porta alla stipulazione dell’Intesa è una
serie di atti tra loro collegati e preordinati al raggiungimento di uno scopo unitario:
sarebbe pertanto contraddittorio negare il “diritto” all’intesa quale risultato finale delle
trattative e contemporaneamente affermare la giustiziabilità del diniego all’avvio delle
stesse.
Non si comprenderebbe infatti perché si dovrebbe imporre l’apertura di trattative,
visto che non è possibile pretenderne, né garantirne in alcun modo la positiva
conclusione, rimessa alla valutazione governativa.
Le valutazioni fatte dal Governo nell’individuazione dei soggetti che possono
essere ammessi alle trattative, limitandoli alle sole confessioni religiose ed escludendo
le associazioni, rientrano nella sua ampia sfera di discrezionalità e sono motivate da
ragioni di opportunità politica, tenendo conto «della realtà mutevole e imprevedibile
dei rapporti politici interni ed internazionali».
Per tali ragioni, in mancanza di norme procedurali specifiche e dell’obbligo di
negoziare un’Intesa, solo il Consiglio dei Ministri può valutare l’opportunità di avviare
trattative volte alla regolazione bilaterale dei rapporti reciproci. Della decisione di non
avviare le trattative il Governo può essere chiamato a rispondere politicamente di fronte
al Parlamento, ma non in sede giudiziaria. Va pertanto annullata l’impugnata sentenza
della Corte di Cassazione, sezioni unite civili.
3. Le questioni affrontate nella sentenza sono molteplici e complesse, destinate a
generare un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di libertà religiosa,
uguaglianza ed attuazione delle garanzie costituzionali. Si tratta di una tematica di
grande interesse ed attualità, data la composizione sempre più variegata ed eterogenea
del panorama religioso italiano e le crescenti problematiche legate alla necessità di
individuare gli strumenti normativi più adatti a garantire le esigenze religiose in
conformità ai princìpi costituzionali.
395
Maria Rosaria Piccinni
La prima delle problematiche da esaminare riguarda la definizione giuridica di
“confessione religiosa”, che il nostro legislatore non ha mai voluto esplicitare,
lasciando alla dottrina ed alla giurisprudenza questo compito, anche se si tratta di una
definizione essenziale per individuare i destinatari delle garanzie previste dall’art. 8
Cost. 7
La difficoltà di trovare una qualificazione giuridica per un fenomeno tanto
articolato quale quello religioso è accentuata nella società attuale, in cui si sono
sviluppati e diffusi movimenti religiosi non ascrivibili ai paradigmi tradizionali: la
dottrina maggioritaria considera confessione religiosa «un gruppo sociale stabile, con
una propria ed originale concezione del mondo radicata nella credenza in un Essere
trascendente in rapporto con gli uomini, e ad esso teleologicamente ordinato»8.
L’elemento distintivo rispetto alle associazioni con finalità di religione e di culto,
dunque, sarebbe l’originalità della concezione del mondo e il rapporto con l’elemento
divino, da ricercare nel trascendente o nell’immanente. La giurisprudenza della Corte
Costituzionale ha successivamente individuato degli elementi “sintomatici” del
carattere di confessione religiosa, ancorché non esaustivi, quali la presenza di uno
statuto, il riconoscimento pubblico o la “comune considerazione” (Corte Cost.,
sentenza 195/1993) 9.
Il secondo comma dell’art. 8 Cost., nel prevedere che le confessioni religiose
possano organizzarsi secondo i propri statuti, contempla l’esistenza di confessioni che
possano qualificarsi tali ed usufruire della stessa tutela garantita dal primo comma della
medesima norma pur non presentando alcuna forma di organizzazione statutaria, anche
se, per l’attribuzione di tale qualifica, è ragionevole ritenere necessario almeno un
minimo di struttura organizzativa.
Dotarsi di uno statuto, in altre parole, è un diritto delle confessioni religiose, ma
non un dovere che inficia la possibilità di godere dell’uguale libertà che la Costituzione
accorda a tali formazioni sociali 10.
Non è sufficiente l’autoqualificazione del gruppo quale confessione religiosa, se
non supportata da elementi di riscontro oggettivi e pratici, come la presenza di riti, la
cura dei fedeli, la presenza di testi sacri, ecc. Tuttavia, se l’autoqualificazione non è un
requisito sufficiente, esso è nondimeno necessario: non sarebbe possibile, infatti, per
lo Stato, attribuire la qualifica di confessione religiosa ad un gruppo che non si ritenga
7
Prima dell’avvento della Costituzione repubblicana non esisteva il termine “confessione religiosa”, ma
si faceva riferimento ai “culti”. Lo Statuto albertino faceva riferimento ai “culti ammessi”, così come la
legge che regolava in epoca fascista le relazioni tra lo Stato e le confessioni religiose n. 1159/1929,
“Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri
dei culti medesimi”, in G.U. 16 luglio 1929, n. 164.
8
Cfr. Finocchiaro, 2000b, 68 ss.
9
Corte Cost., sent. 27 aprile 1993, n. 195, in Diritto Ecclesiastico, II, 1993, p. 189 e ss. Sul problema
giuridico della definizione di confessione religiosa si rinvia a Ferrari, 1995, 20.
10
Cfr. Chizzoniti, 2000, 140; Colaianni, 1990b, 53 ss.; Di Cosimo, 1998, 434; Cardia, 1998, 934 ss.;
Mirabelli, 2006, 1244 ss; Mantineo, 2009.
396
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
tale, se non entrando nel merito delle credenze e dei riti praticati, il che costituirebbe
una forma di giurisdizionalismo in contrasto con il principio supremo di laicità dello
Stato 11.
Nel caso di specie, l’UAAR (Unione Atei, Agnostici e Razionalisti) si definisce,
nel proprio statuto. “organizzazione filosofica non confessionale” e associazione di
promozione sociale ai sensi della Legge 7 dicembre 2000, n. 383: è evidente che si
tratti di un fenomeno associativo e non confessionale, tutelato dunque non ai sensi
dell’art. 8 della Costituzione, bensì degli artt. 18 (diritto di associazione) ed
eventualmente 19 Cost., che si estende alla libertà religiosa e di coscienza individuale.
Anche gli scopi che l’UAAR persegue sono tipicamente associativi e si
concretizzano nella «tutela dei diritti degli atei e degli agnostici» in funzione
antidiscriminatoria, in particolare, «pretendendo l’abolizione di ogni privilegio
accordato, di diritto o di fatto, a qualsiasi religione, in virtù dell’uguaglianza di fronte
alla legge di religioni e associazioni filosofiche non confessionali».
Nei proclami diffusi attraverso il sito ufficiale dell’organizzazione, per
“eliminazione di ogni forma di discriminazione” non si intende l’accesso alle garanzie
ed ai benefici concessi alle altre confessioni religiose, bensì la loro abolizione
(abolizione dell’otto per mille, dell’insegnamento religioso nelle scuole, ecc.) 12.
Le modalità indicate per perseguire le proprie finalità comprendono campagne di
informazione, dibattiti, cerimonie civili e strumenti di propaganda dell’ateismo che
rientrano tipicamente nelle manifestazioni della libertà di religione individuale di cui
all’art. 19 Cost., le cui previsioni si estendono anche alla libertà cosiddetta “negativa”,
ossia il diritto di non credere 13, pur in mancanza di un riferimento esplicito alla libertà
di coscienza 14.
La Costituzione repubblicana ha introdotto una serie di norme a garanzia dei diritti
e delle libertà fondamentali, che certamente valgono anche per la propaganda di idee
antireligiose: non sarebbe corretto, peraltro, restringere arbitrariamente il contenuto
11
Cfr. Finocchiaro, 2012c, 77.
E’ evidente, però, che questa modalità di “rimozione delle discriminazioni” non può trovare
accoglimento senza ledere la sfera giuridica di altri soggetti, in questo caso la Chiesa Cattolica e le
confessioni religiose che abbiano stipulato un’Intesa con lo Stato ai sensi dell’art. 8 Cost.
13
Fiorita, Onida, 2011, 32. In Italia, l’ateismo ha sempre assunto la forma di un rifiuto della religione,
manifestatosi in plurime sfaccettature. In Italia l’ateismo si è sempre sostanziato nell’opzione individuale
di rifiuto della religione, manifestata in plurime modalità e sfaccettature. La dimensione collettiva
dell’ateismo è frutto della deriva anticlericale ottocentesca, storicamente determinata dal conflitto StatoChiesa Cattolica, che affondava le sue radici nella necessità di restringere lo spazio pubblico della
religione stigmatizzando il controllo del clero sulle coscienze dei cittadini e ridimensionando le attività
degli enti ecclesiastici e il loro ruolo in settori di rilevanza sociale (istruzione, beneficienza, assistenza,
ecc.). Cimbalo, 2011, 119 ss. Conformemente, Grossi, 2005, 113, afferma che la libertà religiosa
individuale garantita dall’art. 19 della Costituzione si articola secondo una formulazione che si riallaccia
alla tradizione liberale ottocentesca.
14
Sul tema della libertà religiosa e dell’esegesi dell’art. 19 Cost., ex multis, si rinvia a Tedeschi, 2002a.
12
397
Maria Rosaria Piccinni
della libertà di religione giungendo a negare che esso comprenda anche l’ateismo
attivo, ossia «il completo operare per trasformare in atei i soggetti religiosi» 15.
Il diritto di professare le proprie idee comprende anche forme anomale ed
individuali che si discostino dalle dottrine religiose tradizionali ed ortodosse per
approdare a fenomeni di miscredenza o antireligiosità. Qualora l’ateismo dia vita a
strutture istituzionali ed organizzate, tuttavia, è necessario riconoscere la differenza
sostanziale che impedisce qualunque assimilazione alle confessioni religiose: si tratta
di associazioni o “circoli di liberi pensatori” che, al pari di ogni associazione che non
persegua scopi illeciti o contrari al buon costume e all’ordine pubblico, possono trovare
tutela in base alle norme costituzionali che garantiscono la libertà di associazione e alla
disciplina di diritto comune 16.
Molte delle richieste formulate dall’UAAR riguardano l’esercizio della libertà
religiosa nella sua declinazione collettiva, come ad esempio l’assistenza morale non
confessionale nelle strutture obbliganti, la possibilità di disporre di luoghi idonei alle
esequie non religiose, agevolazioni economiche e tributarie. Si tratta di domande
concrete che trovano la loro giustificazione nella lettura delle norme costituzionali e
nell’ambito del percorso tratteggiato dalla Corte Costituzionale, che partendo dalla
considerazione delle esigenze individuali, giustifica il ruolo delle organizzazioni di
appartenenza, considerate entità strumentali al soddisfacimento delle esigenze dei loro
aderenti, per arrivare a dar conto della posizione di eguale libertà di tali
organizzazioni 17.
Tuttavia è l’UAAR stessa a qualificarsi come associazione e pur avendo delle
finalità sociali e riscontrandosi una certa “affinità” tra i fenomeni sociali a rilevanza
religiosa e l’ateismo militante (affinità che in alcuni Stati europei hanno dato luogo ad
una assimilazione dei fenomeni e non di rado ad una disciplina comune) 18, non può
15
Cfr. Catalano, 2007.
Cfr. Jemolo, 1979, 66 ss.; D’Avack, 1964; Ruffini, 1992.
17
Cfr. Floris, 2011, 106.
18
L’art. 17 del TFUE pone sullo stesso piano le confessioni religiose e le organizzazioni filosofiche e
non confessionali per quanto riguarda il dialogo con le istituzioni dell’Unione. Si tratta di una norma,
non priva di ambiguità interpretative, che esprime la posizione a-teista dell’Europa, priva, cioè, di una
sua religione ufficiale, che tuttavia non ignora il fenomeno religioso, mantenendo con esso, così come
con le organizzazioni non confessionali, un dialogo regolare. Cfr. Colaianni, 2011c. Se il terzo comma
dell’art. 17 TFUE è ascrivibile ad una filosofia federalista nel riconosce alle istituzioni europee il diritto
d’instaurare un dialogo aperto, trasparente e regolare con le confessioni e le organizzazioni filosofiche,
il primo comma, nel prevedere che « l' Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le
associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale» esprime, la
formale rinuncia d’esercizio di sovranità da parte delle istituzioni europee a vantaggio dei singoli Stati e
delle organizzazioni religiose nazionali maggiormente rappresentative. Sul punto cfr. Feliciani, 2012;
Margiotta Broglio, 2010a, 2.
Secondo Margiotta Broglio (cfr. Margiotta Broglio 2013b, p. 17), l’art. 17 TFUE è una disposizione che,
combinata con la Carta dei diritti fondamentali della UE e con la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo assicura alle organizzazioni degli atei e degli agnostici uno status e una dignità che mettono
credenti e non credenti allo stesso livello di diritti anche collettivi e di garanzia contro ogni tipo di
discriminazione, anche con riferimento a eventuali regimi di privilegio. Coglievina, 2011.
16
398
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
definirsi confessione religiosa, dunque non può, in base alla normativa italiana,
beneficiare delle garanzie previste dall’art. 8, III comma, per le confessioni religiose 19.
Il fatto che l’Unione Europea rispetti e non pregiudichi lo status di confessioni religiose
e associazioni filosofiche riconoscendo loro un ruolo attivo nella costruzione della
società democratica e considerandoli interlocutori di dialogo, non implica uniformità
di trattamento tra confessioni religiose e associazioni filosofiche, essendo questo un
ambito rimesso alla sovranità statale, che l’Unione Europea “rispetta e non pregiudica”.
4. Resta da analizzare il rilievo critico che evidenzia la sussistenza di un
trattamento discriminatorio a carico delle organizzazioni qualora vengano tout court
escluse dalla possibilità di richiedere l’avvio delle trattative ai fini della stipulazione di
un’Intesa.
Su questo punto la Corte di Cassazione, SS.UU. 1635/2013, aveva fondato il
proprio convincimento interpretando il comma 3 dell’art. 8 Cost. come un corollario
dell’ “eguale libertà” garantita al primo comma e sostenendo che «l’ampia
discrezionalità che connoterebbe le scelte del Governo in materia di stipulazione
dell’Intesa e, prima ancora, di individuazione dell’interlocutore come confessione
religiosa sarebbe invero suscettibile di dar vita a un sistema fondato su evidenti
discriminazioni non consentite in virtù dell’eguale libertà da garantire», se non si desse
sindacato giurisdizionale quanto meno sull’avvio delle trattative e sul preliminare
accertamento della riconducibilità dell’organizzazione richiedente nel novero delle
confessioni religiose 20.
La Corte Costituzionale, di contro, non aderisce a tale indirizzo interpretativo,
fondando le proprie argomentazioni su due postulati essenziali: il primo, in base al
quale la garanzia di eguaglianza tra confessioni religiose prescinde dalla stipulazione
dell’Intesa, e il secondo, per cui la stipulazione dell’Intesa non può essere considerata
una pretesa, né tantomeno essere soggetta a sindacato giurisdizionale. Quanto al primo
rilievo, giova soffermarsi sull’esegesi dell’art. 8 Cost. e sull’applicazione del principio
di bilateralità in esso sancito: a dire il vero, analizzando il dibattito dell’Assemblea
costituente nell’elaborazione della norma, emerge che la finalità dell’art. 8 è quella di
garantire il pluralismo religioso e di evitare disparità alla luce dell’art. 7 Cost. che,
riconoscendo l’indipendenza e la sovranità della Chiesa Cattolica rispetto allo Stato,
costituzionalizzava il principio concordatario.
19
Del resto un ulteriore considerazione critica può essere svolta con riferimento alla rappresentatività
dell’associazione UAAR: se l’ateismo e l’agnosticismo sono, come abbiamo visto, qualificabili
all’interno della libertà di coscienza (a prescindere dalla circostanza che questo tipo di aggregazioni
possano essere definite “religiose” ai fini dell’intesa), è più problematico dimostrare che l’UAAR
esprima una dimensione di aggregazione comunitaria, pur dichiarandosi “l’unica associazione nazionale
che rappresenta le ragioni dei cittadini atei e agnostici, in quanto l’ateismo e l’agnosticismo
indubbiamente sono caratterizzati da una declinazione comunitaria meno accentuata dei culti religiosi.
Cfr. Pin, 2016.
20
Cfr. Pasquali Cerioli, 2013b, 23 e ss.; Pasquali Cerioli, 2012c, 2.; Ferrari A., 2012, 126 ss.
399
Maria Rosaria Piccinni
La tradizione legislativa in tema di confessioni religiose diverse dalla cattolica, ai
tempi dell’Assemblea costituente, era abbastanza limitata, in quanto prendeva in
considerazione solo realtà religiose storicamente presenti sul territorio italiano, quali le
comunità israelitiche, le chiese valdesi e le comunità ortodosse, per cui non era
possibile, all’epoca, prevedere le problematiche a cui può attualmente dar luogo la
gestione di un panorama religioso decisamente eterogeneo, caratterizzato da realtà
culturalmente e giuridicamente non sempre assimilabili ed identificabili nell’alveo del
paradigma tradizionale delle “confessioni religiose”.
Anche se le confessioni religiose sono libere dal punto di vista delle opzioni
fideistiche e dei contenuti religiosi, è sempre lo Stato che detiene il compito di
qualificare “confessione religiosa” un gruppo, di verificare la presenza di elementi che
lo contraddistinguono rispetto ad un mero movimento o associazione di pensiero e di
stabilire misure legislative adeguate, valutando se sussistano i presupposti per
instaurare con esse un rapporto giuridico 21.
E’ lo Stato che qualifica le confessioni religiose, le quali, vivendo ed operando
nell’alveo dell’ordinamento giuridico italiano, traggono da esso il riconoscimento della
loro attività normativa 22: non tutti i gruppi che hanno i requisiti per poter essere
considerati confessioni religiose sono qualificati tali, né lo Stato è disposto a
sottoscrivere con essi intese.
L’art. 8 Cost. non è l’unica norma ad occuparsi del “fenomeno religioso
superindividuale” 23, né può costituire “la regola fondamentale del diritto ecclesiastico
italiano”: diversamente si arriverebbe a ipervalorizzare l’art. 7 Cost., mentre è più
corretto inquadrare le due norme nell’ambito dei principi fondamentali che tutelano i
diritti collettivi e individuali di libertà, senza ignorare la presenza di altre norme e altri
principi ugualmente fondamentali 24.
Secondo la Corte Costituzionale, l’uguale libertà delle confessioni religiose non è
garantita dalla presenza di un’Intesa, bensì dagli artt. 3, 8 I e II comma e 19 Cost.: il
terzo comma dell’art. 8 Cost. «i loro rapporti sono regolati sulla base di intese con le
relative rappresentanze» non è una mera norma procedurale in applicazione dei primi
due: in altre parole la negoziazione dei rapporti con lo Stato sarebbe una facoltà
aggiuntiva, ma non un passaggio necessario per il riconoscimento delle garanzie
fondamentali del diritto di libertà religiosa 25. Se così non fosse, si depriverebbe la tutela
della libertà religiosa dei gruppi senza intesa, subordinandola alla conclusione di un
21
Cfr. Tedeschi, 1999b.
Cfr. Tedeschi, 1977c, 425 ss.
23
Cfr. Casuscelli, 2011b.
24
Cfr. Tedeschi, 2007d, 97.
25
«Le Intese non sono una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di consentire alle
confessioni religiose di usufruire della libertà di organizzazione e di azione» (Corte Cost., sentenza 10
marzo 2016 n. 52, 5.1)
22
400
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
patto: l’area di operatività dell’intesa sarebbe pertanto quella di elaborare la disciplina
di ambiti collegati ai caratteri peculiari delle singole confessioni religiose.
La politica ecclesiastica attuale, che tra i suoi elementi fondanti annovera il
pluralismo, la laicità e la libertà di religione, si trova attualmente stretta tra l’ esigenza
di porre fine alle politiche discriminatorie e quella di non compromettere, anche solo
potenzialmente, il regime “privilegiato” assicurato alle confessioni che hanno prescelto
la via pattizia tra cui, in primis, la posizione “dominante” della alla Chiesa Cattolica26.
L’evoluzione normativa in materia di diritto ecclesiastico degli ultimi anni è stata
caratterizzata dalla proliferazione di “intese-fotocopia” e dalla mancanza di una legge
generale sulla libertà religiosa 27: tali circostanze, tuttavia, non possono essere invocate
allo scopo di paralizzare le garanzie costituzionali di cui godono tutte le confessioni
religiose. E’ alla legislazione unilaterale che dovrebbe essere affidato il ruolo di
garanzia, in via generale, delle libertà fondamentali, non potendo considerare le intese
in un “corpus premiale privilegiario” 28.
E’ pur vero, però, che lo strumento dell’Intesa (e, in genere, del metodo bilaterale),
è funzionale a realizzare una più compiuta applicazione dei principi fondamentali
sopra richiamati, tenendo conto della specificità delle esigenze dei diversi gruppi
religiosi che attraverso la negoziazione dei propri rapporti con lo Stato così possono
esprimere la propria soggettività identitaria evitando che lo Stato possa,
unilateralmente, emanare normative che riguardino la condizione delle confessioni
religiose diverse dalla cattolica 29.
Il metodo bilaterale, anche se non può essere inteso riduttivisticamente in senso
antidiscriminatorio come uno strumento per eliminare disparità di trattamento e dare
attuazione al principio di uguale libertà (come invece affermato dalla Corte di
Cassazione), è tuttavia funzionale a risolvere i potenziali conflitti tra la società civile e
i gruppi religiosi, in attuazione del principio di laicità positiva che caratterizza il nostro
ordinamento 30.
Non si può negare che le confessioni religiose siano portatrici di un interesse alla
conclusione di un accordo con lo Stato: verificata l’insussistenza di un diritto alla
stipulazione dell’intesa e di un corrispondente obbligo dello Stato, occorre capire se,
dinanzi ad una richiesta espressa, il Governo goda di piena libertà oppure se sia
26
Cfr. Casucelli, 1998c, 397.
Sul tema della legge generale in materia di libertà religiosa si rinvia, ex multis, a Tozzi, Macrì, Parisi,
2010. Di diverso orientamento, Canonico, 2010b.
28
Dieni, 2006, 171.
29
La previsione costituzionale in materia di Intese introduce una limitazione a carico del potere
legislativo, il cui esercizio può legittimamente esplicarsi solo entro i confini delimitati dall’art. 7,
secondo comma, e dall’art. 8, terzo comma, Cost., e cioè nel rispetto dei contenuti pattuiti di volta in
volta con i soggetti interessati. Funzione primaria dell’intesa è quella di modificare la condizione
giuridica della confessione religiosa nell’ambito ordinamentale, emancipandola dalla legislazione
unilaterale statale per farla concorrere ad un negoziato diretto a definire un regime pattizio compiuto.
Cardia, 224.
30
Alicino, 2013, 187 ss.; Modugno, 1985, 49 ss.
27
401
Maria Rosaria Piccinni
vincolato a rispondere accettando almeno di avviare trattative, ferma restando, in capo
ad entrambe le parti, la facoltà di interromperle e di non portarle a compimento 31.
5. La Corte Costituzionale, nel riconoscere che, in base al diritto vigente, il
Governo può essere chiamato a rispondere del mancato avvio delle intese di fronte
al Parlamento, ma non in sede giudiziaria, ammette che la questione potrebbe
prospettarsi diversamente qualora il legislatore «decidesse, nella sua discrezionalità,
di introdurre una compiuta regolazione del procedimento di stipulazione delle
intese, recante anche parametri oggettivi, idonei a guidare il Governo nella scelta
dell’interlocutore. Se ciò accadesse, il rispetto di tali vincoli costituirebbe un requisito
di legittimità e di validità delle scelte governative, sindacabile nelle sedi
appropriate».
In realtà, però, è la stessa Corte a non vedere di buon occhio questa ipotesi,
riconoscendo che la decisione del Governo di non aderire alla richiesta di avvio delle
trattative può essere influenzata da una molteplicità di fattori sociali e culturali e
giungendo alla conclusione che, a fronte di un’estrema varietà di situazioni non
tipizzabili, al Governo competa una discrezionalità molto ampia.
Sulla base di tali considerazioni sembra difficile, se non inopportuno, che il
Parlamento possa vincolare il Governo nella scelta dell’interlocutore, anche alla luce
di parametri oggettivi, poiché è proprio nell’alveo della discrezionalità e della
responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento, che si colloca la
valutazione circa le condizioni per avviare un’Intesa 32.
In base all’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale, in caso di diniego di
avvio delle trattative, a carico del Governo si può configurare soltanto una
responsabilità politica davanti al Parlamento, ai sensi dell’art. 2, III co., lettera l), della
legge n. 400 del 1988, la quale sottopone alla deliberazione del Consiglio dei Ministri
gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 Cost. 33 Tra questi atti, argomenta la
Corte Costituzionale, è sicuramente compresa la decisione riguardante l’avvio delle
trattative, per la quale il Governo risponde solo di fronte al Parlamento, con le
modalità attraverso le quali la responsabilità politica dell’esecutivo è attivabile in
una forma di governo parlamentare 34.
Tuttavia, tale conclusione induce a chiedersi se l’insindacabilità di tale decisione
del Governo in sede giurisdizionale non comporti, a ben vedere, una lesione della
31
Canonico, 2012c.
Pin, 2016.
33
Sull’iniziativa Pasquali Cerioli, 2006d; Placanica, 2002, 4259.
34
Il ruolo del Parlamento circa l’operato del Governo assume tuttavia una valenza pregnante,
considerando che l’esito è rappresentato dalla decisione di approvare o meno con legge i contenuti
dell’Intesa. La riserva di competenza prevista in favore del Consiglio dei Ministri, secondo la Corte «ha
l’effetto di rendere possibile, secondo i principi propri del governo parlamentare, l’effettività del
controllo del Parlamento fin dalla fase preliminare all’apertura vera e propria delle trattative, controllo
ben giustificato alla luce dei delicati interessi protetti dal terzo comma dell’art. 8 Cost.».
32
402
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
legittima pretesa al rispetto dei parametri costituzionali in base ai quali la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità.
In presenza di parametri oggettivi e “figure sintomatiche” che, come abbiamo visto,
sono state elaborate dalla giurisprudenza e dalla dottrina per attribuire alle diverse
espressioni di fede la qualificazione di confessione religiosa (la presenza di un
complesso di dottrine incentrate sulla ricerca del divino nella trascendenza o
nell’immanenza, l’esistenza di riti e pratiche liturgiche, la presenza di uno statuto e
riconoscimenti pubblici), la verifica della sussistenza di tali requisiti e della non
contrarietà di tali formazioni all’ordinamento giuridico italiano rientrerebbe, come
affermato dalla Corte di Cassazione, nell’ambito della discrezionalità tecnica.
In altre parole, se il riconoscimento giuridico della confessione religiosa si basa su
elementi di fatto oggettivi, tangibili e dimostrabili, non vi dovrebbe essere alcuna
ragione per sottrarre la valutazione discrezionale ad un giudizio che non sia
tecnicamente ispirato.
Tuttavia, le motivazioni alla base della recente sentenza della Consulta non
affrontano questo punto, bensì si fondano sulla qualificazione di “atto politico non
giustiziabile”, in cui rientrerebbe la decisione governativa di non avviare trattative, a
prescindere dalla qualificazione in senso confessionale o meno di un determinato
gruppo o associazione.
Alcune perplessità sorgono, se si pensa che il diniego ingiustificato di avviare le
trattative, in quanto atto politico, possa intendersi sottratto anche al rispetto del
principio costituzionale in base al quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli
ostacoli che, di fatto, limitano l’eguaglianza tra cittadini anche in base a distinzioni di
ordine religioso.
Negare l’accesso alle trattative ad un gruppo sociale che presenti tutti i requisiti di
una confessione religiosa, riscontrabili in base ai sopra citati parametri oggettivi e
secondo una valutazione tecnico-discrezionale, di fatto realizzerebbe un’ingiustificata
privazione della possibilità di accedere ad uno status, quello della confessione religiosa
con intesa, che comporta l’attribuzione di determinate prerogative e diritti.
La Corte, su questo punto, in via riepilogativa afferma che «un conto è
l’individuazione, in astratto, dei caratteri che fanno di un gruppo sociale con finalità
religiose una confessione, rendendola, come tale, destinataria di tutte le norme
predisposte dal diritto comune per questo genere di associazioni. Un altro conto è la
valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost., nel
cui ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore», ritenendo
che al
Consiglio dei Ministri spetti un’ampia discrezionalità politica, che non può essere
sottoposta a sindacato giurisdizionale.
La Corte Costituzionale, tuttavia, sembra non prendere in considerazione il dettato
dell’art. 8 Cost., il quale prevede che i rapporti tra Stato e confessioni religiose non
403
Maria Rosaria Piccinni
“possono essere”, ma “sono” regolati sulla base di Intese con le relative rappresentanze:
se, in base al principio consensualistico, non è sempre possibile addivenire ad un
accordo per varie ragioni, il rifiuto pregiudiziale e insindacabile all’avvio delle
trattative appare comunque non conforme alla norma costituzionale.
Per queste ragioni l’atto di diniego delle trattative, più che rientrare nella sfera
dell’insindacabilità, della libertà dei fini e della non giustiziabilità, andrebbe forse più
correttamente ascritto alla sfera della discrezionalità tecnica, o quantomeno dovrebbe
essere espresso con atto motivato, adducendo una giustificazione logica alla scelta in
questione, altrimenti censurabile 35.
Nel caso in esame, con riferimento all’UAAR, la motivazione del diniego
governativo all’avvio di trattative può essere correttamente ravvisata nella mancanza
delle caratteristiche necessarie per poterlo qualificare confessione religiosa, trattandosi
di valutazione che certamente compete agli organi di Governo.
Il Governo può legittimamente rifiutare di ricevere la rappresentanza della
confessione religiosa, a condizione che ne contesti l’identità dichiarata da
quest’ultima, appunto il suo essere una “confessione”. Tuttavia, l’accertamento
riguardante i requisiti soggettivi della formazione sociale, facendo riferimento a dei
criteri predeterminati e oggettivi, non dovrebbe essere un atto insindacabile e non
giustiziabile, altrimenti sarebbe come ammettere che ad un atto politico insindacabile
competa far luogo all’interpretazione autentica di un disposto costituzionale che
esprime un diritto fondamentale 36.
Il riconoscimento al Governo di un potere del tutto libero nei fini e privo di
controlli, se non quello politico del Parlamento, significa accettare il rischio che un atto
governativo possa finire per prevalere sulla stessa Costituzione 37.
Un atto governativo non rispondente ai principi costituzionali non può essere
sanato dal Parlamento che, d’altro canto, non può autorizzare il Governo ad operare al
di fuori della Costituzione. Sostenere dunque l’insindacabilità giuridica di un atto, a
fronte del mero controllo politico operabile dal Parlamento, significherebbe attribuire
al Parlamento il potere, se necessario, di consentire al Governo anche l’adozione di atti
in contrasto con i principi costituzionali.
Viceversa, la responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento è
una responsabilità che opera in relazione ad atti posti in essere all’interno del perimetro
della legalità costituzionale, che riguardano il merito politico delle scelte governative,
tra quelle costituzionalmente legittime 38. La responsabilità politica del Governo, infatti,
ha dei contorni molto più sfumati della responsabilità giuridica e si concretizza
sostanzialmente nella possibilità che Parlamento non approvi uno o più atti posti in
35
Canonico, 2012d; Pasquali Cerioli, 2009e, 65-66.
Cfr. Ruggieri, 2016.
37
Blando, 2012.
38
Cfr. Porena, 2016.
36
404
Brevi note a Corte Cost. n. 52/2016
essere dal Governo, minando così la stabilità del vincolo fiduciario che lega le Camere
al Governo.
Tale responsabilità però non riguarda la legittimità costituzionale degli atti
governativi: se il controllo parlamentare è dunque un controllo politico e non un
controllo di legittimità, il primo può aggiungersi ma non certo sostituire il secondo.
L’affermazione della politicità dell’atto di avvio o di diniego delle trattative
ascrive alla sfera politica del Governo la decisione su quale associazione sia
confessione religiosa o meritevole di stipulare un’Intesa, con la conseguenza che
l’eguale libertà delle confessioni religiose viene filtrata da argomentazioni che non
sempre trovano in Parlamento la dialettica che si renderebbe necessaria 39. Invece il
principio della bilateralità, che trova la sua più compiuta attuazione attraverso il metodo
delle Intese, dovrebbe essere rigorosamente ispirato al principio della eguale libertà
delle confessioni religiose.
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p. 66 ss.
39
Cfr. Poggi, 2016.
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Maria Rosaria Piccinni
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