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RIVISTE
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Famiglia e diritto
Sommario
SOMMARIO
GIURISPRUDENZA
Internazionale
Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio 2014, ricorso n. 62804/13
Trattamenti
sanitari
977
IL ‘‘CASO STAMINA’’ ALL’ATTENZIONE DELLA CORTE DI STRASBURGO
di Antonio Scalera
981
Legittimità
Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057
Codice
deontologico
987
LA DEONTOLOGIA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA TRA PRINCIPI E PROSPETTIVE
di Remo Danovi
988
Merito
Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n. 62
Diritto
del lavoro
IL LAVORO PRESTATO A FAVORE DEL CONVIVENTE MORE UXORIO
di Ilaria Bresciani
Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014, ord.
Adozione
L’ADOTTATO ALLA RICERCA DELLA MADRE BIOLOGICA
di Vincenzo Carbone
Tribunale di Roma 18 aprile 2014
Prescrizione
PRESCRIZIONE DELL’AZIONE DI REGRESSO PER IL MANTENIMENTO DEL FIGLIO E DELL’AZIONE
DI RISARCIMENTO DEL DANNO DA MANCATO RICONOSCIMENTO
di Michele Sesta
Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord.
Casa familiare
994
IL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE COME TITOLO ESECUTIVO
PER IL RILASCIO IN VIA COATTIVA
di Mariacarla Giorgetti
996
1003
1003
1013
1018
1022
Tribunale di Milano, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord.
1023
1027
ALLONTANAMENTO VOLONTARIO E ALLONTANAMENTO FORZATO DALLA CASA FAMILIARE
di Federica Ferrara
1028
Osservatorio di giurisprudenza civile
a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito
1035
Osservatorio di giurisprudenza penale
a cura di Paolo Pittaro
1039
OPINIONI
Doveri coniugali IL ‘‘DIRITTO A FORMARE UNA SECONDA FAMIGLIA’’ TRA DOVERI DI SOLIDARIETÀ
POST-CONIUGALE E PRINCIPIO DI ‘‘AUTORESPONSABILITÀ’’
di Enrico Al Mureden
Cittadinanza
DISABILITÀ E CAPACITÀ DI VOLERE NELLE PROCEDURE DI ACQUISTO DELLA CITTADINANZA
di Paolo Morozzo della Rocca
Famiglia e diritto 11/2014
1043
1056
975
Famiglia e diritto
Sommario
Mass media
SE I MASS MEDIA TRAVISANO LA CASSAZIONE: UNA QUESTIONE DI PROFESSIONALITÀ
DEL CRONISTA DI ‘‘GIUDIZIARIA’’
di Paolo Pittaro
1066
INDICE
1069
AUTORI - CRONOLOGICO - ANALITICO
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
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Fabio Padovini, Mauro Paladini, Margherita Pittalis, Gianfranco Ricci, Carlo Rimini, Silvio Riondato, Francesco Ruscello, Laura Salvaneschi, Fabrizio Volpe
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Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
Somministrazione di cure secondo il cd. “metodo Stamina”
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO 6 maggio 2014, ricorso n. 62804/13 – D. c. Italia
Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani. Traduzione a
cura di Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo
Non viola gli artt. 8 e 14 della Convenzione la decisione del Tribunale che, in applicazione dell’art. 2 d.l. n.
242013, nega l’accesso alle terapie secondo il metodo Stamina ad una paziente affetta da una grave patologia
cerebrale neurodegenerativa.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Hristozov e altri c. Bulgaria, nn. 47039/11 e 358/12, CEDU 2012 (estratti) e, mutatis mutandis, Pretty c. Regno Unito,
n. 2346/02, §§ 61 in fine e 65, CEDU 2002_III e Costa e Pavan c. Italia, n. 54270/10, §§ 52-57, 28 agosto 2012); Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 38, serie A n. 87; Burden c. Regno Unito [GC], n. 13378/05, § 60, CEDU 2008.
... Omissis ...
Il ricorrente, sig. N. D., è un cittadino italiano nato nel
1950 e residente a Udine. Il ricorrente presenta il suo
ricorso in qualità di tutore legale della figlia, sig.ra M.
D., nata nel 1975. Dinanzi alla Corte è rappresentato
dall’avvocato A. Battistutta, del foro di Udine.
A. Le circostanze del caso di specie
1. I fatti della causa, così come sono stati esposti dal ricorrente, possono riassumersi come segue.
1. Il procedimento giudiziario avviato dal ricorrente
2. M.D., figlia del ricorrente, è affetta fin dall’adolescenza da una patologia cerebrale degenerativa (leucodistrofia metacromatica).
3. L’8 aprile 2013 il ricorrente avviò un’azione cautelare
dinanzi al tribunale di Udine affinché quest’ultimo ordinasse all’ospedale di Brescia di somministrare a sua figlia cellule staminali secondo il metodo «Stamina», introdotto nel 2009 da D.V., professore presso l’Università di Udine.
4. In effetti il decreto del 5 dicembre 2006 consentiva
l’impiego di tale metodo, in mancanza di valide alternative terapeutiche, in casi di urgenza tali da mettere in
pericolo la vita dei pazienti o di grave danno alla salute
e in caso di grave patologia a rapida progressione (si veda anche la parte «Diritto interno pertinente»).
5. Con decisione del 10 aprile 2013, il tribunale accolse
provvisoriamente la richiesta del ricorrente. Considerò
che la patologia da cui era affetta la figlia del ricorrente
comportava, tra altre, un’atrofia cerebrale progressiva,
che quest’ultima si era aggravata nel corso dell’anno
precedente e che, poiché la figlia del ricorrente correva
il rischio di subire danni irreversibili, era necessario
non ritardare la somministrazione della terapia in causa.
Il tribunale fissò un’udienza al 6 maggio 2013 per far
comparire le parti e decidere poi sulla conferma, la modifica o la revoca della misura adottata. In questo intervallo la terapia non fu dunque iniziata.
Famiglia e diritto 11/2014
6. Il 3 maggio 2013 l’ospedale di Brescia si costituì parte
nel procedimento e chiese il rigetto della domanda del
ricorrente, ritenendo non soddisfatte nella fattispecie le
condizioni previste dal decreto-legge n. 24 del 25 marzo
2013 (qui di seguito «decreto-legge n. 24/2013»), entrato in vigore il 27 marzo 2013, che regolamentava l’accesso dei pazienti al metodo in questione. In particolare
esso esponeva che la figlia del ricorrente non aveva iniziato tale trattamento alla data di entrata in vigore del
suddetto decreto legge, come quest’ultimo richiedeva.
7. Con provvedimento dell’11 luglio 2013, il tribunale
revocò la sua decisione del 10 aprile 2013 rigettando la
domanda del ricorrente.
8. Quest’ultimo propose reclamo. Il 30 agosto 2013 il
tribunale rigettò tale reclamo osservando, in particolare,
che il decreto-legge n. 24/2013 aveva previsto una sperimentazione clinica del metodo «Stamina» per una durata di diciotto mesi a decorrere dal 1° luglio 2013 e
rammentando che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 23671/11), il servizio sanitario nazionale garantiva l’accesso a cure o terapie soltanto nel caso in cui la loro validità e la loro efficacia
terapeutiche fossero state testate ed approvate dagli organismi medico-scientifici, ai sensi delle normative nazionali applicabili.
9. Inoltre, il tribunale notò che il decreto-legge n.
24/2013 aveva permesso alle strutture pubbliche nelle
quali questo metodo era già stato impiegato di portare a
termine i trattamenti avviati.
Per «trattamenti avviati», rilevava il tribunale, occorreva intendere quelli in relazione ai quali il prelievo di
cellule destinate all’uso terapeutico era stato praticato
alla data di entrata in vigore del decreto o per i quali a
tale data era stata emessa una autorizzazione giudiziaria
di accedere alla terapia.
Ora, secondo il tribunale, la situazione di M.D. non
rientrava in nessuno di questi due casi e, d’altra parte, il
trattamento controverso era in fase di sperimentazione.
Così, concludeva il tribunale, l’accesso alla terapia in
questione non le poteva essere autorizzato.
977
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
2. Il valore scientifico del metodo «Stamina»
10. Attualmente non è provato il valore scientifico del
metodo «Stamina».
11. Il 29 agosto 2013 un comitato scientifico istituito
dal Ministero della Salute ha emesso un parere negativo
sulla sperimentazione di questo metodo, ritenendolo
privo di base scientifica.
12. Questa decisione è stata oggetto di ricorso da parte
della «Fondazione Stamina», di cui D.V. è presidente,
per quanto riguarda la presunta illegittimità della composizione del comitato. Il procedimento è attualmente
pendente.
B. Il diritto interno pertinente
1. Il decreto del Ministero della Salute del 5 dicembre 2006
13. Secondo tale decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 9 marzo 2007, l’utilizzo della terapia genica e
della terapia cellulare somatica è autorizzato in assenza
di alternative terapeutiche nei casi urgenti in cui esiste
un pericolo per la vita del paziente o un rischio di grave
danno per la sua salute, nonché nei casi di gravi patologie a rapida progressione.
14. Per l’impiego delle terapie in causa sono richieste
alcune condizioni, fra cui la disponibilità di dati scientifici che ne giustifichino l’uso, l’acquisizione del consenso informato del paziente nonché il parere favorevole
del comitato etico.
2. Il decreto-legge n. 24 del 25 marzo 2013
15. Il decreto-legge n. 24 del 5 marzo 2013, entrato in
vigore il 27 marzo 2013 e convertito nella legge n. 57
del 23 maggio 2013, costituisce una base legale per un
sistema di regolamentazione di alcune terapie avanzate.
A titolo di misura transitoria, esso prevede che i trattamenti a base di cellule staminali avviati prima della sua
entrata in vigore possono essere portati a termine sotto
la responsabilità del medico prescrittore.
16. Ai sensi di questo decreto-legge, si considerano «avviati» i trattamenti in relazione ai quali i prelievi dal
paziente o da un donatore di cellule destinate all’uso terapeutico siano già stati effettuati alla data della sua entrata in vigore, e i trattamenti che siano già stati autorizzati dall’autorità giudiziaria prima di questa stessa data.
17. L’articolo 2 bis di tale decreto, inserito al momento
della conversione in legge di quest’ultimo, prevede che
il Ministero della Salute, attraverso l’Agenzia italiana
del farmaco e in collaborazione con l’Istituto Superiore
della Sanità, «promuove lo svolgimento di una sperimentazione clinica concernente l’impiego di medicinali
per terapie avanzate a base di cellule staminali da completarsi entro diciotto mesi a decorrere dal 1° luglio
2013».
3. Le decisioni giudiziarie riguardanti l’autorizzazione ad accedere alla terapia «Stamina»
18. Il ricorrente allega al suo ricorso una serie di provvedimenti con le quali i giudici nazionali hanno autorizzato i richiedenti ad accedere al metodo «Stamina»
(ad esempio, le ordinanze dei tribunali di Cosenza del
18 giugno 2013, di Pordenone del 5 agosto 2013, di
978
Trieste del 9 agosto 2013, di Ancona del 20 agosto
2013, di Monza del 27 agosto 2013, di Modena del 28
agosto 2013, di Venezia del 18 settembre 2013 e di Vicenza del 23 settembre 2013).
19. Queste ordinanze hanno in effetti autorizzato l’accesso alle cure compassionevoli previste dalla terapia in
causa a persone affette da patologie simili a quella da
cui era affetta la figlia del ricorrente.
20. Alcune di tali ordinanze riguardano tuttavia situazioni diverse da quella di M.D. in quanto, contrariamente al caso di quest’ultima, le terapie in questione
erano iniziate prima dell’entrata in vigore del decretolegge numero 24/2013 (si vedano, ad esempio, l’ordinanza del tribunale di Cosenza del 18 giugno 2013 o
quella del tribunale di Venezia del 18 settembre 2013).
21. In altri casi (si vedano, ad esempio, le ordinanze dei
tribunali di Pordenone e di Trieste rispettivamente del
5 e 9 agosto 2013) i giudici hanno autorizzato l’accesso
dei pazienti alla terapia controversa anche se questi ultimi non rientravano in nessuno dei due casi previsti
dal decreto-legge n. 24/2013 (ossia il fatto di aver iniziato o di essere stati autorizzati ad iniziare la terapia
«Stamina» in epoca precedente alla data di entrata in
vigore di questo decreto).
22. In particolare, il giudice di Pordenone ha sollevato
dubbi sotto il profilo della costituzionalità del decretolegge n. 24/2013 nella misura in cui quest’ultimo stabiliva un criterio puramente temporale (ossia, il fatto di
aver iniziato il trattamento in questione in una certa
data) e non medico, fatto che appariva discriminatorio.
Così, il giudice ha ritenuto che il decreto del Ministero
della Salute del 5 dicembre 2006 dovesse essere applicato nel caso di specie ed ha autorizzato il richiedente ad
accedere alla terapia «Stamina».
23. Da parte sua, il tribunale di Trieste ha osservato, tra
l’altro, che il valore scientifico del metodo «Stamina»,
già utilizzato presso l’ospedale pubblico di Brescia, era
provato.
4. L’articolo 669 terdecies del codice di procedura civile
24. Ai sensi del comma V di tale articolo, la risposta
data da un organo collegiale al reclamo presentato avverso una decisione emessa nell’ambito di un’azione
cautelare non può essere impugnata.
Motivi di ricorso
25. Invocando gli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione,
il ricorrente lamenta la violazione del diritto alla vita e
alla salute di sua figlia in ragione dell’impossibilità per
quest’ultima di accedere ad una terapia compassionevole utilizzando cellule staminali secondo il metodo «Stamina».
Egli sostiene che, con il decreto-legge n. 24/2013, il
Governo ha introdotto una discriminazione nell’accesso
alle cure tra le persone che avevano già iniziato la terapia controversa prima dell’entrata in vigore di tale decreto e quelle che, come sua figlia, non si trovavano
nella stessa situazione.
26. Inoltre, sotto il profilo dell’articolo 14 della Convenzione, il ricorrente sostiene che, nonostante l’entra-
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
ta in vigore del decreto-legge n. 24/2013, alcuni pazienti avrebbero comunque ottenuto l’autorizzazione giudiziaria per accedere al metodo «Stamina» (il ricorrente
fa riferimento ad una serie di decisioni menzionate nella
parte «Diritto interno pertinente»). Così, i giudici deterrebbero il potere di decidere caso per caso sull’accesso alla terapia in questione.
27. Invocando gli articoli 6 § 1 e 14 della Convenzione,
il ricorrente lamenta il fatto che in materia di accesso
ad alcune terapie urgenti, il sistema legislativo italiano
prevede certamente la possibilità di avviare un’azione
cautelare e di impugnare la decisione emessa all’esito di
quest’ultima tramite reclamo, ma non autorizza la presentazione di un ulteriore ricorso dopo l’eventuale rigetto del reclamo, secondo l’articolo 669 terdecies, comma
V, del codice di procedura civile.
IN DIRITTO
28. Invocando gli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione,
il ricorrente lamenta l’impossibilità per sua figlia di accedere a una terapia che utilizza cellule staminali secondo il metodo «Stamina», al contrario di altre persone
che si trovano in condizioni di salute simili alle sue.
29. La Corte, libera di qualificare giuridicamente i fatti
della causa (Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, §
44, Recueil des arrêts et décisions 1998_I), ritiene che
questa parte del ricorso debba essere esaminata sotto il
profilo dell’articolo 8 della Convenzione e quello dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto
con l’articolo 8 della Convenzione.
Omissis
30. La Corte osserva innanzitutto che il ricorrente non
lamenta la mancanza di fondi pubblici per finanziare il
trattamento in causa (al contrario dei ricorrenti nelle
cause Penticova c. Moldavia (dec.), n. 14462/03, 30 aprile 2003 e Sentges c. Paesi Bassi (dec.), n. 27677/02), in
quanto il suo motivo di ricorso verte specificamente sulla mancanza di accesso per sua figlia alla terapia in causa.
31. La Corte rileva poi che l’impossibilità per la figlia
del ricorrente di accedere alla terapia «Stamina» richiede chiaramente un esame sotto il profilo dell’articolo 8
della Convenzione, la cui interpretazione, per quanto
riguarda la nozione di «vita privata», trae ispirazione
dalle nozioni di autonomia personale e di qualità di vita
(si vedano Hristozov e altri c. Bulgaria, nn. 47039/11 e
358/12, CEDU 2012 (estratti) e, mutatis mutandis, Pretty
c. Regno Unito, n. 2346/02, §§ 61 in fine e 65, CEDU
2002_III e Costa e Pavan c. Italia, n. 54270/10, §§ 5257, 28 agosto 2012).
32. Nel caso di specie, la Corte ritiene che la decisione
del tribunale di Udine di rifiutare l’accesso della figlia
del ricorrente alla terapia medica in causa costituisca
un’ingerenza nel diritto di quest’ultima al rispetto della
sua vita privata.
33. Tale ingerenza era prevista dalla legge, ossia il decreto-legge n. 24 del 25 marzo 2013, e perseguiva lo
scopo legittimo di tutela della salute.
Famiglia e diritto 11/2014
34. Per quanto riguarda la proporzionalità di tale misura
con l’obiettivo perseguito, la questione che si pone è
quella di stabilire se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti dell’individuo e della
collettività (Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata, §
117).
35. In questo contesto, la Corte rammenta che in caso
di divieto di accesso a cure compassionevoli opposto a
persone affette da patologie gravi, il margine di discrezionalità degli Stati membri è ampio (si vedano Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata, § 124 e anche, mutatis mutandis, Evans c. Regno Unito [GC], n. 6339/05, §
91, CEDU 2007_I e S.H. e altri c. Austria [GC], n.
57813/00, § 106, CEDU 2011).
36. Nella presente causa, secondo il decreto-legge n.
24/2013, soltanto i trattamenti a base di cellule staminali avviati nonché quelli autorizzati dall’autorità giudiziaria prima della data di entrata in vigore del decreto
stesso, ossia il 27 marzo 2013, potevano essere essere
portati a termine.
37. È in base a questa legge che, il 30 agosto 2013, il
tribunale di Udine ha rigettato la domanda presentata
dal ricorrente volta ad ottenere per sua figlia la possibilità di accedere alla terapia desiderata. Nei suoi motivi,
il tribunale ha rilevato, da una parte, che la terapia in
causa era in fase di sperimentazione e che, dall’altra parte, la figlia del ricorrente non soddisfaceva le condizioni
necessarie, in quanto non aveva iniziato il trattamento
in questione prima della data di entrata in vigore del
suddetto decreto e, a tal fine, non aveva ottenuto
un’autorizzazione giudiziaria prima di tale data.
38. La Corte rileva peraltro che il 29 agosto 2013, un
comitato scientifico istituito dal Ministero della Salute
ha emesso un parere negativo sulla sperimentazione del
metodo «Stamina».
Questa decisione è stata impugnata da D.V., ma il relativo procedimento giudiziario è tuttora pendente e il
valore scientifico della terapia in causa non è dunque
provato.
39. Inoltre, la Corte rammenta che, in ogni caso, non
spetta al giudice internazionale sostituirsi alle autorità
nazionali competenti per determinare il livello di rischio accettabile dai pazienti che intendano accedere
alle cure compassionevoli nell’ambito di una terapia
sperimentale (Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata §
125).
40. L’ingerenza nel diritto della figlia del ricorrente al
rispetto della sua vita privata può dunque essere considerata necessaria in una società democratica. Il motivo
di ricorso relativo alla compatibilità del diniego opposto
alla figlia del ricorrente di accedere alla terapia compassionevole in causa con l’articolo 8 della Convenzione
deve pertanto essere rigettato in quanto manifestamente
infondato, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
41. Per quanto riguarda il rispetto del principio del divieto di discriminazione garantito dall’articolo 14 della
Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8
della Convenzione, la Corte rammenta innanzitutto
che l’articolo 14 non fa che completare le altre clausole
979
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
materiali della Convenzione e dei suoi Protocolli. Esso
non ha dunque una esistenza propria, in quanto vale
unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà»
che le suddette clausole garantiscono (si veda, fra molte
altre, Şahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 85, CEDU 2003-VIII).
L’applicazione dell’articolo 14 non presuppone necessariamente la violazione di uno dei diritti materiali garantiti dalla Convenzione.
Occorre, ma è sufficiente, che i fatti della causa rientrino «nell’ambito» di almeno uno degli articoli della
Convenzione (Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno
Unito, sentenza del 28 maggio 1985, § 71, serie A n. 94,
e Karlheinz Schmidt c. Germania, sentenza del 18 luglio
1994, § 22, serie A n. 291-B).
42. Viste le considerazioni riguardanti l’applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione ai fatti di causa, la Corte
ritiene dunque che l’articolo 14 della Convenzione, in
combinato disposto con l’articolo 8, trovi applicazione
nel caso di specie (si veda, mutatis mutandis, E.B. c. Francia [GC], n. 43546/02, § 51, 22 gennaio 2008).
43. Ora, per quanto riguarda le decisioni giudiziarie citate dal ricorrente che hanno autorizzato l’accesso alla
terapia in questione per alcune persone che erano in
uno stato di salute simile a quello di sua figlia, la Corte
constata innanzitutto che molte delle ordinanze menzionate dal ricorrente riguardano situazioni diverse da
quelle di M.D. dal momento che, in alcune cause, le terapie in questione erano state avviate prima dell’entrara
in vigore del decreto-legge n. 24/2013 (così, in particolare, nell’ordinanza del tribunale di Cosenza del 18 giugno 2013 o in quella del tribunale di Venezia del 18
settembre 2013).
44. In altri casi (ad esempio nelle ordinanze dei tribunali di Pordenone e di Trieste, rispettivamente del 5 e 9
agosto 2013) di certo i giudici hanno autorizzato l’accesso dei pazienti alla terapia in causa anche se costoro
non rientravano in nessuno dei due casi previsti dal decreto-legge n. 24/2013 (ossia il fatto di aver iniziato o
di essere stato autorizzato ad iniziare la terapia «Stamina» prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto).
45. A tale riguardo, la Corte tuttavia rammenta che,
perché si ponga un problema rispetto all’articolo 14,
non è sufficiente che venga rilevato una diversità nel
trattamento di persone poste in situazioni simili (D.H.
e altri c. Repubblica ceca [GC], n. 57325/00, § 175, CEDU 2007_IV), ma è necessario che la distinzione in
causa sia discriminatoria.
Secondo la giurisprudenza, una distinzione è discriminatoria rispetto all’articolo 14 se non ha una giustificazione obiettiva e ragionevole, ossia se non persegue uno
scopo legittimo o se non vi è un rapporto ragionevole
di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, §
38, serie A n. 87; Burden c. Regno Unito [GC], n.
13378/05, § 60, CEDU 2008).
46. Nel caso di specie, anche ammettendo che la figlia
del ricorrente si trovi in una situazione analoga a quella
delle persone interessate dalle decisioni giudiziarie in
causa, la Corte non può concludere che il rifiuto di auto-
980
rizzare l’accesso di quest’ultima alla terapia «Stamina» sia
stato discriminatorio nel senso sopra descritto.
47. In questo contesto, la Corte si riporta alle conclusioni
alle quale è giunta nel quadro dell’articolo 8 della Convenzione, ossia che il divieto per la figlia del ricorrente di
accedere al metodo «Stamina», previsto dal tribunale di
Udine con decisione del 30 agosto 2013 in applicazione
del decreto-legge n. 24/2013, perseguiva lo scopo legittimo della tutela della salute ed era proporzionato a quest’ultimo. In effetti, la decisione in causa è stata debitamente motivata e non era arbitraria (si veda il paragrafo
39 supra). Inoltre, ad oggi il valore scientifico del metodo
in questione non è provato essendo tuttora pendente il
procedimento giudiziario avviato da D.V. che ha ad oggetto la sperimentazione del metodo «Stamina».
48. Così, il fatto che alcuni tribunali interni abbiano
autorizzato l’accesso a questa terapia ad altre persone
che si trovano in uno stato di salute presumibilmente
simile a quello della figlia del ricorrente non è da solo
sufficiente per individuare una violazione dell’articolo
14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione.
49. Di conseguenza, alla luce di tutte le considerazioni
sopra esposte, questa parte del ricorso deve essere rigettata in quanto manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
50. Il ricorrente contesta infine il sistema legislativo italiano dal momento che, secondo l’articolo 669 terdecies, comma V, del codice di procedura civile, avverso
la decisione resa nell’ambito di un’azione cautelare è
consentito presentare soltanto un semplice reclamo dinanzi ad un organo collegiale. A tale proposito egli invoca gli articoli 6 § 1 e 14 della Convenzione.
L’articolo 6 § 1 della Convenzione è così formulato nelle sue parti pertinenti:
«Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata
equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversi sui suoi diritti e
doveri di carattere civile (...)».
51. La Corte ritiene a titolo preliminare che questo motivo debba essere esaminato unicamente sotto il profilo
dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
52. Essa rammenta poi che la Convenzione non garantisce in quanto tale un diritto a un doppio grado di giudizio in materia civile (Iorga c. Romania, n. 4227/02, § 44,
25 gennaio 2007 e Associazione delle persone vittime del
sistema S.C. Rompetrol S.A. e S.C. Geomin S.A. e altri
c. Romania, n. 24133/03, § 68, 25 giugno 2013).
53. Pertanto, questa parte del ricorso deve essere dichiarata irricevibile per incompatibilità ratione materiae con
le disposizioni della Convenzione, ai sensi dell’articolo
35 §§ 3 e 4.
Per questi motivi,
la Corte,
a maggioranza,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
IL “CASO STAMINA” ALL’ATTENZIONE
DELLA CORTE DI STRASBURGO
di Antonio Scalera
Per i Giudici di Strasburgo il divieto di accesso alle cure secondo il “metodo Stamina”, successivamente all’entrata in vigore del d.l. 25 marzo 2013, n. 24, non si pone in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU.
1. Il caso
A distanza di pochi mesi da una discussa pronuncia del Tribunale di Pesaro (1), della quale tanto si è parlato sulle cronache nazionali sino al punto da indurre il Comitato di presidenza del CSM
all’apertura di un apposito fascicolo per l’eventuale
accertamento di illeciti disciplinari, la Corte Edu
interviene, per la prima volta, sul cosiddetto “caso
Stamina”.
La fattispecie portata all’attenzione dei Giudici
di Strasburgo trae origine da un ricorso ex art. 700
c.p.c. presentato al Tribunale di Udine dal padre
di una ragazza affetta da una grave malattia degenerativa.
Il ricorrente chiedeva che fosse ordinato all’ospedale di Brescia di somministrare alla figlia cellule staminali secondo il “metodo Stamina”.
Si tratta di una terapia elaborata dalla fondazione Stamina Foundation Onlus, che si propone di
curare una consistente varietà di patologie eterogenee, accomunate unicamente dalla prognosi infausta e dall’assenza di rimedi efficaci offerti dalla
scienza medica.
Essa consiste, anzitutto, nel prelievo di cellule
staminali mesenchimali presenti nel midollo osseo;
poi, nella loro moltiplicazione in laboratorio; infine, nella loro somministrazione nel paziente attraverso una puntura lombare.
Il Tribunale, dopo avere autorizzato le cure con
decreto inaudita altera parte del 10 aprile 2013, successivamente, con ordinanza dell’11 luglio 2013,
revocò il provvedimento.
Proposto il reclamo, il Tribunale lo rigettò in data 30 agosto 2013, evidenziando come il trattamento controverso fosse ancora in fase di sperimentazione e, in ogni caso, non potesse essere consentito sulla base delle disposizioni contenute nel
(1) Il Tribunale di Pesaro con ordinanza n. 13/20 maggio
2014, ha ordinato la somministrazione delle cure secondo il
“metodo Stamina” ad un bambino marchigiano di tre anni gravemente malato (morbo di Krabbe), nominando il vicepresidente della “Stamina Foundation”, dott. Mario Andolina, com-
Famiglia e diritto 11/2014
d.l. 25 marzo 2013, n. 24, convertito nella l. 23
maggio 2013, n. 57.
Secondo il dettato normativo, infatti, è permesso alle strutture pubbliche portare a termine questo
tipo di trattamento, purché esso sia stato avviato
alla data di entrata in vigore del decreto legge.
Per “trattamenti avviati” devono intendersi – a
mente dell’art. 2, comma 3 del citato d.l. n.
24/2013 – quelli in relazione ai quali sia stato già
praticato il prelievo di cellule destinate all’uso terapeutico o quelli per i quali, a tale data, sia stata
emessa un’autorizzazione giudiziaria.
Impugnata in data 28 settembre 2013 l’ordinanza del Tribunale friulano dinanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava la violazione degli
artt. 2, 8 e 14 della Convenzione, in quanto la figlia era nell’impossibilità di accedere alle cure secondo il “metodo Stamina”, a differenza degli altri
malati che si trovavano nelle condizioni previste
dal d.l. n. 24/2013.
Deduceva, inoltre, sotto il profilo dell’art. 14
Cedu, che numerose ordinanze avevano autorizzato
questo tipo di trattamento, nonostante l’entrata in
vigore del d.l. 24/2003.
Infine, si doleva che l’ordinamento italiano, in
contrasto con gli art. 6, par. 1 e 14 Cedu, non consentisse, in base all’art. 669 terdecies, comma 5,
c.p.c., un ulteriore ricorso dopo l’eventuale rigetto
del reclamo in materia di accesso alle terapie urgenti.
2. Un breve excursus sul “caso Stamina”
Prima di passare ad esaminare il contenuto della
decisione della Corte, non appare inopportuno
riassumere brevemente la vicenda relativa alle cure
secondo il “metodo Stamina”, vicenda che, da
qualche tempo, è al centro di un interessante dibattito pubblico (2).
missario ad acta per l’esecuzione di questo ordine.
(2) Per un commento sulle problematiche giuridiche sollevate dalla vicenda in esame sia consentito rinviare a A. Scalera, Brevi note a margine del caso Stamina, in questa Rivista,
2013, 10, 939 ss.
981
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
Tutto ha inizio quando l’Agenzia Italiana del
Farmaco (AIFA), all’esito di un sopralluogo ispettivo effettuato su delega della Procura di Torino (3), con ordinanza del 15 maggio 2012, ha vietato “di effettuare prelievi, trasporti, manipolazioni,
colture, stoccaggi e somministrazioni di cellule umane
presso l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia
in collaborazione con Stamina Foundation”.
In particolare, nella citata ordinanza, da un lato,
si è rilevato che il trattamento in oggetto non può
essere in nessun modo considerato come “sperimentazione clinica” e, dall’altro, che esso non soddisfa i
requisiti previsti dal D.M. 5 dicembre 2006 (“Utilizzazione di medicinali per terapia genica e per terapia
cellulare somatica al di fuori di sperimentazioni cliniche
e norme transitorie per la produzione di detti medicinali”) (4).
Successivamente all’emanazione dell’ordinanza
da parte dell’AIFA, numerose pronunzie dei giudici
del lavoro (5), chiamati a decidere in via d’urgenza,
hanno ingiunto - in accoglimento dei ricorsi dei
pazienti e dei loro familiari - all’Azienda Ospedaliera la riattivazione dei trattamenti (6).
A fondamento di tali decisioni, i Giudici hanno,
per lo più, osservato che si tratta di cura compassionevole su caso singolo, disciplinata dal citato
D.M. 5 dicembre 2006. La disposizione applicabile
al caso di specie è, dunque, quella prevista dall’art.
1, comma 4 del decreto che consente l’impiego di
medicinali per terapia genica e per terapia cellulare
somatica su singoli pazienti, in mancanza di valida
alternativa terapeutica, nei casi di urgenza ed
emergenza che pongono il paziente in pericolo di
vita o di grave danno alla salute nonché nei casi di
grave patologia a rapida progressione, a condizione
che: a) siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali; b) sia stato acquisito il consenso informato del paziente; c) sia stato acquisito il parere
favorevole del Comitato etico; d) siano utilizzati,
non a fini di lucro, prodotti preparati in laboratori
in possesso di specifici requisiti; e) il trattamento
sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere
scientifico o in struttura pubblica o ad essa equiparata;
Contrariamente a quanto ritenuto dall’AIFA, ricorrerebbero, secondo queste pronunzie, tutti gli
elementi richiesti dalla norma ora richiamata ai fini della legittimità del trattamento.
Secondo altro minoritario orientamento giurisprudenziale (Trib. Trento 11 febbraio 2013; Trib.
Torino 10 marzo 2014 (7)), tali cure non potrebbero essere autorizzate in difetto dei dati scientifici
pubblicati ovvero del parere previsto dal citato art.
4.
Le voci di aperto dissenso rispetto alle decisioni
favorevoli al “metodo Stamina” levatesi da parte di
autorevoli esponenti della comunità scientifica (8)
e ancor più le crescenti pressioni a livello sociale e
mediatico hanno determinato un intervento del
Governo volto a fronteggiare la difficile situazione
che si era venuta a creare.
E’ stato, perciò, emanato il d.l. 25 marzo 2013,
n. 24 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria”) (9),
che, con una formulazione di dubbia legittimità costituzionale, ha previsto all’art. 2, comma 2, che
“le strutture pubbliche in cui sono stati comunque
avviati (...omissis...) trattamenti su singoli pazienti
con medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, (...omissis...) possono
completare i trattamenti medesimi, sotto la responsabilità del medico prescrittore, nell’ambito delle
risorse finanziarie disponibili secondo la normativa
vigente”.
All’art. 2, comma 3, viene stabilito che “si considerano avviati, ai sensi del comma 2, anche i
trattamenti in relazione ai quali sia stato praticato,
presso strutture pubbliche, il prelievo dal paziente
o da donatore di cellule destinate all’uso terapeutico e quelli che sono stati già ordinati dall’autorità
giudiziaria”.
La norma introdotta dall’art. 2, comma 2 del decreto potrebbe essere affetta da vizi di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. per-
(3) La Procura della Repubblica di Torino ha avviato una
complessa attività di indagine volta all’accertamento di eventuali responsabilità penali connesse all’utilizzo del “metodo
Stamina”. Nell’ambito di tale attività, il 24 agosto 2014, è stato
eseguito dai Nas, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria, il sequestro delle cellule e delle apparecchiature di laboratorio utilizzate dalla Stamina Foundation.
(4) L’ordinanza può essere letta sul sito http://www.biodiritto.org/index.php/novita/news/item/330-dossier-staminali
(5) Competenti a conoscere delle controversie in materia
assistenziale ai sensi dell’art. 442 c.p.c.
(6) Su tutte si veda Trib. Venezia 30 agosto 2012, in
http://www.biodiritto.org/index.php/novita/news/item/330-dos-
sier-staminali
(7) Le ordinanze sono reperibili sul sito http://www.biodiritto.org/novita/news/item/330-dossier staminali
(8) Si vedano, in particolare, gli articoli E’ cura solo se vi sono le prove e Doppio imbroglio Stamina entrambi a firma congiunta di E. Cattaneo e G. Corbellini apparsi rispettivamente
sul Domenicale de Il Sole 24 ore del 26 agosto 2012, 24 e 7 luglio 2013, 27 ed ancora l’articolo Stamina, lo Stato si muova, a
firma congiunta di E. Cattaneo, G. Corbellini, e M. De Luca,
apparso sul Domenicale de Il Sole 24 ore, 8 giugno 2014, 23.
(9) Convertito, con modificazioni, nella l. 23 maggio 2013,
n. 57.
982
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
ché introduce un’irragionevole disparità di disciplina tra i pazienti per i quali il trattamento sia stato
già avviato anteriormente alla data di entrata in
vigore del decreto-legge (o che entro quella data
abbiano ottenuto un provvedimento giudiziale favorevole) e quei pazienti che, invece, a quella data
non abbiano ancora iniziato il trattamento (o che
si siano visti rigettare la domanda).
In tal senso si è espresso Trib. Taranto che, con
ordinanza del 23 settembre 2013 (10), ha ritenuto
di sollevare la questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 2 del d.l. n. 24/2013, sull’assunto che sarebbe del tutto irragionevole limitare alla prima categoria di pazienti la possibilità di
ottenere beneficio col “metodo Stamina” e negarla,
invece, a tutti gli altri.
Il d.l. n. 24/2013 ha inoltre disposto, al comma
2 bis, - aggiunto in sede di conversione in legge al
testo dell’art. 2 originariamente predisposto dal
Governo - l’avvio da parte del Ministero della Salute di una sperimentazione sul “metodo Stamina”
da completarsi entro 18 mesi a decorrere dall’1 luglio 2013.
In applicazione di tale previsione legislativa, il
Ministero della Salute ha emanato il d.m. 18 giugno 2013, col quale è stata disciplinata la promozione della sperimentazione e l’istituzione di un
Comitato scientifico avente il compito di individuare le patologie da includere nella sperimentazione, definire i protocolli clinici per il trattamento
delle malattie, identificare le officine di produzione
dei medicinali a base di cellule staminali mesenchimali e le strutture ospedaliere presso le quali effettuare il trattamento.
Il Comitato scientifico, i cui componenti sono
stati nominati con successivo decreto del Ministero
della Salute del 28 giugno 2013, ha reso un parere
negativo sul “metodo Stamina”, ritenendo non sussistenti i presupposti di scientificità e sicurezza necessari per avviare la sperimentazione.
La Corte di Strasburgo, con la sentenza in rassegna del 6 maggio 2014, ha dichiarato il ricorso irricevibile, ai sensi dell’art. 35 §§ 3 e 4 Cedu, vuoi
perché manifestamente infondato, vuoi perché incompatibile con le disposizioni della Convenzione.
Tralasciando l’ultima parte della decisione, nella
quale la Corte ha rilevato che “la Convenzione
non garantisce in quanto tale un diritto ad un doppio grado di giudizio in materia civile”, mette conto soffermarsi sui passaggi motivazionali concernenti l’applicabilità al caso di specie degli artt.
8 (13) e 14 (14) Cedu.
Sotto il profilo dell’art. 8 Cedu, la Corte enuncia un principio molto importante, laddove afferma
che il diniego da parte dell’Autorità Giudiziaria all’accesso alle cure secondo il “metodo Stamina” costituisce “un’ingerenza nel diritto al rispetto della
vita privata del paziente”. Tale ingerenza - osservano i Giudici - è, tuttavia, giustificata dalla legge (il
(10) L’ordinanza è pubblicata in Nuova giur. civ. comm.
2014, 2, 115, con nota di commento di T. Pace, Diritto alla salute o diritto alla speranza? L’accesso alle cure secondo il metodo Stamina per i pazienti affetti da patologie incurabili.
(11) T.A.R. Lazio, sez. III quater, 4 dicembre 2013, ord., consultabile in www.giustizia-amministrativa.it
(12) Secondo quanto si apprende dalle notizie pubblicate
sui quotidiani del 3 ottobre 2014 (si veda, ad esempio, Corriere
della Sera, 20), il Comitato avrebbe concluso i lavori, rilevando
la mancanza dei presupposti per l'avvio di una sperimentazione del “metodo Stamina”.
(13) Diritto al rispetto della vita privata e familiare. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare,
del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e
della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
(14) “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella
presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle
di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a
una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra
condizione”.
Famiglia e diritto 11/2014
Con successiva nota del 10 ottobre 2013, il Ministero della Salute ha preso atto che, all’esito del
citato parere del Comitato scientifico, la sperimentazione non poteva essere ulteriormente proseguita.
Con ordinanza del 4 dicembre 2013, il T.A.R. Lazio (11), in accoglimento del ricorso proposto da
Stamina Foundation Onlus, ha sospeso l’efficacia
dei decreti ministeriali richiamati nel testo, in particolare affermando che il d.m. 28 giugno 2013 era
viziato da mancanza di indipendenza dei componenti del Comitato Scientifico, i quali, prima dell’inizio dei lavori, avevano espresso forti perplessità, o addirittura accese critiche, sull’efficacia del
metodo.
Al fine di dare attuazione alle indicazioni espresse dai Giudici del T.A.R. Lazio, si è provveduto,
con d.m. 4 marzo 2014, alla nomina dei nuovi
componenti del Comitato (12).
3. La pronuncia della Corte
983
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
d.l. n. 24/2013, appunto), che persegue lo scopo di
tutelare il bene salute.
Si pone, allora, un problema di bilanciamento
tra gli interessi concorrenti della “vita privata”, intesa, secondo la giurisprudenza della Corte, come
“autonomia individuale” (15), e la salute pubblica.
In questo campo ampio è il margine di discrezionalità degli Stati membri e non spetta al Giudice
sovranazionale sostituirsi alle Autorità nazionali
competenti.
Un punto di equilibrio parrebbe essere stato
raggiunto dal nostro legislatore, che ha consentito il completamento dei trattamenti a base di cellule staminali avviati o autorizzati dall’Autorità
Giudiziaria prima dell’entrata in vigore del d.l.
24/2013.
Dunque, secondo la Corte, la disposizione legislativa che limita l’accesso alle cure secondo il
“metodo Stamina” non si pone in contrasto con
l’art. 8 Cedu, tanto più se si considera che “il valore
scientifico della terapia in causa non è provato”.
Per quanto concerne la presunta violazione dell’art. 14 Cedu (16), in combinato disposto con
l’art. 8 Cedu, la Corte prende atto che alcuni tribunali italiani (17) hanno autorizzato l’accesso ai
trattamenti in questione anche a pazienti in condizioni simili a quella del ricorrente.
Ciò, tuttavia, non vale a qualificare come “discriminatorio” - ovvero privo di uno scopo legittimo o
di un ragionale rapporto di proporzionalità tra il
mezzo impiegato e lo scopo perseguito - il provvedimento del Tribunale di Udine che ha negato
l’accesso al “metodo Stamina”. Tale decisione, infatti, non fa altro che applicare la previsione del
d.l. n. 24/2013, il cui fine – si è già detto – è quello
di tutelare la salute della collettività.
In sintesi: la Corte sottolinea per ben due volte
che il “metodo Stamina” non ha ancora una validazione scientifica; evidenzia che la regolamentazione dell’accesso a questo tipo di cure è materia ri-
servata alla discrezionalità degli Stati membri; afferma che la decisione del Tribunale di Udine, in
applicazione del d.l. n. 24/2013, persegue lo scopo
legittimo della tutela della salute ed é proporzionato a quest’ultimo.
(15) Per un’ampia disamina del diritto all’autodeterminazione nella giurisprudenza della Corte europea, si veda R. Conti, I
Giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 260 ss.
(16) Sull’art. 14 CEDU, con ampi riferimenti bibliografici, si
veda D. Tega, I diritti in crisi, Milano, 2012, 184.
(17) Un ricco catalogo di ordinanze sul tema è contenuto in
Falletti, La giurisprudenza sul caso Stamina, in questa Rivista,
2014, 6, 609.
(18) Si veda, in particolare, Le cellule della speranza. Il caso
Stamina tra diritto e scienza, Torino, 2014, a cura di M. Capocci
e G. Corbellini.
(19) V. Zagrebelsky, Relazione svolta all’incontro su I diritti
umani nella prospettiva transazionale, Roma 20 aprile 2009, riportata nella pubblicazione reperibile all’indirizzo www.governo.it/Presidenza/CONTENZIOSO/comunicazione/allegati”ì/diritti_umani_seminario pdf.
(20) Il riferimento è a Corte cost. 26 maggio 1998, n. 185,
in Foro it., 1998, I, 1713, che ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo gli artt. 2, comma 1, ultima proposizione, e 3, comma 4, del decreto legge 17 febbraio 1998, n. 23 (c.d. Decreto
Bindi), per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., nella parte in cui
limitavano l’accesso alle cure secondo il “multitrattamento Di
Bella”. Il punto nodale di quella importante decisione può essere colto nel seguente passaggio: “Nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, come
quelle che si verificano in alcune patologie tumorali, va considerato che dalla disciplina della sperimentazione, così prevista,
scaturiscono indubbiamente aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute. Sì che non può ammettersi,
in forza del principio di uguaglianza, che il concreto godimento
di tale diritto fondamentale dipenda, per i soggetti interessati,
dalle diverse condizioni economiche”.
984
6. Conclusioni
All’indomani della sentenza in rassegna, può dirsi concluso definitivamente il “caso Stamina”?
La risposta è negativa, a parere di chi scrive.
Non v’è dubbio che la Corte di Strasburgo, sottolineando più volte la mancanza di prove sulla validità del “metodo Stamina”, ha dato man forte a
quanti, nell’ambito della comunità scientifica, hanno, sin dall’inizio, vigorosamente criticato il trattamento in questione (18).
Vi è, anzitutto, da considerare che nelle sentenze della Corte di Strasburgo i principi espressi muovono dall’esame di singole vicende e la soluzione
offerta al quesito giuridico è circoscritta ai fatti allegati nel ricorso (19).
Va, poi, osservato che l’impianto motivazionale
della pronunzia in esame ruota intorno alle disposizioni contenute nel d.l. n. 24/2013, ed in particolare nel citato art. 2.
Ora, va tenuto presente che questa norma è stata sospettata di incostituzionalità dal Tribunale di
Taranto che, con la richiamata ordinanza del
23.9.2013, ha rimesso la questione dinanzi alla
Consulta.
Non è da escludere che - come avvenuto in passato in casi analoghi (20) - la Corte Costituzionale
possa ritenere fondata l’eccezione di incostituzionalità, ravvisando un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti per i quali siano state già avviate le cure secondo il “Stamina” e quelli che, alla
data di entrata in vigore del d.l. n. 24/2013, non
avevano ancora iniziato la terapia.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Trattamenti sanitari
Un’eventuale decisione di accoglimento comporterebbe la caducazione della norma censurata.
Potrebbe allora porsi nuovamente la questione –
non del tutto risolta dai Giudici di Strasburgo – se
sia o meno rispettoso della Cedu il divieto opposto
Famiglia e diritto 11/2014
dallo Stato Italiano, attraverso i suoi organi giurisdizionali, di accedere a terapie allo stato prive di
validazione scientifica e, soprattutto, vietate dall’Autorità regolatoria del farmaco.
985
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famiglia e dei profili penali connessi
al diritto patrimoniale della famiglia.
Giurisprudenza
Professioni
Codice deontologico forense
CASSAZIONE CIVILE, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057 - Pres. Rovelli - Est. Giusti - T.M. c. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma
L’art. 51 del codice deontologico forense prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi
in controversie famigliari deve astenersi dal prestare, in favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi (è peraltro inammissibile il ricorso che sottopone alla corte il giudizio sul valore e sulla ponderazione degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali, poiché ciò fuoriesce
dal controllo di legittimità devoluto dal nuovo art. 360, n. 5, c.p.c.).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Per l’applicazione dell’art. 51 cod. deont. forense: Cass., sez. un., 17 giugno 2010, n. 14617, in Giust. civ., 2011, I,
2923
Ritenuto in fatto
Considerato in diritto
1. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma in data 8 giugno 2010 ha inflitto all’Avv. T.M. la sanzione
disciplinare della censura, avendolo ritenuto responsabile della violazione dell’art. 51 del codice deontologico
per avere difeso D.F. nei confronti del marito L.F. nella
causa, introdotta il 26 giugno 2007, di revisione delle
condizioni personali della separazione, e ciò dopo che,
nell’ottobre 2005, egli aveva assistito entrambi i coniugi
nel procedimento di separazione consensuale.
2. Il Consiglio nazionale forense, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 luglio 2013,
ha respinto il ricorso dell’incolpato.
Il Consiglio nazionale forense ha rilevato che non è importante stabilire se esista o meno la prova del conferimento della procura, nel giudizio di separazione personale, da parte del L., quanto se l’Avv. T. abbia comunque svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale, in favore di una parte nei cui confronti, per lo
stesso oggetto, abbia successivamente assunto iniziative
giudiziarie. E nella specie - ha proseguito il giudice disciplinare - il “dato fattuale ed assorbente” è costituito
dalla circostanza, “oggettiva e inconfutabile”, che
“l’Avv. T. ebbe a raccogliere la volontà del L. di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. Infatti - ha concluso il giudice disciplinare - l’Avv. T., per sua stessa
ammissione, ha ricevuto nel proprio studio il L., sia pure insieme alla moglie, ha concordato il testo del ricorso
ed ha assistito all’udienza entrambi i coniugi.
3. Per la cassazione della sentenza del Consiglio nazionale forense l’Avv. T. ha proposto ricorso, con atto notificato il 9 ottobre 2013, sulla base di un unico motivo.
Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in
questa sede.
Il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in
prossimità dell’udienza.
1. Con l’unico mezzo, il ricorrente denuncia omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art.
111 Cost. e all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il ricorrente lamenta che il Consiglio nazionale forense abbia
ritenuto che l’Avv. T., per sua stessa ammissione, abbia
assistito all’udienza entrambi i coniugi, laddove l’incolpato “aveva fermamente negato detta presunta ammissione nel proprio ricorso al CNF del 5 novembre 2010”.
Il CNF non avrebbe tenuto minimamente conto del
fatto che l’incolpato non aveva mai ammesso, ed anzi
aveva sempre negato, la suddetta circostanza. La motivazione sarebbe pertanto carente, illogica e contraddittoria perché basata sul presupposto di una presunta ammissione da parte dell’Avv. T. che non trova alcun riscontro negli atti procedimentali. La motivazione risulterebbe altresì viziata perché il CNF ha ritenuto che la
mera presenza di un avvocato all’udienza camerale di
separazione proverebbe che lo stesso abbia prestato assistenza in favore di entrambi i coniugi, il che sarebbe
apodittico, essendo ben possibile che un avvocato possa
comparire in un’udienza camerale in qualità di legale di
uno solo dei coniugi a tutela dei diritti di difesa di quest’ultimo, visto che l’altro coniuge, in siffatto procedimento, può comparire senza l’assistenza di un avvocato.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. L’art. 51 del codice deontologico forense ammette
l’assunzione in un incarico professionale contro una
parte già assistita soltanto quando sia trascorso almeno
un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e
sempre che l’oggetto del nuovo incarico sia estraneo a
quello espletato in precedenza, fermo il divieto per l’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto professionale già esaurito. In quest’ambito, la stessa disposizione prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari
deve sempre astenersi dal prestare, in favore di uno di
essi, la propria assistenza in controversie successive tra i
medesimi.
Famiglia e diritto 11/2014
987
Giurisprudenza
Professioni
2.2. Il Consiglio nazionale forense, nel confermare la
decisione del Consiglio dell’ordine, ha ritenuto integrata la condotta disciplinarmente rilevante, avendo accertato che l’Avv. T., dopo avere assistito entrambi i coniugi - D.F. e L.F. - nel procedimento di separazione
consensuale, conclusosi con provvedimento dell’ottobre
2005, ha poi patrocinato, nel gennaio 2007, la causa di
revisione delle condizioni di separazione, difendendo la
sola moglie contro il marito. A questa conclusione il
giudice disciplinare è giunto alla luce del “dato fattuale
ed assorbente” costituito dalla “circostanza oggettiva ed
inconfutabile che l’Avv. T. ebbe a raccogliere la volontà del L. di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in
favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. A
tale fine, il Consiglio nazionale forense ha sottolineato
che dal processo verbale dell’udienza di separazione
consensuale tenuta il 26 ottobre 2005 dinanzi al presidente del Tribunale di Roma risulta che all’udienza
stessa comparvero i coniugi e vi assistette l’Avv. T.. Ed
ha altresì evidenziato che l’Avv. T., per sua stessa ammissione, ha non solo assistito all’udienza entrambi i coniugi, ma, prima di essa, ha ricevuto nel proprio studio
il L., sia pure insieme con la moglie, e concordato il testo del ricorso per separazione consensuale dei coniugi.
2.3. Tanto premesso, è esatto che l’Avv. T., anche nel
proprio ricorso al CNF, “ha fermamente negato di essere mai stato incaricato dal L. di patrocinarlo nel procedimento di separazione”; ma il giudice disciplinare ha
considerato irrilevante detta contestazione, sul rilievo
che, ai fini della configurabilità dell’illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell’assolvimento di
un’attività di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato
abbia svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale. Nè, d’altra parte, appare decisivo il rilievo che all’udienza davanti al presidente del tribunale i coniugi
potevano comparire anche senza l’assistenza di un avvocato, perché il CNF - tenuto conto del tenore del verbale di udienza e del fatto che l’Avv. T. aveva in precedenza ricevuto il L. presso il suo studio, sia pure insieme
alla moglie, dove gli interessati si accordavano per depositare un ricorso congiunto volto ad ottenere una separazione consensuale - ha ritenuto, valutando le risultanze probatorie, che l’Avv. T. abbia assistito anche il
L. In questo contesto, chiedendo di rimettere in discussione la conclusione raggiunta dal CNF sullo svolgimento di un’attività di assistenza anche in favore del L.,
solo formalmente il ricorrente denuncia l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio. In realtà, egli insta per un sindacato, da parte di queste Sezioni Unite,
sul valore e sulla ponderazione, operata dal CNF, degli
elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali,
il che fuoriesce dall’ambito del controllo devoluto al
giudice di legittimità dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, nel
testo risultante per effetto delle modifiche apportate dal
D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.
3. Il ricorso è dichiarato inammissibile.
In mancanza di controricorso da parte degli intimati,
nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del
giudizio.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30
gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono
le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma
1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30
maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma
17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente T.M., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis.
LA DEONTOLOGIA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
TRA PRINCIPI E PROSPETTIVE
di Remo Danovi
Il principio richiamato dalla Cassazione è del tutto pacifico. La decisione peraltro offre lo spunto per indagare (pur nella dichiarata inammissibilità del ricorso) gli elementi minimi di fatto che consentono di affermare la sussistenza della violazione disciplinare, anche alla luce del nuovo codice deontologico forense e
delle più analitiche disposizioni introdotte in materia di diritto di famiglia.
988
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Professioni
1. La regola deontologica
divieto è rafforzato con l’inserimento dell’avverbio
sempre («l’avvocato deve sempre astenersi») (2).
La sentenza della Cassazione ribadisce sostanzialmente una regola sempre esistita, ma offre anche
lo spunto per alcune sintetiche riflessioni che nascono dalle nuove disposizioni inserite nel codice
deontologico del 2014 e dalle prospettate riforme
legislative.
In effetti, possiamo ricordare che il conflitto di
interessi è sempre stato sanzionato disciplinarmente, essendo inaccettabile che un avvocato possa difendere contestualmente interessi contrapposti.
In questo senso, nella codificazione deontologica
del 1997, nell’originario art. 37 era fatto obbligo
all’avvocato di astenersi dal prestare attività professionale «quando questa determini un conflitto con
gli interessi di un proprio assistito», e nel II canone
complementare dello stesso articolo era più particolarmente previsto che «l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi in
favore di uno di essi».
Questo canone non è mai stato modificato nei
tanti interventi di aggiornamento attuati, ma è stato semplicemente collocato in un altro articolo:
non più nei rapporti con la parte assistita e nell’articolo sul conflitto di interessi (titolo III, art.
37.II), ma nei rapporti con la controparte, i magistrati e i terzi e nell’articolo che disciplina l’assunzione di incarichi contro ex-clienti (titolo IV, art.
51.I) (1).
La stessa disposizione è ora riprodotta nell’art.
68.4 del nuovo codice deontologico forense, con
due piccole varianti: a parte la rubrica (che si riferisce ora alla parte già assistita e non più agli exclienti), è precisato che incorre nel divieto l’avvocato che abbia prestato assistenza non solo nei
confronti dei coniugi ma anche dei conviventi, e il
La ratio del divieto è spiegata abbastanza agevolmente dalla stessa diversa collocazione che è stata
data alla disposizione in esame.
Inserito dapprima nel conflitto di interessi, il divieto nasceva e nasce dall’idea che l’assunzione di
un mandato a favore di un coniuge, quando l’avvocato abbia assistito in precedenza entrambi, di per
sé costituisca una inaccettabile alterazione del rapporto professionale, poiché non solo cancella l’elemento della fiducia sorto nella gestione dei rapporti famigliari, ma di fatto consente l’utilizzazione di
notizie personali apprese in precedenza, così realizzando un indubitabile vantaggio per la parte che
viene assistita successivamente sulla base della diretta conoscenza di tutti i pregressi rapporti. Dal
punto di vista soggettivo, invero, non è accettabile
che il patrono possa assumere posteriormente un
patrocinio contrastante con l’interesse di chi – per
primo – ha riposto in lui la sua fiducia e conserva
il diritto di contare su di essa; e dal punto di vista
oggettivo è evidente l’ambiguità di una assistenza
che si svolga nell’ambito della stessa controversia
famigliare, per contrastare interessi in precedenza
difesi!
D’altra parte, più in generale, e sul piano degli
stessi principi e delle dinamiche processuali, l’ipotesi dell’esistenza di un conflitto di interessi (potenziale o reale) è di per sé criticabile perché idonea a violare la garanzia irrinunciabile del contraddittorio, con ogni deteriore conseguenza: secondo
la giurisprudenza, infatti, l’attività prestata in conflitto di interessi equivale a mancanza di assistenza (3).
(1) Ciò è avvenuto con le modifiche apportate il 27 gennaio
2006 e con le varianti introdotte. Si veda sul punto il nostro Il
codice deontologico forense, Milano, 2006, III ed., 72.
(2) Il nuovo codice deontologico forense è stato approvato
con delibera del Consiglio nazionale forense 31 gennaio 2014,
ed esso entra in vigore decorsi 60 giorni dalla pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale, secondo quando disposto dalla nuova
legge professionale (art. 3. 4 l.p.f.). Il testo dell’art. 68.4 nuovo
cod. deont. è ora formulato in questi termini: «68. Assunzione
di incarichi contro una parte già assistita - ... 4.- L’avvocato che
abbia assistito congiuntamente coniugi o conviventi in controversie di natura familiare deve sempre astenersi dal prestare la
propria assistenza in favore di uno di essi in controversie successive tra i medesimi». La sanzione prevista per questa violazione (seguendo le prescrizioni della legge professionale che
ha imposto di specificare la sanzione per ogni comportamento
disciplinarmente rilevante) è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi (art. 68.6). La sanzio-
ne può essere peraltro anche diminuita, nei casi meno gravi
(art. 22.3 cod. deont.).
(3) Così, nel processo penale, ad esempio, è stabilito dall’art. 106 c.p.p. che «la difesa di più imputati può essere assunta da un difensore comune, purché le diverse posizioni non
siano tra loro incompatibili»; e quando poi l’autorità giudiziaria
rilevi una situazione di incompatibilità, «la indica ed espone i
motivi, fissando un termine per rimuoverli», provvedendo se
necessario alla sostituzione dell’avvocato con un difensore
d’ufficio. Ugualmente, nel processo civile, pur nella inesistenza
di una specifica norma, si sono considerate irregolari e nulle le
procure conferite da soggetti che risultino nel processo in contrasto di interessi con altre parti, per la ragione espressa che il
contraddittorio non è assicurato e, di fatto, l’assistenza non è garantita. Sotto il profilo civilistico si è anche precisato che il conflitto deve essere concreto quando riguardi diritti disponibili, attinenti alla sfera patrimoniale, e può essere invece meramente
potenziale o virtuale quando riguardi diritti indisponibili. Sotto il
Famiglia e diritto 11/2014
2. La ratio del principio
989
Giurisprudenza
Professioni
La successiva diversa collocazione del divieto
(non più nell’ambito del conflitto di interessi, ma
nel divieto di assumere incarichi nei confronti di
ex-clienti) non modifica la valutazione del principio, ma anzi valorizza l’elemento personale della fedeltà e della fiducia: in questo caso, infatti, il dovere di fedeltà e il rapporto di fiducia vengono ad assumere un valore particolare, una ultra-attività o
espansione che va oltre la cessazione formale del
mandato.
Non a caso la stessa Cassazione, nell’unico precedente riferito all’art. 51 cod. deont., nel sottolinearne i presupposti, afferma che le condizioni stabilite confermano come la disposizione di cui all’art. 51, sia «un rafforzamento del conflitto di interessi regolato dall’art. 37 cod. deont.» (4).
Si spiega così agevolmente il principio riferito
alle controversie familiari, per le quali deve sempre
astenersi dall’assumere incarichi l’avvocato che abbia assistito in precedenza congiuntamente i coniugi o i conviventi. E’ questa una preclusione assoluta, onde non vale l’eccezione pure prevista nell’art.
51, e ora nell’art. 68 cod. deont. (che ammette l’assunzione del mandato quando sia trascorso «almeno un biennio dalla cessazione del precedente incarico»); né ancora valgono le ulteriori condizioni
previste dagli stessi articoli, laddove si precisa che
l’oggetto dell’incarico deve essere comunque estraneo a quello precedente e in ogni caso è fatto divieto all’avvocato di utilizzare notizie acquisite in
La Cassazione non si è discostata da questi principi e si è limitata a ripercorrere la regola che vieta
all’avvocato di assistere un coniuge contro l’altro
(nella specie, in sede di revisione delle condizioni
di separazione), quando abbia assistito entrambi i
coniugi nella precedente fase della separazione. E
ha poi giudicato inammissibile il ricorso perché
avente a oggetto il giudizio dato dal Consiglio nazionale forense «sul valore e sulla ponderazione degli
elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali», in contrasto con il principio stabilito dal nuovo
art. 360 c.p.c., n. 5, che limita il controllo di legittimità (6).
Fermo dunque il principio enunciato, è interessante ripercorrere la decisione del Consiglio nazionale forense che è stata impugnata ed è stata oggetto della contestazione del ricorrente, poiché essa indica gli elementi minimi di fatto che consentono
profilo disciplinare, invece, anche il conflitto meramente potenziale può essere rilevante. In tal senso è lo stesso Consiglio
nazionale forense, nella decisione impugnata (Consiglio naz.
forense 23 luglio 2013, n. 137, in Rass. forense, 2014, 85), per
cui il divieto imposto «si caratterizza per una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto di interessi, non richiedendosi specificatamente
l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza». Negli stessi identici termini si sono espressi
Consiglio naz. forense 13 marzo 2013, n. 35, in Rass. forense,
2013, 864 e 865, e Consiglio naz. forense 15 ottobre 2012, n.
149, in Rass. forense, 2012, 607. Per il codice deontologico europeo è necessario e sufficiente un «rischio serio di conflitto»
(art. 3.2 cod. deont. europeo). Per ogni ulteriore approfondimento su questi punti si veda anche il nostro Il codice deontologico forense, Milano, 2006, III ed., 564.
(4) Così, nella motivazione, Cass., sez. un., 17 giugno 2010,
n. 14617, in Giust. civ., 2011, 2923. Numerose sono anche le
decisioni del Consiglio naz. forense che hanno motivato la
sanzione inflitta con l’affermazione che l’assunzione dell’incarico professionale in questi casi costituisce violazione della norma fondamentale di correttezza professionale (Consiglio naz.
forense 16 marzo 1978, in Rass. forense, 1980, 197), ovvero
violazione del dovere di fedeltà (Consiglio naz. forense 30 dicembre 1997, n. 163, in Rass. forense, 1998, 373), o attuazione
di un comportamento lesivo del dovere di correttezza e fedeltà
(Consiglio naz. forense 11 settembre 2001, n. 166, in Rass. forense, 2002, 129, e Consiglio naz. forense 12 giugno 2003, n.
139, in Rass. forense, 2003, 883). Ritiene invece che la ratio
della disposizione debba essere individuata nella tutela dell’immagine della professione forense, essendo non decoroso né
opportuno che un avvocato muti troppo rapidamente clientela,
Consiglio naz. forense 30 aprile 2012, n. 76, in Rass. forense, 2012, 596; mentre per Consiglio naz. forense 31 marzo
1979, in Rass. forense, 1983, 76, l’inversione della posizione difensiva del legale giustifica, quantomeno, il sospetto sulla affidabilità del patrono e sullo scrupolo nella sua opera.
(5) Il principio enunciato «ha carattere assoluto, tendendo a
prevenire anche il solo pericolo di situazioni di possibile conflitto» (Consiglio naz. forense 12 maggio 2010, n. 27, in Rass. forense, 2010, 337). E’ stato anche precisato che rientrano nella
previsione delle controversie familiari previste dall’art. 51 cod.
deont. «anche le controversie per separazione personale dei
coniugi, di cui quelle consensuali incontestabilmente costituiscono una forma di risoluzione» (Consiglio naz. forense 16
marzo 2010, n. 9, in Rass. forense, 2010, 347).
(6) In effetti, la Cassazione ha rilevato che solo formalmente
il ricorrente ha denunciato un omesso esame di fatto decisivo:
in realtà, «egli insiste per un sindacato sul valore e sulla ponderazione, operato dal C.N.F., degli elementi di fatto emergenti
dalle risultanze processuali, il che fuoriesce dall’ambito del
controllo devoluto al Giudice di legittimità dal nuovo art. 360
c.p.c. n. 5». Il ricorso è stato dunque dichiarato inammissibile,
con la conseguenza che è stato imposto al ricorrente il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente
rigettata (secondo le prescrizioni previste dalla legge in caso di
pronuncia di inammissibilità del ricorso).
990
ragione del rapporto professionale già instaurato.
Nel caso in esame, infatti, l’incarico di tutelare un
coniuge contro l’altro si svolge nell’ambito dello
stesso oggetto e sulla base delle stesse notizie acquisite in precedenza: nessuna eccezione è quindi prospettabile al divieto imposto (5).
3. La pronuncia della Cassazione e gli
elementi minimi di fatto per la violazione
deontologica
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Professioni
di uno solo di essi, ricorrendo nelle varie fattispecie una identica esigenza di tutela (8). Non si tratta in verità, in questo caso, di applicare analogicamente il principio fissato dal codice deontologico
(un’applicazione analogica sempre discutibile, tanto più ora con la tipizzazione degli illeciti disciplinari), ma semplicemente di riconoscere che nella
previsione dell’assistenza iniziale dei due coniugi è
ricompresa anche l’ipotesi dell’assistenza di uno solo di essi, contro il quale non può successivamente
essere assunta la difesa nell’ambito degli stessi rapporti familiari. Ciò è escluso anche dai principi generali fissati nell’ambito del divieto di agire contro
una parte già assistita.
di affermare l’esistenza di una violazione del divieto sancito dalla norma.
Nel pensiero del Consiglio nazionale forense, infatti, la disposizione in esame (l’art. 51.I, e ora
l’art. 68.4 nuovo cod. deont.) non richiede che sia
espletata «una attività defensionale o anche di rappresentanza», ma si limita a «circoscrivere l’attività nella
più ampia definizione di assistenza, per l’integrazione
della quale non è richiesto lo svolgimento di attività di
difesa e rappresentanza essendo sufficiente che il professionista abbia semplicemente svolto attività diretta a
creare l’incontro delle volontà seppure su un unico
punto degli accordi di separazione» (7).
Nel caso in esame, dunque, non vale l’eccezione
sollevata secondo cui il divieto non sussisterebbe
non essendo stato rilasciato dall’uno e dall’altro coniuge un mandato formale di assistenza. Ciò che
conta è la precedente assistenza compiuta, avendo
l’avvocato ricevuto nel proprio studio il marito insieme con la moglie e concordato il testo del ricorso per separazione consensuale, con l’assistenza poi
all’udienza di entrambi i coniugi.
Né poi è rilevante che davanti al presidente del
tribunale i coniugi possano comparire anche senza
l’ausilio di un avvocato, poiché ciò che conta – ai
fini del successivo divieto – è l’avvenuta prestazione di fatto in favore di entrambi i coniugi.
Allo stesso modo è sufficiente la consulenza prestata in vista di una separazione o controversia famigliare per escludere la possibilità di agire successivamente nei confronti della stessa parte alla quale sia stata prestata la consulenza.
Così indicati oggettivamente gli elementi minimi
di fatto per ravvisare la violazione deontologica del
principio enunciato, resta solo da precisare che,
soggettivamente, non importa che l’attività sia stata
svolta inizialmente a favore di entrambi i coniugi o
Nello stesso art. 68 del nuovo codice deontologico, oltre al divieto di assumere l’incarico dai coniugi o conviventi già assistiti in una prima fase (art.
68.4) è inserito l’ulteriore divieto per l’avvocato,
che abbia assistito un minore in controversie famigliari, «di astenersi sempre dal prestare la propria assistenza in favore di uno dei genitori in successive controversie aventi la medesima natura e viceversa» (art.
68.5 cod. deont.).
Per questa infrazione è prevista una sanzione più
grave rispetto a quella precedente (da uno a tre anni, anziché da due a sei mesi) (9).
E’ previsto anche nel nuovo codice deontologico
che l’avvocato debba «in ogni caso assicurare l’anonimato del minore» (artt. 18.2 e 57.2), e al minore
infine è dedicato l’intero art. 56 (ascolto del minore), con obblighi vari previsti a carico dell’avvocato:
(7) Così Consiglio naz. forense 23 luglio 2013, n. 137, in
Rass. forense, 2014, 85, che ha rigettato il ricorso avverso la
decisione del C.d.O. di Roma 8 giugno 2010.
(8) Così espressamente Consiglio naz. forense 12 maggio
2010, n. 27, in Rass. forense, 2010, 337: «benché l’art. 51, canone I, c.d.f. faccia espresso riferimento alla fattispecie in cui
un avvocato, dopo avere assistito congiuntamente i coniugi in
controversie familiari, assuma successivamente il mandato in
favore di uno di essi contro l’altro, analoga esigenza di tutela è
ravvisabile nell’ipotesi in cui l’avvocato abbia prestato consulenza in vista di una separazione ad uno dei coniugi e, in seguito, abbia accettato il mandato dall’altro coniuge per assisterlo nella medesima separazione, con conseguente operatività, anche in tale ultima fattispecie, del medesimo obbligo di
astensione dell’avvocato, a prescindere dalla sussistenza di un
conflitto di interessi effettivo o meramente potenziale». E’ stato
anche deciso che l’avvocato dell’amica del marito non possa
difendere la moglie nel giudizio di separazione (C.O. Bruxelles,
seduta del 13 gennaio 1998, in Lettre du Barreau, 1997-1998,
6-7, 172), mentre è stata considerata lecita l’assunzione di una
causa nei confronti della moglie di un ex-cliente (Consiglio
naz. forense 18 maggio 1999, n. 58, in Rass. forense, 1999,
928).
(9) L’aggravamento della sanzione dovrebbe giustificarsi
per il particolare rilievo dato dal codice alla persona del minore. In verità, l’indicazione delle sanzioni è talvolta criticabile,
come nel caso in esame. Non si spiega infatti il motivo per cui
la violazione delle disposizioni di cui ai commi 2 (assunzione di
incarichi di identico oggetto a quelli precedenti), 3 (utilizzo di
notizie acquisite in precedenza) e 5 (difesa del minore) comportino la sanzione della sospensione da uno a tre anni, mentre la violazione di cui ai commi 1 (assunzione dell’incarico prima che siano trascorsi due anni) e 4 (assistenza dei coniugi e
conviventi) comporta la minore sanzione della sospensione da
due a sei mesi, dal momento che nell’assistere un coniuge
precedentemente difeso (comma 4) ricorrono certamente le
ipotesi di cui ai commi 2 e 3 (incarico non estraneo a quello
precedente e utilizzo di notizie). Probabilmente con il richiamo
delle attenuanti o aggravanti le varie sanzioni possono essere
maggiormente equilibrate.
Famiglia e diritto 11/2014
4. Il diritto di famiglia e il nuovo codice
deontologico
991
Giurisprudenza
Professioni
- l’obbligo di non procedere all’ascolto di un minore senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, e sempre che non sussista conflitto di interessi con gli stessi;
- l’obbligo di astenersi da ogni forma di colloquio o contatto con i figli minori sulle circostanze
oggetto delle controversie familiari;
- l’obbligo, nel procedimento penale, di conferire con il minore previo invito formale agli esercenti la potestà genitoriale di intervenire all’atto, e
fatto salvo l’obbligo della presenza di un esperto.
Per la violazione di questi doveri e divieti è prevista la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno (10).
Come si vede, il nuovo codice deontologico dedica ampio spazio ai rapporti famigliari, e in particolare ai rapporti con i minori, nella fondata percezione che ogni contestazione debba essere affrontata con grande sensibilità ponendo l’avvocato a
contatto con l’essere delle persone (i sentimenti,
gli interessi, la stessa dignità dell’esistenza, ma anche i diritti inespressi e inesprimibili di un minore), che sono ben più rilevanti dell’avere, che pure
occupa in misura talvolta ingiustificata i contrasti
tra le parti (11).
E’ del tutto condivisibile quindi una maggiore
attenzione a questi problemi, tenuto conto anche
delle varie modifiche in atto sul piano legislativo e
processuale (12).
5. Il ruolo dell’avvocato
(10) Per l’ascolto dei minori, nel vigore del codice deontologico del 1997, si veda Cass., sez. un., 21 ottobre 2009, n.
22238, in Foro it., 2010, I, 903; Cass. 4 dicembre 2012, n.
21662; Cass. 5 marzo 2014, n. 5097, in Foro it., 2014, I, 1067.
In particolare, è stato sanzionato con la sospensione l’avvocato che nell’esercizio del suo ministero di difensore, nel corso di
un giudizio di separazione tra coniugi, «nell’interesse della propria assistita abbia intrattenuto colloqui con i figli minori della
coppia all’insaputa del padre affidatario e in violazione delle disposizioni specialmente impartite dal giudice nell’interesse dei
minori stessi» (Cass., sez. un., 4 febbraio 2009, n. 2637, in
Giust. civ., 2009, I, 860, a conferma della decisione del Consiglio naz. forense 22 aprile 2008, n. 17). Più in generale si veda,
per i problemi deontologici, G. Dosi, L’avvocato del minore nei
procedimenti civili e penali, Torino, 2005, 473; G. Gulotta, La
formazione dei magistrati e degli avvocati nella giustizia minorile,
Milano, 2005; G.O. Cesaro (a cura di), La tutela dell’interesse
del minore: deontologie a confronto, Milano, 2007, a cui si deve
la felice sintesi che si richiama all’ascolto, alla assistenza e alla
rappresentanza.
(11) Si veda, in questo senso, il nostro scritto Dall’avvocato
della famiglia all’avvocato del minore: questioni deontologiche,
nel volume La tutela dell’interesse del minore: deontologie a
confronto, a cura di G.O. Cesaro, Milano, 2007, 29; e ancora
La deontologia e i processi della famiglia, in Prev. forense, 2009,
215, con l’analisi dei vari casi disciplinari intervenuti e il riferimento alla normativa esistente; e più in generale Dei doveri
dell’avvocato nel processo, in Deontologia e giustizia, Milano,
2003, 63.
(12) Basti ricordare l’intervento del legislatore con la legge
10 dicembre 2012, n. 219, e il d.lgs 28 dicembre 2013, n. 154,
con i nuovi diritti riconosciuti al minore (artt. 315–bis, 316 e
336–bis c.c.). In materia di audizione del minore si veda anche
la giurisprudenza del Tribunale di Milano nella rassegna a cura
di G. Servetti, L. Cosmai e G. Buffone. Più in generale, si veda
anche M.G. Ruo, Quella riforma indifferibile della giustizia minorile per dare tutela effettiva ai soggetti più vulnerabili, in Guida al
diritto, 2014, 33, 10; G. Ceccherini – L. Gremigni Francini, Famiglia in crisi e autonomia privata, Padova, 2013.
(13) E’ il caso singolare accaduto negli Stati Uniti e da noi
riferito nel volume L’avvocato incolpato (casi clinici di deontologia forense), Milano, 2007, 111, con la conclusione che l’avvocato non può assecondare gli intendimenti del cliente, accompagnandosi allo stesso in una serie di attività materiali che
esulano dai suoi compiti e non sono in alcun modo giustificabili. E’ esemplare anche il caso accaduto in Belgio e sanzionato con la radiazione (si veda il nostro commento alla decisione,
Il lettino dell’analista e la deontologia forense, in Foro it., 1999,
IV, 431, e nel volume L’avvocato incolpato, Milano, 2005, 105).
(14) Si veda in particolare, su questi punti A. Mariani Marini, Deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato del minore,
in Rass. forense, 2003, 741; A. Mariani Marini, Cultura ed etica
della legalità: l’avvocato e il minore, in Prev. forense, 2013, 240,
ove si sottolinea la necessità di un particolare impegno per
l’avvocato, per la difesa dei valori morali, «immanenti in ogni
processo che coinvolga minori»; A. Succi, L’ascolto del minore
e i rapporti dell’avvocato con gli organi di informazione, in Rass.
forense, 2014, 41.
992
Sono certamente utili le nuove regole in considerazione della specialità del diritto di famiglia e
della iper-specialità del diritto minorile. E tuttavia,
fermo il fatto che tutti i comportamenti disciplinarmente rilevanti hanno avuto o avrebbero potuto avere una sanzione già nel vigore della codificazione del 1997 (anche il caso del gatto della moglie
del cliente dell’avvocato!) (13), nell’ambito del diritto di famiglia, per i valori delle persone che sono
coinvolti, il comportamento degli avvocati dovrebbe essere sempre ispirato da un alto grado di sensibilità e dalla volontà e necessità di ricondurre i
contrasti all’equilibrio e non all’esasperazione.
Non è dunque da invocare soltanto la rigorosa
applicazione delle norme deontologiche, con la
specificità delle nuove disposizioni, quanto la
professionalità dell’avvocato, che nasce con un titolo di specializzazione (quale ora è previsto dalla
nuova legge professionale) e dalla formazione ed
esperienza che ne costituiscono la base, per avvicinare quanto più possibile le parti alla giustizia (14).
Per farlo, è certamente essenziale la solidarietà
con la parte assistita, nella espressione dell’attività
più intensa, con immedesimazione e senza pigrizie
o interessi personali, ma occorre pur sempre non
assecondare i soprusi, rinunciare alle falsità, rifiutare l’inganno, l’artificio, la mistificazione, l’ignoranza asserita dei fatti, il capovolgimento delle rappre-
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Professioni
sentazioni. In positivo, occorre credere nella essenzialità del dovere di verità (che pure è stato retrocesso nel nuovo codice e non è più posto tra i
principi generali ma è stato inserito tra i doveri
dell’avvocato nel processo), perché questo è il valore in assoluto che dà equilibrio ai rapporti e realizza compiutamente la giustizia.
Né occorre ricordare ancora una volta che i doveri di lealtà e probità previsti dall’art. 88 c.p.c. (e
nei medesimi termini dall’art. 105.4 c.p.p.) sono
imposti non solo alle parti ma anche ai difensori,
ed essi esprimono il dovere giuridico di non alterare il rapporto processuale e quindi di assicurare allo
stesso il rispetto della verità. Allo stesso modo devono essere intesi i principi di buona fede e correttezza che «per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione... costituiscono un autonomo dovere giuridico e una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma si
pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili» (15).
E’ tempo di sostenere verità e giustizia. Non è
più in gioco il risultato favorevole di un processo,
ma lo spirito dell’avvocatura, la coscienza del rispetto di un valore collettivo, che è poi anche l’ordine del mondo.
(15) Così, Cass., sez. un., 10 agosto 2012, n. 14374, in
Giust. civ., 2013, I, 112, nella motivazione, che richiama Cass.,
sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27214, in Giust. civ., 2010, I,
592, e Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286.
Famiglia e diritto 11/2014
993
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
Conviventi more uxorio
CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA 21 gennaio 2014, n. 62 - Pres. Brusati
Non sussiste un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio, qualora le parti non abbiano originariamente configurato il rapporto lavorativo come tale, rispettando il requisito dell’onerosità.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 03 luglio 2012 n. 11089, Cass. 02 agosto 2010 n. 17992, Cass. 26 gennaio 2009 n. 1833, Cass. 15 marzo
2006 n. 5632, Cass. 20 febbraio 2006 n. 3602, Cass. 19 giugno 2000 n. 8330, Cass. 17 luglio 1979 n. 4221, Cass.
07 giugno 1978 n. 2856, Cass. 24 marzo 1977 n. 1161
Difforme
Cass. 19 ottobre 2000 n. 13861, Trib. Palermo 03 settembre 1999, Cass. 02 maggio 1994 n. 4204, Cass. 14 giugno
1990 n. 5803, Cass. 22 novembre 1989 n. 5006, Cass. 17 febbraio 1988 n. 1701, Cass. 13 dicembre 1986 n. 7486
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Modena, quale Giudice del Lavoro, con
la sentenza n. 62/2012, ha accertato e dichiarato che
tra la società Laghi Balena s.n.c. (poi Laghi Balena di
B. A. e c. s.a.s.) e Z. P. si era instaurato un rapporto di
lavoro subordinato con riferimento al periodo settembre
2005 – fine aprile 2008.
Ha, quindi, in via equitativa, ai sensi dell’art. 36 Cost.,
calcolato la retribuzione dovuta, determinandola nella
complessiva somma netta, comprensiva di rivalutazione
ed interessi fino alla decisione, di euro 12.000,00.
Hanno proposto appello la società ed i soci B. G. e B.
A. che hanno chiesto la riforma integrale di detta sentenza, con rigetto della domanda della ricorrente.
Quest’ultima si è costituita e, senza proporre appello a
sua volta, ha contestato integralmente la fondatezza del
proposto appello, chiedendone il rigetto con conferma
della sentenza appellata.
La causa è stata decisa all’udienza del 21 gennaio 2014.
Motivi della decisione
Le parti appellanti hanno articolato un primo motivo di
appello con il quale, per censurare la sentenza di primo
grado, ha contestato che tra le parti si fosse mai instaurato un rapporto di lavoro subordinato.
Tale motivo di appello è fondato.
A fronte delle contestazioni sempre sollevate dalla società odierna appellante in ordine alla instaurazione di
un rapporto di lavoro subordinato con la ricorrente/appellata, era onere di quest’ultima fornire in causa la prova della esistenza degli elementi costitutivi di detto rapporto.
Detto onere probatorio, ad avviso di questa Corte di
Appello, non può dirsi adempiuto.
Più specificatamente, se non si è inteso male, la sentenza di primo grado ha fortemente per non dire decisivamente valorizzato le dichiarazioni rese dalle testimoni
M. e L. che hanno direttamente riscontrato la presenza
al lavoro, presso il locale gestito dalla società, della sig.ra Z.
994
Senonché tali dichiarazioni non appaiono essere sufficienti per ritenere adempiuto da parte della sig.ra Z. l’onere probatorio sulla stessa incombente.
La teste M. ha riferito di una frequentazione non certamente continuativa del locale gestito dalla società
avendo dichiarato di aver frequentato il ristorante due/tre volte nell’anno 2005, più di dieci volte nell’anno
2006, più di dieci volte nell’anno 2007 e nell’anno
2008 un po’ meno.
Si può, quindi, affermare che le sue dichiarazioni, in sé
considerate, non appaiono sufficientemente probanti
circa il riscontro di un impegno lavorativo da parte della sig.ra Z. continuativo nel corso del tempo.
Né specifici e definitivamente convincenti ragguagli in
tale senso possono essere desunti dalle dichiarazioni della teste L.
Tale testimone ha certamente riferito che, nei periodi
di frequentazione con il sig. B. e la sig. Z., aveva frequentato il locale assiduamente potendo così dire di
aver visto la sig.ra Z. “collaborare nel locale costantemente negli orari prossimi alle ore 13,00 nonché la sera
spesso anche sino alle ore 24,00, soprattutto il sabato”,
pur ritenendo di non conoscere pienamente gli orari di
lavoro della sig.ra Z.
Senonché tali dichiarazioni devono essere esaminate tenendo conto anche di quanto ulteriormente riferito da
detta teste vale a dire che “la sig.ra Z. lavorava nel bar
e nel ristorante come compagna del sig. G. B., tanto
che non veniva retribuita, sicché io stessa come amica
sollecitai più volte il sig. Barbieri a renderla indipendente economicamente”, avendo la teste specificato di
aver appreso detta circostanza “per averne parlato con
la ricorrente e con il sig. Giuseppe Barbieri”.
La teste ha fatto riferimento ad una circostanza (quella
della convivenza more uxorio della sig.ra Z. con il sig.
G. B., socio amministratore e socio di maggioranza della
società) proprio nell’arco di tempo interessato dal presente giudizio, e tale circostanza (anch’essa rilevante ai
fini del presente giudizio) può dirsi debitamente riscontrata in causa non solo dalle dichiarazioni della teste L.
ma anche dalle dichiarazioni degli altri testi M., P. e Q.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
nonché dalle stesse dichiarazioni rese dalla sig.ra Z. all’udienza del 14 dicembre 2010.
Né specifici ragguagli probatori in favore della domanda
proposta dalla sig.ra Z. possono essere rinvenuti (come
del resto sostanzialmente riconosciuto dalla stessa sentenza di primo grado) dalle dichiarazioni degli altri due
testi P. e Q.
Il P., in particolare, ha riferito di una sua assidua frequentazione del bar gestito dalla società “prima di lavorarci”. Ha riferito di avere visto che “talvolta la sig.ra Z.
era impegnata al lavoro presso detto bar mentre altre
volte quest’ultima non c’era”, ulteriormente specificando di non aver mai visto la sig.ra Z. nel ristorante.
La teste Q., a sua volta, ha riferito circa la normale presenza della sig.ra Z. presso l’esercizio commerciale nella
giornata del sabato aggiungendo che soltanto talvolta la
stessa aveva prestato nel ristorante la propria collaborazione lavorativa, senza peraltro, ricevere direttive, mentre
le altre volte era rimasta nel ristorante per consumare pasti o per intrattenersi con altri clienti, ulteriormente riferendo che la presenza della sig.ra Z. era essenzialmente
dovuta al fatto che doveva incontrare il suo compagno, e
che la prestazione di lavoro da parte della sig.ra Z. era legata alla volontà della stessa (“a volte, se ne aveva voglia, dava una mano al bar ed al ristorante.”).
Quanto a quest’ultima teste non si condivide il giudizio
di inattendibilità della stessa atteso che non è dato cogliere come ed in che modo le dichiarazioni di tale teste
sulla presenza saltuaria al lavoro della sig.ra Z. siano recisamente smentite dalle dichiarazioni degli altri testi, e
questo con specifico riferimento alle dichiarazioni della
M. e del P.
A ciò va aggiunta l’osservazione che dalle predette dichiarazioni testimoniali (fondamentali ai fini di causa,
non essendovi certamente riscontri probatori documentali alla domanda della sig.ra Z.) neppure emerge con
convincente chiarezza e precisione la circostanza che la
sig.ra Z., nel rendere le sue prestazioni di lavoro in favore della società, era sottoposta al potere gerarchico dei
responsabili di detta società, inteso come potere organizzativo, gerarchico e disciplinare, estrinsecantesi in
ordine e direttive specifiche e nel controllo sulla regolare esecuzione di detti ordini e direttive specifiche.
Nessun elemento di riscontro in tale senso lo si può cogliere nelle dichiarazioni dei testi P. e Q. che hanno
smentito detta fondamentale circostanza (cfr. dichiarazioni Papa: “non ho mai visto la sig.ra Z. ricevere direttive nei momenti in cui frequentavo il bar”; cfr. dichiarazioni Q. che ha riferito che la sig.ra Z. “non ha mai ricevuto direttive”).
Né elementi contrari a quanto qui affermato possono
desumersi dalle dichiarazioni delle testi L. e M. che
hanno, sostanzialmente in modo generico, parlato di direttive a cui la sig.ra Z. doveva attenersi.
Con riferimento, poi, alle dichiarazioni rese dalla teste
M., va aggiunta la osservazione che la teste ha riferito
che tra le ragioni della frequentazione del locale gestito
dalla società vi era anche quella di “trovare la ricorrente”, e proprio tale finalità di un incontro amicale con la
sig.ra Z. non si vede come possa armonizzarsi con la esi-
Famiglia e diritto 11/2014
stenza, di fatto, di un rapporto di lavoro subordinato
della sig.ra Z. con tutti i correlati obblighi lavorativi.
Non solo ma la esistenza di un generale rapporto di lavoro subordinato e di uno specifico potere di supremazia
gerarchica (sia pure di fatto) in capo ai responsabili della società Laghi Balena nei confronti della sig.ra Z. è sostanzialmente smentita dalle dichiarazioni della sig.ra L.
la quale – come già ricordato – ha riferito sostanzialmente come la prestazione di lavoro della sig.ra Z. (anche con le modalità concrete riferite da detta teste) era
da ricondursi e trovava il suo fondamento non tanto in
detto rapporto di lavoro ma, diversamente, nel rapporto
di convivenza more uxorio pacificamente esistente, proprio nell’arco di tempo interessato dal presente contenzioso, con il sig. G. B., socio amministratore e socio di
maggioranza della società.
Già sulla base di detta ricostruzione dei fatti appare possibile affermare il mancato adempimento da parte della
difesa della sig.ra Z. dell’onere di prova sulla stessa sicuramente incombente non solo perché non appare debitamente riscontrata la circostanza così fortemente valorizzata dalla sentenza di primo grado (vale a dire l’avere
prestato la sig.ra Z. la propria prestazione di lavoro con
carattere di continuità e regolarità) ma anche e soprattutto perché non appare debitamente riscontrato quello
che è l’elemento fondamentale distintivo della subordinazione, vale a dire la sottoposizione del prestatore di
lavoro al potere gerarchico, organizzativo e disciplinare
del datore di lavoro.
E tale affermazione viene ulteriormente corroborata dalla riscontrata presenza di ulteriori circostanza fattuali
che non si vede come possano essere apprezzate a positivo riscontro della domanda proposta in causa dalla sig.ra Z.
E’, infetti, emerso che la stessa nel periodo di cui è causa
svolgeva altra attività lavorativa quale babysitter (v.
dich. M., P., L. e Q.), essendo ulteriormente emerso che
era la società odierna appellante a sostenere i costi della
scheda del telefono cellulare utilizzato dalla sig.ra Z.
Risulta, quindi, condividibile il motivo di appello in
esame volto, appunto, a contestare la prova in atti della
esistenza dei fatti costitutivi della fattispecie dedotta in
giudizio dalla sig.ra Z.
Il che consente di accogliere integralmente il proposto
appello con riforma della sentenza impugnata e rigetto
della domanda proposta dalla ricorrente/appellata.
L’accoglimento di detto motivo di appello consente di
ritenere assorbiti gli ulteriori motivi di censura articolati nella proposta impugnativa.
La peculiarità della controversia e la opinabilità della
questione trattata consente di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, in accoglimento del proposto
appello, con riforma della sentenza di 1° grado, respinge
la domanda di Z. P. Compensa integralmente le spese
di entrambi i gradi di giudizio.
995
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
IL LAVORO PRESTATO A FAVORE
DEL CONVIVENTE MORE UXORIO
di Ilaria Bresciani (*)
Le prestazioni lavorative rese nell’impresa del convivente more uxorio, prive fin dall’origine della collaborazione dei caratteri della subordinazione e dell’onerosità, non rientrano nella fattispecie del lavoro subordinato. Pur non essendovi ostacoli alla configurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi
more uxorio, qualora, originariamente, la collaborazione si sia svolta in modo non continuativo, volontario
e gratuito, non può essere dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a posteriori, ma la
fattispecie rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 230 bis c.c.
1. Il fatto
La sentenza n. 62 del 21/01/2014 della Corte
d’appello di Bologna – Sezione Lavoro si è pronunciata su di una controversia in materia di accertamento circa la sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato tra conviventi more uxorio.
L’appello è stato promosso dalla società e dai
relativi soci in proprio, avverso la sentenza n. 62
del 2012 del Tribunale di Modena, con cui il Giudice del lavoro aveva riconosciuto l’esistenza di
un rapporto di lavoro subordinato a favore della
compagna di uno dei soci titolari di un’attività di
bar- ristorante, in cui essa aveva prestato la propria opera lavorativa per il periodo da settembre
2005 ad aprile 2008, condannando la società al
pagamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36
Cost.
L’appello, in riforma della sentenza di primo
grado, ha accolto le istanze proposte dagli appellanti, affermando che tra le parti non si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato, in
quanto la signora, che ne chiedeva il riconoscimento, non ha assolto all’onere della prova che
su di essa gravava, al fine di dimostrare l’esistenza
degli elementi costitutivi di tale rapporto di lavoro, dato che dalle prove testimoniali assunte era
emerso con certezza solo che la signora conviveva
con uno dei titolari dell’attività, ma non che la
stessa fosse una dipendente del bar – ristorante in
questione.
I testimoni, che avrebbero dovuto fornire la prova dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato,
in realtà frequentavano il locale gestito dalla società sporadicamente, al massimo una decina di volte
all’anno, oppure, pur frequentando il locale assiduamente, hanno affermato di aver visto l’appella(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Appello Bologna 21.1.2014, n. 62.
996
ta lavorare solo qualche volta nel bar – ristorante e
senza ricevere direttive dai soci. Inoltre, la stessa
appellata aveva riferito ad una teste di lavorare nel
bar – ristorante come compagna di uno dei proprietari, in quanto nel periodo in esame i due avevano iniziato una convivenza, tant’è che la signora
non percepiva alcun compenso.
Ciò che emerge dalle prove testimoniali, decisive per la controversia dato che non vi sono documenti e contratti scritti, è che la signora si trovava
spesso nel locale di cui il compagno era proprietario per incontrare quest’ultimo o amici della coppia, e talvolta eseguiva qualche prestazione lavorativa, ma sempre nella veste di compagna, del tutto
volontariamente, in modo non continuativo, e
senza ricevere alcuna direttiva e alcun compenso
da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi datori
di lavoro.
Pertanto, la Corte d’appello di Bologna, sulla base anche di altre circostanze fattuali, come che la
signora in quel periodo svolgeva un’altra attività
lavorativa di babysitter, ha accolto le domande degli appellanti e ha riformato integralmente la sentenza di primo grado (1).
2. Il lavoro nell’impresa familiare
Se la signora fosse stata la moglie di uno dei titolari del bar – ristorante non vi sarebbe stato alcun dubbio sul fatto che tali prestazioni, rese con
le stesse modalità, rientrassero nell’ipotesi di lavoro
nell’impresa familiare (2).
Al fine di porre rimedio a situazioni di sfruttamento economico – lavorativo, il nostro legislatore
ha regolato il lavoro nell’impresa familiare, introducendo, con la legge n. 131 del 1975, l’art. 230
bis c.c., che, riferendosi ai collaboratori dell’impre(2) D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, 468 ss.; Spadafora, Rapporti di convivenza more uxorio e autonomia privata,
Roma, 2001, 8.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
sa familiare, accosta tale fattispecie ad un rapporto
di lavoro associativo, prevedendo in cambio dell’attività prestata il diritto al mantenimento e il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa, il diritto di partecipare alle decisioni e a percepire una
liquidazione in denaro alla cessazione della prestazione lavorativa (3).
Con questa norma si è tipizzata la presunzione di
gratuità del lavoro nell’impresa familiare, sulla base
del presupposto che viene reso per ragioni di mutua solidarietà e al di fuori di un rapporto di lavoro
subordinato, per cui il familiare può accettare di lavorare senza essere retribuito essendo comunque
tutelato dall’art. 230 bis c.c. (4).
Lo scostamento rispetto alla disciplina del lavoro
subordinato è giustificato dall’elemento dell’affectio
familiaris (5).
Il problema si pone in virtù del fatto che la lettera della norma individua come parti del rapporto
di lavoro familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado, e pertanto, il modello a cui si riferisce è quello della famiglia legittima (6).
Interpretando letteralmente l’art. 230 bis c.c., si
arriva alla conclusione che il disposto legislativo
non tutela altre situazioni che pur si caratterizzano
per la presenza dell’elemento dell’affectio familiaris,
come i rapporti di convivenza o di fidanzamento,
anche se, nel corso degli anni si sono avute aperture in tal senso.
In Dottrina e in giurisprudenza si ritrovano posizioni opposte. Vi è chi sostiene che l’art. 230 bis
c.c. non si applichi alle ipotesi di convivenza more
uxorio (7), che è l’indirizzo più risalente nel tempo
e dunque l’impostazione tradizionale, che si fonda
sul dato testuale della norma, e chi invece afferma
la possibilità di un’equiparazione della famiglia di
fatto a quella legittima (8), operando un’interpretazione estensiva o analogica della norma, attraverso
la quale, la famiglia di fatto viene inquadrata come
una formazione sociale atipica costituzionalmente
rilevante ex art. 2 Cost. e, prendendo le mosse dalla ratio stessa dell’art. 230 bis c.c., si ammette l’applicazione analogica della norma alle famiglie di
fatto, “desumendo dalla disciplina della famiglia legittima alcuni principi generali, come tali applicabili a situazioni che presentino un’identità di ratio” (9).
In giurisprudenza è stato obbiettato che l’art.
230 bis c.c. si possa applicare in caso di convivenza, partendo dal presupposto che tale norma si pone come un’eccezione rispetto alle norme generali
del diritto del lavoro e pertanto è insuscettibile di
applicazione analogica (10).
Inoltre l’eventuale equiparazione tra la famiglia
di fatto e quella legittima, sempre secondo l’impostazione tradizionale, non sarebbe possibile, in
quanto mentre il matrimonio comporta per i coniugi conseguenze ben precise, perenni e ineludibili, la convivenza non è altro che una situazione di
fatto precaria, che può finire in qualunque tempo
per mera volontà di una delle parti del rapporto (11).
Tuttavia non si può prescindere dal fatto che,
così come il matrimonio, anche la convivenza presuppone un comune progetto di vita delle parti.
Nel corso del rapporto si confondono i patrimoni,
si mettono i propri beni nella disponibilità del
compagno, e allora ci si chiede perché il lavoro
prestato nell’impresa del compagno dovrebbe trovare una regolamentazione differente da quella che
tutela il coniuge o addirittura nessuna regolamentazione (12).
(3) Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Milano, 1989, 195.
(4) Carinci - De Luca Tamajo - Tosi - Treu, Diritto del lavoro.
Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2006, 43.
(5) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art.
230 bis c.c., in Lav. giur., 2006, IV, 327.
(6) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art.
230 bis c.c., cit., 328.
(7) In questo senso v., Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà
attuale e prospettive, Roma, 1989, 121; Oppo, in Cian, Oppo,
Trabucchi, Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova, 1992, 467; Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 1991, 1023; Palmeri, Regime patrimoniale della famiglia, II, Art. 230 bis, in Galgano (a cura di), Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna, 2004.
(8) In questo senso v., Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nell’impresa familiare e famiglia di fatto, in Dir. fam. pers.,
1976, 1831; Mazziotti, Diritto del lavoro, Napoli, 1976, 127; Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, 202; Amoroso, L’impresa familiare, Padova, 1998; Menghini, Lavoro familiare e la-
voro nell’impresa familiare, in Carinci (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, in Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro
subordinato: costituzione e svolgimento, Torino, 1998.
(9) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art.
230 bis c.c., cit., 328.
(10) Cass. 2 maggio 1994, n. 4204, con nota di Balestra, in
Giur. it., I, 1995, 844.
(11) Cass. 2 maggio 1994, n. 4204; In dottrina v., Balestra,
La famiglia di fatto, in Ferrando (a cura di), Il nuovo diritto di famiglia, II, Bologna, 2008, 1047; D’Angeli, La famiglia di fatto,
cit., 468 ss.
(12) Sulle attribuzioni patrimoniali tra conviventi v., Colella,
Rapporti patrimoniali tra conviventi e uso dello strumento contrattuale, in Fam. pers. succ., 11, 2012, 749; Balestra, La famiglia di fatto, cit., 1047; Proto, Le attribuzioni patrimoniali tra conviventi fuori dal matrimonio, in Fam. pers. succ., 2006, 3, 258;
Zoppini, Tentativo d’inventario per il ‘nuovo’ diritto di famiglia: il
contratto di convivenza, in I contratti di convivenza, a cura di
Moscati e Zoppini, Torino, 2002, 4; Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, 959 ss.; Balestra, I rapporti patrimoniali tra
Famiglia e diritto 11/2014
997
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
Ciò che sembra così naturale, crea non pochi
ostacoli nella risoluzione di quei conflitti che puntualmente nascono alla fine della relazione amorosa e che vedono una parte pretendere dall’altra
trattamenti economici pregressi, senza aver mai
preteso nulla prima, quando la comunanza di vita
era ancora in essere.
3. Orientamenti giurisprudenziali e
dottrinali. L’impostazione tradizionale
Concettualmente non vi è incompatibilità tra
la subordinazione e la prestazione lavorativa svolta nella comunità familiare, semplicemente si ritiene che il sentimento di solidarietà che lega i
conviventi sia prevalente da un punto di vista sociale rispetto ai caratteri della subordinazione, ed
è per questo che la giurisprudenza ammette l’esistenza di una presunzione di gratuità, che può essere superata solo dalla prova rigorosa e precisa
circa la sussistenza degli elementi oggettivi del
rapporto di lavoro subordinato. Anche con riguardo alla convivenza more uxorio si ammette la
presunzione di gratuità, dato che anche tra i conviventi si forma una comunanza di vita e di interessi, comunanza che deve essere spirituale ed
economica e che non può risolversi in un mero
rapporto affettivo e sessuale. Si tratta pur sempre
di una presunzione relativa che può essere superata dalla prova contraria fornita da chi afferma l’esistenza della subordinazione e dell’onerosità. L’onere della prova può essere assolto anche mediante presunzioni, ovvero un insieme di indizi che
valutati complessivamente conducano al superamento della presunzione di gratuità (13).
Secondo tale orientamento, le prestazioni di
lavoro rese tra conviventi si presumono effettuate affectionis vel benevolentiae causa, e quindi gratuitamente, sia in virtù delle suddette considerazioni, sia per la mancanza di tutti gli elementi
conviventi, in Aa. Vv., a cura di, Convivenza e situazioni di fatto,
in Ferrando, Fortino, Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, Milano, 2002, 836 ss.; Ferrando, Gli accordi di convivenza:
esperienze a confronto, in Riv. critica dir. priv., 2000, 163 ss.;
Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno restituiti alla fine della convivenza?, in questa Rivista, 2000, III, 284;
Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in questa Rivista, 1998, 183;
Amoroso, L’impresa familiare, cit., 82; Menghini, Lavoro familiare e lavoro nell’impresa familiare, cit., 79; Mazzocca, Rapporti
patrimoniali tra coniugi e tra conviventi, Milano, 1994, 127 ss.;
Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano,
1991, 156 ss.; G. B. Ferri, Qualificazione giuridica e validità delle
attribuzioni patrimoniali alla concubina, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1969, II, 403 ss. (ora in Saggi al diritto civile, Rimini,
998
costituitivi del rapporto di lavoro subordinato (14).
Secondo l’impostazione tradizionale, per tutelare le prestazioni lavorative rese da un convivente
a favore dell’altro, qualora esse non siano riconducibili all’area del rapporto di lavoro subordinato,
si dovrebbe invocare l’istituto dell’arricchimento
senza causa. Mentre nei rapporti familiari la presunzione di gratuità è stata superata dall’introduzione dell’art. 230 bis. c.c., per i conviventi il problema è rimasto. Tuttavia, così come per il matrimonio, anche nella convivenza le prestazioni lavorative sono condizionate dall’elemento dell’affectio e difficilmente possono esser ricondotte nell’ambito del lavoro subordinato. La dottrina e la
giurisprudenza più moderne sono orientate ad accantonare il rimedio dell’arricchimento senza causa e favorevoli ad un estensione analogica dell’ambito di applicazione della disciplina del lavoro
familiare. Indagando la ratio dell’art. 230 bis c.c.,
emerge che lo scopo della disciplina è quello di
eliminare gli abusi e gli sfruttamenti che in passato hanno caratterizzato le prestazioni di lavoro all’interno della famiglia. Le medesime situazioni si
possono ripresentare negli stessi termini anche tra
conviventi e dunque appare logica l’applicazione
analogica dell’art. 230 bis c.c. alla famiglia di fatto, in quanto la norma è rivolta a tutelare il lavoro reso all’interno di una comunità fondata sulla
solidarietà degli affetti (15).
La presunzione di gratuità del lavoro prestato a
favore del convivente prescinde dalla durata della
convivenza e dalla sua limitazione al periodo di
svolgimento delle prestazioni lavorative, bastando
una comunanza di vita e di interessi ad escludere
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e
quindi oneroso (16).
Come già detto, è ammessa la prova contraria
che deve essere rigorosa a precisa e deve dimostrare
la sussistenza della continuità del rapporto, della
1993, 123 ss.; Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nell’impresa familiare e famiglia di fatto, cit., 1831.
(13) Cass. 24 marzo 1977, n. 1161, in Riv. giur. lav., III,
1977, 1058.
(14) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, in Riv. giur. lav., III, 1977, 1058; Vacca, Le
prestazioni di lavoro nella convivenza more-uxorio, in Temi Romana, 1983, 238.
(15) Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in
Riv. dir. priv., III, 2000, 469; Bile, La famiglia di fatto: profili patrimoniali, in Aa. Vv., La famiglia di fatto, Montereggio, 1977, 91
ss.
(16) Cass. 7 giugno 1978, n. 2856, in Riv. dir. lav., 1980,
198.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
subordinazione e del c.d. animus contrahendi, ovvero la volontà delle parti di porre in essere un rapporto di lavoro subordinato (17).
Inoltre, la presunzione di gratuità non opera in
presenza di una semplice relazione sentimentale,
bensì occorre che tra le parti sia instaurato un rapporto di convivenza (c.d. famiglia di fatto), e che
sia rigorosamente dimostrata la comunanza di vita
e di interessi tra i conviventi con la partecipazione
effettiva ed equa delle parti alle risorse della famiglia di fatto (18).
Il diritto alla retribuzione non potrebbe essere
negato se le prestazioni lavorative fosse state rese
prima dell’inizio della convivenza così come nel
caso in cui la convivenza rappresenti solo un elemento secondario e accessorio rispetto alle prestazioni lavorative (19).
Più recentemente è stata superata la presunzione
di gratuità del lavoro nell’impresa del convivente,
ma si trattava di una collaborazione professionale
svolta in modo continuativo in cui era stata dimostrata l’attività svolta e l’assenza di un compenso
per la stessa (20).
Tale impostazione, che nega l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. al convivente, rendendo difficile
la tutela di queste situazioni, peraltro sempre più
frequenti con l’evolversi degli usi e dei modelli sociali, si scontra con la posizione tradizionale che riconosce l’esistenza di una presunzione di gratuità e
presuppone che sia fornita la prova della subordinazione, per niente agevole da fornire in tali circostanze (21).
4. L’evoluzione giurisprudenziale
e dottrinale più recente
La presunzione di gratuità dovrebbe ritenersi superata alla luce dell’art. 230 bis c.c. che, tutelando
il familiare prestatore d’opera, prevede per quest’ultimo una remunerazione del proprio lavoro, caratterizzata dal carattere dell’onerosità, consistente
nel diritto al mantenimento e alla partecipazione
agli utili (22).
Lo stesso dovrebbe valere per i conviventi more
uxorio, in quanto alla base della convivenza vi è la
(17) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1059.
(18) Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 278.
(19) Vacca, Le prestazioni di lavoro nella convivenza moreuxorio, cit., 240.
(20) Trib. Palermo 3 settembre 1999.
(21) Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno
Famiglia e diritto 11/2014
stessa comunanza di vita, di affetti e di interessi
che sottende al matrimonio e ciò dovrebbe condurre all’applicazione analogica dei principi che regolano la famiglia legittima alla famiglia di fatto, ma
si è obbiettato che, essendo l’art. 230 bis c.c., una
norma speciale, non è ammessa l’estensione del
suo ambito di applicazione. Tuttavia, la presunzione di gratuità è comunque superabile, anche per i
conviventi more uxorio, in virtù della norma stessa,
che ammette la possibilità di instaurare rapporti di
lavoro subordinato, in quanto per niente incompatibili con l’affectio coniugalis (23).
La dimostrazione dell’esistenza di un rapporto
di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio
non è per nulla agevole, tanto che pur in presenza
di prestazioni lavorative continuative nel corso
degli anni la giurisprudenza afferma che ciò non
basta a dimostrare la subordinazione in quanto tali circostanze non sono “indici rivelatori chiari ed
univoci di un assoggettamento al datore di lavoro
e al suo predominio gerarchico” e nemmeno il fatto che le prestazioni lavorative siano rese nell’interesse del datore di lavoro e nell’ambito della sua
organizzazione aziendale può di per sé comportare
la subordinazione, in quanto il rapporto personale
di due conviventi mal si concilia con l’esistenza
di una gerarchia sul piano lavorativo. Dunque, le
prestazioni rese da chi è sentimentalmente legato
al datore di lavoro escludono di per sé l’esistenza
di un rapporto di lavoro subordinato, mentre potrebbero configurare un rapporto di lavoro parasubordinato di collaborazione coordinata e continuativa, che comunque consentirebbe il superamento della tradizionale presunzione di gratuità (24).
Con il passare degli anni, parte della giurisprudenza, anche se ancora minoritaria, è arrivata ad
ammettere che l’attività lavorativa prestata a favore del convivente possa essere ricondotta alla
fattispecie delineata dall’art. 230 bis c.c., sulla base del presupposto che la famiglia di fatto è una
formazione sociale atipica costituzionalmente rilevante ex art. 2 Cost. La fattispecie dell’impresa
familiare ha carattere residuale, come si evince
dalla norma stessa che la disciplina. Lo scopo del
restituiti alla fine della convivenza?, cit., 284.
(22) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1063.
(23) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1064.
(24) Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), cit., 283.
999
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
legislatore è stato quello di coprire tutte quelle situazioni di prestazione d’opera lavorativa nell’impresa familiare che non corrispondono alla fattispecie di lavoro subordinato, in modo da ridurre
l’area del lavoro familiare gratuito. Pertanto, l’attività lavorativa svolta nell’impresa di un familiare, a cui corrisponde il pagamento di un compenso da parte del titolare, comporta il dover operare
una distinzione a seconda che si versi nell’ambito
di un rapporto di lavoro subordinato o in quello
della partecipazione all’impresa familiare. Tale
principio è pacificamente ritenuto valido anche
per la famiglia di fatto. Solo al di fuori di questa
ipotesi, la prestazione lavorativa resa a favore del
convinte rimane riconducibile a vincoli di solidarietà e di affettività e quindi caratterizzata dalla
gratuità. Tutto ciò risponde al tradizionale principio per cui la convivenza tra le parti di un rapporto di lavoro giustifica la presunzione di gratuità, sul presupposto che la prestazione lavorativa
sia resa affectionis vel benevolentiae causae, mentre
in caso di soggetti non conviventi, seppure legati
da affetto familiare o parentela, entra in gioco la
presunzione di onerosità del rapporto di lavoro.
Per poter estendere la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una
convivenza more uxorio, occorre dimostrare che vi
sia una comunanza spirituale ed economica analoga a quella che assiste il matrimonio, e che non
si tratti semplicemente di un rapporto affettivo e
sessuale, ma che abbia un certo grado di stabilità
e certezza tipico di una comunanza di vita e di interessi, e che vi sia un’effettiva partecipazione
della convivente alle risorse della famiglia di fatto. Una volta accertato ciò, tenendo conto dei limiti derivanti dalla disciplina dell’impresa familiare, opera la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in favore del convivente more uxorio, mentre grava su chi richiede il ricono-
scimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato, l’onere di provare in modo rigoroso
la sussistenza degli elementi costituitivi della subordinazione e dell’onerosità (25).
Diversamente, la convivenza sarebbe un fatto
del tutto irrilevante, in quanto accidentale e marginale (26).
Nello stesso modo, ove venga accertato il difetto
della convivenza tra le parti, e dunque sia da escludere l’operare della presunzione di gratuità, non
opera ipso iure la presunzione di segno opposto dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato,
che deve essere provato in modo preciso e rigoroso
nei suoi elementi costitutivi (27).
In conclusione, le prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio, rientrano tra le prestazioni di
cortesia e di solidarietà gratuite, salvo che venga
fornita la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare (28).
(25) Cass. 15 marzo 2006, n. 5632, con nota di Scarano, in
Fam. pers. succ., 2006, VIII-IX, 749; Stoppioni, Rapporto d’impresa familiare e convivenza more uxorio, in Fam. pers.
succ., 2006, XII, 995; Cass. 17 luglio 1979, n. 4221, con nota
di Paleologo, Novità in materia di lavoro della convivente more
uxorio?, in Riv. giur. lav., 1979, II-III, 891; Cass. 26 gennaio
2009, n. 1833, in Dir. prat. lav., 2009, 24, 1428; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3602; Cass. 3 luglio 2012, n. 11089.
(26) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 893.
(27) Cass. 2 agosto 2010, n. 17992, con nota di Lamberti,
Lavoro domestico “alla pari” e lavoro reso affectio vel benevolentia senza convivenza: rilevanza e prova della subordinazione, in Giur. it., 2011, III, 2331.
(28) Stoppioni, op. cit., 995; Cass. 6 agosto 2003, n. 11881,
in Mass. Giur. lav., 2004, 6, 62, in cui si precisa che la disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. si applica
solo alle imprese individuali mentre no si applica alle imprese
collettive e sociali in quanto non è configurabile la coesistenza
di un rapporto fondato sul contratto di società e uno derivante
da un vincolo familiare; contra: Cass. 19 ottobre 2000, n.
13861, con nota di Pinzone, Società di persone ed ammissibilità
della tutela ex art. 230 bis c.c. a favore de familiare di uno dei
soci, in questa Rivista, 2002, II, 162, e Cass. 23 settembre
2004, n. 19116, in Lav. giur., 2005, 3, 284, in cui si afferma
che “il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore
del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall’art. 230
bis c.c., anche se l’impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230 bis c.c. nei limiti della
quota societaria”.
(29) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione,
in Fam. pers. succ., 2011, II, 87.
1000
5. Conclusioni
Non è per niente semplice fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato
nell’ambito di un rapporto sentimentale intenso e
stabile, che si realizza nella convivenza tra due persone, data l’autorità che contraddistingue la figura
del datore di lavoro e la soggezione del lavoratore
al potere di questo. I due profili, quello professionale – autoritario e quello affettivo, sembrano inconciliabili e di certo non facilmente dimostrabili,
a meno di una invasione della sfera sentimentale e
della vita di coppia (29).
Il problema sorge alla fine della relazione sentimentale, quando emergono pretese economiche di
una parte nei confronti dell’altra per attività lavorative svolte in pendenza del vincolo personale.
Nulla quaestio invece nel caso in cui due persone
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
dichiarino di impostare il loro rapporto professionale come lavoro subordinato, stipulando apposito
contratto, indipendentemente dai legami personali. In quest’ultima ipotesi il rapporto di lavoro subordinato è effettivo e non può essere desunta
nessuna presunzione di gratuità dalla convivenza (30).
La presunzione di gratuità è automaticamente
esclusa in difetto di convivenza, peraltro, senza che
in tal caso operi la presunzione opposta di subordinazione e onerosità (31).
In realtà, sembra che venga data fin troppa importanza alla circostanza della convivenza, in
quanto ben vi possono essere legami affettivi seri,
stabili ed altrettanto intensi anche tra due persone
che non vivono insieme (32).
Il quesito a cui risponde la sentenza della Corte
d’appello di Bologna riguarda l’ammissibilità o meno di una qualificazione ex art. 2094 c.c. di comportamenti sorti originariamente in modo spontaneo e volontario.
La risposta è negativa, in quanto, se una persona
legata da vincoli affettivi ad un’altra svolge delle
prestazioni lavorative a favore dell’attività di quest’ultima senza mai percepire e richiedere alcun
compenso, emerge chiaramente la volontà di collocare tale comportamento al di fuori di un rapporto
di lavoro subordinato e non è possibile riportare a
posteriori nell’area del lavoro subordinato qualcosa
che ad essa non è mai appartenuto, proprio per
una scelta delle parti di quel rapporto, che erano
chiaramente mosse da fini del tutto diversi da quelli professionali (33).
Come già detto, l’elemento distintivo è dato dalla previsione o meno di un compenso, e se le prestazioni d’opera sono state rese volontariamente e
gratuitamente non fa differenza che tra la parti intercorra un legame di fidanzamento, innamoramento, convivenza o matrimonio (34).
Alla luce di ciò l’art. 230 bis c.c. dovrebbe ritenersi applicabile non solo alle convivenze more
uxorio, come già affermato dalla giurisprudenza sulla base di una lettura estensiva della norma, ma
anche a qualunque altro vincolo affettivo dotato
dei caratteri della intensità e stabilità, al fine di
evitare situazioni di sfruttamento economico fra
persone legate da vincoli sentimentali (35).
Pertanto, si ritiene che alla fine di una relazione sentimentale, qualora una parte chieda che
venga riconosciuta la natura professionale della
collaborazione antecedentemente prestata a favore del fidanzato, convivente o coniuge, non essendo possibile ricondurre la fattispecie nell’alveo del
lavoro subordinato, stante l’originaria gratuità e il
fine morale e di benevolenza, si debba applicare la
tutela prevista dall’art. 230 bis c.c., il cui presupposto è proprio la spontaneità della collaborazione (36).
In linea con la giurisprudenza e la dottrina più
recenti, le prestazioni lavorative rese nell’impresa
del convivente more uxorio, prive fin dall’origine
della collaborazione dei caratteri della subordinazione e dell’onerosità, non rientrano nella fattispecie del lavoro subordinato.
Tali prestazioni lavorative si presumono effettuate affectionis vel benevolentiae causa, quando rese in
modo non continuativo, volontario e gratuito.
Nel caso posto all’attenzione della Corte d’appello di Bologna, emerge che la stessa signora non
si è mai considerata una dipendente del bar- ristorante del convivente, tanto che la stessa non ha
mai chiesto prima di ricevere una remunerazione e
la fine della collaborazione è stata una conseguenza
automatica della fine della convivenza.
Pur non essendovi ostacoli alla configurazione
di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio, non può essere dichiarata l’esistenza di tale rapporto professionale a posteriori,
quando fino al protrarsi del legame sentimentale
non si sia mai avanzata alcuna pretesa e il comportamento delle parti sia tale da rendere evidente il carattere morale e la finalità di assistenza e di
solidarietà delle prestazioni lavorative rese a favore del convivente.
La convivenza è un fenomeno sociale in continuo aumento, le famiglie di fatto sono sempre più
numerose e, come nel matrimonio, il vincolo affettivo che lega le parti è stabile ed intenso, e, dunque, la questione non può rimanere priva di tutela,
ma dovrebbe essere disciplinata dal nostro legislatore al pari del matrimonio.
(30) Gragnoli,
ne, cit., 88.
(31) Gragnoli,
ne, cit., 93.
(32) Gragnoli,
ne, cit., 92.
(33) Gragnoli,
ne, cit., 93.
(34) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, cit., 92.
(35) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, cit., 94; Balestra, La famiglia di fatto, cit., 1047 ss.
(36) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione,
cit., 94.
Fidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazio-
Famiglia e diritto 11/2014
1001
Giurisprudenza
Diritto del lavoro
Anzi, non dovrebbe essere diversa nemmeno la
sorte dei fidanzati, stante l’identità di ratio che sottende la disciplina e il fatto che anche senza l’elemento della coabitazione, ben vi può essere un legame sentimentale forte e stabile, equiparabile a
quello tra conviventi e coniugi.
1002
In conclusione, si condivide l’applicazione per
analogia dell’art. 230 bis c.c. alle collaborazioni rese
dal convivente more uxorio, qualora le parti non
abbiano originariamente configurato il rapporto lavorativo come lavoro subordinato, caratterizzato per
sua stessa natura dal requisito dell’onerosità.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Adozione
Anonimato materno
TRIBUNALE PER I MINORENNI DI FIRENZE, sez. civile, 7 maggio 2014, ord. – Pres. Laera –
Rel. Pizzi
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’anonimato materno (Corte cost. n. 278/2013) che non prevedeva che il giudice potesse disporre, con le dovute cautele, le necessarie ricerche, onde verificare l’attuale volontà del genitore biologico dell’adottato, se avesse ancora interesse a mantenere l’anonimato sulla propria
identità, il Tribunale di Firenze, non ritenendo necessaria una nuova disposizione legislativa, trattandosi di diritti costituzionalmente tutelati derivanti dalla responsabilità genitoriale (art. 30 Cost.), accoglie il ricorso con
cui un’adottata chiede che il giudice voglia interpellare la madre biologica al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato, legittimando in tal modo l’istante ad accedere alle informazioni che lo riguardano.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non constano precedenti conformi
Difforme
Non constano precedenti difformi
Omissis
visto il ricorso con cui B. M. chiede che il T.M. voglia
“nelle forme che riterrà interpellare la madre biologica
dell’istante al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato a suo tempo imposto, in caso di revoca
concessa autorizzare l’istante ad accedere alle informazioni che riguardano l’identità della propria madre biologica”;
vista la sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013
che ha riconosciuto il diritto dell’adottato di verificare
se sia ancora interesse del genitore naturale mantenere
l’anonimato sulla propria identità;
ritenuto che la succitata sentenza produca conseguenze
immediate nella sfera dei diritti dell’adottato dando facoltà al medesimo di verificare se ci sia ancora interesse
del genitore naturale a mantenere l’anonimato sulla
propria identità;
P.Q.M.
Delega il giudice relatore a disporre, con le dovute cautele, le necessarie ricerche atte a verificare l’attuale volontà della madre biologica della ricorrente.
L’ADOTTATO ALLA RICERCA DELLA MADRE BIOLOGICA
di Vincenzo Carbone
Poiché la Corte costituzionale con sentenza del 22.11.2013, n. 278 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, come modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs. 30.6.2003, n.
296, che non riconosceva il diritto dell’adottato di verificare se sia ancora interesse del genitore naturale
a mantenere l’anonimato sulla propria identità, il Tribunale per i minorenni di Firenze, ritenuto che la sentenza produca effetti immediati nella sfera dei diritti dell’adottato, ha accolto il ricorso di un’adottata che
chiede di interpellare la propria madre biologica al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato,
accedendo alle informazioni che la riguardano.
1. Attuazione diretta della decisione della
Corte costituzionale da parte del Trib. min.
Firenze. Nuove proposte di legge
L’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Firenze merita di essere segnalata perché, a quanto
consta, e lo rendono noto anche i giornali (1), costituisce il primo provvedimento giudiziale, su richiesta di una signora adottata, alla ricerca della
madre biologica. Il Tribunale dà piena ed immediata attuazione alla sentenza della Corte costitu-
(1) Corriere della sera 14.8.2014, con il titolo Adottata, cerca
madre naturale. Il giudice ordina di rintracciarla.
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1003
Giurisprudenza
Adozione
zionale 22.11.2013, n. 278 (2), che ha riconosciuto
all’adottato, in funzione della responsabilità genitoriale sancita dall’art. 30 Cost., il diritto di accedere alle informazioni per identificare e interpellare la propria madre biologica al fine di accertare se
abbia ancora interesse a mantenere l’anonimato.
La rilevanza del provvedimento merita di essere
oggetto di attenta riflessione.
Infatti, l’ordinanza si sofferma, da una lato, sull’evoluzione del diritto vivente e sulle immediate
ripercussioni sullo stesso delle decisioni che abrogano precedenti disposizioni normative, specie se
contenenti divieti, ostativi a rapporti familiari e
personali, come tra i casi più recenti, quello deciso
da Corte cost. 10.6.2014, n. 162 (3) sull’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa in Italia,
praticata in molti altri paesi, ovvero quello deciso
da Corte cost. 11.6.2014, n. 170 sull’illegittimità
del divorzio non richiesto, ma imposto per legge,
nel caso di mutamento di sesso di uno dei coniugi,
per cui le parti possono proseguire il rapporto di
coppia (4), o ancora quello della richiamata Corte
cost. 22.11.2013, n. 278 che dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. 4.5.1983, n.
184, come modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs.
30.6.2003 n. 296, perché non prevede la possibilità
per il giudice, sul richiesta del figlio, di interpellare, con riservatezza, la madre che aveva chiesto l’anonimato, al fine di un’eventuale revoca della predetta dichiarazione di volontà. In tali casi, le sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale
delle norme che impedivano determinati comportamenti della persona fisica, sia come singolo che
come elemento della coppia, di carattere personale
e non patrimoniale - come ricerca della maternità
biologica o come fecondazione artificiale eterologa
anche in Italia, o come prosecuzione del rapporto
di coppia pur dopo il mutamento di sesso - producono effetti rilevanti ed immediati nella sfera giuridica del soggetto.
In base a questo primo e rilevante impatto si sottolinea che dopo l’incostituzionalità della norma
dichiarata da Corte cost. n. 278/2013, “nella sfera
dei diritti dell’adottato” sorge direttamente ed immediatamente la facoltà, prima vietata, di verificare se ci siano le condizioni per superare l’anonimato materno, così da poter conoscere la propria madre biologica. Una simile situazione è avvenuta anche dopo l’eliminazione del divieto di fecondazione
eterologa, così come riconosciuto dalla riunione di
tutte le regioni d’Italia (5), senza bisogno di una
nuova legge che concedesse la facoltà alla coppia
di ricorrere alla fecondazione eterologa, prima vietata con una norma, cancellata perché ritenuta incostituzionale.
In verità, occorre precisare che il Tribunale per i
minorenni di Firenze aveva già dimostrato una
spiccata sensibilità sulla problematica della ricerca
del genitore da parte dell’adottato. Infatti, con ordinanza 21.2.2003 (6) aveva dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7 comma, l. 4.5.1983, n.
184, nella parte in cui esclude la possibilità per l’adottato di accedere alle informazioni sulle proprie
origini, senza aver preventivamente accertato la
persistente volontà di non voler essere nominato
da parte del genitore biologico, in riferimento agli
artt. 2, 3 e 32 Cost.
Senonché, dopo l’ordinanza di rimessione del
Tribunale di Firenze del 2003, la norma contestata
fu modificata dall’art. 177, comma 2 del d.lgs.
30.6.2003, n. 196 e la Corte cost. con decisione n.
184 del 10.6.2004 (7), preso atto dell’intervenuta
modifica normativa, restituì gli atti al Tribunale
(2) Corte cost. 22.11.2013, n. 278, in questa Rivista, 2014,
1, 11 ss., con nota di Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato di conoscere le sue origini rispetto
all’anonimato materno, in Foro it., 2014, I, 4, con nota di Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla conoscenza delle origini, in Guida al dir., 2013, 49, 14, con nota di
Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile
ma la donna può decidere di restare nell’anonimato.
(3) È costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 3, legge
n. 40 del 2004, nella parte in cui stabiliva il divieto del ricorso a
tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, anche in presenza di patologie che siano causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili della fecondazione eterologa. La sentenza della Corte cost. è pubblicata in questa Rivista, 2014, 753, con nota di Carbone, Sterilità della coppia. Fecondazione eterologa anche in Italia.
(4) Sono incostituzionali gli artt. 2 e 4, l. n. 164 del 1982 nel
caso in cui non sia permesso ai due coniugi, in seguito al cambio di sesso di uno dei due, di mantenere in vita un rapporto di
coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza
registrata, sempre ove entrambi lo richiedano. La sentenza
della Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170, è pubblicata in Dir. e
giur. comm., 2014, 4, 1 ss., con nota di Carbone, Il marito cambia sesso. La rettifica dello stato civile impone il divorzio ma le
parti possono mantenere il rapporto di coppia.
(5) La notizia di un accordo delle Regioni che hanno approvato le linee guida della fecondazione eterologa, in La Stampa e
in La Repubblica del 3.9.2014.
(6) Trib. minorenni Firenze 21 febbraio 2003, in Foro it.,
2004, I, 975.
(7) Corte cost. 10 giugno 2004, n. 184, in Raccolta ufficiale, CXL, II, 2004, 697 ss.: A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 177, 2° comma, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, deve essere disposta la restituzione al giudice a quo, per un riesame della rilevanza, degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7° comma, l. 4 maggio 1983, n. 184, nel
testo sostituito dall’art. 24 l. 28 marzo 2001, n. 149, nella parte
in cui prevede che l’accesso alle informazioni non è consentito
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Giurisprudenza
Adozione
perché valutasse se, nel giudizio a quo, si dovesse
applicare il vecchio o il nuovo testo.
Il Tribunale per i minorenni di Firenze, con ordinanza 21.7.2004, ripropose il problema di costituzionalità, ma la Corte cost. con sentenza del
16.11.2005, n. 425 (8) dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28,
comma 7, l. 4.5.1983, n. 184 («diritto del minore
ad una famiglia»), nel testo modificato dall’art.
177, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 («codice in materia di protezione di dati personali»),
sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost.,
nella parte in cui escludeva la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle
origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata, da
parte della madre biologica.
Il Tribunale per i minorenni di Firenze (9) ne
prende atto, precisando però che l’adottato può accedere a qualunque atto relativo alle proprie origini, purché siano occultati il nome della madre ed
ogni altro elemento che possa riferirsi a persona
identificata direttamente o identificabile indirettamente. Si tratta di un’interpretazione evolutiva
che ha non poco influito sulla giurisprudenza successiva fino alla sentenza n. 278 del 2013 della
Corte costituzionale, tenuto anche conto delle ripercussioni della sentenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo del 25 settembre 2012, sul “Caso
Godelli” (10), che ha condannato l’Italia per il sistema rigido di protezione dell’anonimato materno,
a differenza di quello francese, più elastico, che
aveva evitato la condanna della Francia, nel “Caso
Odièvre” (11), affermando che il figlio, anche se
abbandonato e poi adottato, ha diritto ad avere informazioni sui propri genitori biologici, a cominciare dalla madre, diritto che tende a prevalere sull’anonimato della madre, specie dopo la l. n.
219/2012 che considera tutti i figli uguali senza distinzioni o aggettivi, essendo unica la responsabilità genitoriale.
Oltre al citato art. 30 della Costituzione, va richiamato anche l’art. 8 della convenzione europea
dei diritti dell’uomo, ai sensi del quale “qualsiasi
persona ha diritto al rispetto della sua vita privata
e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non è ammessa l’ingerenza di un’autorità
pubblica nell’esercizio di questo diritto, tranne che
nel caso in cui l’ingerenza medesima sia prevista
dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica è necessaria alla difesa nazionale,
alla sicurezza pubblica, al benessere economico del
paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei
reati, alla protezione della salute o della morale, o
alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.” (12).
Applicando questa norma a partire dal “Caso
Gaskin” (13) la Corte europea è sempre venuta incontro all’interesse del minore alla ricerca della
madre affermando che, nel caso di donna che abbia scelto di partorire nell’anonimato, occorre dare
delle possibilità al figlio, adottato da terzi e divenuto adulto, di chiedere l’accesso a informazioni
identificative sulle sue origini familiari, verificando
anche la persistenza della volontà della madre biologica di non voler essere identificata.
Tanto premesso, la tesi della decisione in commento merita di essere condivisa. Tuttavia occorre
se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo,
in riferimento agli art. 2, 3, 32 Cost.
(8) Corte cost. 16 novembre 2005, n. 425, in Raccolta ufficiale, CXLI, VI, 2005, 171 ss., in questa Rivista, 2006, 139, con
nota di Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente,
in Familia, 2006, 161, con nota di Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e
protezione del riserbo dei genitori biologici, in Fam., pers. e
succ., 2006, 884, con nota di Carletti, Accesso dell’adottato alle
informazioni sulle proprie origini: legittimo il divieto ove la madre
abbia dichiarato di non voler essere nominata, in Giur. cost.,
2005, 4602, con nota di Cozzi, La Corte costituzionale e il diritto
di conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo: un bilanciamento diverso da quello della CEDU?, in Giur. it., 2006,
1801, con nota di Marzucchi, Dei rapporti tra l’identità dell’adottato e la riservatezza del genitore naturale, in Nuova giur. civ.
comm., 2006, 545, con nota di Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: costituzionalmente legittimi i limiti nel
caso di parto anonima.
(9) Trib. minorenni Firenze 19.12.2007, in Foro it., 2008, I,
2038, in Famiglia e minori, 2008, 5, 76, con nota di Sansotta,
in Minori giustizia, 2008, 2, 360, e con nota di Specchio, Il diritto dell’adottato di accesso alle informazioni concernenti la propria origine: un’interpretazione evolutiva da parte del tribunale
minorile fiorentino.
(10) Corte europea diritti dell’uomo 25.9.2012, in Nuova
giur. civ., 2013, I, 103, con nota di Long; in questa Rivista,
2013, 537, con nota di Currò; in Giust. civ., 2013, I, 1597, con
nota di Ingenito; in Corr. giur., 2013, 940, con nota di Carbone,
Corte EDU: conflitto tra il diritto della madre all’anonimato e il
diritto del figlio a conoscere le proprie origini.
(11) Corte europea dei diritti dell’Uomo 13 febbraio 2003, in
Giust. civ., 2004, I, 2177, con nota di Piccinni, La Corte europea
dei diritti dell’Uomo e il divieto di ricerca della maternità naturale.
(12) Margaria, Parto anonimo e accesso alle origini: la corte
europea dei diritti dell’uomo condanna la legge italiana, in Minori giustizia, 2013, 2, 340; Arena, La corte europea dei diritti dell’uomo e il nostro diritto di famiglia: strutture portanti di una
strada in salita, in Stato civile it., 2014, 2, 16.
(13) Corte europea diritti dell’uomo 7.7.1989, in Foro it.,
1990, IV, 506.
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Giurisprudenza
Adozione
dar conto che sono state presentate in Parlamento
e precisamente alla Camera dei deputati sei proposte di legge sul problema dell’interpello della donna in ordine alla prosecuzione dell’anonimato materno. Le prime due sono precedenti alla sentenza
della Corte costituzionale del 22.11.2013, n. 278,
ma successive alla questione di costituzionalità sollevata Tribunale dei Minorenni di Catanzaro del
13 dicembre 2012 (14), e sono rappresentate dalla
proposta di legge n. 784 del 16.4.2013 (15) diretta
a chiedere ai genitori biologici “il loro consenso al
superamento dell’anonimato” e la proposta di legge
n. 1343 del 10.7.2013 (16) che prevede la possibilità di rinunzia all’anonimato materno.
Le altre quattro proposte di legge, di poco successive alla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, si riportano alla predetta decisione n.
278/2013, nonché a lla decisione Cedu del
25.9.2012 sul “Caso Godelli”, ma ritengono necessaria per consentire l’accesso al figlio adottato alle
informazioni sulle proprie origini, una nuova normativa che aggiorni l’art. 28 della l. 4.5.1983, n.
184 e successive modificazioni, sia pur nel rispetto
della persistenza del diritto all’anonimato materno,
con i limiti dovuti al possibile ripensamento della
donna. Inoltre, bisogna dare atto che, in due proposte di legge, si aggiunge per la prima volta anche
un nuovo, determinante, elemento normativo a favore del figlio per il superamento dell’anonimato
materno: il diritto dell’adottato di conoscere le
proprie origini quando abbia raggiunto l’età di quaranta anni.
Correttamente e opportunamente il Tribunale
per i minorenni di Firenze ha ritenuto di poter
operare, rispetto alla richiesta del cittadino a tutela
del suo diritto costituzionalmente protetto, senza
dover attendere modifiche legislative, applicando
immediatamente la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7, dell’art. 28 della l. 4.5.1983, n.
184, come modificato dall’art. 177, comma 2 del
d.lgs. 30.6.2003, n. 296, nei limiti della predetta
pronuncia di incostituzionalità, che riconoscere il
diritto dell’adottato di accedere alle informazioni
per identificare e interpellare la propria madre biologica onde accertare se abbia ancora interesse a
mantenere l’anonimato, senza dover attendere modifiche legislative.
La tesi adottata dal Tribunale di Firenze che ritiene non necessaria la modifica normativa per
rendere immediatamente operante la pronuncia
della Corte costituzionale, di abrogazione, totale o
parziale, di una norma che imponeva un divieto al
diritto del cittadino di conoscere le proprie origini,
si contrappone al richiamato indirizzo normativo,
significativamente segnalato, che emerge dalle
quattro proposte di legge presentate subito dopo la
richiamata decisione della Corte costituzionale e
cioè la proposta di legge n.1874 del
3.12.2013 (17), la proposta di legge n. 1901 del
19.12.2013 (18), la proposta di legge n. 1983 del
23.1.2014 (19), e, infine, la proposta di legge n.
1989 del 23.1.2014 (20), ispirate a modifiche normative come diretta conseguenza della pronuncia
della Corte costituzionale.
In due delle ricordate proposte si afferma che
“l’adottato non riconosciuto alla nascita”, raggiunti
i 25 anni, può chiedere al Tribunale dei minorenni
che ha pronunciato la sua adozione “di incontrare
la donna che lo ha partorito” ove “abbia precedentemente manifestato la propria disponibilità all’incontro” (proposta di legge n. 1989/2014). Ovvero
“che l’accesso alle informazioni è subordinato alla
rimozione del segreto” da parte della madre (proposta di legge n. 1874 del 3.12.2013).
Soltanto in altre due delle richiamate proposte
di legge compare, in particolare, un dato normativo, del tutto nuovo, rispetto alla sentenza della
Corte costituzionale, e cioè il diritto dell’adottato
a conoscere le proprie origini e l’identità dei genitori, nonostante l’anonimato materno, dopo aver
compiuto quaranta anni. Si legge, infatti, che l’adottato, superati i 25 anni, può accedere alle informazioni che riguardano le sue origini, tranne il ca-
(14) Tribunale dei minorenni di Catanzaro 13 dicembre
2012, in questa Rivista, 2013, 817, con nota di Gosso, Davvero
incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato?
(15) Camera dei deputati, proposta di legge n. 784 del
16.4.2013 da parte dei deputati Bossa, Murer, Argentin e
Sbrollini.
(16) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1343 del
10.7.2013 da parte dei deputati Campana, Amodio, Manzi.
Marroni e Mattiellio.
(17) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1874 del
3.12.2013 da parte dei deputati Marzano. Gribaudo, G.Guerini,
L. Guerini, Guerra, Iacono, Iori, Laforgia, Malpezzi, Martelli,
Martino, Morani, Nesi, Paris, Pastorino, Rotta, Rubinato, Tentori, Tinagli.
(18) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1901 del
19.12.2013 da parte del deputato Sarro.
(19) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1983 del
22.1.2014 da parte dei deputati Cesaro, Romano, D’Agostino,
Dambruoso, Galgano, Mazziotti di Celso, Molea, Rabino, Sottanelli Tinagli, Vecchio, Vargiu, Vezzali, Zanetti, Formisano,
Nesi, Nissoli.
(20) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1989 del
23.1.2014 da parte del deputato Rossomando.
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Adozione
so di diniego da parte della madre”, in tal caso “il
tribunale può autorizzare l’accesso alle informazioni
di carattere sanitario”... restando disponibile ad
una rimozione successiva da parte della madre naturale già interpellata” e precisando che “le informazioni sono dovute quando la madre risulta deceduta o irreperibile o incapace di intendere e di volere”, “e in ogni caso al raggiungimento del quarantesimo anno di età” dell’adottato (art. 1, commi
7 e 8, proposta n. 1983/2014). Anche nella proposta di legge n. 1901 del 19.12.2013 si legge che “in
ogni caso l’adottato, che non è stato riconosciuto
alla nascita dalla madre che non voleva essere
identificata, “al compimento del quarantesimo anno di età, accede liberamente ad ogni informazione
riguardante la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”.
Si tratta di due proposte di legge che non si sa
se diventeranno mai legge, ma era importante sottolinearne la sentita esigenza di rendere attuale e
operante il diritto dell’adottato a superare l’anonimato materno, introducendo nelle richiamate proposte un dato normativo del tutto nuovo, favorevole alla ricerca dei genitori biologici e in particolare della madre.
In definitiva, nel bilanciamento dei rispettivi diritti, tra quello dell’anonimato materno e quello
del minore procreato, ma non riconosciuto e non
curato - in violazione della responsabilità genitoriale che impone ai genitori il “dovere” oltre che il
“diritto” di “mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori dal matrimonio” - comincia ad
emergere, anche a seguito della nuova legge sulla
filiazione che ha introdotto il principio che tutti i
figli sono eguali senza distinzioni, il diritto del figlio, procreato e trascurato, perché nato al di fuori
del matrimonio, abbandonato e poi adottato, a conoscere chi lo ha biologicamente fatto nascere,
specie oggi che i progressi della scienza consentono, attraverso il DNA, di accertare, attraverso il richiamo cromosomico, i genitori biologici effettivi.
2. Una breccia nel diritto all’anonimato
materno nel contesto evolutivo della
famiglia
Al di là del ricordo di Edipo figlio adottivo e re
carismatico, che nella tragedia di Sofocle (21), apprende l’orrenda verità sul suo passato di aver, sen(21) Luzzato, Tebe e Corinto: adozione e conoscenza delle
origini, in Minori e giustizia 2011, 74 ss.
(22) Grosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il
Famiglia e diritto 11/2014
za saperlo, ucciso il padre per poi generare figli con
la madre, bisogna prendere atto che la normativa
sul diritto all’anonimato materno, tuttora vigente
in Italia, ha radici antiche.
La ratio evidente era quella, sia di evitare l’aborto e dar vita al fanciullo di cui altri si sarebbero
presi cura e sostegno, allevandolo e dandolo, se richiesto, in adozione, sia di evitare di rovinare la reputazione ad una giovane ragazza o ad una donna
sposata. Su queste basi la società civile, d’accordo
con la chiesa che ripudiava l’aborto, si occupava
dei minori abbandonati e si può ricordare il regio
decreto legge 8 maggio 1927, n.798, convertito in
legge 6 dicembre 1928, n. 2838 (servizio di assistenza dei fanciulli illegittimi, abbandonati o esposti all’abbandono) (22), di poco precedente il primo concordato tra lo stato italiano e la chiesa cattolica dell’11 febbraio 1929, anche se si ribadiva,
sin da allora, quando la vita era più breve, una durata secolare dell’anonimato, con regole normative
già presenti nell’ordinamento dello stato civile del
9 luglio 1939, n. 1238.
I figli illegittimi, venivano abbandonati sulle
ruote girevoli, predisposte ed approntate dalla società civile dell’epoca, affidandoli ad altri soggetti
che li allevavano e accudivano, al di fuori della famiglia legittima con cognomi all’epoca diffusi come si è già ricordato nel precedente commento alla
sentenza della Corte cost. Corte n. 278/2013, ma
con la sofferenza dei figli illegittimi ben descritta
da Collodi nel 1881, con la creazione di Pinocchio
burattino di legno che manifesta le sofferenze e le
difficoltà di chi sarebbe voluto nascere figlio legittimo o il dramma di De Filippo, in cui Filumena
Marturano, non essendo stato ancora scoperto il
DNA, non dice al coniuge qual è il figlio procreato
con lui, in quanto, come dice oggi la legge
219/2012, tutti i figli sono uguali e senza differenze,
o infine Topolino senza figli per i problemi di Walt
Disney che, ritenendosi figlio illegittimo perché il
certificato di nascita non fu mai trovato, decise
che Topolino e consorte non avessero figli, optando per la soluzione dei nipoti.
La tutela dell’anonimato era compatibile nella
concezione precedente basata sulla sola famiglia legittima e sul far ricadere sui figli le colpe dei loro
genitori. Infatti, i figli, se nati al di fuori del matrimonio, venivano chiamati illegittimi e se del caso
adulterini (procreati al di fuori del matrimonio) o
segreto del parto in anonimato? in questa Rivista, 2013, 8/9,
822 ss.
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Giurisprudenza
Adozione
anche incestuosi (perché nati da rapporti tra consanguinei), mentre adulterino o incestuoso era il
rapporto orizzontale di coppia uomo-donna e non
quello successivo e verticale tra i due genitori che
dava luogo alla nascita del figlio che per tutta la
vita riportava come propria la colpa dei suoi genitori (si pensi alle sofferenze oltre che di Pinocchio,
di Leonardo da Vinci, figlio illegittimo del notaio
locale e di una contadina che non poteva andare a
scuola proprio perché nato fuori dal matrimonio).
Il diritto all’anonimato, dopo il richiamo nell’art. 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di
adozioni, è stato nel frattempo ulteriormente ribadito, sia dall’art.30 del d.p.r. 3 novembre 2000, n.
396, (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), in cui
testualmente si riconosce “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”, sia dall’art. 93,
comma 3 del t.u. d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali in
cui si afferma la validità della dichiarazione della
madre di non voler essere nominata (23) e si consente l’accesso al certificato di assistenza del parto
e alla cartella clinica solo dopo un secolo dalla loro
formazione, cioè quando non ricorre più alcun interesse del figlio, avendo superato “cento anni” per
conoscere la madre che, ove vivente, dovrebbe ormai essere ultracentenaria da almeno tre lustri.
Sull’evoluzione del diritto all’anonimato, ribadito dall’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983 in tema di
adozione, basta ricordare che è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevede la
possibilità per il figlio, adottato, di poter interpellare, attraverso il giudice, la madre naturale, sia ai fini di revocare l’anonimato materno, sia per motivi
di salute in relazione alle più moderne tecniche
diagnostiche collegate a ricerche di tipo genetico.
Infatti l’istituto dell’anonimato materno, collegato all’adozione, ha ricevuto in questi ultimi anni
interventi della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Caso Godelli, 25.9.2012) e della Corte costituzionale (20.11.2013, n. 278) che hanno aperto
una breccia nel sistema a tutela del diritto dell’adottato di conoscere, quanto meno, se la madre voglia confermare e mantenere la dichiarazione di
volontà di restare anonima.
In realtà, in questi ultimi tempi, si va delineando, il superamento delle ragioni che hanno, in passato, militato a favore del segreto sull’identità del
genitore biologico (24), nel contesto di una profonda trasformazione della famiglia dal modello patriarcale a quello nucleare in cui i singoli acquistano sempre più rilievo, per cui la giurisprudenza ricorre, nei momenti di crisi, alla solidarietà familiare e post-familiare (25).
La crisi dell’anonimato materno ed i nuovi sviluppi della responsabilità genitoriale fanno parte
del diritto di famiglia, un settore giuridico che si
modifica ed aggiorna con grandi difficoltà, spesso
solo con il ricambio generazionale, applicando vecchie regole e vecchi brocardi, nonostante l’accertato mutamento del contesto, anche per le intervenute scoperte scientifiche -si pensi al DNA- per
cui legislatori e interpreti rinviano il cambio delle
regole e si richiedono liberi spazi di riflessione per
guadagnare tempo: il cd. rechtsfreier Raum.
Bisognerebbe ricordare che solo alla fine degli
anni sessanta si svolsero a Roma incontri e dibattiti per stabilire se la riforma del codice civile, specie
dopo la Costituzione, con norme precettive e non
programmatiche, dovesse essere totale, esaminando
tutti i settori giuridici o bastasse, secondo l’opinione che prevalse, una revisione, un aggiornamento
con la riforma parziale del solo libro I, sulla famiglia (26).
Ne conseguì una prima riforma del diritto di famiglia, ricca di ben 240 articoli - dopo trentatré
anni dal codice civile del 1942, e ventisette anni
dalla Costituzione del 1948 - che modificò il libro
primo del codice civile introducendo disposizioni
in favore della parità uomo-donna, in presenza di
un’uguaglianza “morale” e non solo “giuridica”
(art. 29, comma 2, Cost.), ancorata alla famiglia
legittima. È interessante notare che si pervenne al
riconoscimento dei figli adulterini, ma non di quelli incestuosi, per i quali si è dovuto attendere altro
tempo fino alla legge n. 219/2012 che ha previsto
anche il riconoscimento di questi ultimi.
Sempre in quest’ottica di interventi legislativi,
occorre dare atto degli articoli 6 e 12 del decreto
legge 12.9.2014, n. 132 (in Gazz. uff. n. 212 del
2014) in discussione al Senato per la conversione
(23) Caggia, I trattamenti dei dati sulla salute, in Cuffaro ed
altri, Il codice del trattamento dei dati personali, Torino, 2007,
437.
(24) Restivo, L’art. 28 l. adozione tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, 691.
(25) Carbone, Crisi della famiglia e principio di solidarietà, in
questa Rivista 2012, 1165.
(26) Gli atti furono pubblicati a cura di De Cupis, Giorgianni,
Torrente, La riforma del codice civile, Roma, 1966. Sul punto
cfr. anche Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giur.
it., 1968, IV, 205 ss.; Sacco, Il codice civile: un fossile legislativo? in Tratt. Sacco, Le fonti del diritto italiano, I, Le fonti scritte,
Torino, 1998, 441 ss.
1008
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Adozione
in legge (atto Senato n. 1612 rel. Cucca), si tenta
di introdurre forme semplificate di separazione e
divorzio, se non ci sono figli minori, in modo da
concludere separazione o divorzio con l’aiuto degli
avvocati e senza l’intervento dei giudici o direttamente dai soli coniugi innanzi all’ufficiale di stato
civile (27).
Non è stato ancora risolto il problema del cognome coniugale, se dev’essere quello maschile, secondo tradizione o dev’essere scelto dalle parti com’è
diversamente disciplinato negli altri Paesi (28), tanto è vero che l’Italia è stata condannata dalla Corte
Europea dei diritti dell’Uomo, con decisione del
7.1.2014 (29). L’Italia però ha preso atto del richiamo e nello stesso anno, la Camera dei Deputati ha
approvato, a scrutino segreto, il 24.9.2014, il testo
unificato delle varie proposte di legge (30) in materia di attribuzione del cognome ai figli. Le modifiche più significative concernono: a) l’introduzione
dell’art. 143 quater che lascia liberi i genitori, come
il già ricordato § 1355 del BGB (Bürgerliches Gesetzbuch) di stabilire il cognome del figlio sull’accordo delle parti, indicando il cognome del padre o
della madre o di entrambi in ordine alfabetico; b) la
modifica dell’art. 262 del c.c. in tema di cognome
del figlio nato fuori dl matrimonio, nel senso che se
il riconoscimento dei genitori naturali è contemporaneo si applica l’art. 143 quater, come per i figli
nati dal matrimonio, se invece il riconoscimento è
fatto da un solo genitore ne assumerà il cognome.
Nell’ipotesi di riconoscimenti successivi, il secondo
si aggiungerà al primo, con il consenso del genitore
che per primo ha effettuato il riconoscimento e dello stesso figlio se ha compiuto i 14 anni di età; c) la
modifica dell’art. 299 c.c., nel senso che l’adottato
assume il cognome dell’adottante e lo antepone al
proprio, con la precisazione che se ha due cognomi,
indica quale cognome intende mantenere; d) una
particolare disciplina procedurale è prevista per la
scelta del cognome da parte del figlio maggiorenne
cui era stato attribuito un solo cognome nel senso
che può aggiungere il cognome dell’altro genitore
con una dichiarazione resa personalmente all’ufficiale dello stato civile o con una dichiarazione con sottoscrizione autenticata.
In proposito è opportuno rilevare che, mentre in
tema di cognome coniugale, per la filiazione in costanza di matrimonio, siamo in attesa che diventi
legge la proposta approvata dalla Camera, in prima
lettura, ed ora inviata al Senato, regole diverse erano applicate dalla giurisprudenza sul cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, quando la madre riconosce per prima il figlio e il successivo tardivo riconoscimento paterno poteva non essere considerato nell’interesse del figlio (31), ed ora siamo in attesa dell’entrata in vigore della progettata e richiamata modifica all’art. 262 c.c., approvata dalla Camera.
La verità è che il diritto di famiglia non riesce a
conformarsi al mutato contesto in cui opera, tant’è
che per porvi rimedio il legislatore ha effettuato –
dopo un’altra generazione (circa trent’anni) - una
seconda riforma del diritto di famiglia all’insegna
del principio “tutti i figli sono uguali senza aggettivi” con la l. 10.12.2012, n. 219 (32) e successivamente con il d.lgs. 28.12.2013, n. 154 (33), senza
però coerentemente riconoscere il diritto del figlio
a conoscere i propri genitori, specie la madre, di
cui invece la legislazione ordinaria continua a ribadire il diritto all’anonimato tranne le ricordate proposte di legge n. 1983/2014 del 22.1.2014 e n.
1901/2013 del 19.12.2013.
(27) Danovi, Il D.L. n. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in questa Rivista, 2014, 10, 949 ss.; Consolo,
Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sull’equivoco della
“degiusidizionalizzazione”, in Corr. giur. 2014, 10, 1173 ss.
(28) Il § 1355 del BGB stabilisce che sono i coniugi a scegliere il cognome coniugale. Anche in Francia dal 2003 il cognome non deriva dal matrimonio e non si trasmette dal padre
ai figli. Nella Spagna, la l. n. 40/1999 regola il cognome dei figli con la particolarità del “doppio cognome”.
(29) Corte europea dei diritti dell’uomo 7.1.2014 (Cusan e
Fazio c. Italia), in questa Rivista, 2014, 205 ss., con nota di Carbone, La disciplina italiana del cognome dei figli nati dal matrimonio.
(30) Atto Camera 360-1943-2044-2123-2407-2517.
(31) Cass. 5.6.2013, n. 14232, in questa Rivista 2013, 11,
961, con nota di Forte, La disciplina del cognome del figlio nato
fuori dal matrimonio.
(32) La riforma della filiazione, in questa Rivista 2013, 221
ss.; Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir.
civ., 2014, 1 ss.
(33) D.lgs. 28 dicembre 2013, n.154: completata la riforma
della fiiazione, in questa Rivista, 2014, 5, 427 ss.
(34) Palazzo, La filiazione, in Tratt. Cicu Messineo Mengoni
Schlesinger, Milano, 2007, 177 ss.
(35) Trucco, Anonimato della madre versus «identità» del figlio davanti alla corte costituzionale, in Dir. inf. e inf., 2006, 107
ss., specie 113.
Famiglia e diritto 11/2014
3. Come in altri Paesi, anche in Italia
emerge la responsabilità genitoriale per i
figli nati fuori dal matrimonio
Volendo procedere ad una sintetica comparazione (34) tra l’evoluzione di quanto accade in Italia
e negli altri Paesi europei occorre prendere atto
che l’anonimato è riconosciuto oltre che dall’Italia,
anche da Malta, Austria, Repubblica Ceca e Lussemburgo (35).
1009
Giurisprudenza
Adozione
In Francia, gli art. 341 e 341-1 del code civil o
code Napoleon, sono stati modificati con l.
8.1.1993 e poi con l. 23.1.2003, n. 93. Mentre la
prima modifica, attraverso l’art. 341-1 tendeva a ribadire la riservatezza materna, potendo la donna al
momento del parto chiedere che fosse mantenuto
il segreto sia sulla sua ammissione nella struttura
sanitaria sia sulla sua identità, con la legge successiva è stato creato un Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali, con la dovuta discrezione. Si è passati dal “parto anonimo” al “parto con
discrezione” (36) perché la donna viene sollecitata
a rimuovere con riservatezza il precedente anonimato, tenuto anche conto di possibili esigenze sanitarie. Significativa la creazione di un apposito organo indipendente formato da magistrati, da rappresentanti di associazioni ed esperti di rapporti
minorili, i quali tendono a stabilire un equilibrio
del rapporto madre-figlio, sollecitando, dopo tanto
tempo, la rimozione del segreto sull’identità della
propria madre con il consenso della stessa, evitando la persistenza di un diritto assolutamente discrezionale, contrario alla responsabilità genitoriale,
come quello di mettere al mondo un figlio nella
miseria e nella povertà, condannandolo per tutta
la vita all’ignoranza del rapporto genitoriale.
Spagna, Portogallo e Paesi Bassi riconoscono all’adottato il diritto a ricercare la madre e il padre
per conoscere i soggetti che hanno dato luogo al
rapporto biologico, come aspetto del diritto alla dignità umana e al libero sviluppo della persona (37).
In Gran Bretagna, il Children Act del 1989 ha
previsto che il minore adottato, attraverso appositi
registri, divenuto maggiorenne, abbia diritto ad
avere informazioni che lo riguardano (38).
La Germania ha respinto alcuni progetti di legge
sull’anonimato materno di fronte all’inequivoco testo del § 1591 del B.G.B. (Bürgerliches Gesetzbuch)
secondo cui “Mutter eines Kindes ist die Frau die es
geboren hat, cioè la madre di un figlio è la donna
che lo ha procreato. Si ribadisce così il principio di
diritto romano: Mater semper certa est.
La riflessione di diritto comparato rileva che
nella maggior parte dei paesi si tutela il diritto a
conoscere le proprie origini biologiche, come un
valore fondamentale dell’individuo avente ad oggetto lo sviluppo della propria personalità, detto
anche diritto all’identità personale (39).
Al contrario, in Italia si sono verificati contrasti
che hanno ritardato applicazione dell’art. 30, comma 1, della Costituzione che prevede il dovere e il
diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli “anche se nati fuori del matrimonio”, evitando che minori, assolutamente incolpevoli, siano
discriminati (40). Il concetto era ben chiaro ai costituenti ed è opportuno ricordare che già in sede
di assemblea costituente si fece presente la necessità di parificare i figli, senza distinzioni di sorta, affermando: “colui che mette al mondo dei figli assume il sacrosanto obbligo di mantenerli, istruirli ed
educarli siano legittimi o illegittimi” (41).
Non migliore sorte ha incontrato il comma 3
dell’art. 30 Cost., secondo cui la legge assicura “ai
figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica
e sociale” compatibile con i membri della famiglia
legittima, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha preferito non interferire, qualificando
siffatta norma, come programmatica e non precettiva, in quanto è la legge ordinaria a dover assicurare ai figli nati fuori dal matrimonio una tutela
giuridica e sociale “compatibile” con i diritti dei
membri della famiglia legittima (42). E l’ordinamento giuridico, solo dopo 64 anni dalla Costituzione del 1948, ha finalmente affermato, con l.
10.12.2012, n. 219 (43) e con il d.lgs. 28.12.2013,
n. 154 che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico senza aggettivi e senza discriminazioni di sorta,
principio al quale occorre dare immediata e piena
attuazione, in tutti i settori.
Dalle esposte considerazioni emerge che il contesto della vita familiare è profondamente mutato
per una pluralità di cause, dalle scoperte scientifiche (DNA e inseminazione eterologa) ai mutamenti di costume di vita sociale (si pensi alla moda
femminile quando la donna ebbe la possibilità di
(36) Il concetto espresso nella sentenza della Corte europea
dei diritto dell’Uomo, nel caso Odiévre, è illustrato in Palazzo,
La filiazione, cit., 186.
(37) Vale e Reis, The Right to Know One’s Genetic Origins, in
European Review of Private Law, 2008, 5, 779.
(38) Urso, L’adozione nel diritto anglo-americano fra problemi attuali e possibili opzioni per una riforma, in Riv. crit. dir. priv.
1996, 745 ss.
(39) Petrone, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano, 2004, 85; Renda, L’accertamento della maternità: anonimato materno e responsabilità per la procreazione,
in questa Rivista, 2004, 510, Marella, Il diritto dell’adottato a
conoscere le proprie origini biologiche, in Giur. it., 2001, 1768.
(40) Bessone, Commento all’art. 30 Cost., in Commentario
Branca, Bologna-Roma, 1976, 90 s.
(41) Crisafulli Paladin, Commentario breve della Costituzione, Padova, 1990, 211.
(42) Corte cost. 17.6.1987, n. 229, in Foro it., 1987, I, 2286,
con nota di Jannarelli e in Giust. civ., 1987, I, 2454.
(43) Carbone, Riforma della famiglia: considerazioni introduttive, in questa Rivista, 2013, 3, 225.
1010
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Adozione
acquistare, da sola, anche i tessuti con l.
17.4.1919) dalla parità non solo giuridica, ma anche morale, tra uomo e donna secondo l’art. 29
Cost. alla responsabilità genitoriale anche per i figli nati fuori del matrimonio sancita dall’art. 30
Cost., per cui occorre che giudici ed interpreti ne
tengano conto sulla base dell’insegnamento della
Corte Costituzionale che si basa, non sul testo letterale della disposizione emanata dal legislatore,
ma sull’evoluzione giurisprudenziale della stessa, su
come la disposizione sia divenuta norma attraverso
l’interpretazione e le applicazioni concrete, specie
da parte del giudice di legittimità (44).
Si perviene «all’interpretazione adeguatrice delle
norme ordinarie» cioè al «diritto vivente», evocato
nelle richiamate decisioni del giudice delle leggi,
come «attualizzazione» della legge per il tramite
dell’interpretazione «costituzionalmente orientata»
da parte della giurisprudenza (45). Oggi l’interpretazione è costituzionalmente e comunitariamente
“orientata”, così come voluta dall’art.117 Cost. dopo la modifica del 2001, (cfr. anche l’art.1 del nuovo codice del processo amministrativo del 2010),
rendendo più attenta e sensibile l’opera dell’interprete che deve tener conto del mutato contesto in
cui va ad operare, sebbene il testo normativo sia rimasto immutato, perché secondo l’insegnamento
bettiano (46), il “diritto non é ma si fa”.
4. Considerazioni conclusive
In conclusione, la tesi dell’anonimato materno,
all’epoca maggioritaria, perché basata sull’impossibilità di parificare i figli nati fuori dal matrimonio
ai figli legittimi, per i quali v’è sempre stato “un
rapporto di parentela tra filiazione e famiglia legittima”, appare in contrasto sia con l’art. 30 della
Cost. sulla genitorialità responsabile, sia con nuova
legge 10.12.2012, n. 219, che ha introdotto il dovere di assicurare la stessa tutela giuridica e sociale
a tutti i figli, senza distinzioni di sorta, in quanto
frutto di uno stesso rapporto biologico genitore-figlio che non può essere differenziato, ponendo a
carico e a danno dei figli, nati fuori del matrimo(44) Corte cost. 10.2.1981, n. 11, in Racc., 1981, LVII, 67
ss., ma già Corte cost. 11.12.1974, n. 276, ivi, 1974, XLII, 427
ss. Da ultimo, Corte cost. 12.12.2011, n. 338, ribadisce che
l’interpretazione giurisprudenziale della Cassazione «costituisce, pertanto, «diritto vivente» del quale si deve accertare la
compatibilità con i parametri costituzionali evocati».
(45) Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, 111;
Morelli, La funzione di orientamento ermeneutica della norma costituzionale e l’interpretazione adeguatrice delle norme ordinarie,
in Id., Funzioni della norma costituzionale, Urbino, 2000, 27 ss.
Famiglia e diritto 11/2014
nio, le turbative del rapporto di coppia che non
devono incidere su quello genitoriale.
Il principio cardine della nuova legge, per cui
“tutti i figli sono uguali”, senza aggettivi, riconosce al figlio naturale il diritto, già sancito dall’art.
30 Cost., di poter avere notizie della madre che lo
ha partorito, ricordandole i diritti che sulla stessa
incombono per il solo fatto della procreazione. La
responsabilità della madre per il fatto della procreazione ed il diritto costituzionalmente protetto
del figlio “anche se nato fuori del matrimonio” è
appunto quello “di essere mantenuto, istruito ed
educato dai genitori” a cominciare dalla madre (47). Non a caso in due delle proposte di legge, presentate subito dopo la decisione della Corte
cost. n. 278/2013, si offre un nuovo elemento di
equilibrio tra il vecchio diritto all’anonimato e la
responsabilità genitoriale della madre che ha partorito il figlio, affermando che “in ogni caso l’adottato, che non è stato riconosciuto alla nascita
dalla madre che non voleva essere riconosciuta”
“al compimento del quarantesimo anno di età, accede liberamente ad ogni informazione riguardante la sua origine e l’identità dei propri genitori
biologici”.
Del resto, sia la giurisprudenza che lo stesso legislatore prendono atto della trasformazione della famiglia dal modello patriarcale a quello nucleare in
cui i singoli acquistano sempre più rilievo, con ricorso alla solidarietà familiare e post-familiare. Lo
si evince dalle modifiche normative, come quella
del titolo IX del libro primo delle persone e della
famiglia del c.c. Il titolo dal 1942 al 1975 era “Della patria potestas” (48), dopo la prima riforma del
diritto di famiglia (l. n. 151/1975), diventa “Della
potestà dei genitori” con durata dal 1975 al 2012
ed ora, dopo l’art. 1, comma 6, l. n. 219/2012, in
funzione della responsabilità genitoriale e dei diritti dei figli senza aggettivi, il titolo è stato riscritto:
“Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri dei
figli”. Significative di tale mutamento le richiamate recenti decisioni della Corte europea dei diritti
dell’Uomo, come quella (7.1.2014) che condanna
l’Italia perché i coniugi non possono scegliere il
(46) Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici,
Milano, 1949, 17 e 34, ove si afferma che l’attività interpretativa di un “testo” normativo necessita di tener conto dell’evoluzione anche sociale ed economica del mutato “contesto”.
(47) Bessone, Comm. della Cost. a cura di Branca, sub art.
30, cit., 108 ss.
(48) Finocchiaro, Responsabilità genitoriale: dal 1 marzo
2005 va «in soffitta» l’istituto della patria potestà, in Guida al
dir.- Dir. comunitario e internaz., 2005, 1, 9.
1011
Giurisprudenza
Adozione
cognome coniugale, o come il più volte richiamato
Caso Godelli (25.9.2012), nonché della Corte
cost. come quella più volte richiamata che interviene sulla possibilità per il figlio adottivo di iniziare le ricerche per c onoscere l e sue origini
(22.11.2013, n. 278), o quella sul superamento del
divieto di fecondazione eterologa in Italia
(10.6.2014, n. 162) o ancora quella sul mantenimento del rapporto di coppia, nonostante il mutamento di sesso di uno dei coniugi (11.6.2014, n.
170). Né vanno dimenticate le sezioni unite che,
con le sentenze gemelle, sez. un., 17 luglio 2014,
nn. 16379 e 16380, hanno precisato che il riconoscimento del matrimonio-rapporto, di natura civili-
stica, è ostativo all’efficacia in Italia della sentenza
ecclesiastica di nullità del matrimonio-atto.
Mutamenti notevoli che ribadiscono la grandezza dell’insegnamento di Jhering (49) secondo cui
non si deve credere “all’immutabilità dei concetti
giuridici” sorti in certi periodi storici, ed ancorati a
concezioni, costumi, modi di vita, ormai superati,
nonché in contrasto con principi costituzionali,
perché l’immutabilità “è un’idea totalmente immatura che testimonia un’assenza completa di spirito
critico” consentendo al giurista di superare l’esame
facendo passare i concetti nella “macchina spaccacapelli” (50) che consente di tagliare un capello in
999.999 parti eguali.
(49) Jhering, Della culpa in contrahendo, con trad. e pref. di
Procchi, Napoli, 2005, XXVIII, ed ivi note 47 e 48; Larenz, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, trad. it. Storia del metodo
nella scienza giuridica, Milano, 1988, 60 s.
(50) Jhering, Scherz und Ernst in der Jurisprudenz, trad. it.,
Serio e faceto nella giurisprudenza, Firenze, 1954, 280 s.
1012
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Processo civile
Prescrizione
TRIBUNALE DI ROMA, sez. I civile, 1° aprile 2014 – Pres. Crescenzi – Rel. Albano - G.C. c.
N.G.C.
La prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata.
La prescrizione della domanda di risarcimento del danno conseguente al mancato riconoscimento ed alla violazione dei doveri genitoriali decorre dal momento in cui il figlio raggiunge l’indipendenza economica.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Difformi
Cass. 30 luglio 2010, n. 17914; Cass. 3 novembre 2006, n. 23596
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato gli attori
esponevano che dall’agosto 1963 al giugno 1964 la sig.ra M. G. aveva avuto una relazione con il sig. G. C.
N., frequentandosi a Treviglio dove la sig.ra G. lavorava, mentre il sig. N. lavorava a Milano; che nella primavera del 1964 la sig.ra G. si era accorta di essere incinta e lo aveva comunicato al sig. N. il quale aveva
opposto un netto rifiuto in ordine all’assunzione di
qualsiasi responsabilità nei confronti del nascituro; che
la sig.ra G. si era rivolta ai parenti del sig. N. ed al parroco perché intercedessero con il padre del bambino affinché si assumesse le proprie responsabilità, non ottenendo alcun risultato; che il sig. N. non aveva riconosciuto il figlio e nel febbraio 1965, quando la sig.ra G.
gli aveva inviato due fotografie del neonato, egli aveva
risposto contestando recisamente ogni richiesta; che al
momento della nascita del sig. G., il sig. N. aveva una
relazione con un’altra donna che sarebbe successivamente diventata, ed era tuttora, sua moglie; che la sig.ra
G., quando il figlio aveva compiuto 14 anni, gli aveva
riferito che il sig. N. era il suo padre biologico; che a seguito della maternità la sig.ra G. era stata isolata dalla
sua famiglia d’origine (la nuova moglie del padre della
sig.ra G. era parente del sig. N.); che la sig.ra G. aveva
sempre provveduto da sola al figlio; che la sig.ra G. non
aveva intentato alcuna azione nei confronti del presunto padre naturale stante le difficoltà frapposte dall’ordinamento negli anni sessanta all’accertamento della paternità naturale.
Chiedevano quindi venisse dichiarato che il sig. G. era
figlio del sig. N., permettendo la conservazione del cognome G., in quanto segno distintivo della persona dell’attore, senza menzione del cognome del padre; nonché
la condanna del sig. N. alla restituzione della metà delle
somme anticipate dalla madre per il mantenimento del
figlio dalla nascita fino al raggiungimento dell’indipendenza economica (a 31 anni di età) - quantificate in €
174.573,07 - nonché al risarcimento del danno esistenziale subito da entrambi a causa del mancato riconoscimento, quantificato in € 250.000,00, per il sig. G. G.,
Famiglia e diritto 11/2014
ed in € 80.000,00 per la sig.ra M. G., e del danno morale equitativamente determinato.
Si costituiva il convenuto contestando di avere mai intrattenuto una relazione sentimentale con la sig.ra M.
G., tanto più che all’epoca era fidanzato con la donna
che sarebbe divenuta sua moglie, anch’essa residente a
Milano, nonché il valore probatorio dei documenti prodotti in ordine ad una sua presunta paternità. Esponeva,
inoltre che l’enorme ritardo con il quale la domanda
era stata proposta militava per la sua infondatezza ed eccepiva in ogni caso la prescrizione di ogni diritto connesso all’accertamento giudiziale della paternità, ritenendo incostituzionale l’interpretazione che faceva decorrere il termine di prescrizione dal pronunciamento
giudiziale sulla paternità, posto che, nonostante il diritto al mantenimento maturi con la nascita, nessuna richiesta in tal senso era mai pervenuta al convenuto, anche secondo la tesi prospettata dagli attori, almeno dal
febbraio del 1965, né dalla madre né dal sig. G. dopo il
compimento della maggiore età.
La prova orale proposta dall’attore veniva rigettata, in
quanto in parte vertente su valutazioni e non su fatti
specifici, in violazione dell’art 244 c.p.c., ed in parte irrilevante ai fini del decidere, e veniva disposta C.T.U.
sulle persone dell’attore e del convenuto. Il convenuto
rifiutava di sottoporsi al prelievo biologico adducendo
la volontà di non turbare la stabilità e serenità della
propria famiglia.
Non può ritenersi che la documentazione prodotta in
giudizio da parte attrice costituisca di per sé prova del
rapporto di filiazione tra il sig. N. ed il sig. G. I documenti prodotti in giudizio nulla dimostrano in merito: i
documenti provenienti da terzi, non confermati attraverso una testimonianza in giudizio che non è stata richiesta, non hanno alcun valore probatorio, non essendo certa la provenienza. In ogni caso nessun elemento
di prova può trarsi dal loro contenuto trattandosi di
neutri biglietti di auguri per la nascita o di presa d’atto
di affermazioni dell’attrice in ordine alla paternità del
figlio. Le due lettere sottoscritte dal sig. N. e da questi
non disconosciute nulla provano in merito, in quanto,
1013
Giurisprudenza
Processo civile
senza accennare a presunte paternità, si limitano a rifiutare qualsiasi possibilità di incontro con la sig.ra G., negando che vi fossero spiegazioni da dare ed invitando
quest’ultima a smettere di importunarlo.
La prova testimoniale articolata era inammissibile e per
questo è stata rigettata. In ogni caso sarebbe stata irrilevante in quanto inidonea a fornire prova della sussistenza della relazione tra il sig. N. e la sig.ra G.
Posto che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, deve escludersi qualsiasi subordinazione dell’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici
all’esito della prova storica sull’esistenza di un rapporto
sessuale tra il presunto padre e la madre di quest’ultimo,
giacché il principio della libertà di prova, sancito, in
materia, dall’art. 269, secondo comma, c.c., non tollera
surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una
sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei
a dimostrare la paternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione,
a seconda del tipo di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge (v. Cass. sez. I, n. 14976 del
2.7.200).
Il Collegio ritiene del tutto condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale “le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di
esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere
decisivo il loro contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati
dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza (cfr. Cass. 29 maggio 2008, n. 14462, App. Milano
9.11.2001, cfr. anche Corte Cost. n. 266/2006 con riguardo all’art. 235 c.c.), orientamento pienamente confermato dalla riforma introdotta con il d.lgs. n. 154 del
2013. Le indagini ematologiche e genetiche possono
fornire decisivi elementi di valutazione non solo per
escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico
di paternità (v. Cass., sez. I, n. 15568 del 2011); a volte
unico possibile elemento di prova a disposizione della
parte in considerazione della difficoltà di fornire prova
dell’esistenza di relazioni intime e riservate.
Nel caso di specie, poi, stante il tempo trascorso era oltremodo difficoltoso offrire una prova testimoniale dell’esistenza della relazione tra il sig. N. e la sig.ra G.
Ferma l’inviolabilità della persona e l’incoercibilità del
prelievo medesimo, nel giudizio diretto ad ottenere una
sentenza dichiarativa della paternità o della maternità
naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini
ematologiche costituisce un comportamento valutabile,
da parte del giudice, ai sensi del già citato art. 116
c.p.c., comma 2, anche in assenza di prova di rapporti
sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di
prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente
acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti
intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del
preteso genitore naturale, se non consente di fondare la
dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della
madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre
1014
all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto
dell’art. 269 c.c., ultimo comma), non esclude che il
giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova
dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti
ed, in particolare, dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, potendo persino trarre
la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale di quest’ultimo, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione
con le dichiarazioni della madre (Cass. n. 18224 del
2006, v. anche Cass. n. 9307/1997, cit.; Cass. 22 ottobre 1997, n. 10377; Cass. 24 gennaio 1998, n. 692;
Cass. n. 2749/2002, cit.; Cass. 27 febbraio 2002, n.
2907; Cass. n 2640/2003, cit.; Cass. 24 marzo 2006, n.
6694). Non può, infatti, negarsi che di fronte ad un’indagine tecnica risolutiva, il rifiuto volontario di sottoporvisi da parte di un soggetto capace di autodeterminarsi è il frutto di una scelta non coercibile, ma certamente suscettibile di essere valutata ai sensi dell’art.
116 c.p.c. in modo tendenzialmente coerente con il grado di efficacia probatoria dell’esame, e non alla stregua
di un qualunque altro comportamento processuale omissivo della parte. (Cass. 19.7.2013, n. 17773; Cass. n.
12971 del 2012).
D’altro canto, alla luce del rifiuto di sottoporsi all’esame
ematologico da parte del Natale, gli elementi indiziari
forniti dagli attori, sebbene non univoci, possono concorrere ad integrare il quadro probatorio.
La domanda di dichiarazione giudiziale di paternità deve, pertanto, essere accolta ed il sig. G. deve essere
autorizzato a mantenere il cognome materno, divenuto
elemento costitutivo della propria identità fino all’età
adulta (l’attore ha oggi 50 anni), senza menzione del
cognome paterno.
La Corte di Cassazione ha affermato il principio interpretativo, condiviso dal Tribunale, per cui: “Quando la
filiazione naturale nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, al fine di decidere se attribuire
al figlio il cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, il giudice deve valutare,
ai sensi dell’art. 262 c.c., l’esclusivo interesse del minore, tenendo conto del fatto che è in gioco, oltre all’appartenenza del minore ad una determinata famiglia, il
suo diritto all’identità personale, maturata nell’ambiente in cui egli è vissuto fino a quel momento, ossia il diritto del minore ad essere se stesso nel trascorrere del
tempo e delle vicende attinenti alla sua condizione personale, e prescindendo, anche a tutela dell’eguaglianza
fra i genitori, da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome. Ne deriva che legittimamente
viene disposta l’attribuzione al minore, in aggiunta al
cognome della madre, di quello del padre, allorché il
giudice del merito, da un iato, escluda la configurabilità
di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione accrescitiva del cognome (stante l’assenza di
ima cattiva reputazione del padre e l’esistenza, anche in
fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio),
e, dall’altro lato, consideri che, non versando ancora
nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore,
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Processo civile
tuttora bambino, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare l’aggiunta del patronimico” (Cass.
5 febbraio 2008, n. 2751).
Il cognome, come parte del nome, è, infatti, sempre meno strumento di ordine pubblico e sempre più bene morale della persona, rappresentando elemento costitutivo
dell’identità personale e quindi oggetto di un vero e
proprio diritto tutelato a livello costituzionale.
La sig.ra G., propone domanda di regresso in ordine alle
spese di mantenimento sostenute fin dalla nascita ed
entrambi gli attori domandano il risarcimento del danno subito per il mancato riconoscimento.
Il convenuto eccepisce la prescrizione.
Tale domanda è ormai unanimemente ritenuta proponibile anche nel giudizio teso ad accertare il rapporto di
filiazione (v. Cass., sez. I, n. 17914 del 2010).
La questione relativa alla decorrenza del termine di prescrizione per l’azione di regresso, e di risarcimento del
danno da “mancato riconoscimento”, in caso di dichiarazione giudiziale di paternità è questione da molto
tempo dibattuta.
La giurisprudenza della suprema Corte afferma che il
termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione in quanto il diritto di regresso non sarebbe in precedenza azionabile, presupponendo
la sussistenza del riconoscimento o del giudicato sullo
status (v, per tutte, Cass., sez. I, n. 23596 del 2006 e
Cass., sez. I, n. 10124 del 26 maggio 2004). Tale orientamento è stato criticato da buona parte della dottrina.
Si è da tempo affermato il principio che il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale dello status di figlio
hanno natura accertativa e, pertanto, spiegano i loro effetti anche per il passato, fin dalla nascita del figlio, in
particolare in ordine ai doveri previsti dagli arti. 147 e
315 bis c.c. (quest’ultimo introdotto dal d.lgs. n.
154/2013). L’orientamento prevalente attribuisce, poi,
natura di obbligazione solidale al dovere di mantenimento dei figli da parte dei genitori, con la conseguenza
che la domanda di un genitore volta a recuperare la
quota della quale sarebbe stato onerato l’altro genitore
viene qualificata come azione di regresso tra condebitori
solidali. In particolare nella pronuncia n. 23596 del
2006, la Suprema Corte ribadisce più volte il principio
per cui, solo e soltanto con l’attribuzione dello status di
figlio naturale (o a seguito di riconoscimento spontaneo, ovvero a seguito di dichiarazione giudiziale) sorgono i diritti ad esso legati; in tal senso, il riconoscimento
tornerebbe ad avere natura costitutiva, anche se ì suoi
effetti rimarrebbero dichiarativi, in quanto i diritti del
figlio (e gli obblighi dei genitori) dovrebbero comunque
retroagire fin dalla nascita.
La questione ha riflessi oltremodo rilevanti sulle singole
fattispecie e coinvolge problemi etici di non poco momento: da un lato appare ingiusto, attraverso l’applicazione della prescrizione, penalizzare il genitore che da
solo per anni, magari anche a costo di notevoli sacrifici,
si era fatto carico del figlio, a vantaggio del genitore
che se ne era sempre disinteressato; dall’altro il princi-
Famiglia e diritto 11/2014
pio affermato, che in quanto tale è di generale applicazione, può dar luogo a sua volta ad abusi, come messo
in luce dalla dottrina più accorta, a scapito della certezza dei rapporti giuridici.
La madre, ad esempio, potrebbe avere deciso di non agire per molti anni avendo scelto di non condividere la
genitorialità e di crescere il figlio da sola, ed il padre potrebbe non avere nemmeno mai saputo dell’esistenza di
un figlio frutto di un rapporto occasionale ed ormai anziano si vedrebbe chiedere tutto in un’unica soluzione,
con conseguenze economicamente molto più pesanti, se
non devastanti, rispetto all’adempimento periodico dell’obbligazione di mantenimento. Ma si pensi anche al
caso in cui il figlio maggiorenne (non economicamente
autonomo) decida - perché ritiene non conforme ai
propri interessi una pronuncia sullo status - di non promuovere l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, od, avendo compiuto i 14 anni (o nel vigore della
precedente normativa i 16) non dia il consenso al riconoscimento tardivo, la madre si troverebbe nell’impossibilità di proporre l’azione di regresso, almeno per gli ultimi dieci anni, e l’azione di mantenimento per il futuro.
E’ chiaro che il principio affermato dovrebbe trovare
applicazione anche in casi simili.
La suprema Corte, con le sentenze n. 10124 del 2004 e
n. 23596 del 2006, afferma la natura dichiarativa dell’accertamento di status, traendone delle conseguenze
che appaiono contraddittorie con la premessa: l’obbligo
di mantenimento sorgerebbe con la nascita, derivando
la responsabilità genitoriale dal fatto stesso della procreazione (così anche Cass. n. 5652 del 2012), tuttavia
solo dall’attribuzione dello status di figlio (attraverso il
riconoscimento o la sentenza) deriverebbero gli effetti
tipici connessi dalla legge a tale status.
Di tale ultimo assunto è lecito dubitare, posto che logica conseguenza sarebbe che nei casi di figli non riconoscibili (divenute ipotesi solo residuali con la riforma
della filiazione) e di mancato assenso od autorizzazione
del giudice al riconoscimento tardivo, il padre biologico
non avrebbe alcun onere di mantenimento del figlio,
mentre è pacifico che così non è. Tanto più che l’art.
261 c.c., che stabiliva che il riconoscimento comportava l’assunzione di tutti i diritti e doveri del genitore verso i figli, è stato abrogato dal d.lgs. n. 154/2013, mentre
l’interpretazione analogica od estensiva dell’art. 279 c.c.
(che prevede il diritto al mantenimento anche quando
non sia possibile proporre l’azione per dichiarazione giudiziale di paternità o maternità) sarebbe impedita da
un’interpretazione come quella sopra richiamata. In
ogni caso, il testo della norma di cui all’art. 261 c.c.
non comportava certo che tali diritti e doveri fossero
esclusivamente connessi al riconoscimento e non al fatto stesso della procreazione.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6365 del
2004, ha, invece, affermato la possibilità di proporre l’azione contemplata dalla norma di cui all’art. 279 c.c.
anche qualora si trattasse di impossibilità sopravvenuta
a proporre l’azione di dichiarazione giudiziale di maternità o paternità, perché derivante dall’omesso esperi-
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Giurisprudenza
Processo civile
mento, nel termine di decadenza all’uopo fissato, dell’azione di disconoscimento del padre legittimo, qualora i
genitori legittimi non avessero i mezzi per provvedere
oppure qualora, per le circostanze del caso concreto da
accertare volta per volta, il figlio medesimo non potesse
comunque ottenere il mantenimento (o un sostegno
economico) dai genitori legittimi.
D’altro canto il tenore dell’art. 30 della Costituzione
non dovrebbe lasciare spazio a dubbi interpretativi in
ordine al fatto che l’obbligo del genitore di mantenere
il figlio consegua direttamente alla procreazione e non
all’attribuzione formale di uno status (v. Cass. n.
5652/2012 cit.). “Il precetto costituzionale “indirizza il
legislatore ad una regolamentazione del tema informata
al principio del dovere (nel senso di obbligo) del genitore di mantenere, istruire ed educare i figli in funzione
del solo fatto materiale della procreazione e senza alcun
vincolo con il riconoscimento formale della paternità o
maternità naturale; al principio, cioè, per cui il diritto
al mantenimento deve trovare la sua fonte immediata
nel fatto della procreazione e non nello status formale
di figlio naturale” (così Cass. n. 5633/1990, in motivazione). La medesima sentenza cosi prosegue: “Emerge,
inoltre, la presenza dell’art. 279 cod. civ. nel testo modificato dalla legge di riforma del diritto di famiglia, il
cui dettato - ove correttamente interpretato alla luce
della norma costituzionale appena richiamata - attribuisce al figlio naturale, una volta accertato incidenter
tantum il rapporto materiale di filiazione, il diritto al
mantenimento, all’istruzione e alla educazione, quand’anche non sia stato riconosciuto formalmente pur essendo ciò possibile e, quindi, indipendentemente dalla
qualifica formale dello status”. Se, dunque, il fatto materiale della procreazione naturale (accettabile anche
incidenter tantum e svincolato dal riconoscimento formale del relativo status) costituisce l’antecedente giuridico immediato delle azioni attribuite al figlio naturale
dall’art. 279, primo comma, c.c., e se questo dato è direttamente collegabile con l’art. 30, primo comma, della
Costituzione, non si rivela coerente con tale precetto
costituzionale un’interpretazione che riduca razionabilità di quei diritti ai soli casi in cui l’interessato sia venuto a trovarsi nell’impossibilità assoluta e originaria (e
non relativa, in quanto sopravvenuta) di proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità.” (Cass.
n. 6365/2004 cit.).
Le sentenze richiamate affermano, quindi, espressamente la possibilità di accertamento incidenter tantum del
rapporto di filiazione, a prescindere dall’accertamento
dello status, affermando un principio contrastante con
quello affermato dalle sentenze che affermano la decorrenza della prescrizione dal riconoscimento o dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Sulla possibilità di un accertamento incidenter tantum del rapporto di filiazione si è pronunciata anche Cass. n.
4325/2009: “il procedimento previsto dall’art. 250,
quarto comma, cod. civ. per conseguire dal Tribunale
una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso
al riconoscimento del figlio minore, da parte del genitore che abbia già effettuato tale riconoscimento, è volto
1016
esclusivamente ad accertare se il secondo riconoscimento risponde all’interesse del minore stesso, sicché in esso
resta irrilevante ogni indagine sulla veridicità del secondo riconoscimento, indagine - questa - che presuppone
il riconoscimento e che può essere svolta in separato
giudizio, ove il riconoscimento autorizzato a norma dell’art. 250 venga impugnato ex art. 263 cod. civ. Un siffatto accertamento non può essere quindi svolto nel
giudizio di cui all’art. 250, se non al limitato fine -in
presenza di contestazioni della controparte, di verificare,
ma solo ‘incidenter tantum’, la legittimazione attiva del
richiedente”.
Il fatto che le questioni di stato debbano essere decise
con efficacia di giudicato, atteso il loro carattere di assolutezza e la loro efficacia erga omnes, non incide sull’
argomento trattato in questa sede, che riguarda il concreto rapporto di filiazione in generale, posto che in alcuni casi la pronuncia sullo status non è nemmeno possibile.
Ma il rapporto di filiazione, ed alcune delle conseguenze
giuridiche connesse (quelle previste dall’art. 30 della
Costituzione, nonché dagli artt. 148 e 315 bis e 316 bis
c.c.), prescindono, come si è visto, dal riconoscimento
dello status di figlio. “Nel quadro normativo delineato
dall’art. 30 cost., dall’art. 279 cod. civ. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia,
l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato, incidenter
tantum, e non nello status formale di figlio naturale”
(Cass., sez. un., n. 5633 del 9.6.1990).
Qualora si ritenga che l’accertamento del rapporto di filiazione non possa essere effettuato in via incidentale,
ma solo con efficacia di giudicato, nulla vieta che il giudice adito per l’azione di regresso o per il mantenimento, qualora il convenuto contesti il rapporto di filiazione, nel caso in cui sussistano la sua competenza anche
per le azioni di stato e le condizioni soggettive (legittimazione attiva e passiva) ed oggettive perche si possa
pronunziare su di esse, possa giudicare anche sulla questione di stato e la decisione avrà carattere principale
ed efficacia di giudicato (v. Cass. n. 2220 del 4.4.1980),
o nel caso non sia competente possa sospendere la causa
in attesa della decisione sullo status. Mentre nel caso il
convenuto non contesti il rapporto di filiazione, il problema nemmeno si porrebbe potendo il giudice pronunciarsi sulla domanda principale (così come ritenuto da
Cass. n. 5633/1990 cit.).
Questo, del resto, è l’orientamento maggioritario della
dottrina, che ha avuto modo di sottolineare come la
procreazione determini la titolarità sostanziale della posizione di figlio, e come da questo titolo derivino, in parallelo ed indipendentemente l’uno dall’altro, il diritto
al mantenimento e quello alla titolarità formale della filiazione; “nonché l’interpretazione recepita dalla Corte
costituzionale la quale nelle sentenze n. 118 e 121 dell’8
maggio 1974 ha affermato che la normativa espressa nei
comma più significativi della disposizione in esame denota come il Costituente abbia voluto attribuire il diritto al mantenimento all’educazione ed all’istruzione dei
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Processo civile
figli naturali che, pur non riconosciuti o non legittimati, possano secondo la legislazione vigente provare la
paternità e la maternità naturale. Emerge, inoltre, la
presenza dell’art. 279 c.c. nel testo modificato dalla legge di riforma del diritto di famiglia, il cui dettato - ove
correttamente interpretato alla luce della norma costituzionale appena richiamata - attribuisce al figlio naturale, una volta accertato incidenter tantum il rapporto
materiale di filiazione, il diritto al mantenimento, all’educazione ed all’istruzione, quand’anche non sia stato
riconosciuto formalmente pur essendo ciò possibile e,
quindi, indipendentemente dalla qualifica formale dello
status. Vale a dire che riconduce il diritto in questione
al rapporto biologico di procreazione e non allo status
formale di figlio, così come ha affermato questa Corte
nelle sentenze n. 7285 del 26 settembre 1987, n. 3015
del 3 maggio 1986 e n. 4044 del 6 novembre 1975”
(Cass. n. 5633/1990 cit.).
La Corte di Cassazione nella citata sentenza del 1990
conclude: “Deve ritenersi esistente, in altri termini, il
principio in base al quale il fatto materiale della procreazione, ove positivamente accertato anche in via incidentale, determina di per sé solo, ed indipendentemente dal riconoscimento formale dello status di figlio
naturale la responsabilità (è questo il termine correttamente utilizzato nella rubrica dell’art. 279 c.c.) del genitore per il mantenimento del figlio; in base al quale,
cioè, sul genitore grava l’obbligazione giuridica (e non
soltanto naturale come sostiene una dottrina minoritaria) di mantenere il figlio naturale anche se non riconosciuto formalmente, mentre, di converso, questi ha diritto all’adempimento di siffatta prestazione.”.
I principi sopra richiamati sono stati recentemente anche ribaditi dalla Cassazione con la sentenza n. 5652
del 2012: “viene in considerazione la tesi secondo cui il
riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda,
costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto dì filiazione. Tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo
del genitore naturale di concorrere nel mantenimento
del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la
procreazione sia stata successivamente accertata con
sentenza ...”.
Nella giurisprudenza della suprema Corte vengono, come si è visto, affermati, in occasione di fattispecie concrete diverse, principi generali tra loro incompatibili.
Ritiene il tribunale che sia conforme all’evoluzione del
diritto positivo, sia interno che internazionale, nonché
all’evoluzione della coscienza sociale, la tesi che riconnette l’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148,
315 bis e 316 bis c.c. al solo fatto della probazione, a
prescindere dal riconoscimento formale dello status.
Ciò significa, trattandosi di obblighi giuridici, che sia
l’azione di regresso che quella di concorso negli oneri di
mantenimento può essere azionata, a prescindere da
una pronuncia sullo status passata in giudicato, in un
giudizio nel quale il fatto della procreazione verrà accer-
Famiglia e diritto 11/2014
tato - in via incidentale o, come si è visto con efficacia
di giudicato - qualora il presunto padre convenuto contesti il rapporto di filiazione.
La stessa nozione di “responsabilità” genitoriale, introdotta dal d.lgs. n. 154/2013, in luogo della potestà genitoriale, sembra alludere alla responsabilità connessa al
solo fatto della procreazione e non certo al riconoscimento formale dello status di figlio. Tale tesi, ha anche
il pregio di rendere coerente un sistema che l’interpretazione oggi dominante rischia di rendere intrinsecamente contraddittorio, avvicinando i casi nei quali, ad
esempio, il giudice non autorizza il riconoscimento tardivo perché contrario agli interessi del minore (fatto
rientrare attraverso un’interpretazione estensiva nel disposto di cui all’art. 279 c.c.) ai casi in cui siano prima
la madre e poi il figlio (compiuti i 14 anni) a ritenere
contrario ai propri interessi il riconoscimento o la pronuncia sullo status, evitando così di lasciare in questa
materia pericolosi vuoti di tutela.
La circostanza che il legislatore della recente riforma
della filiazione abbia ritenuto di inserire espressamente
nell’art. 480 c.c. il termine di decorrenza della prescrizione per l’accettazione di eredità, in conformità con
l’orientamento consolidato della giurisprudenza, conferma a parere del Tribunale la tesi qui sostenuta. Il legislatore ha infatti ritenuto necessario specificare che il
termine decorre dal riconoscimento o dalla pronuncia
sullo status, forse proprio perché in un sistema in cui i
doveri genitoriali derivano dal fatto stesso della procreazione, ciò non poteva considerarsi scontato. E per l’accettazione di eredità tale norma ha un senso, in quanto,
andando ad incidere sui successibili, c’è necessità di un
atto od una pronuncia che abbia efficacia erga omnes.
Si tratta di rendere coerente il sistema disciplinante il
rapporto di filiazione traendo tutte le conseguenze dalla
affermata centralità degli interessi del figlio. Ed anche
dalla nuova norma di cui all’art. 315 c.c. che afferma
che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”, non si
può certo ritenere che essa si riferisca ai soli figli riconosciuti o riconoscibili.
L’accoglimento di tale tesi comporta che la prescrizione
dell’azione di regresso decorra da ogni singola spesa effettuata. Il termine è senz’altro quello decennale, non
vertendosi in materia di alimenti, ma di regresso in materia di obbligazioni solidali.
Il diritto di regresso azionato in questa sede dalla sig.ra
G. deve, pertanto, ritenersi ampiamente prescritto.
Gli attori propongono altresì domanda di risarcimento
del danno conseguente al mancato riconoscimento ed
alla conseguente violazione dei doveri genitoriali, la sig.ra G. per aver dovuto provvedere da sola alla crescita
del figlio ed il sig. Greco per essere cresciuto senza un
padre.
Le conseguenze dell’illecito cd. “endofamiliare” da mancato riconoscimento, ormai ampiamente riconosciuto
da dottrina e giurisprudenza (v. Cass. n. 5652 del 2012
cit.), si articolano nel danno derivante da violazione
dell’obbligo di mantenimento, connesso alla perdita di
chances conseguenti, ad esempio, al mancato conseguimento della posizione sociale confacente a quella del
1017
Giurisprudenza
Processo civile
padre biologico, ed in quello derivante dalla violazione
degli altri doveri genitoriali, in particolare il diritto a ricevere cura, educazione, protezione, da entrambi i genitori.
Anche in ordine a tale domanda il convenuto eccepisce
l’intervenuta prescrizione.
Valgono anche in questo caso le considerazioni effettuate in ordine alla prescrizione dell’azione di regresso,
sicché deve ritenersi che per razionabilità del diritto al
risarcimento del danno da violazione dei doveri genitoriali non sia necessaria la sussistenza di una sentenza
sullo status passata in giudicato.
Più difficoltoso individuare il termine di decorrenza della prescrizione.
Ritiene il Tribunale che il termine debba esser individuato nel momento in cui il figlio raggiunge l’indipendenza economica, in quanto in quel momento cessa il
dovere del genitore di contribuire al suo mantenimento.
Il termine di prescrizione è pertanto abbondantemente
decorso, posto che gli attori affermano che il sig. G.
avrebbe raggiunto l’indipendenza economica all’età di
31 anni (nel 1995), sia che si faccia riferimento al termine di cinque anni previsto per il danno da atto illecito, sia che si faccia riferimento al termine previsto per
il reato di cui all’art. 570 c.p.
Più difficoltoso è individuare il termine iniziale per la
violazione degli altri doveri genitoriali.
Ritiene il tribunale che non possa farsi riferimento al
raggiungimento della maggiore età, essendo indubbio
che il bisogno da parte del figlio della figura costruttiva
ed educativa del genitore perduri ben oltre il compimento del diciottesimo anno di età, pur venendo meno
la responsabilità (già potestà) genitoriale. Al di là dei
compiti strettamente educativi, i doveri giuridici di solidarietà, protezione e cura permangono fino a che il figlio non sia in grado di conseguire una completa autonomia anche psicologica che verosimilmente, nella
maggior parte dei casi, coincide con il raggiungimento
dell’autonomia economica e, quindi, con il momento in
cui cessa l’obbligo di mantenimento.
Anche in questo caso il termine di prescrizione deve ritenersi abbondantemente decorso, tanto più che gli attori hanno dichiarato, per quel che riguarda il figlio,
che quest’ultimo era consapevole della paternità del sig.
N. fin da quando il sig. G. aveva 14 anni.
Sussistono giusti motivi, in considerazione della natura
controversa delle questioni trattate, per dichiarare le
spese di lite integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa
ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione così
provvede:
Dichiara che N. G. C. è padre naturale di G. G.;
Autorizza G. G. a mantenere il cognome materno, senza
menzione del cognome paterno;
ordina all’Ufficiale dello Stato civile del Comune competente di annotare la presente sentenza, al passaggio in
giudicato;
rigetta le ulteriori domande proposte dagli attori;
dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le
parti.
PRESCRIZIONE DELL’AZIONE DI REGRESSO
PER IL MANTENIMENTO DEL FIGLIO
E DELL’AZIONE DI RISARCIMENTO DEL DANNO
DA MANCATO RICONOSCIMENTO
di Michele Sesta
La sentenza del Tribunale di Roma - discostandosi a ragione dall’indirizzo più volte seguito dalla Corte di
cassazione - ha deciso che il termine di prescrizione dell’azione di regresso promossa dal genitore per
conseguire dall’altro le spese di mantenimento da lui sostenute in via esclusiva fin dalla nascita del figlio,
nonché quello dell’azione promossa dal figlio per il risarcimento del danno conseguente al mancato riconoscimento, non decorrono dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione, ma, rispettivamente, dalla data in cui ogni singola spesa è stata effettuata e dal raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio.
La questione
Il Tribunale affronta e risolve la controversa
questione della decorrenza dei termini di prescrizione dell’azione di regresso di cui è titolare il genitore che abbia provveduto in via esclusiva dalla
nascita al mantenimento del figlio, nonché dell’a-
1018
zione di risarcimento del danno esperibile dal figlio
a seguito della violazione dei doveri genitoriali di
colui che non l’abbia riconosciuto. Discostandosi
dal prevalente indirizzo della Corte di Cassazione,
il Tribunale stabilisce che la decorrenza dei predetti termini non esige il previo accertamento con ef-
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Processo civile
ficacia di giudicato dello stato di filiazione; a tale
condivisibile conclusione, invero argomentata in
modo assai ampio e perspicuo, il Tribunale perviene valorizzando il fatto che il sorgere degli obblighi
previsti dagli artt. 30 Cost. e 315-bis c.c. si connette al solo fatto della procreazione, a prescindere
quindi dall’attribuzione formale dello stato di filiazione, opportunamente rilevando come la stessa
nozione di responsabilità genitoriale introdotta dal
d.lgs. n. 154/2013, in luogo della potestà, alluda alla responsabilità per i destini del figlio connessa al
solo fatto della procreazione piuttosto che al riconoscimento formale dello stato (1).
È pacifico che il dovere del genitore di mantenere il figlio non matrimoniale costituisca un obbligo
giuridico che lo vincola indipendentemente dall’intervenuto riconoscimento (2); in tale prospettiva, la giurisprudenza è quindi concorde nello statuire che, laddove il figlio sia riconosciuto da un
solo genitore – che provveda per intero al mantenimento –, non venga meno il corrispondente obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio ad essere mantenuto, istruito, educato e – secondo il catalogo del nuovo art. 315-bis c.c. – assistito moralmente da parte di entrambi. Da ciò si
fa, dunque, derivare che il secondo genitore, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non
possa sottrarsi all’obbligo di rimborsare al primo la
quota parte posta a suo carico, essendo egli tenuto
a provvedervi a far data dal momento della nascita,
e, pertanto, che il genitore, il quale abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio,
sia titolare dell’azione per ottenere dall’altro il rim-
Con una soluzione che è stata per vero oggetto
di rilievi critici da parte della dottrina, la Suprema
Corte ha risolto il problema accedendo alla seconda tesi, statuendo, cioè, che l’azione di rimborso sia
utilmente esercitabile solo a partire dal momento
del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione, in quanto, soltanto per effetto della relativa pronuncia si costituisce – sia
pure con effetti retroagenti alla data della nascita –
lo status di figlio non matrimoniale, che determina,
ai sensi dell’art. 2935 c.c., il momento a partire dal
quale il diritto può essere fatto valere e, quindi, il
dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso (4). L’accertamento dello status di figlio
(1) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti
nelle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 236; Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e
pluralità di modelli familiari, in questa Rivista, 2014, 466, 467.
(2) Cfr., ex multis, Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, in questa Rivista, 2007, 1007, con nota di Ortore, Mantenimento del
figlio e prescrizione dell’azione di regresso nei confronti del genitore inadempiente.
(3) Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, cit., ove ulteriormente si stabilisce che trattasi di azione di regresso tra condebitori
solidali ex art. 1299 c.c., vertente in materia di diritti disponibili
e retta dai principi ordinari.
(4) Cass. 30 luglio 2010, n. 17914, in questa Rivista, 2011,
135, con nota di Ortore, Ancora sui limiti temporali dell’esercizio
dell’azione di regresso nei confronti del genitore; Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, cit.; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in
questa Rivista, 2006, 504, con nota di Figone, Dichiarazione
giudiziale di paternità, mantenimento del figlio e rimborso delle
spese anticipate dall'altro coniuge; Cass. 11 luglio 2006, n.
15756, in Giust. civ. Mass., 2006. Secondo alcuni Autori, tale
soluzione confligge con la ratio della prescrizione (cfr. Ortore,
Mantenimento del figlio e prescrizione dell’azione di regresso
nei confronti del genitore inadempiente, cit., il quale ritiene contrario all’ordine pubblico far decorrere la prescrizione da un
momento assolutamente incerto qual è quello in cui interviene
la pronuncia giudiziale che accerti la paternità, tenuto conto
dell’imprescrittibilità dell’azione di cui trattasi. Allo stesso modo, sarebbe gravoso per il figlio danneggiato far decorrere la
prescrizione da un momento in cui egli non poteva ancora far
valere i propri diritti, non essendo intervenuto alcun accertamento giudiziale della paternità). Secondo altra parte della dottrina (Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, in La responsabilità nelle relazioni familiari, a cura
di Sesta, Torino, 2008, 217), un parziale punto di bilanciamento tra l’esigenza di tutelare il figlio danneggiato e il contrapposto interesse a non esporre a un limite di tempo indeterminato
l’azione di responsabilità contro il genitore potrebbe ravvisarsi
nell’art. 1227 c.c. In tale prospettiva, il danneggiato avrebbe il
dovere di adottare le misure cautelari opportune per ridurre –
o comunque non aggravare – le conseguenze dannose del fatto illecito, cosicché si dovrà valutare, caso per caso, se il figlio
danneggiato avrebbe potuto, in base al dovere di correttezza,
limitare i danni subiti, assumendo iniziative nei confronti del
genitore, per far valere le proprie pretese. In tal modo, la nor-
Famiglia e diritto 11/2014
borso pro quota delle spese sostenute (3). Ed il discorso deve naturalmente valere non solo per il genitore che abbia provveduto, in luogo dell’altro, al
mantenimento del figlio, ma con riguardo altresì
all’ipotesi in cui sia il figlio stesso ad agire in giudizio per conseguire quanto dovuto dal genitore inadempiente.
In un simile contesto, si è posto il problema relativo al decorso del termine di prescrizione cui soggiace la pretesa del genitore adempiente, poiché è
controverso se esso decorra dalla nascita del figlio
– il che finirebbe, nella maggior parte dei casi, per
limitare il diritto di regresso agli esborsi eseguiti
nei dieci anni anteriori all’accertamento della genitorialità – ovvero dalla sentenza che accerta definitivamente lo stato di filiazione, il che renderebbe
nella sostanza imprescrittibile la pretesa relativa al
periodo anteriore alla dichiarazione.
L’orientamento della Cassazione …
1019
Giurisprudenza
Processo civile
costituirebbe insomma il presupposto per l’esercizio
dei diritti connessi a tale status, di guisa che la domanda di rimborso delle spese sostenute per il
mantenimento da parte del genitore coobbligato
presuppone tale accertamento. Sempre secondo tale orientamento, la predetta domanda può comunque essere proposta insieme con quella di accertamento giudiziale della paternità o maternità; tuttavia, essa non può trovare accoglimento se non in
quanto il giudice si pronunci, con efficacia di giudicato, sulla condizione di figlio nato fuori del matrimonio, oppure a condizione che tale giudicato si
sia in precedenza formato. Di recente, peraltro, la
Suprema Corte si è pronunciata nuovamente in
materia con una decisione in cui – interpretando i
propri precedenti sul punto – ha ribadito, da un lato, che la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità, e
precisato, dall’altro lato, che l’esecuzione del titolo
postula la preventiva definitività della sentenza di
accertamento dello status (5).
… e quello del Tribunale di Roma
Occorre qui ribadire che la chiave di lettura offerta dalla Suprema Corte non appare persuasiva,
e, quindi, che si giustifica e va condivisa la difforme coraggiosa statuizione del Tribunale di Roma,
che sottopone a serrata critica l’orientamento del
giudice di legittimità, sulla scia dei rilievi formulati
dalla dottrina (6).
In breve, il Tribunale muove dalla considerazione che, in linea generale, la Cassazione ammette
l’accertamento incidenter tantum del rapporto di filiazione e che l’obbligo del genitore naturale di
concorrere al mantenimento del figlio trova la sua
fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato solo in via incindentale, e non
ma viene a rappresentare un punto di equilibrio tra l’esigenza
di garantire al danneggiato il risarcimento del danno e quella,
opposta, volta ad assicurare la certezza dei rapporti giuridici,
in modo da non esporre l’eventuale responsabile ad azioni risarcitorie originate da una condotta troppo lontana nel tempo
(cfr. Trib. Venezia 18 aprile 2006, in Danno e resp., 2007, 583,
con nota di De Stefanis, Mancato riconoscimento del figlio naturale e risarcimento del danno, secondo cui la protratta inerzia
del figlio ha senz’altro aggravato il pregiudizio subito, nel senso che se egli avesse agito per ottenere il mantenimento dal
padre una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto sin
da allora contare su di un ausilio quanto meno economico che
gli avrebbe garantito di seguire il percorso di studi o di lavoro
più confacente alle sue capacità ed aspirazioni. Sul punto, v.,
in dottrina, Rossello, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra diligenza ed efficienza, Padova, 1990).
(5) Cass. 30 luglio 2010, n. 17914, cit.
1020
nello status formale del figlio (7). Non si deve invero dimenticare che il disposto dell’art. 279 c.c.,
compendiante la responsabilità per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione, stabilisce a chiare
lettere che l’azione per il mantenimento del figlio
non riconosciuto possa essere promossa dall’altro
genitore esercente la responsabilità genitoriale
(comma 3). La norma in parola, benché espressamente prevista per il caso in cui non possa proporsi
la dichiarazione di genitorialità, viene comunemente interpretata (8) nel senso che la stessa possa
essere intrapresa anche dai figli non riconosciuti
(ma riconoscibili) e dichiarabili, i quali, in concreto, non abbiano agito giudizialmente a tal fine.
Ma, se così è, ovvero se il figlio può agire per ottenere il mantenimento senza che sia preventivamente necessario agire ai sensi dell’art. 269 c.c.,
sembra allora che anche il genitore non possa trovare ostacoli di diritto ad agire nei confronti dell’altro per ottenere la contribuzione al mantenimento, comprensiva degli eventuali rimborsi per
somme anticipate, pur laddove non si sia proceduto all’accertamento in via principale del vincolo di
filiazione (9): dunque, la relativa prescrizione deve
decorre sin dalla nascita, tempo per tempo.
Anche con riguardo alla domanda di risarcimento del danno conseguente dal mancato riconoscimento ed alla violazione dei doveri genitoriali, il
Tribunale applica le medesime considerazioni svolte con riferimento alla prescrizione della azione di
regresso, ed ha, quindi, affermato che, ai fini dell’esercizio di detta azione, non sia necessario il previo
accertamento, con efficacia di giudicato, dello stato di filiazione.
Merita, inoltre, sottolineare come l’orientamento in tema di decorrenza della prescrizione dell’azione di regresso tra genitori, che è stato giustamente disatteso dal Tribunale di Roma, si è formato sulla base di un’erronea prospettiva sistematica,
(6) Cfr. Ortore, Mantenimento del figlio e prescrizione dell’azione di regresso nei confronti del genitore inadempiente, cit.,1007; Id., Ancora sui limiti temporali dell’esercizio dell’azione di regresso nei confronti del genitore, cit., 135; cfr. Facci, I
nuovi danni nella famiglia che cambia, in Nuovi percorsi di diritto di famiglia, diretti da Sesta, II ed., Milano, 2009, 128; Sesta,
La filiazione, in Tratt. Dir. Priv. Bessone, Torino, 2011, 378.
(7) Cass. 9 giugno 1990, n. 5633, in Giust. civ., 1991, I, 75.
(8) Cass. 1 aprile 2004, n. 6365, in questa Rivista, 2005, 27,
con nota di Sesta, Un ulteriore passo avanti della S.C. nel consentire la richiesta di alimenti al preteso padre naturale da colui
che ha lo stato di figlio legittimo altrui.
(9) In dottrina, cfr. Facci, I nuovi danni nella famiglia che
cambia, cit., 128; v., inoltre, Giacobbe, Responsabilità per la
procreazione ed effetti del riconoscimento del figlio naturale, in
Giust. civ., 2005, 3, 730.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Processo civile
vale a dire estendendo analogicamente a tale questione il principio in precedenza affermato dalla
S.C. a proposito della decorrenza della prescrizione
del diritto (del tutto differente) del figlio non matrimoniale, dichiarato dopo l’apertura della successione paterna, di conseguire quanto a lui spettante
in qualità di erede (10). È, infatti, evidente che,
per beneficiare della qualità di erede, l’accertamento principale dello stato di filiazione è indispensabile, poiché, in difetto, il figlio non viene chiamato all’eredità, potendo tutt’al più invocare i diritti
di cui all’art. 580 c.c., la cui attribuzione non comporta lo status di erede. Nella richiamata fattispecie
ereditaria, pertanto, l’accertamento dello status
rappresenta un prius ineludibile, la cui mancanza
non consente al figlio di agire in via successoria, e,
pertanto, non tollera il previo decorso della prescrizione delle relative azioni.
Tutto all’opposto, come visto, è la questione che
qui si agita, considerato che nessun ostacolo giuridico sussiste a che - indipendentemente dall’accertamento principale dello status - il genitore chieda
la ripetizione di quanto anticipato, o che il figlio
biologico reclami il risarcimento dei danni che assume patiti.
Sotto altro profilo, deve aggiungersi che l’impostazione che collega il termine di decorrenza della
prescrizione dell’azione risarcitoria di cui si discute
al momento dell’accertamento giudiziale della paternità o maternità naturale è contrario all’esigenza
di certezza dei rapporti giuridici, facendo decorrere
il relativo termine iniziale da un momento assolutamente incerto, quale quello in cui interviene la
pronuncia giudiziale che accerta la paternità o la
maternità naturale, tenuto conto dell’imprescritti-
bilità dell’azione di cui trattasi sancita dall’art. 270
c.c. (11).
Non solo, ma l’accoglimento di tale soluzione
può addirittura dare luogo a risultati paradossali e
certamente non auspicabili. Stante, infatti l’imprescrittibilità dell’azione per la dichiarazione di paternità e maternità naturale (art. 270 c.c.) e la possibilità che la stessa sia esercitata nei confronti degli eredi del genitore defunto (art. 276 c.c.), ben
potrebbe accadere che tali eredi vengano chiamati
a rispondere di eventuali condotte illecite del genitore defunto addirittura dopo anni dall’accettazione dell’eredità ed essendo per di più quest’ultima
avvenuta senza beneficio di inventario poiché, in
quel momento, non ne sussisteva alcuna ragione (12).
In conclusione, la innovativa decisione del Tribunale di Roma, di cui va apprezzato il ricco e persuasivo apparato argomentativo (13), è ampiamente condivisibile, per le conclusioni cui giunge, con
riguardo sia alla decorrenza del termine decennale
dell’azione di regresso, individuato nel momento in
cui ogni spesa sia stata effettuata, sia a quella del
risarcimento del danno, che, sulle orme di una attenta dottrina (14), è stata individuata nel momento in cui il figlio raggiunga l’indipendenza economica, poiché da tale momento cessa il dovere del
genitore di provvedere al mantenimento e, quindi
– intendendolo in senso lato –, di mettere a disposizione del figlio le risorse necessarie alla sua formazione professionale.
Alla luce delle considerazioni che precedono, è
auspicabile che l’indirizzo seguito dalla decisione in
epigrafe apra la strada ad un ripensamento da parte
della Corte di Cassazione.
(10) Cass. 21 marzo 1990, n. 2326, in Giur. it., 1991, 1, 82,
con nota di Rapone, Dichiarazione giudiziale di paternità e prescrizione del diritto di accettare l'eredità (le riforme e il diritto
transitorio); Cass. 11 giugno 1987, n. 5075, in Foro it. Rep.,
1987, voce Successione ereditaria, n. 42; Cass. 12 marzo 1986,
n. 1648, in Giust. civ., 1986, I, 1639.
(11) V. Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei
doveri genitoriali, cit., 216. Cfr. altresì Azzari, Scarpello, Della
prescrizione e della decadenza, in Comm. Scialoja Branca, II
ed., Bologna-Roma, 1977, 203.
(12) Si leggano le condivisibili considerazioni di Ortore,
Mantenimento del figlio e prescrizione, cit., 1012; ed altresì Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, cit., 220.
(13) L’unico punto criticabile – che invero sembra costituire
un obiter dictum – è quello ove si afferma che il principio enun-
ciato dall’art. 315 c.c., alla cui stregua tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, “non si può certo ritenere che […] si riferisca ai soli figli riconosciuti o riconoscibili”; invero, come stato
messo in luce, la recente riforma non supera il principio secondo il quale la formazione di un titolo sia sempre necessaria
perché possa propriamente parlarsi di stato di filiazione. Dal
combinato disposto degli artt. 279, 573, 580 e 594 c.c. emerge
che pur nella raggiunta unicità di stato, residuano figli che si
trovano, rispetto a chi li ha generati, in una situazione peculiare considerato che essi beneficiano solo della specifica tutela
prevista dalle predette disposizioni che li riguardano. In argomento cfr. Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in
Riv. dir. civ., 2014, 1, spec. 18 ss.
(14) Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., 130,
131.
Famiglia e diritto 11/2014
1021
Giurisprudenza
Casa familiare
Provvedimento di assegnazione
TRIBUNALE DI MILANO, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord. - Est. Buffone
Alla scadenza del termine stabilito dal magistrato, il genitore non assegnatario va qualificato come occupante
l’immobile sine titulo e, pertanto, verso lo stesso, la parte assegnataria ha titolo (esecutivo: l’ordinanza ex
art. 708 c.p.c.) per ottenere il rilascio o comunque l’allontanamento. Ne consegue che lo strumento rimediale
è da intravedersi nell’esecuzione e non nel ricorso al giudice della famiglia che ha, sul punto, consumato i
suoi poteri (salve le successive valutazioni in merito al comportamento di colui il quale abbia violato l’ordinanza presidenziale).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass. 24 luglio 2007, n. 16389, Cass. 31 gennaio 2012, n. 1367
Difforme
non constano precedenti difformi
All’esito dell’udienza presidenziale del 2 luglio 2013, il
Presidente del Tribunale f.f. ha assegnato alla sig.ra ….
(nata a …, il … 1971, cod. fisc. …), la casa familiare, sita
in … (Milano), via …, in quanto genitore presso cui collocata la prole (…, nata il …2011). L’ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. (del 2 luglio 2013, letta in udienza)
ha assegnato al marito termine massimo entro il 30 settembre 2013 per lasciare l’abitazione attribuita in godimento esclusivo alla moglie (la quale, peraltro, ne è l’esclusiva proprietaria). Successivamente alla scadenza del
30 settembre, il marito della assegnataria (Gian…, nato a
… il … ..) non ha lasciato l’abitazione coniugale e, con
istanza del 3 ottobre 2013, la … richiede i provvedimenti
urgenti opportuni da emettersi nei confronti del ...
Sull’istanza non vi è luogo a provvedere.
Giova ricordare che l’assegnazione si sostanzia nel diritto di continuare a vivere nell’abitazione familiare (al
godimento della stessa, secondo l’art. 155-quater, c.c.,
introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54) senza l’altro coniuge. La caratteristica essenziale, connaturale alla
funzione, è di costituire un limite rispetto a un diritto
dominicale di altri (l’altro coniuge o un terzo) sullo
stesso bene; costituisce, insomma, un limite, di carattere
eccezionale, posto all’ordinario assetto dei rapporti reali
e obbligatori sull’immobile. Il provvedimento di assegnazione della casa familiare (pronunciato ex art. 155quater c.c.), pertanto, concentra in capo al genitore
collocatario il godimento dell’abitazione coniugale e,
per l’effetto, l’altro partner è tenuto ad allontanarsi dal
contesto domestico entro il termine concesso dal giudice. Rispetto al momento dell’attribuzione, infatti, il diritto non può venire ad esistenza se non si accompagna
all’allontanamento dalla casa familiare dell’altro coniuge. Se non c’è l’allontanamento (il rilascio) da parte
dell’altro coniuge, non manca solo la possibilità di esercitare un diritto (in astratto esistente sulla carta); manca il diritto stesso, essendo il godimento esclusivo l’unico contenuto della assegnazione. Sul piano dell’esecuzione, ciò comporta che il provvedimento, o sentenza,
con cui il diritto è attribuito, contiene in sé, implicita-
1022
mente, la condanna al rilascio nei confronti dell’altro
coniuge; attribuzione e rilascio non si pongono su due
piani distinti: il rilascio non si pone come consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto. Ciò vuol dire che, alla scadenza del
termine stabilito dal magistrato, il genitore non assegnatario va qualificato come occupante l’immobile sine
titulo e, pertanto, verso lo stesso, la parte assegnataria
ha titolo (esecutivo: l’ordinanza ex art. 708 c.p.c.) per
ottenere il rilascio o comunque l’allontanamento. Giova, infatti, ricordare che, giusta gli artt. 708 c.p.c. e 189
disp. att. c.p.c., il provvedimento anticipatorio e provvisorio, ex art. 708 c.p.c. costituisce titolo esecutivo,
anche e soprattutto relativamente alla assegnazione della casa familiare (Cass., sez. III, 31 gennaio 2012, n.
3167). In tal senso, la Corte di Cassazione non ha dubitato che l’ordinanza attributiva del diritto ad uno dei
coniugi di abitare la casa familiare sia soggetta, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva (in via breve, tramite l’ufficiale giudiziario, o mediante normale procedura di esecuzione forzata; cfr.
Cass. 1 settembre 1997, n. 8317). Ne consegue che lo
strumento rimediale è da intravedersi nell’esecuzione e
non nel ricorso al giudice della famiglia che ha, sul punto, consumato i suoi poteri (salve le successive valutazioni in merito al comportamento di colui il quale abbia
violato l’ordinanza presidenziale). Come detto, dunque,
l’assegnatario può, certamente, ottenere rituale provvedimento di rilascio della casa familiare (Cass., sez. I, 17
settembre 2003 n. 13664) e, in caso di urgenza e necessità, può anche rivolgere le proprie istanze alle Autorità
di Polizia o giudiziarie penali nell’ipotesi in cui la condotta dell’occupante l’immobile sine titulo si sostanzi in
una condotta penalmente rilevante. Lo strumento rimediale della protezione immediata, in caso di violenza di
genere, è, peraltro, oggi rafforzato dalle norme di nuovo
conio introdotte dal decreto legge 14 agosto 2013 n. 93
(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il
contrasto della violenza di genere …), in cui spicca la
previsione di cui all’art. 3, deputata a fornire supporto
protettivo alle persone vittime di violenze domestiche.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Casa familiare
Per questi motivi
Visti gli artt. 155-quater c.c., 708 c.p.c., 189 disp. att.
c.p.c.,
dichiara di non luogo a provvedere sull’istanza della ricorrente.
IL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA
FAMILIARE COME TITOLO ESECUTIVO
PER IL RILASCIO IN VIA COATTIVA
di Mariacarla Giorgetti (*)
Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale espresso nell’ordinanza presidenziale è un’entità
inscindibile con l’ordine al non assegnatario al rilascio della stessa. Ossia, il rilascio non si pone come
consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto di godimento
esclusivo connaturato al provvedimento di assegnazione, sicché, in caso di non ottemperanza a tale ordine, è il medesimo provvedimento a costituire già di per sé titolo esecutivo. Tale diritto si esegue coattivamente in via breve, ovvero anche mediante la consueta procedura di esecuzione forzata.
La decisione in commento
dell’ordine di rilascio avviene; il rapporto tra la
previgente disciplina dell’art. 155 quater c.c., alla
luce del quale il provvedimento annotato è stato
reso, e il nuovo art. 337 sexies c.c.
All’esito dell’udienza presidenziale il Presidente
del Tribunale di Milano assegnava la casa familiare
alla moglie, presso cui era collocata la prole, e dava
termine al marito sino ad una certa data per lasciare l’abitazione coniugale.
Poiché alla data fissata il marito non abbandonava la casa, la moglie chiedeva al medesimo Tribunale provvedimenti urgenti da emettersi nei
confronti del marito; il Tribunale, però, giudicava
di non doversi procedere. Questo, perché il provvedimento di assegnazione della casa coniugale
contiene già in sé la condanna al rilascio nei confronti dell’altro coniuge, con la conseguenza che il
genitore non assegnatario che si trattenga oltre il
termine fissato deve essere qualificato come occupante sine titulo, nei confronti del quale l’altro coniuge ha già titolo esecutivo per il rilascio dell’abitazione, costituto dalla stessa ordinanza presidenziale. Tale diritto, secondo la decisione in commento, si esegue coattivamente in via breve, ovvero anche mediante la consueta procedura di esecuzione forzata.
La pronuncia qui in esame presenta diversi e interessanti spunti di riflessione. I problemi giuridici
da essa affrontati e sui cui si desidera, ora, soffermare l’attenzione sono, in particolare: il contenuto
del provvedimento di assegnazione della casa familiare; le forme con cui l’esecuzione in via coattiva
L’assegnazione dell’abitazione al coniuge presso
il quale è collocata la prole consente di violare il
diritto di proprietà o il diritto reale minore o anche, eventualmente, il diritto personale di godimento sull’immobile adibito a casa di famiglia (1)
all’esclusivo fine di tutelare i figli ed evitare loro
un ulteriore turbamento derivante dallo sradicamento dall’ambiente abituale in aggiunta alla già
dolorosa crisi familiare che coinvolge la coppia genitoriale.
Difatti, in assenza di prole minorenne – ma anche di prole maggiorenne, tuttavia non ancora indipendente economicamente – il giudice non ha il
potere di disporre in ordine all’assegnazione della
casa familiare, prevalendo, in tal caso, l’ordinaria
situazione giuridica di signoria sull’immobile (2).
Anzi, in difetto dei predetti presupposti, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere sul capo relativo a tale profilo, ove eventualmente l’assegnazione dell’abitazione fosse
ugualmente richiesta (3).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) V. infra, par. 4.
(2) Cfr. Cass. 24 luglio 2007, n. 16389.
(3) V. App. Roma 28 gennaio 2005. Appare invece tramontata e decisamente minoritaria la tesi secondo la quale l’asse-
Famiglia e diritto 11/2014
Il contenuto del provvedimento
di assegnazione della casa familiare
1023
Giurisprudenza
Casa familiare
Questo significa che, in assenza del requisito
fondamentale della presenza dei figli, il diritto di
proprietà sull’immobile non può essere compresso
o limitato in alcun modo. In punto, la decisione in
esame è assai chiara: la limitazione rispetto ad un
diritto dominicale altrui (del coniuge o di terzi) sul
bene costituisce un’ipotesi eccezionale rispetto all’ordinario assetto dei rapporti reali o obbligatori
sull’immobile.
La peculiarità della pronuncia annotata, peraltro, è data dal fatto che, secondo il tribunale milanese, il provvedimento di assegnazione della casa
coniugale espresso nell’ordinanza presidenziale è
un’entità inscindibile con l’ordine al non assegnatario al rilascio della stessa. Ossia, il rilascio non si
pone come consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto di
godimento esclusivo connaturato al provvedimento
di assegnazione, sicché, in caso di non ottemperanza a tale ordine, è il medesimo provvedimento a
costituire già di per sé titolo esecutivo.
La tesi espressa dalla decisione non è nuova: se
non vi è allontanamento da parte del coniuge non
assegnatario, manca la possibilità materiale di esercitare il diritto e, dunque, manca il diritto stesso,
poiché il godimento esclusivo è il solo ed unico
contenuto possibile del provvedimento di assegnazione (4).
Da ciò consegue, e in modo netto, la conclusione che il provvedimento attributivo del diritto
contenga già in sé la condanna implicita al rilascio. In tale prospettiva, infatti, attribuzione e successivo rilascio sono due facce della stessa medaglia, poiché il rilascio è condizione necessaria e sufficiente per il sorgere del diritto di godimento
esclusivo.
Questo implica che eventuali espressioni con le
quali nel provvedimento fosse precisato che lo stes-
so è idoneo a costituire titolo esecutivo sono assolutamente irrilevanti, perché chiaramente pleonastiche. Per tale ragione, anche in caso di successiva
revoca dell’assegnazione, in modo del tutto simmetrico il mero provvedimento costituisce titolo esecutivo per tale specifica e contraria situazione, anche quando l’ordine di rilascio non sia stato espressamente pronunciato (5) e, in ogni caso, il provvedimento di assegnazione della casa familiare reso
con ordinanza presidenziale continua ad espletare
la sua funzione di titolo esecutivo anche in caso di
estinzione del procedimento principale (6).
Il principio testé esposto pone le sue fondamenta
nel rilievo che solo le sentenze meramente dichiarative di un diritto non sono suscettibili di esecuzione forzata, mentre invece lo sono quelle dichiarative che, affermando un diritto, implicano la necessità della sua attuazione, anche in difetto di una
formula specifica di condanna: questo, naturalmente, a patto che dal dispositivo e dalla motivazione
emerga in re ipsa l’esigenza dell’esecuzione (7).
Si tratta, a ben vedere, del noto e discusso tema
delle condanne implicite (8). In argomento, appare
invero condivisibile il principio enunciato dalla
giurisprudenza in tema di provvisoria esecuzione ai
sensi dell’articolo 282 c.p.c. Per tale principio, deve ritenersi legittimamente predicabile la provvisoria esecutività di tutti i capi delle sentenze di primo grado aventi portata condannatoria, trattandosi
di un meccanismo del tutto automatico e non subordinato all’accoglimento della domanda introdotta dalle parti (qual essa sia): questo vale anche
per le pronunce di condanna implicita, ossia quelle
nelle quali l’esigenza di esecuzione della decisione
scaturisce dalla stessa funzione che il titolo è destinato a svolgere, come nel caso del provvedimento
di assegnazione della casa familiare (9).
gnazione della casa familiare rappresenterebbe non soltanto
uno strumento a tutela della prole, bensì anche un mezzo di
tutela per il coniuge economicamente più debole (v. Bianca, Diritto civile, La famiglia, Le successioni, II, Milano, 2001 e, in giurisprudenza, Cass. 11 aprile 2000, n. 4558).
(4) Cassano, La tutela del padre nell’affidamento condiviso,
Ravenna, 2013, 255 ss.
(5) Così Cass. 31 gennaio 2012, n. 1367, la quale ha enunciato il principio in relazione a un caso relativo all’opposizione
al precetto per il rilascio dell’immobile, notificato sulla base
della sola sentenza del tribunale di revoca dell’attribuzione.
(6) V. Trib. Latina 14 aprile 1988, in Dir. fam., 1989, 137 ss.
(7) Cfr. Pret. Ravenna 8 giugno 1985, relativa proprio ad un
provvedimento di assegnazione della casa familiare.
(8) Su cui v. Arieta – De Santis, L’esecuzione forzata, in
Montesano – Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2007; Consolo-Parisi, sub art. 282 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, diretto da Consolo, Milano, 2010, I,
2793. In giurisprudenza, v. Trib. Modena 30 agosto 2011; Cass.
22 febbraio 2010, n. 4059 (che, però, in caso di sentenza costitutiva esclude l'esecutività provvisoria della condanna implicita del promittente venditore al rilascio dell'immobile, poiché in
tale specifico caso il trasferimento della proprietà è condizionato al passaggio in giudicato della sentenza) e Cass. 26 gennaio 2005, n. 1619.
(9) In argomento, in senso critico, cfr. però Trinchi, È titolo
esecutivo il provvedimento che revoca l’assegnazione della casa
familiare?, in questa Rivista, 2012, 880 ss., il quale ritiene che il
provvedimento di condanna al rilascio debba essere espresso,
in ossequio ai principi di forma contenuto di cui all’art. 474
c.p.c. La tesi dell’A. non appare condivisibile in quanto non si
può, a sommesso avviso della scrivente, concordare sull’enunciato che un conto sarebbe il provvedimento di assegnazione
della casa familiare, che presuppone il rilascio per l’esistenza
del relativo diritto, ed altro il caso del provvedimento di revoca
della precedente assegnazione. Appare infatti una superfeta-
1024
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Casa familiare
A maggior ragione tale conclusione deve essere
considerata corretta nella misura in cui, nell’ambito del diritto di famiglia, l’art. 189 att. c.p.c. prescrive che anche l’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’articolo 708 costituisce titolo
esecutivo: e ciò deve valere necessariamente anche
per le statuizioni implicite relative al rilascio dell’abitazione, come prontamente registrato anche dai
giudici milanesi.
Alla luce di tale inconfutabile dato costituirebbe, invero, a parere di chi scrive, superfluo dover
richiedere – nel caso in cui il provvedimento non
rendesse esplicito l’ordine di rilascio dell’abitazione
– un ulteriore pronunciamento per potere procedere in via coattiva.
ipotesi, giudice competente per l’esecuzione è quello che ha emesso il provvedimento o quello competente per il merito, se risulta già iniziato il relativo giudizio; mentre, nella seconda ipotesi, competente è il giudice dell’esecuzione secondo le regole
ordinarie (12).
Rapporto tra art. 155 quater e art. 337
sexies c.c.
La premessa appena ricordata fonda la base per
la risposta anche al successivo quesito relativo alle
forme con le quali il rilascio dell’immobile possa
essere attuato in via coattiva.
Se il provvedimento contiene già in sé l’ordine
al rilascio, anche in modo implicito, è ben possibile che si possa procedere immediatamente all’esecuzione forzata che, in questo campo, come spesso
avviene, può essere anche per le vie brevi. In alternativa, è sempre possibile seguire le forme ordinarie di esecuzione forzata.
Entrambe le opzioni appaiono condivise dalla
giurisprudenza (10). È infatti noto, al riguardo, che
per quanto riguarda l’esecuzione di siffatti provvedimenti, la giurisprudenza di legittimità ha più volte enunciato (11) che i provvedimenti temporanei
ed urgenti, adottati dal presidente del Tribunale o
dal giudice istruttore nel procedimento di separazione personale a norma dell’art. 708 c.p.c., sono
soggetti, in mancanza di spontaneo adempimento,
ad esecuzione coattiva in via breve, a mezzo dell’ufficiale giudiziario competente, salvo che il beneficiario del provvedimento preferisca avvalersi,
come gli è alternativamente consentito, della normale procedura di esecuzione forzata: nella prima
La recente riforma del diritto di famiglia introdotta dall’art. 55 del d.lgs. n. 154 del 2013 ha condotto, per quanto qui interessa, all’abrogazione dell’art. 155 quater, relativo al tema dell’assegnazione
della casa familiare e della residenza (13). Infatti,
la relativa disciplina, è trasmigrata nell’art. 337 sexies c.c., il quale però presenta alcuni tratti differenti rispetto alla normativa previgente.
Onde sondare la validità delle conclusioni raggiunte dalla decisione in esame – resa sotto la vigenza della precedente disciplina – occorre verificare il rapporto che intercorre tra le due disposizioni.
Il contenuto dell’art.155 quater è stato integralmente riprodotto nell’art. 337 sexies c.c.; il d.lgs. n.
154 del 2013 non ha però abrogato l’art. 6, comma
6, l. div., che disciplina il medesimo profilo.
Poiché secondo il combinato disposto degli artt.
337 bis e 337 sexies c.c. la nuova disposizione di cui
al menzionato art. 337 sexies c.c. si applica espressamente anche al caso dello scioglimento e della
cessazione degli effetti civili, occorre chiedersi come tale apparente discrasia possa essere conciliata.
In altre parole, si tratta di capire se l’art. 6, comma
6, legge div. debba considerarsi tacitamente abrogato o se, ferma la sussistenza della norma testé citata, la nuova disposizione di cui all’art. 337 c.c.
debba essere applicato al divorzio alla luce di un
criterio di compatibilità con la specifica disciplina
prevista per quest’ultimo caso (14).
Per quanto qui interessa, giova in primo luogo
rammentare che è stato reiterato il principio dell’opportunità dell’assegnazione della casa familiare
tenendo conto in modo prioritario dell’affidamento
dei figli e dell’interesse di costoro a non vedersi
zione distinguere tali due ipotesi, posto che se il diritto viene
ad esistenza ed è antitetico alla permanenza del coniuge assegnatario nella casa, in caso di revoca dell’assegnazione tale diritto ad occupare l’immobile deve necessariamente venir meno, tertium non datur.
(10) Cfr. Cass. 1 settembre 1997, n. 8317.
(11) Cfr. sentt. nn. 5696 del 1984, 5947 del 1982 e 553 del
1979.
(12) V. anche Pini, L’esecuzione dei provvedimenti nel diritto
di famiglia, in Rivista dell'Associazione Italiana degli Avvocati per
la famiglia e per i minori, 2013, 38 ss.
(13) V. AA.VV., La riforma del diritto della filiazione, Commentario sistematico, a cura di Bianca, in Nuove leggi civili
comm., 2013, 437 ss.
(14) Giacobbe, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, in Dir. fam., 2006, 707, in relazione all’analogo problema occorso in rapporto all’art. 4, comma 2, l. div.,
dopo la novella apportata dalla l. n. 54 del 2006.
Le forme con cui l’esecuzione in via
coattiva dell’ordine di rilascio avviene
Famiglia e diritto 11/2014
1025
Giurisprudenza
Casa familiare
sradicati dall’ambiente in cui sono soliti vivere (15). Per tale ragione, anche nella vigenza della
nuova norma, l’abitazione viene attribuita essenzialmente al coniuge presso il quale è collocata la
prole minorenne o maggiorenne, ma ancora non
autonoma dal punto di vista economico.
Il diritto di godimento sull’immobile derivante
dall’assegnazione viene meno nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente
nella casa ovvero conviva more uxorio o contragga
nuovo matrimonio.
E’ stata confermata anche la trascrivibilità e
l’opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione o di revoca, sebbene si evidenzi il mancato coordinamento con l’art. 6, comma 6, l. div., il
quale rinvia invece ad un regime di trascrizione
differente e, precisamente, quello della locazione
che qualifica, ai sensi dell’art. 1599 c.c., il diritto
del destinatario del provvedimento di assegnazione
come un diritto personale di godimento (16).
Al fine di superare l’evidente discrasia interpretativa che rischia di porsi, in ragione della mancata
espressa abrogazione dell’art. 6, comma 6, l. div., a
sommesso avviso della scrivente occorre muovere
dal rilievo che la lettera della novella si propone di
unificare il regime mediante l’estensione dell’applicazione dell’art. 337 sexies c.c. ad ogni tipologia di
situazione, ma senza nel contempo negare eventuali differenze proprie di ciascun rito.
In tale prospettiva, pertanto, ferme le eventuali
specificità di determinate disposizioni - quali ad es.
l’art. 6, comma 6, l. div. - appare plausibile ritenere
che per tutto quanto non espressamente disciplinato dalla disposizione speciale si debba far riferimento all’art. 337 sexies c.c.
E, così, ad esempio si può ritenere che la nuova
disposizione intenda l’art. 2643 c.c. come una mera
norma di rinvio finalizzata unicamente all’individuazione dell’elenco tassativo degli atti che sono
soggetti a trascrizione onde ricomprendervi in modo espresso il provvedimento di assegnazione della
casa familiare in qualsivoglia ipotesi (separazione,
divorzio, nullità del matrimonio, ecc.), senza negare le specificità previste in punto di trascrizione
dall’art. 6 l. div.
Deve, del pari, reputarsi che la nuova disciplina
sia applicabile per analogia anche al caso dell’assegnazione della casa familiare in presenza di figli nati fuori dal matrimonio: ciò non solo in forza di un
orientamento costante in tal senso, ma a maggior
ragione in virtù del carattere tendenzialmente omnicomprensivo del combinato disposto degli artt.
337 bis e 337 sexies c.c. sopra ricordato.
Costituisce invece una novità assolutamente
inedita la regola per cui, in presenza di figli minori,
ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro un termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto mutamento della residenza o del domicilio (art. 337 sexies, comma 2, c.c.).
A prescindere da tale ultima innovazione, peraltro, è evidente che, con riguardo all’oggetto della
pronuncia qui in commento, si può certamente
concludere che i principi da essa enunciati continuano ad essere condivisibili e a protrarre la loro
validità anche in relazione al tenore del nuovo art.
337 sexies c.p.c., che in parte qua non ha mutato
assolutamente nulla.
Il provvedimento di assegnazione, pertanto, sarà
sufficiente per costituire il titolo esecutivo da utilizzare per il caso in cui il coniuge non assegnatario
non abbandoni spontaneamente la casa familiare,
essendo rilascio ed assegnazione dell’immobile due
profili assolutamente inscindibili.
Per precisione, infine, in relazione al diverso caso della locazione, in applicazione analogica dell’art. 6, comma 2, l. div., va solo ricordato che in
quell’ipotesi si verifica un caso di successione ex lege nella titolarità del contratto, più che di limitazione del diritto dominicale del non assegnatario
sul bene; ma le conclusioni in punto di funzione
del provvedimento al fine di ottenere il materiale
rilascio della casa familiare rimangono certamente
invariate (17).
(15) Cfr., in argomento, Frezza, Mantenimento diretto e affidamento condiviso, Milano, 2008, 144 ss.; Di Majo, Doveri di
contribuzione e regime dei beni nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. trim. dir. proc., 1981, 365 ss.
(16) Cfr. Virgadamo, Opponibilità ai terzi del provvedimento
assegnativo della casa familiare e affidamento condiviso, in Dir.
fam., 2008, 1598 ss.; Gabrielli, I problemi dell’assegnazione del-
la casa familiare al genitore convivente con i figli dopo la dissoluzione della coppia, in Riv. dir. civ., 2003, 131; Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 222. Il regime della trascrizione in caso di
separazione e divorzio rimane, in relazione alla locazione, in
ogni caso differenziato, come messo in evidenza da Corte
cost. n. 2/1990 e da Cass., S.U., 26 luglio 2002, n. 11096.
(17) Cfr. Cass. 30 aprile 2009, n. 10104.
1026
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Casa familiare
Assegnazione della casa familiare
TRIBUNALE DI MILANO, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord. - Pres. Est. Canali
Ai fini dell’assegnazione della casa familiare, l’allontanamento volontario da parte di uno dei coniugi, che porti con sé i figli minori, determina una cesura tra l’ambiente domestico ed i figli stessi; occorre, però, distinguere tra un allontanamento volontario (o anche solo determinato dalla necessità di sottrarre i figli minori alla
tensione endofamiliare che i conflitti coniugali sollevano) dall’allontanamento determinato o indotto dalla necessità di preservare sia il coniuge che i figli minori dalla violenza subita o anche solo assistita; in tal caso ad
una cesura meramente “materiale” del rapporto tra i figli minori e il loro ambiente domestico, può non corrispondere (o non corrisponde necessariamente) una cesura di tipo psicologico o soggettivo, poiché un allontanamento “forzato” comporta inevitabilmente una tensione ed una aspettativa di ritorno quando, per scelta
del genitore abusante ovvero per provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, sia cessato lo stato di pericolo.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non si rinvengono precedenti
Difforme
Non si rinvengono precedenti
Omissis
Con ricorso depositato in data 30.5.2013 M chiede:
- pronunciarsi la separazione coniugale con addebito al
marito G;
- l’affidamento esclusivo delle figlie MM (1996) e
MMM (2005) segnalando come sia attualmente pendente dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano
un provvedimento di limitazione della potestà genitoriale a carico del signor G in merito ad un episodio di
violenza domestica denunciato in data 4.9.2012;
- l’assegnazione della casa coniugale in atto occupata
dal marito e dalla quale la ricorrente, a seguito dell’episodio in data 4.9.2012, ebbe ad allontanarsi trovando
momentanea ospitalità presso la casa della madre in ...;
- che venga posto a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento per le figlie in ragione di euro
700,00 mensili oltre al 50% delle spese mediche, ludiche, scolastiche, ricreative e sportive;
in sede di dichiarazioni avanti il Presidente delegato, la
signora M ha segnalato:
- che la propria madre dorme sul divano ed ella, con le
due figlie, in un letto matrimoniale e che le figlie devono sopportare non pochi disagi per poter frequentare i
rispettivi Istituti scolastici con sede a … nei pressi dell’abitazione già casa coniugale;
- di svolgere unicamente lavori saltuari per i quali percepisce circa 400,00 euro mensili (pur potendo contare sull’ospitalità ed un minimo aiuto da parte della madre);
con memoria difensiva depositata in data 25.9.2013 in
… il signor G:
- segnala che la querela a suo tempo presentata dalla moglie è stata rimessa in data 30.10.2012 e che a partire dal
4.2.2013 egli ha visto saltuariamente la figlia minore nonostante non vi fosse uno specifico provvedimento del
T.M. che impedisse la frequentazione tra padre e figlia;
- si oppone all’assegnazione della casa coniugale alla
moglie sostenendo che la signora M se ne sia già da
Famiglia e diritto 11/2014
tempo allontanata sì che, citando copiosa giurisprudenza sul punto, sottolinea come sia venuta meno la necessità “di preservare la continuità delle abitudini e delle
relazioni domestiche dei figli, nell’ambiente nel quale
durante il matrimonio esse si sviluppavano” e che “la
casa familiare abbia quindi cessato di essere tale e la
prole sia già de finitamente sradicata dal luogo in cui la
vita domestica si svolgeva”;
- si oppone altresì all’affidamento esclusivo delle figlie
alla madre e chiede di fissare in euro 200,00 mensili il
contributo al mantenimento delle figlie.
Vi è in atti una relazione in data 2.5.2013 del Dipartimento Politiche Sociali e Cultura della Salute – settore
Servizi per i Minori e le Famiglie – Servizi Sociali della
Zona ... di Milano - pervenuta al Tribunale per i Minorenni di Milano in data 6.6.2013 e depositata dalla signora M all’udienza dell’8.10.2013 in cui si riferisce:
- che “in data 3.9.2012 a seguito di un episodio di violenza che ha reso necessario l’intervento delle Forze dell’Ordine...la signora M insieme alle due figli minori
MM e MMM ha lasciato l’abitazione familiare e si è trasferita presso la casa della propria madre a ... ”;
- che è stata accertata dell’esistenza all’interno della
coppia di “continui conflitti causati dal signor G che,
talvolta alterato dall’uso smodato di alcool, mette in atto condotte aggressive nei confronti della moglie”;
- che il sig. G, nell’episodio del 3.9.2012 sotto l’effetto
di alcool avrebbe minacciato con un coltello da cucina
la moglie provocando l’intervento a sua difesa della figlia maggiore MM contro il quale il padre ebbe una reazione violenta;
- che il signor G oltre ad essere in carico al .... è in carico anche al ... di .. e viene riferito essere “poco consapevole e molto negante sul tema della dipendenza”;
- che, per altro, la stessa signora M sembra mostrare atteggiamenti altalenanti ed ambivalenti nei confronti
del marito: pur dichiarandone le inadeguatezze e la pericolosità, per un certo periodo ha continuato a ‘’coinvol-
1027
Giurisprudenza
Casa familiare
gerlo concretamente nella vita delle figlie ”, le quali, a
loro volta, hanno decisamente manifestato un’avversione ed un rifiuto ai rapporti con il padre;
quanto sopra premesso allo stato si ritiene:
a) di dover lasciare i rapporti tra il padre e la figlia maggiore MM (che tra poco compirà 18 anni) ai diretti accordi tra di essi e di affidare MMM ai Servizi Sociali del
Comune di .. perché, mantenuta prevalentemente collocata presso la madre, regolamentino i tempi e le modalità di frequentazione del padre, avuto riguardo alle di
lui problematiche ed all’andamento dei suoi percorsi
riabilitativi presso il N.O.A. ed il Ser.T;
b) quanto all’assegnazione della casa coniugale se è ben
vero che un allontanamento volontario da parte di uno
dei coniugi, che porti con sé i figli minori, può effettivamente determinare una cesura tra l’ambiente domestico ed i figli stessi, cionondimeno occorre distinguere
tra un allontanamento volontario (o anche solo determinato dalla necessità di sottrarre i figli minori alla tensione endofamiliare che i conflitti coniugali sollevano)
dall’allontanamento determinato o indotto dalla necessità di preservare sia il coniuge che i figli minori dalla
violenza subita o anche solo assistita ; in tal caso ad una
cesura meramente “materiale” del rapporto tra i figli minori e il loro ambiente domestico, può non corrispondere (o non corrisponde necessariamente) una cesura di
tipo psicologico o soggettivo, poiché un allontanamento
“forzato” comporta inevitabilmente una tensione ed
una aspettativa di ritorno quando, per scelta del genitore abusante ovvero per provvedimento dell’Autorità
Giudiziaria , sia cessato lo stato di pericolo, e ciò è tanto più vero in casi come quello di specie, in cui l’am-
biente sociale delle minori (scuole frequentate, relazioni
sociali in senso lato) sia di stretta prossimità con la casa
già familiare, il ritorno alla quale costituirebbe, per le
ragazze, la conseguenza logica di un’esistenza che esse
conducono nel quartiere nel quale esse vivevano ( in
tal senso si esprime, per altro, anche la relazione dei servizi sociali in atti);
c) in siffatte circostanze il lasso di tempo trascorso dal,
forzato, abbandono dall’abitazione coniugale non sradica per nulla i figli ( avuto anche riguardo alla loro età)
dal ‘contesto domestico’ dovendosi accedere ad una più
ampia accezione che il concetto stesso sottende e che
rende l’ambiente sociale complessivo come comprendente – sotto un profilo psicologico e sociologico, oggettivo e soggettivo, - lo stesso ambiente ‘domestico’
non certo limitato alla ‘fisicità’ delle mura di casa;
d) diversamente argomentando, in caso di allontanamento forzato di uno dei coniugi dalla casa coniugale al
fine di preservare se stesso ed i figli dalla violenza subita
od assistita, la permanenza in essa del genitore abusante
finirebbe per doppiamente penalizzare proprio le parti
più deboli del nucleo familiare e ciò sia pure tenendo in
vista le possibilità offerte dalla legge ( ma non sempre
accessibili alle risorse psicologiche ed economiche delle
parti deboli) di ottenere - in tempi relativamente brevi
- misure di protezione in esse comprese l’assegnazione
della casa coniugale;
e) ne consegue che nel caso di specie l’abitazione coniugale debba essere assegnata alla signora M, che in essa abiterà con le figlie minori delle quali è genitore prevalentemente collocatario;
Omissis
ALLONTANAMENTO VOLONTARIO
E ALLONTANAMENTO FORZATO DALLA CASA FAMILIARE
di Federica Ferrara (*)
Il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi sull’assegnazione della casa familiare in favore di una
donna che aveva abbandonato il tetto coniugale per preservare sé stessa ed i propri figli dalle violenze
del marito, con l’ordinanza in commento, traccia una distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato” dalla casa familiare. In particolare, il Tribunale milanese statuisce che “l’allontanamento volontario” da parte di uno dei coniugi, che porti con sé i figli, determina una cesura materiale e
psicologica tra l’habitat domestico ed i figli stessi, facendo venir meno il presupposto dell’assegnazione
della casa familiare, costituito dall’interesse dei figli a conservare l’habitat naturale del nucleo familiare
nonostante la crisi coniugale; “l’allontanamento forzato”, invece, determinato o indotto dalla necessità di
preservare sé ed i propri figli dalle violenze del coniuge, determina una cesura materiale tra l’ambiente
domestico ed i figli, cui non necessariamente si accompagna una cesura di tipo psicologico, potendo
ben avere i figli un’aspettativa di ritorno nella propria casa, una volta cessato lo stato di pericolo. In considerazione di ciò, con l’ordinanza de qua, il Tribunale afferma che l’allontanamento forzato dalla casa coniugale per sottrarre sé ed i propri figli dalle violenze del coniuge non osta, a differenza del mero allontanamento volontario, all’assegnazione della casa familiare, ove ciò risponda all’interesse dei figli.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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Giurisprudenza
Casa familiare
1. Il caso
La fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento concerne il caso di una donna che, al fine di salvare sé ed i propri figli minori dalla violenza del
marito, abbandonava la casa familiare e trovava
momentanea ospitalità presso la casa della madre.
La stessa proponeva allora ricorso al Tribunale
di Milano per ottenere la separazione coniugale
con addebito al marito, l’affidamento esclusivo dei
figli minori, l’assegnazione della casa coniugale occupata dal marito, nonché la regolazione dei rapporti economici.
Il marito, con memoria difensiva, si opponeva all’affidamento esclusivo dei figli alla madre e all’assegnazione alla stessa della casa familiare, rilevando
che la donna aveva rimesso la querela presentata dinanzi all’autorità giudiziaria per i presunti episodi di
violenza e che, avendo la donna abbandonato la casa coniugale trasferendosi dalla madre, mancavano i
presupposti per l’assegnazione, in quanto la casa coniugale aveva cessato di essere tale ed i figli si erano
sradicati definitivamente dal luogo in cui si era
svolta la loro vita domestica in passato.
Nel corso del giudizio la donna dichiarava che il
trasferimento dalla madre per sottrarsi alle violenze
del marito era solo momentaneo e comportava disagi a lei, alla madre di lei, ma soprattutto ai figli,
in quanto tale abitazione era sprovvista di posti letto per tutti e gli istituti scolastici frequentati dai figli erano distanti dalla stessa e situati, invece, nei
pressi dell’abitazione già casa coniugale. La donna
depositava, inoltre, una relazione dei Servizi Sociali dalla quale risultavano le violenze perpetrate dal
marito nei suoi confronti.
In considerazione di ciò, con l’ordinanza de qua,
il Tribunale di Milano decideva sul ricorso e, con
particolare riferimento all’assegnazione della casa
familiare, dopo aver tracciato un’interessante distinzione tra allontanamento volontario e allontanamento forzato, assegnava la casa familiare alla
(1) Per un primo inquadramento dell’istituto, si segnalano:
E. Quadri, Assegnazione della casa familiare, interesse della prole e tutela del coniuge, in Nuova giur. civ. comm., Padova,
1996, I, 517; T. Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 2004, 255;
M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni, Milano,
2005, 221; V. Carbone, Assegnazione della casa coniugale, in
Corr. giur., Milano, 2005, 319; M. Paladini, L’abitazione della
casa familiare nell’affidamento condiviso, in questa Rivista,
2006, 335; E. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della
casa familiare: la recente riforma, in Familia, Milano, 2006, 3,
432; C. Rimini, L’assegnazione della casa familiare: l’art 155
quater c.c. alla luce delle più recenti affermazioni giurisprudenziali, in Fam. pers. succ., Torino, 2007, 497.
(2) V. Belloma, Intorno al concetto di <casa familiare> ed alla sua assegnazione in sede di divorzio, in Giur. merito, Milano,
Famiglia e diritto 11/2014
donna nonostante si fosse dalla stessa allontanata
con i figli per un periodo di tempo, per aver accertato che si trattava di ipotesi di “allontanamento
forzato” determinato dalla necessità di sottrarre se
stessa ed i propri figli dalle violenze del marito, inidoneo a recidere il legame dei figli con l’habitat
domestico originario.
2. L’istituto dell’assegnazione della casa
familiare e la sua funzione
L’istituto dell’assegnazione della casa familiare (1) trova la sua sede naturale nella fase patologica dei rapporti familiari.
La “casa familiare” (2) è l’immobile che ha costituito il centro di riferimento e di aggregazione della famiglia durante la convivenza; essa viene intesa
quale habitat naturale del nucleo familiare, centro
degli affetti, degli interessi e delle consuetudini di
vita in cui si esprime e si articola la vita della famiglia (3).
La casa ha una duplice valenza, oggettiva e psicologica, nel senso che, oltre a costituire il luogo
fisico di stabile dimora della famiglia, rappresenta
il luogo ideale in cui si svolgono gli affetti e si concentrano i sentimenti dei genitori e dei figli (4).
In considerazione di ciò, secondo la tesi prevalente (5), la “casa familiare” non è il mero immobile in cui ha vissuto la famiglia, ma va intesa quale
immobile comprensivo dei beni mobili, quali arredi, suppellettili, utensili, ad eccezione dei beni personali appartenenti al singolo familiare.
Essa va intesa, inoltre, quale dimora stabile e
abituale per la famiglia e ciò induce ad escludere
che le case di villeggiatura o quelle in cui la famiglia si reca saltuariamente nel corso di brevi periodi dell’anno possano rientrare nel concetto di “casa
familiare” (6).
La “crisi familiare” pone il problema di individuare il soggetto cui eventualmente assegnare in
2003, 1943.
(3) In tali termini, Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166, in
Giur. it., 1998, 1783; Cass. 2 luglio 1990, n. 6774, in Giur. it.,
1991, 424; Cass. 23 maggio 2000, n. 6706, in Giust. civ. Mass.,
2000, 1091; Cass. 9 settembre 2002, n. 13065, in Dir. Fam.,
2003, 36; Cass. sez. un., 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e
Giustizia online, 2012, 8 giugno.
(4) C. Trapuzzano, Assegnazione della casa familiare, in Giur.
merito, Milano, 2011, 1731.
(5) In tal senso, A. Jannarelli, L’assegnazione della casa familiare nella separazione personale dei coniugi, in Foro it., 1981,
1385; M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni,
cit., 221.
(6) Cass. 20 marzo 1993, n. 5793, in Giur. it., 1994, I, 242.
1029
Giurisprudenza
Casa familiare
godimento la casa in cui si è svolta la vita del nucleo familiare prima che intervenisse la disgregazione dello stesso.
L’assegnazione della casa trova oggi la sua compiuta disciplina nell’art 337 sexies del codice civile (7) secondo il quale l’assegnazione in godimento
della casa, in caso di crisi familiare, deve avvenire
“tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei
figli”, determinando l’acquisto in capo al soggetto,
secondo alcuni, di un diritto reale di abitazione (8),
secondo altri, di un diritto reale di godimento (9).
In considerazione del valore economico del godimento della casa, specie ove venga assegnata al
coniuge o ex convivente non proprietario della
stessa, la norma prevede che dell’assegnazione occorre tener conto nella regolazione dei rapporti
economici tra i genitori.
L’art 337 sexies dispone, infine, che il diritto al
godimento della casa venga meno, previo provvedimento di revoca da parte del giudice, ove l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente
nella casa o conviva more uxorio o contragga nuovo
matrimonio e che i provvedimenti di assegnazione
e revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi, ai
sensi dell’art 2643c.c..
La ratio dell’istituto, secondo la tesi prevalente (10), risiede esclusivamente nell’esigenza di tutelare i figli in caso di crisi della famiglia, consentendo agli stessi di conservare l’habitat domestico, inteso, come già anticipato, quale centro di affetti,
interessi e consuetudini in cui si è svolta la vita familiare prima che intervenisse la crisi tra i genitori.
Secondo tale orientamento, l’assegnazione della
casa familiare, essendo finalizzata ad evitare ai figli
minorenni o maggiorenni, non economicamente
autosufficienti, il trauma dell’allontanamento forzoso dall’abituale ambiente di vita, può essere disposta solo ed esclusivamente in presenza di figli e
nei confronti del genitore che convive con gli stessi.
Tale tesi trova fondamento nel dato letterale di
cui all’art 337 sexies (ove prevede che occorre tener conto in via prioritaria dell’interesse dei figli e
fa riferimento al concetto di “genitori”) e risulta
oggi suffragata dalla nuova collocazione dell’istituto, per effetto della Riforma sulla Filiazione del
2013, non più nell’ambito dello scioglimento del
matrimonio e della separazione, ma nell’ambito
della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri
del figlio.
Non può comunque sottacersi l’esistenza di un
indirizzo minoritario (11) secondo il quale l’istituto
de quo è volto a tutelare non solo l’interesse dei figli, ma anche l’interesse economico, morale ed affettivo del coniuge “debole”.
Tale tesi trova conforto sia nell’art 337 sexies
che, prevedendo che ai fini dell’assegnazione della
casa occorre tenere “prioritariamente” conto dell’interesse dei figli, pare non escludere che il giudice possa decidere anche in considerazione di altri
interessi ritenuti meritevoli di tutela, sia dell’art 6
della Legge 1 dicembre 1970, n. 898 ove dispone
che “in ogni caso ai fini dell'assegnazione il giudice
dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”.
In considerazione di ciò, è stato, quindi, sostenuto che il giudice possa assegnare la casa familiare al
(7) L’istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151 che l’ha disciplinato, con riferimento alle ipotesi di separazione personale, all’art
155 c.c. Successivamente è stato esteso alle ipotesi di divorzio
con l’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74 che ha modificato
l’art. 6, comma 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898. Nel
2006, è intervenuto l’art. 1, comma 1 della legge 8 febbraio
2006, n. 54 che ha inserito l’art 155 quater c.c. prevedendo
l’applicazione dell’istituto alle ipotesi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio,
nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
Per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. 28 dicembre
2013, n. 154, l’art. 155 quater è stato abrogato ed oggi l’istituto è disciplinato dall’art 337 sexies c.c.
(8) In tal senso, A. Jannarelli, L’assegnazione della casa familiare nella separazione personale dei coniugi, cit., 1318.
(9) In tal senso, in dottrina, A. Belvedere, Residenza e casa
familiare: riflessioni critiche, in Riv. critica dir. priv., Napoli, 1988,
243; in giurisprudenza, Cass. 22 novembre 1993, n. 11508, in
Vita not., 1994, I, 765; Cass. 19 settembre 2005, n. 18476, in
Giust. civ., 2006, I, 2450. Si veda, inoltre, per la sintesi degli
orientamenti sul punto, Cass., sez. un., 26 luglio 2002, 11096,
in Giur. it., 2003, 1133, con nota di A. Carrino.
(10) In tal senso, Cass., sez. un., 23 aprile 1982, n. 2494, in
Foro it., 1982, I, 1985, con nota di A. Jannarelli; Cass., sez.
un., 26 luglio 2002, n. 11096, cit.; Cass. 29 agosto 2003, n.
12705, in Dir. fam., 2003, 943; Cass., sez. un., 21 luglio 2004,
n. 13603, in Giust. civ. Mass., 2004, 7-8; Cass. 18 febbraio
2008, n. 3934, in Guida al diritto, 2008, 12, 51; Corte Cost. 30
luglio 2008, n. 308, in Dir. fam., 2009, 2, 515; App. Roma 30
aprile 2008, n. 1820, in Giur. merito, 2009, 4, 900, con nota di
V. Santarsiere; Cass. 13 gennaio 2012, n. 387, in Il civilista,
2012, 2, 14.
(11) In tal senso, Trib. Catania 31 gennaio 1994, in Dir.
fam., 1994, 695, secondo cui il giudice può assegnare la casa
la genitore non affidatario “qualora gli interessi di costui ...
vengano ritenuti nettamente più meritevoli di tutela di quelli
della prole”; Trib. Napoli 29 ottobre 1984, in Dir. giur., 1984,
968; Cass. 9 giugno 1990, n. 5632, in Nuova giur. civ. comm.,
1991, I, 91, con nota di M. Di Nardo; Cass. 9 maggio 1997, n.
4061, in Dir. fam., 1997, 929; Cass. 28 gennaio 1998, n. 822,
in questa Rivista, 1998, 125; Trib. Milano 29 ottobre 1999, in
Giur. it., 2001, 1175; Cass. 23 febbraio 2000, n. 2070, in Giur.
it. Mass., 2000; Cass. 11 aprile 2000, n. 4558, in Giur. it., 2000,
2235, secondo cui in assenza di figli, il giudice può assegnare
la casa al coniuge privo di adeguati redditi propri. In dottrina
M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni, cit.,
221.
1030
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Casa familiare
coniuge privo di diritti sulla stessa sia nel caso in
cui i figli non siano con lo stesso conviventi sia in
assenza di figli, ove ricorrano interessi meritevoli
di tutela (12).
L’assegnazione della casa può cosi costituire una
modalità di adempimento dell’obbligo di mantenimento normativamente previsto in tema di separazione e divorzio.
Individuata la ratio dell’istituto, occorre esaminare i presupposti in presenza dei quali il giudice
può disporre l’assegnazione della casa familiare.
Presupposto fondamentale per l’assegnazione della
casa familiare è costituito dall’interesse dei figli alla
conservazione dell’habitat domestico in cui si è svolta la propria vita, onde evitare di aggiungere al trauma dovuto alla crisi familiare quello relativo all’allontanamento dal luogo di crescita e sviluppo, con
conseguente perdita della continuità ambientale.
A tale presupposto si affianca quello della coabitazione del genitore assegnatario con il figlio nella
casa coniugale (13).
In genere vi è coabitazione del figlio minore con
il genitore cui è attribuito l’affidamento esclusivo
del figlio o con quello presso cui è collocato prevalentemente in caso di affidamento congiunto; in
caso di figlio maggiorenne, non economicamente
autosufficiente, la coabitazione con il genitore è
invece frutto della scelta del figlio stesso.
La coabitazione rilevante ai fini dell’assegnazione deve svolgersi nella casa familiare.
Al riguardo, si registrano due diversi orientamenti.
Secondo una tesi più rigorosa (14), perché il giudice possa disporre l’assegnazione è necessario che
la casa costituisca la “stabile dimora” del figlio.
In altri termini, perché vi sia una coabitazione rilevante occorre che il figlio viva stabilmente, continuativamente e abitualmente nella casa familiare.
Sono ammessi solo allontanamenti sporadici, per
brevi periodi, altrimenti si configura un rapporto di
mera ospitalità (15), che impedisce l’assegnazione
della casa.
E’ stato così negato il diritto di godimento della
casa nell’ipotesi di un figlio studente fuori sede che
si recava nell’abitazione familiare soltanto saltuariamente in alcuni periodi dell’anno (vacanze estive) o di un figlio che viveva con i nonni o al figlio
trasferitosi all’estero (16).
La tesi prevalente in giurisprudenza (17) ritiene,
invece, che, ai fini dell’assegnazione, non sia necessario che la casa costituisca stabile dimora del
figlio, essendo piuttosto sufficiente un “collegamento stabile” con la casa.
È possibile infatti l’assegnazione anche nelle ipotesi di convivenza non quotidiana, purché permanga un collegamento tra il figlio e la casa e sussista
l’interesse del figlio a mantenere integro il suo habitat domestico, da valutarsi tramite ricorso al criterio della regolarità del ritorno a casa e della prevalenza temporale dell’effettiva presenza del figlio
nell’abitazione familiare (18).
Cosi la giurisprudenza (19) ha ammesso l’assegnazione della casa in caso di figlio che, benché
lontano per ragioni di studio, tornava periodicamente a casa, avendo ivi conservato la residenza.
In presenza dei citati presupposti il genitore può
ottenere l’assegnazione della casa familiare.
Il provvedimento di assegnazione può essere oggetto di revoca da parte del giudice.
Al riguardo, l’art 337 sexies prevede che il diritto
di godimento venga meno nelle ipotesi in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente
nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
La revoca, secondo costante orientamento (20),
non opera automaticamente ma occorre un espres-
(12) In senso contrario, in dottrina V. Carbone, Assegnazione della casa coniugale, cit., 319; in giurisprudenza, Cass. 14
dicembre 2007, n. 26476, in Diritto e giustizia online 2007, secondo cui “l’assegnazione non può essere disposta in funzione
integrativa o sostitutiva dell’assegno divorzile, oppure allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge
economicamente più debole”; Cass. 21 gennaio 2011, 1491,
in Giust. civ. Mass., 2011, 1, 102; Cass. 13 gennaio 2012, n.
387, cit.
(13) Per un’analisi degli orientamenti sul concetto di coabitazione rilevante, si veda Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, in Foro it., 2012, 5, I, 1384, con nota di A. Di Lallo.
(14) In tal senso, Cass. 22 aprile 2002, n. 5857, in Giust.
civ., 2002, I, 1805, con nota di G. Frezza; Cass. 16 maggio
2013, 11981, in Diritto & Giustizia, 17 maggio 2013, con nota
di M. Di Michele.
(15) In tal senso, Cass. 22 aprile 2002, n. 5857, cit.
(16) Cass. 13 febbraio 2006, n. 3030, in Giust. civ. Mass.,
2006, 4; Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476, cit.; Cass. 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e Giustizia online, 8 giugno 2012;
Cass. 10 maggio 2013, 11218, in Arch. Locazioni, 2013, 4, 417.
(17) Cass. 27 maggio 2005, 11320, in Giust. civ. Mass.,
2005, 5; Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, cit.; Cass. 9 agosto
2012, n. 14348, in Giust. civ. Mass., 2012, 9, 1079; App. Caltanissetta 11 aprile 2013, in Arch. Locazioni, 2013, 5, 631.
(18) Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, cit.
(19) Cass. 22 marzo 2012, 4555, cit.
(20) E. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della ca-
3. I presupposti per l’assegnazione e la
conservazione del diritto di godimento
della casa familiare
Famiglia e diritto 11/2014
1031
Giurisprudenza
Casa familiare
so provvedimento da parte del giudice che deve essere trascritto ai fini dell’opponibilità ai terzi.
L’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico e la convivenza tra genitore e prole
costituiscono presupposti dell’assegnazione della
casa familiare e, ove vengano meno, il coniuge
non assegnatario ha la possibilità di chiedere la revoca dell’assegnazione.
Se l’assegnatario non abiti o cessi di abitare in
modo stabile e continuativo nella casa familiare
l’assegnazione perde la sua ragion d’essere in quanto il figlio non gode più della continuità ambientale che giustifica l’assegnazione, specie ove venga in
rilievo la necessità di tutelare il diritto di proprietà
del coniuge non assegnatario (21).
Dubbi interpretativi sono sorti con riferimento
alle ipotesi in cui l’assegnatario instauri una convivenza more uxorio o contragga nuove nozze (22).
Ciò in quanto il dato letterale di cui all’art 337
sexies c.c. sembra non tener conto del fatto che tali
eventi non determinino necessariamente il venir
meno dell’interesse dei figli a mantenere integro il
proprio habitat. Una revoca che prescinda dalla
considerazione dell’interesse dei figli determinerebbe un ingiusto sacrificio per gli stessi, a causa di
una scelta di vita del genitore assegnatario.
Sulla scorta di tali osservazioni, il Giudice delle
leggi, con una nota pronuncia (23), ha affermato
che la norma va interpretata nel senso che la decisione sull’assegnazione e sulla revoca sono sempre
subordinate alla valutazione dell’interesse dei figli.
4. L’allontanamento dalla casa familiare:
“allontanamento volontario” e
“allontanamento forzato”
La coabitazione stabile e continuativa tra il genitore ed il figlio nella casa coniugale, come evidenziato, costituisce presupposto indefettibile per
ottenerne l’assegnazione della casa ed evitare la revoca della stessa.
Ciò pone il problema di individuare la rilevanza
da attribuire, ai fini dell’assegnazione e della revoca della stessa, all’allontanamento del genitore o
del figlio dalla casa coniugale.
sa familiare: la recente riforma, cit., 395.
(21) R. Villani, La nuova disciplina dell’affidamento condiviso
dei figli di genitori separati, in Studium iuris, 2006, 674.
(22) Sugli orientamenti formatisi in passato sul punto, si veda C. Trapuzzano, Assegnazione della casa familiare, cit. 1731.
(23) Corte Cost. 30 luglio 2008, n. 308, in Giur. cost., 2008,
4, 3362, con nota di G.U. Rescigno.
1032
Per considerarsi rilevante, l’allontanamento secondo costante giurisprudenza, deve caratterizzarsi
innanzitutto per la sua stabilità e irreversibilità (24).
Tali caratteri spezzano la continuità ambientale
che giustifica l’assegnazione della casa familiare.
Con l’allontanamento, infatti, i figli vengono
sradicati dal luogo in cui la famiglia svolgeva la
propria vita e viene meno l’esigenza abitativa.
Al riguardo, però, occorre osservare come in
realtà non sempre l’allontanamento del genitore o
del figlio dalla casa coniugale sia idoneo a far venir
meno la necessità di tutelare i figli in caso di crisi
familiare e di garantire agli stessi la conservazione
delle proprie abitudini di vita.
Possono, infatti, verificarsi nella prassi delle ipotesi in cui, nonostante l’allontanamento dalla casa,
permanga in capo ai figli l’interesse a ritornarvi,
onde evitare che, al trauma derivante dalla crisi tra
i genitori, si aggiunga quello derivante dalla perdita della casa in cui si concentrano i propri affetti
ed abitudini di vita.
In tema di allontanamento dalla casa familiare è
cosi possibile operare una distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato”,
distinzione tracciata dal Tribunale di Milano nell’ordinanza in commento.
L’allontanamento volontario consiste nell’abbandono della casa familiare da parte del genitore
o del figlio in modo spontaneo, in conseguenza di
una libera scelta, frutto della volontà di cominciare
una nuova vita.
Tale allontanamento recide il legame materiale e
psicologico con la casa familiare e la casa cessa di essere un punto di riferimento per la vita del figlio, il
centro dei propri affetti e delle consuetudini di vita.
Per tale ragione, in caso di allontanamento volontario, dotato dei caratteri della stabilità, non
spetta l’assegnazione della casa o si può disporre la
revoca della stessa.
La giurisprudenza (25) ha così negato o revocato
l’assegnazione nel caso in cui il genitore si sia allontanato dalla casa volontariamente, per ragioni
personali, anche ove ciò sia avvenuto per sottrarre
i figli alle tensioni endofamiliari che i conflitti coniugali comportano (26).
(24) In tal senso, Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, in Diritto
e giustizia, 13 maggio 2013; Cass. 9 agosto 2012, n. 14348 , in
Foro it., 2013, 4, I, 1193, con nota di G. Casaburi.
(25) App. Roma 1 marzo 2006, n. 1130, in Guida al diritto,
2006, 22, 48.
(26) Trib. Milano 8 ottobre 2013, ord., in commento.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Casa familiare
Si rinvengono anche numerose pronunce in cui
i giudici hanno ritenuto reciso il legame dei figli
con la casa in cui vivevano in passato, per essersi
questi allontanati dalla stessa per andare ad abitare
dai nonni, per ragioni di lavoro, per ragioni di studio o per aver cambiato città (27).
Dall’allontanamento volontario occorre distinguere l’allontanamento forzato.
Trattasi di un allontanamento obbligato e/o necessitato.
Tale allontanamento, come sostenuto nell’ordinanza de qua, determina una cesura meramente
materiale del rapporto tra i figli ed il loro ambiente
domestico cui non corrisponde necessariamente
una cesura di tipo psicologico, ben potendo i figli
mantenere una aspettativa di ritorno una volta cessata la causa che ha dato luogo all’allontanamento
forzato o obbligato.
Ove l’allontanamento non sia stabile e sia determinato da valide ragioni giustificatrici e non comporti uno sradicamento dei figli dal loro habitat
domestico è possibile ottenere o mantenere il diritto di godimento della casa familiare.
Ciò al precipuo fine di riconoscere ai figli la più
ampia tutela possibile a fronte della crisi familiare.
La giurisprudenza precedente l’ordinanza in commento (28), pur non operando un’espressa distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato o obbligato”, ha di fatto ammesso
l’assegnazione della casa coniugale, in talune particolari ipotesi, nonostante l’allontanamento dalla
stessa.
E’ stato così sostenuto che l’allontanamento del
genitore e del figlio dalla casa familiare per esigenze lavorative, ove nel caso concreto non venga reciso il vincolo psicologico con la casa, che continua a costituire habitat naturale della famiglia,
non dia luogo a revoca dell’assegnazione.
È il caso, ad esempio, di un’infermiera turnista
presso una struttura ospedaliera costretta ad allontanarsi dalla casa durante la settimana e ad affidare
i figli ai nonni a causa dei turni di lavoro, per farvi
però rientro insieme a questi nei fine settimana (29).
Oppure il caso di un figlio che si allontana dalla
casa familiare durante la settimana per ragioni di
studio e ritorna nei weekend o comunque quanto
possibile (30) (per altro orientamento (31), in questa ipotesi non è consentita l’assegnazione in quanto trattasi di mera ospitalità data dal genitore al figlio, essendosi già reciso il vincolo che lo lega alla
casa).
Di allontanamento forzato o obbligato è possibile parlare anche nelle ipotesi in cui lo stesso sia determinato da cause di forza maggiore (32), che costringono il coniuge ed il figlio ad allontanarsi dalla casa familiare, pur non volendolo.
È il caso, ad esempio, di un allontanamento determinato dalla necessità di ristrutturare la casa o
di compiere su di essi interventi urgenti di sicurezza (33).
Altra ipotesi di allontanamento forzato può configurarsi in caso di inottemperanza da parte di uno
dei genitori ad un ordine di protezione, quale l’ordine di allontanamento dalla casa familiare, il che
comporta la necessità per l’altro coniuge, assegnatario, di allontanarsi dalla casa insieme ad i figli in
attesa di ulteriori provvedimenti giudiziari. In questo caso, l’assegnatario ed i figli si allontanano dalla casa con l’aspettativa di farvi rientro al più presto, mantenendo vivo il legame psicologico con
l’habitat domestico.
Anche in questa ipotesi il genitore dovrebbe ottenere o comunque mantenere il diritto di godimento della casa di famiglia.
In tale contesto, si inserisce l’ordinanza in commento con cui il Tribunale di Milano ha assegnato
la casa familiare ad una donna vittima di violenze
da parte del marito, nonostante la stessa si fosse allontanata dalla casa, portando con sé i figli, andando a vivere per un periodo dai propri genitori.
Il Tribunale ha assegnato la casa familiare alla
donna in quanto l’allontanamento non era stato
volontario, ma forzato, in quanto la donna era stata a ciò costretta dalla necessità di sottrarre sé ed i
propri figli alla violenza del marito.
Tale allontanamento aveva determinato una
mera cesura materiale tra i figli e l’ambiente domestico cui, nel caso concreto, non era seguita
(27) Cass. 13 febbraio 2006, n. 3030, in Giust. civ. Mass.,
2006, 4; Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476, cit.; Cass. 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e Giustizia online, 8 giugno 2012;
Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, in Dir. fam. e pers., 2013, 4,
1, 1335; Cass. 16 maggio 2013, n. 11981, cit.; Cass. 10 febbraio 2014, n. 2952, in Diritto & Giustizia, 10 febbraio 2014.
(28) Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, cit.; Cass. 9 agosto
2012, n. 14348, cit.
(29) Cass. 9 agosto 2012, n. 14348, cit.
(30) Cass. 22 marzo 2012, 4555, cit.
(31) Cass. 22 aprile 2002, 5857, cit.
(32) G. Pagliani, Modifica delle condizioni di separazione e
divorzio, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2013, 274.
(33) Trib. Modena 10 gennaio 2007, in Fam. pers. succ.,
2007, 362.
Famiglia e diritto 11/2014
1033
Giurisprudenza
Casa familiare
una cesura psicologica, avendo i figli mantenuto
l’aspettativa e la speranza di tornare in quella casa che costituisce centro di affetti e abitudini di
vita.
L’allontanamento forzato dalla casa determinato
dallo stato di necessità di sottrarsi alle violenze
perpetrate tra le mura domestiche non osta, quindi,
secondo il decisum in oggetto, all’assegnazione della
casa familiare.
Ciò in quanto per negare l’assegnazione in caso
di allontanamento occorre accertare che lo stesso
abbia determinato una cesura sia materiale sia psicologica tra i figli e l’habitat domestico.
Ove ciò non si sia verificato in quanto all’allontanamento fisico non sia seguito un distacco psicologico, perché i figli hanno tenuto viva un’aspettativa di ritorno al proprio ambiente domestico una
volta cessato lo stato di pericolo (per scelta del genitore abusante o a seguito di un provvedimento
giudiziario) la casa familiare, secondo il Tribunale
di Milano, deve essere assegnata al genitore vittima di violenza.
Tale soluzione abbracciata dall’ordinanza in
commento appare assolutamente in linea con la ratio dell’istituto volto a salvaguardare i figli in caso
di crisi familiare.
1034
Si evita cosi che al trauma derivante dalla crisi
familiare e dalle violenze subite o anche solo assistite si aggiunga quello derivante dallo sradicamento dal proprio habitat domestico.
D’altronde una soluzione differente finirebbe per
penalizzare eccessivamente le parti più deboli del
nucleo familiare, ossia i figli ed il coniuge vittima
di violenze, a vantaggio di un soggetto che non
merita protezione da parte dell’ordinamento.
A ciò si aggiunga che se si negasse l’assegnazione
della casa familiare in caso di allontanamento forzato, specie ove determinato da una condotta violenta dell’altro coniuge, si darebbe la stura ad intollerabili atteggiamenti volti a “costringere” il coniuge ad abbandonare la casa al precipuo fine di
impedire che questi ottenga successivamente l’assegnazione della stessa.
La distinzione tra “allontanamento volontario” e
“allontanamento forzato” (o comunque “obbligato” o
“necessitato”) tracciata dal Tribunale di Milano costituisce cosi un valido strumento a presidio dell’interesse sotteso all’assegnazione della casa, ossia la tutela dei figli nella fase patologica dei rapporti familiari, specie nei casi in cui la crisi sia complicata da episodi di violenza e la casa costituisca quel minimun che
consenta ai figli di ritrovare la serenità perduta.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Sintesi
Osservatorio di giurisprudenza
civile
a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito
SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI
ASSEGNO E CASA FAMILIARE
Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649
Il passaggio dal regime di affidamento esclusivo a quello di affidamento condiviso dei figli non comporta alcuna riduzione della misura del contributo al mantenimento dei figli disposto nel regime di affidamento
esclusivo.
Il caso
Il Tribunale dichiara la separazione dei coniugi M e F, disponendo l’affido condiviso dei figli e fissando la loro residenza presso la madre, cui viene assegnato la casa familiare; pone, inoltre, a carico del marito l’obbligo di contribuire
al mantenimento dei figli mediante la corresponsione alla F
di un assegno mensile di 800 euro. La Corte d’appello aumenta l’importo dell’assegno a 1.000 euro e rigetta la richiesta di M di riduzione della casa familiare (su due livelli)
assegnata alla F, con attribuzione in suo favore dell’appartamento al primo piano dell’immobile, previe opere di chiusura della comunicazione con l’appartamento sito al piano
terreno, da riservare all’abitazione della moglie insieme ai
figli.
Il marito M propone ricorso per cassazione; in primo luogo
lamenta che, pur essendo stato disposto l’affidamento
condiviso dei figli, la misura dell’assegno, disposto in fase
presidenziale in relazione all’affido alla sola madre, non sia
stata rideterminata in considerazione del mantenimento diretto di cui alla nuova formulazione dell’art. 155 c.c.; in secondo luogo, contesta l’assegnazione alla sola moglie dell’intero fabbricato, divisibile in due unità abitative.
La soluzione della Corte di cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. rigetta il ricorso. In relazione alla misura dell’assegno di mantenimento, i giudici di legittimità precisano che
il passaggio dal regime di affidamento esclusivo a quello di
affidamento condiviso dei figli non comporta alcuna riduzione della misura del contributo al mantenimento dei figli
disposto nel regime di affidamento esclusivo. Tale riduzione può essere disposta solo con riguardo a concrete evidenze di riduzione del carico di spesa e di impiego di disponibilità personali derivanti dall’affido condiviso. Infatti,
l’affidamento congiunto dei figli ad entrambi i genitori previsto dall’art. 6 della legge sul divorzio e analogicamente applicabile anche alla separazione personale dei coniugi
- è un istituto che, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di
uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un
assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro
esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale
di appartenenza; va escluso, quindi, che l’istituto implichi,
Famiglia e diritto 11/2014
come conseguenza “automatica”, che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed
autonomo, alle predette esigenze (cfr. Cass. 18 agosto
2006, n. 18187, in questa Rivista 2007, 345, con nota di
Dogliotti, nonché in Corr. giur. 2006, 1348, con nota di Carbone, Foro it. 2006, I, 3346, Giur. it. 2007, 2193, con nota
di Gandolfi, Dir. fam. 2007, I, 149, Nuova giur. civ.
comm. 2007, I, 268, con nota di Quadri; in senso conforme
anche Cass. 29 luglio 2011, n. 16736, non massimata, in
Giust. civ. 2012, I, 729, con nota di M. Finocchiaro).
Quanto all’assegnazione della casa familiare, la S.C. rileva
che la Corte d’appello si è basata sul principio ispiratore
dell’istituto, che è quello di conservare, nell’interesse esclusivo dei figli, l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare (cfr., tra le varie, Cass. 4 luglio 2011, n. 14553). Nel caso di specie, anche se è vero
che si tratta di una casa familiare di ampie dimensioni, articolata su due livelli abitativi, ciascuno dotato di autonomi
servizi e comunque collegati da una scala interna, è altrettanto vero che, al di là delle concrete possibilità di creazione di due distinte ed autonome unità abitative, il “fabbricato-villetta” è stato progettato e destinato a unitaria abitazione della famiglia. Sulla base di questo accertamento di
fatto esattamente la Corte distrettuale ha ritenuto non sacrificabile l’interesse dei figli - da ritenersi preminente - a
mantenere quell’habitat domestico nelle dimensioni volute
e realizzate dagli stessi genitori; del resto, la conflittualità
tra i due ex coniugi, emersa nel corso del giudizio, potrebbe essere di pregiudizio per i minori in caso di convivenza
dei genitori nello stesso stabile.
Sul principio per cui l’assegnazione della casa familiare, in
presenza di figli minori, non può essere disposta a favore
del coniuge proprietario esclusivo, neppure qualora l’eccessivo costo di gestione ne renda opportuna la vendita,
se i figli sono affidati all’altro coniuge, in quanto eventuali
interessi di natura economica assumono rilievo nella misura in cui non sacrifichino il diritto dei figli a permanere nel
loro habitat domestico, cfr. Cass. 22 novembre 2010, n.
23591, in Corr. giur. 2011, 1100, con nota di Galluzzo.
DIVORZIO
ASSEGNO
Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869
L’inclusione in via forfettaria delle spese straordinarie
nell’ammontare dell’assegno di mantenimento per i figli minori, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 155 c.c. e con quello dell’adeguatezza del
mantenimento.
1035
Giurisprudenza
Sintesi
Il caso
Nel giudizio di divorzio tra G e P, il Tribunale dispone l’affido condiviso delle 4 figlie minori e la loro collocazione
presso la madre; prevede, inoltre, l’obbligo del padre di
contribuire al mantenimento delle figlie con il versamento
di un assegno mensile di 250 euro per ciascuna di loro, oltre all’importo degli assegni familiari eventualmente percepiti per il nucleo familiare ed oltre il 50% delle spese straordinarie, in aggiunta al contributo ordinario. La Corte d’appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dal
marito P, determina in complessivi 1.000 euro l’assegno
per il mantenimento delle figlie, comprensivo anche delle
spese mediche, scolastiche, ecc.
La G propone, allora, ricorso per cassazione, contestando
la ricomprensione delle spese straordinarie nell’importo
dell’assegno di mantenimento, che si sostanzia nella negazione del riconoscimento del diritto al contributo per tali
spese. Il P, a sua volta, nel ricorso incidentale, lamenta la
mancata riduzione dell’assegno per il periodo estivo, durante il quale le figlie soggiornano presso di lui.
La soluzione della Corte di cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. accoglie il ricorso principale. I giudici di legittimità
precisano che devono intendersi per spese “straordinarie”
quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la
loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita
dei figli; pertanto, la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art.155 c.c. e con quello dell’adeguatezza
del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla
prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le
possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti. In altri termini, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno periodico, la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica
ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire
in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò
che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore
della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi
che regolano la materia (cfr. Cass. 8 giugno 2012, n. 9372).
Il ricorso incidentale è, invece, rigettato. Infatti, secondo i
giudici di legittimità, in mancanza di diverse disposizioni, il
contributo al mantenimento dei figli minori, determinato in
una somma fissa mensile in favore del genitore affidatario,
non costituisca il mero rimborso delle spese sostenute dall’affidatario nel mese corrispondente, bensì la rata mensile
di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni
altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle
esigenze della prole rapportate all’anno. Pertanto, il genitore non affidatario non può ritenersi sollevato dall’obbligo di
corresponsione dell’assegno per il tempo in cui i figli, in relazione alle modalità di visita disposte dal giudice, si trovino presso di lui ed egli provveda pertanto, in modo esclusivo, al loro mantenimento (cfr. Cass. 17 gennaio 2011, n.
566).
SENTENZA NON DEFINITIVA
Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord.
1036
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 12, della legge n. 898
del 1970, nel testo sostituito dall’art. 8 della legge n. 74
del 1987, che consente la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio indipendentemente dalla risoluzione
delle questioni economiche, sollevata in riferimento agli
artt. 2, 3 e 29 Cost.
Il caso
In un giudizio di divorzio, il Tribunale pronuncia sentenza
non definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da D e G e dispone la rimessione della causa
sul ruolo per l’ulteriore trattazione delle questioni economiche.
La G propone appello avverso la sentenza non definitiva,
chiedendo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la verifica della legittimità dell’art. 4, comma 12, della
legge n. 898 del 1970, che consente la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, rilevando la possibile lesione di interessi costituzionalmente protetti derivanti dallo
scollamento fra la pronuncia di cessazione degli effetti civili
e il momento della definizione delle questioni economiche,
tenuto conto, nel caso di specie, anche dell’avanzata età
dei coniugi.
La Corte d’appello respinge il gravame, per cui la G ripropone la questione davanti alla Corte di cassazione.
La soluzione della Corte di cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. rigetta il ricorso. Ritiene, infatti, che la questione di
costituzionalità è manifestamente infondata in primo luogo
in relazione al principio di rilevanza costituzionale della durata ragionevole del processo e al diritto fondamentale di
porre fine al matrimonio e poter formare una nuova famiglia. In secondo luogo, l’emanazione della sentenza non
definitiva di divorzio non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell’art. 4 della legge
n. 898 del 1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere
attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio (in tal senso, cfr. anche Cass. 22 aprile 2010, n.
9614; Cass. 5 agosto 2003, n. 11838). Del resto, la pronuncia sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio integra un capo autonomo della sentenza che, in difetto d’impugnazione, passa in giudicato anche in pendenza di gravame contro le statuizioni sull’attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno; il procedimento per la definizione
delle questioni di rilevanza patrimoniale, pertanto, non si
estingue per cessazione della materia del contendere, ma
prosegue, nonostante il decesso di uno dei coniugi (cfr.
Cass. 11 aprile 2013, n. 8874). Ferma infatti la pronuncia
dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ormai passata in giudicato, resta da definire una questione di rilevanza esclusivamente patrimoniale, ma non
priva di riflessi sulla sfera giuridica delle parti e dei loro eredi. Ne deriva anche che non risulta pregiudicata da una
pronuncia non definitiva che dichiari lo scioglimento del
matrimonio la posizione del coniuge superstite che non ha
ancora ottenuto una pronuncia sulla domanda di assegno
divorzile ai fini del riconoscimento delle prestazioni previdenziali che presuppongono il percepimento dell’assegno
divorzile.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Sintesi
FONDO PATRIMONIALE
SCIOGLIMENTO
Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811
Lo scioglimento del fondo patrimoniale può intervenire
sulla base del solo consenso dei coniugi solo nell’ipotesi di mancanza di figli minori, in capo ai quali, anche se
solo concepiti e non ancora nati, va ravvisata una posizione giuridicamente tutelata in ordine agli atti di disposizione del fondo.
Il caso
I coniugi M e C, con atto pubblico del 2004, concordano lo
scioglimento del fondo patrimoniale, costituito nel 2002
sulla casa di abitazione di esclusiva proprietà del marito M.
Con atto di citazione del 2007, A, curatore speciale del minore X, che all’epoca dell’atto di scioglimento del fondo
era concepito ma non ancora nato, propone giudizio per
sentire dichiarare la nullità o l’annullamento del suddetto
atto, ritenendolo viziato perché lesivo degli interessi del figlio nascituro e per essere stato adottato in una situazione
di conflitto di interessi fra quest’ultimo ed i genitori.
Il Tribunale rigetta la domanda, con sentenza confermata
dalla Corte d’appello. Infatti, i giudici di merito ritengono,
per quanto qui interessa, l’ammissibilità dello scioglimento
consensuale del fondo patrimoniale, intervenuto per atto
pubblico e l’insussistenza di un diritto soggettivo dei minori
in ordine ad atti dispositivi dei beni del fondo patrimoniale.
Il curatore speciale propone, allora, ricorso per cassazione.
La soluzione della Corte di cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. accoglie il ricorso. In primo luogo, i giudici di legittimità affrontano la questione della legittimità o meno della
intervenuta risoluzione consensuale del negozio costitutivo
del fondo. A tale proposito, l’art. 171 c.c., al comma 1, stabilisce che “la destinazione del fondo termina a seguito
dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione
degli effetti civili del matrimonio”, senza nulla prevedere in
ordine agli effetti riconducibili alle manifestata volontà negoziale delle parti di dare corso all’estinzione del fondo.
Occorre, quindi, stabilire, sul piano interpretativo, se l’elencazione contenuta nella disposizione richiamata abbia o
meno carattere tassativo, in quanto nel primo caso sarebbe
ininfluente l’accordo in tal senso delle parti.
La Corte di cassazione, sul punto, concorda con l’interpretazione dei giudici di merito, per i quali la natura giuridica
dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale sarebbe del tutto assimilabile alle convenzioni matrimoniali; la conferma
di tale interpretazione può rinvenirsi nella previsione dell’ultimo comma dell’art. 171 c.c., che, nel caso di mancanza
di figli, richiama le disposizioni sullo scioglimento della comunione legale elencate dall’art. 191 c.c., fra le quali è
compreso il mutamento convenzionale del regime patrimoniale.
Pertanto, in mancanza di figli, lo scioglimento del fondo
patrimoniale può intervenire anche sulla base del solo consenso dei coniugi. La Corte d’appello ha peraltro ritenuto
che la stessa conclusione debba valere anche in presenza
di figli minori; ma i giudici di legittimità non condividono
tale affermazione. Infatti, in senso contrario depongono sia
la ragione ispiratrice dell’istituto, individuabile nell’obiettivo
di assicurare un sostegno patrimoniale alla famiglia e di
Famiglia e diritto 11/2014
realizzare una situazione di vantaggio per tutti i suoi diversi
componenti, sia la disciplina dettata negli artt. 169 e 171
c.c. (che risulta del tutto in linea con la ratio dell’istituto),
per quanto attiene, in particolare: al limite all’alienazione
dei beni del fondo che, se vi sono figli minori, possono essere trasferiti soltanto con l’autorizzazione del giudice nei
casi di necessità o utilità evidente (art. 169); alla prescrizione della durata del fondo fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio, nel caso in cui vi siano figli minori
(art. 171, comma 2); alla facoltà conferita al giudice di attribuire ai figli in godimento o in proprietà una quota dei beni
del fondo, ove le condizioni economiche dei genitori e dei
figli, o comunque ogni altra circostanza, lo suggeriscano
(art. 171, comma 3).
Se è vero, quindi, che la costituzione del fondo non determina per ciò solo la perdita della proprietà dei singoli beni
da parte dei coniugi che ne sono titolari e che gli stessi
possono riservarsi nell’atto di costituzione la facoltà di alienazione dei beni, è pur vero che la detta istituzione (peraltro concretizzata per effetto di una libera scelta dalle parti)
determina un vincolo di destinazione per il soddisfacimento
dei bisogni della famiglia (cfr., tra le altre, Cass. 15 maggio
2014, n. 10641), e quindi di tutti i suoi componenti, ivi
compresi i figli minori, che il legislatore ha inteso assicurare con la previsione di una serie di misure di sostegno in favore dei componenti più deboli.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, va ravvisata in capo ai figli minori una posizione giuridicamente tutelata in
ordine agli atti di disposizione del fondo. Considerato poi
che, nel caso di specie, alla data in cui è stato redatto l’atto
di scioglimento del fondo i coniugi non avevano prole, ma
la donna era in attesa di un figlio, si pone l’ulteriore questione della estensibilità o meno della disciplina ritenuta
applicabile in presenza di figli minori al caso di nascituri.
A tale interrogativo il collegio da risposta positiva. Infatti, il
nostro ordinamento riconosce espressamente al concepito
la possibilità di divenire titolare di diritti (art. 1, comma 2,
c.c.); nello stesso codice civile sono dettate disposizioni
che attribuiscono diritti patrimoniali al concepito, in particolare in tema di successione (art. 462, comma 1) e di donazione (art. 784, comma 1); inoltre, forme di tutela del nascituro sono anche previste in altre leggi, quali la legge n.
40 del 2004, in materia di procreazione assistita, il cui capo
terzo contiene “Disposizioni concernenti la tutela del nascituro”, la legge n. 405 del 1975 (sui consultori familiari),
che, tra l’altro, attribuisce al nascituro la tutela del diritto alla salute riconosciuto dall’art. 32 Cost., la legge n. 194 del
1978, per la quale la vita umana è tutelata fin dal suo inizio.
Inoltre, analogo riconoscimento è intervenuto ad opera della giurisprudenza di legittimità che, nell’affrontare i profili
risarcitori, ha reiteratamente ritenuto meritevole di accoglimento la domanda di danno proposta da soggetto non ancora nato alla data della commissione dell’illecito (cfr.
Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in Guida al dir. 2012, 46,
16, con nota di Martini, Danno e resp. 2013, 492, con nota
di Mastrorilli, ed ivi 139, con nota di Cacace, Riv. it. medicina legale 2013, 993, con nota di Gerbi e Mazzilli, Contratti 2013, 563, con nota di Muccioli, Giur. it. 2013, 1052, con
nota di Coppo, ed ivi 809, con nota di Carusi, Giust. civ.
2013, I, 2119, con nota di Famularo, Dir. fam. 2013, I,
1301, con nota di Putignano, ivi 473, con nota di Stanzione
e Salito, ed ivi 79, con nota di Giacobbe, Corr. giur. 2013,
45, con nota di Monateri, Foro it. 2013, I, 204, con nota di
Oliva, Resp. civ. 2013, II, 124, con nota di Gorgoni, ed ivi III,
334, con nota di Frati, Gulino, Zaami e Turillazzi, Rass. dir.
1037
Giurisprudenza
Sintesi
civ. 2013, 894, con nota di Landi, Nuova giur. civ.
comm. 2013, 198, con nota di Palmerini; Cass. 3 maggio
2011, n. 9700, in questa Rivista 2011, 1103, con nota di Pisano, nonché in Danno e resp. 2011, 1168, con nota di Galati, Guida al dir. 2011, 22, 48, con nota di Castro, Nuova
giur. civ. comm. 2011, I, 1272, con nota di Palmerini, Dir.
fam. 2012, I, 1419, con nota di Landi, Corr. giur. 2012, 382,
con nota di Suppa; Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in
Resp. civ. 2009, II, 2063, con nota di Gorgoni, Dir. e
giur. 2009, 549, con nota di Salvatore, Guida al dir. 2009,
31, 49, con nota di Castro, Nuova giur. civ. comm. 2009, I,
1258, con nota di Cricenti, Dir. fam. 2009, I, 1159, con nota
di Ballarani, Danno e resp. 2009, 1167, con nota di Cacace,
ed ivi 2010, 144, con nota di Di Ciommo, Dir. e giur. 2010,
91, con nota di Feola, Foro it. 2010, I, 141, con nota di Bitetto e Di Ciommo, Corr. giur. 2010, 365, con nota di Liserre, Rass. dir. civ. 2011, 587, con nota di Iannone).
La S.C. conclude, quindi, che anche al nascituro deve essere riconosciuta l’attitudine ad essere titolare di diritti e, di
conseguenza, la sua legittimazione sostanziale in relazione
ad atti di disposizione del fondo, quale quello oggetto del
giudizio.
SUCCESSIONI
ESECUTORE TESTAMENTARIO: ESONERO
Cassazione, sez. VI, 1 settembre 2014, n. 18468
È inammissibile il ricorso straordinario per cassazione
avverso l’ordinanza resa in sede di reclamo contro un
provvedimento di esonero dall’incarico di esecutore testamentario.
Il caso
Il presidente del Tribunale, provvedendo su ricorso ex art.
710 c.c., esonera M dall’incarico di esecutore testamentario designato in relazione all’eredità di G. Il reclamo proposto ai sensi dell’art. 750 c.p.c. viene rigettato, per cui M
1038
propone ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., denunciando la violazione delle norme che
disciplinano il giusto processo, per la mancata convocazione delle parti e la mancata concessione di termini per lo
svolgimento delle proprie difese.
La soluzione della Corte di cassazione ed i
collegamenti giurisprudenziali
La S.C. dichiara inammissibile il ricorso per la non impugnabilità del provvedimento. Infatti, il provvedimento di
esonero dell’esecutore testamentario per gravi irregolarità
nell’adempimento dei suoi obblighi è assunto - in considerazione dell’espresso richiamo all’art. 710 c.c., contenuto
nell’ultimo comma dell’art. 750 c.p.c. - dal presidente del
Tribunale con ordinanza reclamabile davanti al presidente
della Corte d’appello; la decisione emessa da quest’ultimo
in sede di reclamo non è ricorribile in Cassazione, in conformità alla previsione specifica dell’art. 750 c.p.c. e alla regola generale di cui all’art. 739 c.p.c. (cfr. Cass. 26 novembre 2013, n. 26473; Cass. 28 gennaio 2008, n. 1764, in Riv.
not. 2009, II, 729, con nota di Musolino).
E’ altresì infondato il rilievo del ricorrente, il quale sostiene
che la non ricorribilità per cassazione del provvedimento
emesso ai sensi dell’art. 750 c.p.c., in sede di reclamo, dal
presidente della Corte d’appello riguarderebbe il solo merito della decisione, mentre nel caso in esame oggetto del ricorso sarebbe non il provvedimento del presidente della
Corte d’appello nel suo aspetto decisorio e motivazionale,
bensì tale provvedimento quale atto consequenziale ad un
vizio processuale del procedimento di reclamo. Il collegio
precisa, infatti, che le invalidità procedimentali si propagano all’atto terminale che ne dipenda, in base all’art. 159,
comma 1, c.p.c., e si convertono in motivi d’impugnazione
di quest’ultimo ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c. La
S.C. ricorda, inoltre, che la ricorribilità straordinaria per cassazione ex art. 111 Cost., di un provvedimento diverso dalla sentenza dipende dal duplice requisito di decisorietà e di
definitività dell’atto, caratteri che nel caso di specie non
sussistono.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Sintesi
Osservatorio di giurisprudenza
penale
a cura di Paolo Pittaro
VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE
MALTRATTAMENTI CONTRO FAMILIARI E CONVIVENTI
IL GENITORE MALATO E SENZA LAVORO DEVE MANTENERE
ATTUALITÀ DELLA RELAZIONE FAMILIARE
IL FIGLIO MINORE
Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo – 15 luglio 2014,
n. 31123 – Pres. Agrò – Rel. Leo
Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio – 1 luglio 2014,
n. 28212 – Pres. De Roberto – Rel. Leo
Il genitore che omette il versamento di un assegno
mensile in favore del figlio minorenne è responsabile
del delitto di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche
se malato e privo di lavoro, qualora non alleghi la sussistenza di un’assoluta impossibilità di corrispondere la
somma, in quanto la responsabilità dei genitori verso i
figli in stato di bisogno implica un dovere di diligente
attivazione per il recupero dei redditi.
Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione
Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello confermava
la pronuncia di primo grado che condannava un uomo per
il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare,
ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., per aver egli fatto mancare
i mezzi di sussistenza al figlio minore.
Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per
Cassazione, lamentando violazione di legge, data la situazione di impossibilità ad adempiere, determinata dalla malattia di cui egli è afflitto e dall’assenza di stabile attività lavorativa.
La Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e respinge le
doglianze della difesa, non sussistendo la prova di una oggettiva ed assoluta impossibilità di adempiere, non dipendente da colpa dell’obbligato. Inoltre, i giudici di legittimità
individuano in capo al genitore di figli minorenni che versino in stato di bisogno un dovere di diligente attivazione per
recuperare i redditi necessari al sostentamento della prole,
anche quando egli sia privo di stabile attività lavorativa e
sia afflitto da una malattia che non impedisca lo svolgimento di una qualche, pur limitata, occupazione.
I collegamenti giurisprudenziali
Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato in giurisprudenza, secondo
cui, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la prova dell’impossibilità di adempiere e del carattere
incolpevole di tale incapacità deve essere fornita in modo
pieno dall’obbligato, sul quale incombe l’onere di allegare
gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di
adempiere alla relativa obbligazione. Tale orientamento, del
tutto univoco, richiede l’allegazione di una impossibilità assoluta e oggettiva, che impedisca in modo pieno all’obbligato di recuperare i mezzi necessari ad adempiere (da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 7372, in De
Jure).
Famiglia e diritto 11/2014
Non ogni reato commesso con continuità nei confronti
di un parente, quand’anche provochi un penoso regime
di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p.;
l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà
ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve
volere la produzione del regime di vita segnato dalla
vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione
Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello condannava
l’imputato per il delitto di maltrattamenti contro familiari e
conviventi commesso ai danni delle figlie. I Giudici territoriali ritenevano sussistente il suddetto delitto, benché fosse
venuta a mancare la convivenza del nucleo familiare. Secondo gli stessi, ciò che rilevava era l’idoneità delle minacce e delle violenze a provocare un penoso regime di vita.
Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per
Cassazione, lamentando violazione di legge e sostenendo
che il rapporto di familiarità previsto dalla norma incriminatrice richiede almeno un’effettiva continuità di interessi e
consuetudini di vita, che nel caso concreto, mancava del
tutto e da molti anni.
La Suprema Corte ritiene il ricorso fondato e annulla la sentenza impugnata con rinvio, evidenziando che non ogni
reato commesso con continuità nei confronti di un parente,
quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p. L’integrazione del
delitto contestato deve essere verificata in base al principio
che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di
doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare.
I collegamenti giurisprudenziali
Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione viene a
precisare un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, secondo cui l’interruzione della convivenza non influisce sulla configurabilità del reato de quo, dal momento
che non interrompe l’immanenza dei doveri di rispetto e di
solidarietà fondati sul vincolo familiare (Cass. pen., sez. VI,
13 novembre 2012, n. 7369, in De Jure). Tuttavia, i Giudici
di legittimità hanno precisato che l’interruzione della convi-
1039
Giurisprudenza
Sintesi
venza non esclude la possibile prosecuzione o l’avvio di
una condotta di maltrattamenti, solamente nel caso in cui
la dinamica familiare rimanga inalterata in termini di attualità del vincolo familiare (Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio
1998, n. 282, in Cass. pen., 1999, 1803).
ATTI PERSECUTORI
Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei
comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è
costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata
dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve
avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi
di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.
I collegamenti giurisprudenziali
IL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI DETERMINATEZZATASSATIVITÀ
Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172 – Pres. Silvestri – Rel. Cartabia
Per verificare il rispetto del principio di determinatezza,
la valutazione deve condursi con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad
accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in
base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali.
Il caso e la soluzione della Corte Costituzionale
Con questa pronuncia il giudice delle leggi dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612
bis c.p. con riferimento all’art. 25 Cost., secondo comma. Il
giudice rimettente ritiene che tale norma costituisca violazione del principio di determinatezza, poiché non definirebbe in modo «sufficientemente determinato il minimum della
condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente
affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente
rilevante». Inoltre, neppure risulterebbe sufficientemente
determinato cosa debba intendersi per perdurante e grave
stato di ansia o di paura, così come in alcun modo definiti
sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi «fondato». Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di «abitudini di vita»,
di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini.
La Suprema Corte dichiarava la questione infondata.
Quanto al primo punto è opinione della Consulta che la
condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati, è oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 c.p. e, nella tradizionale e consolidata interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa
consiste nella prospettazione di un male futuro. Molestare
significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di
una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato dall’art. 660 c.p., in cui viene fatto riferimento
alla molestia per definire il risultato di una condotta.
Inoltre, il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma
incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia.
Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e
al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di eventi
che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di
segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto
tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima.
1040
In senso conforme si veda: Cass. pen., sez. V, 13 giugno
2012, n. 36737, in Dir. e Giust. online, 2012, 5 ottobre: «È
manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 612 bis c.p. sollevata in relazione, tra gli altri, all’art. 25 comma 2, cost.,
giacché la disposizione normativa delinea esaurientemente
la fattispecie incriminatrice in tutte le sue componenti essenziali, assumendo il fatto costitutivo del reato i connotati
dell’antigiuridicità attraverso la realizzazione reiterata di
condotte che, sia pure non definibili preventivamente, sono
fatte oggetto da parte del legislatore di un elevato grado di
determinatezza, dovendo consistere non in generiche minacce e molestie, ma solo in quelle che assumono una gravità tale da cagionare nella vittima uno degli eventi alternativamente previsti dalla stessa disposizione».
MOLESTIA O DISTURBO ALLE PERSONE
REATO EVENTUALMENTE ABITUALE
Cassazione penale, sez. I, 23 maggio – 17 luglio 2014,
n. 31622 – Pres. Siotto – Rel. Di Tomassi
Il reato di molestie è fattispecie solo eventualmente
abituale, potendo essere realizzato anche con una sola
azione. Tuttavia, la qualificazione della condotta come
molesta può derivare anche dalla connessione causale
e temporale tra diversi episodi che, altrimenti, presi singolarmente sarebero irrilevanti.
Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione
Il Tribunale condannava l’imputata per la contravvenzione
di cui all’art. 660 c.p., poiché con condotte ripetute nel
tempo aveva recato molestia, per biasimevole motivo, alla
persona offesa. In primo luogo la donna aveva affrontato e
spintonato la vittima, successivamente l’aveva pedinata in
strada e infine si era apostatata alla finestra del balcone di
casa. Avverso tale sentenza l’imputata proponeva personalmente ricorso per Cassazione, sostenendo che le condotte contestate erano sì state poste in essere, ma prese
singolarmente erano penalmente irrilevanti. L’enorme lasso
di tempo tra una e l’altra, inoltre, avrebbe dovuto escludere
l’abitualità dell’azione.
La Sezione I riteneva il ricorso fondato e conseguentemente annullava la sentenza impugnata senza rinvio. I giudici
di legittimità in primis sottolineavano come il reato di molestia potesse venire integrato anche da una sola condotta,
purché idonea a ledere l’interesse tutelato. Nel caso per
cui si procedeva, invece, le singole condotte non erano
qualificabili come petulanti né avevano turbato la serenità
della persona offesa. I fatti contestati si collocavano in un
arco temporale assai ampio - a un anno uno dall’altro - e
pertanto non erano espressivi di una condotta abituale,
realizzata con apprezzabile e sistematica continuità, tale da
integrare la fattispecie ex art. 660 c.p.
Famiglia e diritto 11/2014
Giurisprudenza
Sintesi
I collegamenti giurisprudenziali
La sentenza in commento ribadisce principi già ampiamente consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di
molestia. La contravvenzione ex art. 660 c.p., infatti, non è
per sua natura necessariamente abituale, in quanto può essere realizzata anche con una sola azione di disturbo o di
molestia alle persone (conformi: Cass. pen., sez. I, 25 marzo 2010, n. 11514, in Lex24; Cass. pen., sez. I, 5 maggio
2008, n. 17787, ivi).
Ne consegue che, se le singole molestie integranti già un
fatto tipico sono ripetute nel tempo, ricorre una molteplicità di reati, eventualmente uniti dal medesimo disegno criminoso (Cass. pen., sez. I, 30 maggio 2005, n. 21237, in
De Jure).
SOMMINISTRAZIONE DI BEVANDE ALCOOLICHE
A MINORI O A INFERMI DI MENTE
ANCHE IL DIPENDENTE RISPONDE DEL REATO
Cassazione penale, sez. V, 19 maggio – 13 giugno
2014, n. 25443 – Pres. Dubolino – Rel. Micheli
Nella previsione normativa dell’art. 689 c.p. non rientra
solo il titolare della licenza di esercizio di osteria od altro pubblico spaccio, ma anche chi gestisce per lui, legittimamente o abusivamente.
Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione
Nel caso in esame, il Giudice di pace emetteva sentenza di
condanna nei confronti dell’imputato, reo di aver commesso la contravvenzione di cui all’art. 689 c.p. L’uomo, barista
Famiglia e diritto 11/2014
stagionale presso uno stabilimento balneare, aveva somministrato bevande alcooliche a un minore infrasedicenne.
Avverso tale pronuncia l’imputato ricorreva per Cassazione, lamentando inosservanza ed erronea applicazione della
legge penale poiché la norma incriminatrice prevedeva
un’ipotesi di reato proprio, in cui l’autore poteva essere solamente l’esercente di un pubblico spaccio di cibi e bevande e non il mero dipendente. A sostegno di tale interpretazione adduceva il fatto che la pena accessoria – la sospensione dell’esercizio – non avrebbe avuto alcun efficacia
sanzionatoria nei confronti di un soggetto diverso dal titolare.
La Sezione V rigettava il ricorso e confermava la decisione
del giudice di prime cure. La qualifica di esercente, infatti,
doveva essere interpretata in senso estensivo, ritenendosi
comprensiva non solo del titolare, ma anche di colui che
gestiva effettivamente l’attività in sua vece, così come nel
caso de quo.
I collegamenti giurisprudenziali
La sentenza pronunciata dai giudici di legittimità si inserisce in un consolidato filone giurisprudenziale, secondo cui
il dipendente può essere chiamato a rispondere dell’illecito
in concorso con il titolare della licenza ovvero, qualora abbia agito di propria esclusiva iniziativa, come rappresentante di fatto dell’esercente (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 maggio
2011, n. 27706, in Lex24).
Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, la contravvenzione è integrata, inoltre, dalla condotta di chiunque somministri bevande alcooliche a un infrasedicenne, limitandosi a prendere atto della risposta di quest’ultimo sul superamento dell’età richiesta (conforme Cass. pen., sez. V, 20
novembre 2013, n. 46334, in Lex24; Cass. pen., sez. V, 7
luglio 2009, n. 27916, ivi).
1041
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Opinioni
Doveri coniugali
Obblighi di mantenimento del coniuge e famiglia ricomposta
Il “diritto a formare una
seconda famiglia” tra doveri
di solidarietà post-coniugale e
principio di “autoresponsabilità”
di Enrico Al Mureden
Il problema della equilibrata ripartizione di risorse economiche successivamente alla rottura del matrimonio pone questioni complesse laddove, successivamente alla disgregazione del primo nucleo familiare, i
coniugi separati o gli ex coniugi divorziati diano vita a nuove famiglie. Questa particolare prospettiva - la
cui crescente rilevanza viene costantemente confermata dagli studi demografici e statistici - reclama oggi
una specifica attenzione, anche in considerazione dei profondi mutamenti del sistema normativo introdotti dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013. Essa fa emergere la necessità di una rilettura di alcuni
orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza e quindi di affrontare il problema del mantenimento del
coniuge economicamente debole considerando, accanto al modello della famiglia che si disgrega a seguito della separazione e del divorzio, anche gli scenari più complessi dei modelli di famiglia che scaturiscono dalla ricomposizione di nuovi nuclei familiari successivamente alla separazione ed al divorzio.
1. I doveri di solidarietà post-coniugale
ed il diritto alla formazione di una
seconda famiglia
Una recente decisione di legittimità (1) ha affrontato, introducendo significativi elementi di novità,
il problema - già affacciatosi in più occasioni in
giurisprudenza - della equilibrata divisione delle risorse economiche nel caso in cui al nucleo familiare originario si sovrapponga, a seguito della separazione e del divorzio, un nucleo familiare nuovo formato dal soggetto economicamente forte tenuto alla corresponsione del mantenimento nei confronti
del coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato.
L’analisi della casistica giurisprudenziale mostra
che, ormai da tempo, è emersa la consapevolezza
riguardo al fatto che nelle fattispecie in cui, successivamente alla rottura del matrimonio, il coniuge
economicamente forte formi una seconda famiglia
si impone la necessità di commisurare la spettanza
e l’entità del mantenimento dovuto alla parte economicamente debole abbandonando il riferimento
al tenore di vita goduto nel momento in cui la fa(1) Cass. 19 marzo 2014, n. 6289, in De Jure.
(2) Cass. 22 novembre 2000, n. 15065, in questa Rivista,
2001, 34, con nota di De Marzo, Mantenimento dei figli nati da
Famiglia e diritto 11/2014
miglia era unita e perseguendo il diverso obiettivo
di garantire ai nuovi nuclei familiari che si formano a seguito della separazione un tenore di vita simile tra loro in modo da realizzare un’equilibrata
ripartizione delle risorse tra la prima famiglia (composta dall’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile e i figli del primo matrimonio) e la seconda
famiglia che l’ex coniuge obbligato al pagamento
dell’assegno divorzile abbia ricostituito successivamente al divorzio. Un precedente ormai datato
aveva adottato - con specifico riferimento al profilo del mantenimento dei figli - una soluzione, invero criticabile, che si basava sull’assunto secondo
cui la decisione di formare una seconda famiglia
costituisce una scelta e non una necessità. Muovendo da questo presupposto, la S.C. aveva concluso che il diritto dei componenti della prima famiglia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non potesse subire limitazioni
a seguito della decisione del familiare economicamente forte di dare vita ad una nuova famiglia (2).
Questo orientamento, a ben vedere, risultava diffiprecedente matrimonio e rilevanza della costituzione di una nuova famiglia.
1043
Opinioni
Doveri coniugali
cilmente conciliabile con i principi fondamentali
dell’ordinamento in quanto la sua applicazione
avrebbe condotto a privilegiare ingiustificatamente
i componenti del nucleo familiare originario a scapito dei componenti del nuovo nucleo familiare
formato successivamente al divorzio. Così, seguendo un orientamento diverso e sicuramente condivisibile, la S.C. ha preso atto del dato per cui la presenza di una nuova famiglia costituita dall’ex coniuge tenuto al mantenimento dei figli e dell’ex
coniuge comporta una variazione degli assetti pregressi di cui non può non tenersi conto. In questi
casi, pertanto, si impone l’esigenza di un “temperamento dei diritti della prima famiglia” necessario
ad “evitare un trattamento deteriore della seconda”. Dunque, il secondo matrimonio e, più in generale, la nascita di figli dell’obbligato, rendono in
linea di principio necessaria una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti da
cui può scaturire una rideterminazione dell’assegno
di mantenimento dovuto ai figli e, a maggior ragione, dell’assegno dovuto all’ex coniuge (3).
La recente pronuncia a cui si è fatto cenno appare
sicuramente in linea con l’indirizzo appena riassunto. Essa, comunque, merita particolare attenzione
in ragione degli elementi di novità che si riscontrano nella motivazione in particolare laddove afferma che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo
familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli
riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art.
12) (4) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9) (5). Da ciò discende che
il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia non
può incontrare un limite, né essere considerato alla
stregua di una mera scelta individuale non necessa-
ria nemmeno laddove sia già presente un primo
nucleo familiare la cui unità è venuta meno a seguito del divorzio.
Le argomentazioni addotte pongono in risalto un
problema di portata più generale e inducono ad osservare le conseguenze economiche della rottura
del matrimonio in una prospettiva più complessa
rispetto a quella - assunta generalmente come paradigma dall’elaborazione degli interpreti - che tende
a limitare l’attenzione ai rapporti tra i componenti
del nucleo familiare originariamente unito, omettendo di considerare in modo sistematico le complesse trame di rapporti che scaturiscono nell’eventualità in cui ad esso si sovrappongano nuclei familiari nuovi formati dai coniugi dopo la separazione
o dagli ex coniugi dopo il divorzio. Tale prospettiva, in effetti, reclama oggi una particolare attenzione sia per la rilevanza che assume sul piano sociale
- e che viene costantemente confermata dagli studi
statistici (6) - sia, soprattutto, in considerazione dei
profondi mutamenti del sistema normativo introdotti dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013.
In quest’ottica emerge la necessità di una rilettura
di alcuni orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza. Sotto tale profilo vengono in considerazione, anzitutto, le crescenti insoddisfazioni manifestate rispetto all’orientamento che assume il “tenore di vita coniugale” come parametro in funzione
del quale definire l’adeguatezza dei mezzi del coniuge che richiede l’assegno di mantenimento o dell’ex coniuge che aspira a conseguire l’assegno postmatrimoniale. Inoltre, le profonde modificazioni
introdotte dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n.
154/2003 con riguardo alla condizione dei figli nati
da persone non coniugate sembra suggerire una rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali formatisi con riferimento al problema dell’incidenza
(3) Cass. 23 agosto 2006, n. 18367, in De Jure; Cass. 24
gennaio 2008, n. 1595, in De Jure.
(4) Bonini Baraldi, Convenzione Europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Codice della
famiglia, a cura di Sesta, Milano, 2009, 140.
(5) Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di
Sesta, cit., 153 ss.
(6) Nello studio Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011,
p u b b l i c a t o n e l m a g g i o 2 0 1 3 , r e p e r i b i l e a l l’ i n d i r i z z o
http://www.istat.it/it/archivio/91133, si legge che “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel
1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e
80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi”.
In particolare, secondo i dati elaborati dall’ISTAT, infatti, risulta
che su 1000 matrimoni si registrano quasi 311 separazioni e
182 divorzi. Le indagini demografiche mettono a fuoco la presenza di un rilevante numero di separazioni e divorzi in cui sono coinvolti figli minori (50,5% e 35,5%). Un altro dato rilevan-
te, che emerge solo in parte dalle statistiche dell’ISTAT, è quello che evidenzia la diffusione del fenomeno delle seconde nozze. Anche questo dato deve essere ulteriormente integrato tenendo conto di due fattori che le statistiche disponibili non
possono prendere in considerazione, ma che, cionondimeno,
riveste un particolare rilievo. In particolare occorre tenere presente il considerevole aumento di separazioni e divorzi tra coniugi “giovani” (18-24% età inferiore ai 40 anni); questo dato,
infatti, segnala la presenza di persone che, verosimilmente,
dopo la rottura del matrimonio vivranno altre esperienze familiari di convivenza o si accosteranno ad un secondo matrimonio. Occorre poi tenere conto della presenza di un considerevole numero di persone che dopo avere avuto figli fuori dal
matrimonio, si apprestano a contrarre matrimonio e a vivere
una “seconda esperienza familiare”. A questo proposito deve
essere considerato, un dato, più volte richiamato nella Relazione illustrativa della riforma che unificato la condizione giuridica
dei figli, secondo cui circa un quinto dei figli nati nel nostro
Paese è generato da persone non coniugate.
1044
Famiglia e diritto 11/2014
Opinioni
Doveri coniugali
dell’instaurazione di una nuova convivenza da parte del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento o titolare dell’assegno post-matrimoniale;
ciò perché, ove siano presenti figli, sussiste oggi
una trama di responsabilità all’interno della famiglia intesa in senso ampio, ed in particolare della
coppia dei genitori, che, come si osserverà, appare
incompatibile con la persistenza di diritti patrimoniali basati su doveri di solidarietà post-coniugale
riferiti ad un rapporto ormai terminato o al quale
se n’è sovrapposto uno nuovo.
2. Il diritto del coniuge debole alla
conservazione del tenore di vita
coniugale ed i doveri assunti dal coniuge
forte che forma una seconda famiglia
Il problema di conciliare i doveri che scaturiscono
dalla solidarietà post-coniugale con quelli che derivano dalla formazione di una seconda famiglia appare strettamente collegato a quello della persistente attualità dell’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale le decisioni relative alla spettanza
ed all’entità dell’assegno divorzile dovrebbero essere assunte in funzione dell’obiettivo di garantire al
coniuge economicamente debole la persistenza di
un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. La questione è stata sollevata con un’articolata motivazione da un’ordinanza
del Tribunale di Firenze che ha posto in dubbio la
conformità dell’orientamento menzionato al principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3
Cost.) (7). Più specificamente la questione di costituzionalità riguarda la regola di “diritto vivente”
formatasi con riferimento all’art. 5 l. n. 898/1970.
Tale regola si caratterizza, a parere del giudice remittente, per “una palese contraddizione” logica
oltre che giuridica - che appare irragionevole, secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio, ed una
disciplina delle conseguenze economiche “che di
fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il <tenore di vita> in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell’assegno”. In
questo modo, continua il Tribunale di Firenze,
vengono prolungati “all’infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non
(7) Sul principio di ragionevolezza delle leggi v. Morrone, Il
custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 275 ss.; Id., sub art.
3 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, cit., in part.
41.
(8) I Principles on European Family Law sono stati elaborati
dalla Commission on European Family Law con la finalità di in-
Famiglia e diritto 11/2014
esiste più proprio a seguito del divorzio”; e ciò
“senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi
e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione”. Proprio in questa prospettiva, quindi, il diritto
vivente formatosi con riferimento ai presupposti di
attribuzione dell’assegno divorzile appare irragionevole in quanto “conduce ad esiti palesemente irrazionali” ed “incompatibili con la stessa ratio legis”
della disciplina delle conseguenze economiche del
divorzio.
I profili di irragionevolezza insiti nell’attuale diritto
vivente vengono ulteriormente testimoniati anche
nell’ottica del raffronto con i principi emergenti in
altri Paesi dell’Unione europea. La motivazione del
provvedimento indicato, infatti, pone in luce che
la Commissione europea sul diritto di famiglia ha
stabilito il principio secondo il quale “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni”
(principio 2.2) (8). Da questo principio, continua
la motivazione del Tribunale di Firenze “deriva
che dopo il matrimonio, gli unici legami a rimanere in vita sono quelli che riguardano i figli”; in
ogni caso, qualora siano effettivamente mantenuti
rapporti di tipo patrimoniale tra i coniugi, essi dovrebbero rivestire il carattere della temporaneità
(principio 2.8).
Questa impostazione, invero, testimonia ulteriormente l’inopportunità di commisurare l’assegno divorzile al tenore di vita goduto durante il matrimonio e la necessità di adottare una prospettiva diversa: quella di garantire un tenore di vita equivalente
a tutti coloro che dipendono da un medesimo soggetto economicamente forte. Indubbiamente, focalizzando l’attenzione sul problema della divisione
delle risorse di un soggetto a cui fanno capo due famiglie che si sovrappongono nel tempo, la questione può porsi in termini assai particolari nell’ipotesi
in cui l’esigenza di attuare un’equilibrata divisione
delle risorse della parte economicamente forte veda
interessato da un lato l’ex coniuge ancora giovane,
reduce da un matrimonio di breve durata e senza
figli e, dall’altro, il secondo coniuge ed i figli nati
nel secondo matrimonio o nell’ambito di una relazione non matrimoniale. In una fattispecie come
questa emerge chiaramente l’inadeguatezza dell’impostazione che mira a garantire all’ex coniuge ecodividuare soluzioni tese al perseguimento della armonizzazione
del diritto di famiglia nei diversi stati dell’Unione europea (cfr.
http://ceflonline.net/). Sul punto v. Cubeddu, I contributi al diritto europeo della famiglia, in Patti e Cubeddu, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 16.
1045
Opinioni
Doveri coniugali
nomicamente debole un assegno divorzile idoneo a
permettergli di conservare “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e
che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di
continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative
esistenti nel corso del rapporto matrimoniale” (9).
Così, applicando senza opportuni correttivi ai matrimoni di breve durata i criteri adottati dalla S.C.
con riferimento al mantenimento dell’ex coniuge
economicamente debole, si potrebbe giungere in
alcuni casi a soluzioni applicative non convincenti.
Garantire il tenore di vita coniugale all’ex coniuge
incapace di reperire autonomamente mezzi adeguati, infatti, significherebbe esporre l’ex coniuge obbligato ad una “distrazione” ingiustificata delle proprie risorse a scapito della nuova famiglia che egli
abbia formato successivamente al divorzio (10); distrazione che appare tanto più inopportuna quanto
più è breve la durata del rapporto matrimoniale e
quanto più siano presenti condizioni che rendano
verosimile il conseguimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge economicamente debole.
Proprio questa particolare prospettiva sembra confermare l’opportunità di ricercare in via interpretativa soluzioni che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con
riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali
non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio
dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini,
(9) Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, in De Jure.
(10) Ronfani, Recensione ad Al Mureden, Nuove prospettive
di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno
divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, in Sociologia del
diritto, 2008, 194.
(11) Sul punto v. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato
diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229; Id., Obbligo di
mantenere e obbligo di lavorare, in Introduzione al diritto della
famiglia in Europa, Milano, 2008, 309; Ferrando, Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, in Dir. fam.,
1998, 728; Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia,
2008, 22, la quale illustra la riforma del mantenimento operata
nell’ordinamento tedesco il 1° gennaio 2008 ed il principio dell’autoresponsabilità; Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove
prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa
dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007,
cit., 193. Un’elevata sensibilità verso questi ultimi problemi si
riscontra negli ordinamenti di common law: Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution, in AA.VV., Cross currents, Family Law and Policy in the United States and England,
edited by Katz, Eekelaar e Maclean, Oxford, 2000, 398; Katz,
1046
che l’assegno divorzile svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento della incapacità di procurarsi redditi
propri. Del resto, in molti paesi dell’Unione europea si sta affermando il cosiddetto principio della
autoresponsabilità (11), che conduce a prevedere
una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da
un matrimonio di breve durata, ancora in giovane
età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli (12).
3. La formazione di una seconda famiglia
da parte del coniuge economicamente
debole ed i suoi riflessi sull’assegno di
mantenimento e sull’assegno divorzile
Nell’ambito della complessa trama di rapporti che
può crearsi quando, successivamente alla rottura
della coppia coniugale si instaurano nuove relazioni familiari, rientra indubbiamente l’ipotesi - speculare rispetto a quella fino a qui esaminata - nella
quale il coniuge titolare di assegno di mantenimento o dell’assegno post-matrimoniale formi una seconda famiglia. Al riguardo il legislatore ha contemplato la sola ipotesi nella quale l’ex coniuge titolare di assegno divorzile passi a nuove nozze, sancendo che, in tal caso, “l’obbligo di corresponsione
dell’assegno cessa” (art. 5, comma 10, l. div.). Può
accadere, tuttavia, che l’ex coniuge divorziato titolare di assegno post-matrimoniale instauri una nuova convivenza nell’ambito della quale benefici del
supporto economico del nuovo partner; da ultimo
occorre considerare anche la fattispecie nella quale
sia il coniuge titolare di assegno di mantenimento
Family Law in America, New York, 2003, 87.
(12) Sul punto v. Cubeddu, Solidarietà e autoresponsabilità
nel diritto di famiglia, in Introduzione al diritto della famiglia in
Europa, cit., 153, in part. 170; Ead., I principi europei su divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, ivi, 271. Nell’ambito degli
ordinamenti di civil law è da segnalare la riforma della disciplina dell’assegno post- matrimoniale introdotta nell’ordinamento spagnolo dalla Ley 15/2005, in ragione della quale il riformato art. 97 c.c. prevede la possibilità assegno il coniuge economicamente debole limitato nel tempo. La propensione a
prevedere una tutela di tipo riabilitativo a favore del coniuge
relativamente giovane e reduce da matrimoni di breve durata
e poi particolarmente sviluppata negli ordinamenti di common
law (per una illustrazione più diffusa si rinvia a Al Mureden,
Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano,
2007, 108 ss.). Da ultimo, nel nostro ordinamento, riveste interesse una recente decisione di legittimità nella quale è stata
confermata la validità di un accordo tra i coniugi che prevedeva una limitazione temporale del diritto al mantenimento della
parte economicamente debole Cass. 6 giugno, 2014, n.
12781, in De Jure.
Famiglia e diritto 11/2014
Opinioni
Doveri coniugali
ad instaurare una nuova convivenza durante la separazione. In questi casi si pone il problema di stabilire se il principio espresso con riferimento all’ipotesi delle seconde nozze dall’art. 5, comma 10, l.
div. possa essere esteso anche al caso in cui il coniuge economicamente debole formi una nuova famiglia non fondata sul matrimonio.
In prima approssimazione si può affermare che l’instaurazione di una nuova convivenza da parte del
coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato economicamente dipendente dall’altro impone di risolvere tre ordini di problemi.
Occorre stabilire, in primo luogo, quali siano i presupposti al ricorrere dei quali l’instaurazione di una
convivenza more uxorio possa assumere rilievo al fine della ridefinizione dei rapporti economici tra i
coniugi separati o tra gli ex coniugi divorziati; in
altri termini si tratta di individuare quali caratteristiche debba presentare la relazione instaurata con
il nuovo partner affinché essa possa essere considerata alla stregua di un elemento capace di giustificare una limitazione dei doveri di solidarietà postconiugale gravanti sul coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno ex art. 156 c.c. o sulle coniuge tenuto a versare l’assegno post-matrimoniale.
Un diverso problema consiste nello stabilire se
l’accertamento di un rapporto di convivenza sufficientemente solido e stabile costituisca una condizione di per sé sufficiente a legittimare una limitazione dei doveri gravanti sul coniuge o ex coniuge,
oppure se tale accertamento costituisca solamente
una condizione necessaria a tal fine, ma non sufficiente. Questa seconda opzione interpretativa, infatti, sembra ravvisabile in quelle motivazioni nelle
quali l’instaurazione di una nuova convivenza viene considerata rilevante non di per sé, ma solamente laddove da essa scaturisca un effettivo miglioramento della condizione economica del coniuge beneficiario di assegno di mantenimento o dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile. Una volta
individuati i presupposti al ricorrere dei quali risulta possibile affermare che la nuova convivenza del
coniuge beneficiario del mantenimento presenti
caratteri tali da poter condurre ad una limitazione
dei doveri gravanti sulla parte economicamente
forte, può porsi l’ulteriore interrogativo di stabilire
se tale limitazione si risolva nella netta esclusione
del dovere di mantenimento e debba essere modu-
lata tenendo conto dell’entità del beneficio economico ricavato dalla nuova convivenza.
Da ultimo, inoltre, può porsi il problema di stabilire se limitazione o esclusione dell’obbligo di mantenimento gravante coniuge economicamente forte
possa essere considerata “reversibile” oppure se,
una volta intervenuta, essa precluda la possibilità
di una reviviscenza degli obblighi di mantenimento
fondati sulla solidarietà post-coniugale.
Con riferimento ai problemi illustrati la giurisprudenza ha elaborato principi comuni applicabili al
coniuge separato ed all’ex coniuge divorziato. In
effetti sotto alcuni profili sembra emergere l’opportunità di formulare regole uniformi, applicabili sia
nel contesto della separazione che in quello del divorzio; al tempo stesso, tuttavia, occorre tenere
conto di significativi profili di differenziazione tra i
due istituti, che, soprattutto per quanto concerne
il problema della reviviscenza degli obblighi gravanti sulla parte economicamente forte, sembrano
suggerire l’opportunità di affrontare le questioni
connesse all’instaurazione di una nuova convivenza
da parte del beneficiario del mantenimento secondo approcci che tengano conto delle peculiarità
che la separazione presenta rispetto al divorzio.
(13) In questo senso v. Trib. Bari 25 settembre 2012, in Dir.
fam., 2013, 2, 549, nella quale la soppressione dell’assegno di
mantenimento inizialmente disposto a vantaggio del coniuge
economicamente debole è stata motivata in ragione dell’accer-
tamento di una relazione di convivenza “more uxorio”, la cui
stabilità era dimostrata non tanto in base ad una “mera formula temporale”, ma alle caratteristiche e ai contenuti e alle finalità del rapporto instaurato.
Famiglia e diritto 11/2014
3.1. La distinzione tra famiglia di fatto e mera
convivenza negli orientamenti
giurisprudenziali e alla luce dell’unificazione
della condizione dei figli
Per quanto concerne l’individuazione dei presupposti al ricorrere dei quali l’instaurazione di una convivenza more uxorio possa assumere rilievo al fine
della ridefinizione dei rapporti economici tra i coniugi separati o tra gli ex coniugi divorziati, è stato
valorizzato principalmente il profilo dell’intento
“di mettere in comune con il nuovo partner tutti i
propri interessi materiali, morali ed affettivi”. Utilizzando questa espressione la giurisprudenza di legittimità ha voluto affermare il principio secondo
cui “la stabilità del rapporto di convivenza (...)
non può rapportarsi ad una mera formula temporale, ma dipende principalmente da una valutazione
relativa al livello di compenetrazione delle scelte
di vita effettuate dalla nuova coppia” (13). Tale
criterio appare, invero, connotato da un significativo margine di indeterminatezza, che si risolve nell’attribuzione di una ampia discrezionalità giudizia-
1047
Opinioni
Doveri coniugali
le. Le considerazioni appena svolte possono essere
estese anche alle motivazioni nelle quali viene affermata l’opportunità di distinguere “tra semplice
rapporto occasionale e famiglia di fatto”, ribadendo
che tale distinzione dovrebbe basarsi sul carattere
di stabilità e di certezza del rapporto di fatto sussistente tra i partners (14).
La possibilità di operare una simile distinzione sulla
base di criteri affidabili risulta estremamente complessa nell’ipotesi in cui si tratta di decidere riguardo alla convivenza tra persone che non hanno figli. Peraltro, ove la coppia non coniugata abbia figli comuni, sembra possibile, soprattutto alla luce
delle recenti modificazioni della disciplina del rapporto genitori-figli, individuare con sicurezza quei
presupposti al ricorrere dei quali si può escludere
che la famiglia non fondata sul matrimonio si risolva in un mero rapporto di convivenza ed affermare
che, al contrario, essa presenta quei caratteri di
certezza e stabilità necessari per poter parlare di
una vera e propria formazione familiare autonomo
e stabile. La base sulla quale sostenere quest’ultimo
assunto non è solo quella che fa capo a considerazioni di carattere demografico e sottolinea la diffusione della famiglia non fondata sul matrimonio
nell’attuale tessuto sociale.
A ben vedere le ragioni che inducono ad attribuire
i caratteri della certezza e della stabilità ad una famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli si basano sulle profonde modificazioni del sistema normativo che hanno reso unica
condizione dei figli, hanno determinato il loro inserimento nelle relazioni di parentela dei genitori a
prescindere dal matrimonio di questi ultimi (art.
74 c.c. e art. 258 c.c.) ed hanno sancito la portata
generale della regola dell’esercizio condiviso dalla
responsabilità genitoriale a prescindere dal tipo di
unione che lega i genitori e dalla sua sorte (artt.
316, comma 4 e 337 ter, comma 3, c.c.). Le trasformazioni del sistema giuridico appena indicate hanno dato vita ad una condizione del figlio della coppia non coniugata completamente diversa da quella propria del contesto normativo precedente l’introduzione della l. n. 219/2012 del d.lgs. n.
154/2013. Oggi il figlio di una coppia non coniugata risulta inserito contemporaneamente nelle reti
di parentela di entrambi i genitori, e quindi in due
famiglie non comunicanti fra loro (15). Al tempo
stesso la regola dell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale può dar luogo a situazioni
nelle quali i genitori di figli nati nell’ambito di
contesti familiari diversi esercitino parallelamente
ed autonomamente la responsabilità genitoriale in
due famiglie distinte (16). In definitiva si può affermare che l’ordinamento crea intorno al fatto della
generazione biologica un nucleo di diritti del figlio
e di responsabilità dei genitori che prescindono
dall’esistenza di un’unione stabile di questi ultimi e
dalla circostanza che essa sia fondata sulla convivenza o sul matrimonio. In questo mutato contesto
persino la coppia di genitori che non abbia mai
formato una famiglia unita si trova, in ogni caso,
nella condizione di essere obbligata ad assumere
decisioni concordate relativamente alla vita del figlio ed agli aspetti che, sebbene in modo indiretto,
si riflettono anche sulla vita della coppia (17). A
(14) I caratteri della stabilità sono stati individuati con frequenza laddove sono presenti convivenze nelle quali i partner
hanno figli comuni. In tal senso Cass. 11 agosto 2011, n.
17195, in Guida al diritto, 2011, 63, con nota di Vaccaro, Il coniuge divorziato perde il mantenimento se instaura una convivenza stabile con un altro. Gli obblighi connessi al matrimonio
possono avere un seguito per tutta la vita, nella quale è stato
stabilito che “in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia
in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di
un assegno divorzile a carico del primo ove questi instauri una
convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia
di fatto”. In tal caso, continua la motivazione, “il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza”. In senso conforme v. Cass. 18 novembre 2013, n. 25845, in Diritto e giustizia,
2013: “in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il
parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita
goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi
viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di
una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’an-
che non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il
modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza
matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la
riconoscibilità di un assegno divorzile”; Cass. 12 marzo 2012,
n. 3923, in Giust. civ., 2013, 10, 2197, in cui si legge che “qualora la convivenza “more uxorio” si caratterizzi per i connotati
della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta famiglia di fatto, connotata,
in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita, il parametro di valutazione dell’adeguatezza dei
mezzi economici a disposizione dell’ex coniuge non può che
registrare una tale evoluzione, recidendo, finché duri tale convivenza e ferma rimanendo, in questa fase, la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé, ove non compensato all’interno della convivenza, ogni plausibile connessione con il tenore e il modello di vita economici caratterizzanti la
pregressa fase di convivenza matrimoniale, e ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla
conservazione di esso”.
(15) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti
delle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 233.
(16) Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv.
dir. civ., 2014, 5.
(17) Al Mureden, La responsabilità genitoriale precondizione
unica delle figlie pluralità di modelli familiari, in questa Rivista,
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seguito delle intervenute modifiche legislative viene meno la necessaria corrispondenza tra famiglia
e matrimonio in quanto l’instaurazione di legami
di parentela dipende oggi esclusivamente dal fatto
biologico della generazione. Al tempo stesso la riforma introduce una necessaria corrispondenza tra
la generazione dei figli e la formazione di una famiglia incidendo profondamente su situazioni che nel
sistema previgente non assumevano rilievo giuridico. I doveri richiesti i genitori nei confronti del figlio, infatti, impongono la definizione concordata
di un indirizzo della vita familiare persino a coloro
che non hanno mai formato una coppia unita.
La portata concreta di queste affermazioni può essere colta con immediatezza osservando la condizione del c.d. figlio adulterino. In questa prospettiva è possibile immaginare una situazione nella quale una donna dia alla luce un figlio concepito con
un uomo già coniugato e che non intende rompere
il proprio vincolo matrimoniale. Nel contesto precedente la riforma del ‘75 il figlio adulterino non
poteva - salvo casi del tutto particolari - essere riconosciuto dal genitore già coniugato (art. 252
c.c.) (18); egli poteva essere riconosciuto solamente dal genitore unito in matrimonio e, stante il tenore dell’art. 252 c.c., non poteva entrare nelle reti
di parentela di quest’ultimo e quindi conseguire un
legame giuridicamente rilevante con i nonni, gli zii
e i cugini “naturali”; la potestà veniva esercitata in
via esclusiva dall’unico genitore che avesse effettuato il riconoscimento.
La situazione appena descritta si presentava in termini sostanzialmente analoghi nel contesto normativo vigente tra il ‘75 e il 2014. Infatti, il venir meno del divieto di riconoscimento dei figli adulterini, da un lato, avrebbe consentito la possibilità del
riconoscimento da parte del padre; d’altra parte,
tuttavia, stante il tenore degli artt. 74 e 258 c.c.,
l’inserimento del figlio nelle reti di parentela dei
genitori continuava ad essere indefettibilmente
condizionato al matrimonio di questi ultimi; anche
l’esercizio della potestà genitoriale avrebbe potuto
essere condiviso solo nel caso in cui, dopo la rottura del primo matrimonio del padre, i genitori avessero potuto formare una coppia di fatto convivente
oppure avessero deciso di dare vita ad un’unione
matrimoniale. Nel primo caso sarebbero risultati
soddisfatti i presupposti al ricorrere dei quali l’art.
317 bis c.c. ricollegava l’esercizio condiviso della
potestà; nel secondo caso avrebbe trovato applicazione la regola generale sancita dall’art. 316, comma 2, c.c. Diversamente, qualora, il padre avesse
deciso di non rompere il vincolo coniugale già in
atto al momento del concepimento, doveva escludersi radicalmente l’eventualità di un esercizio
condiviso della potestà.
Il figlio adulterino che oggi si trovi in una situazione coincidente con quella assunta come esempio
risulterà inserito in due famiglie che non comunicano tra di loro (19); la responsabilità genitoriale
sarà condivisa tra la madre e il padre, nonostante
quest’ultimo sia ancora inserito nel suo nucleo familiare fondato sul matrimonio (20). Nel mutato
contesto normativo, quindi, sembra che il legislatore abbia delineato una serie di situazioni nelle
quali i genitori si trovano nella condizione di essere obbligati ad assumere decisioni concordate relativamente alla vita del figlio ed agli aspetti che,
sebbene in modo indiretto, si riflettono anche sulla
vita della coppia; coppia che, anche nell’ipotesi in
cui non sia mai stata unita, è chiamata oggi a comporre secondo la regola dell’accordo una trama di
rapporti necessariamente correlata alla generazione
del figlio (21).
In definitiva il nucleo di diritti riconosciuti al figlio e le correlative responsabilità attribuite ai genitori consente di ravvisare la sussistenza di un
consorzio familiare nel quale l’ordinamento esige
2014, 478.
(18) Al riguardo l’art. 252 c.c., nella sua formulazione precedente la Riforma del ‘75, limitava la possibilità di riconoscimento del figlio adulterino al solo genitore che non era unito
in matrimonio al tempo del concepimento. Per quanto concerneva il genitore unito in matrimonio, invece, il riconoscimento
del figlio adulterino era possibile solo a seguito dello scioglimento del matrimonio per effetto della morte dell’altro coniuge ed a condizione che non fossero presenti figli legittimi, o legittimati, o loro discendenti legittimi. Nel caso in cui essi fossero stati presenti, la possibilità di riconoscimento era condizionata all’emissione di un decreto da parte del Presidente della Repubblica, che doveva essere preceduta da un parere del
Consiglio di Stato e che, in ogni caso, presupponeva che i figli
legittimi o legittimati avessero raggiunto la maggiore età e fossero stati sentiti (sul punto v. Azzariti, voce Filiazione legittima e
naturale, in Noviss. Dig. it., VII, Torino 1961, 324; Id., voce
Adulterini e incestuosi (Figli), ibid., I, Torino, 1957, 309).
(19) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti
delle relazioni familiari, cit., 233.
(20) Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, cit., 5.
(21) Osserva Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, cit., 5, che, con particolare riferimento all’ipotesi della filiazione “adulterina” si verificherà la situazione per cui la persona
già coniugata che abbia un figlio fuori dal matrimonio verrà a
trovarsi nella condizione di dover concordare due diversi indirizzi familiari: uno all’interno della sua famiglia legittima, l’altro
nel nucleo familiare composto dal figlio “non matrimoniale” e
dal partner con il quale egli condivide la responsabilità genitoriale. Il figlio, pertanto, “è soggetto alla responsabilità dei genitori, che l’esercitano congiuntamente, in parallelo con quella
che ciascuno di loro si trovi eventualmente ad esercitare col
proprio coniuge nei riguardi del figlio matrimoniale”.
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una stabilità ed una certezza del coinvolgimento
dei genitori e assume oggi una piena valenza giuridica. Tant’è che, come si è opportunamente osservato, la stessa espressione famiglia di fatto non appare più appropriata per designare quei nuclei familiari non fondati sul matrimonio nei quali sono
presenti figli comuni della coppia (22).
A ben vedere, proprio quella responsabilità a cui
l’ordinamento chiama i genitori non può non assumere rilievo anche quando si tratta di decidere riguardo alla persistenza di diritti scaturenti dalla solidarietà post-coniugale nei confronti di un soggetto che, successivamente alla separazione o al divorzio abbia dato vita ad una famiglia nella quale siano presenti figli. In altri termini colui che, assieme
al partner, assume la veste di genitore ed una responsabilità nei confronti del figlio, pone in essere
un atto di autoresponsabilità che nel sistema giuridico attuale mal si concilia con il persistente godimento di diritti che scaturiscono dalla solidarietà
post-coniugale riferita ad un rapporto matrimoniale
terminato. Ciò, infatti, determinerebbe l’ingresso
di risorse economiche provenienti da un coniuge
separato o da un ex coniuge divorziato nella nuova
famiglia costituita dopo la separazione o il divorzio,
creando una situazione incoerente rispetto all’atto
dell’assunzione di autoresponsabilità determinato
dalla sua formazione (23).
3.2. La formazione di una nuova famiglia da
parte del coniuge beneficiario del
mantenimento e l’opportunità di una
revisione del parametro del “tenore di vita
coniugale”
La lettura interpretativa appena prospettata con riferimento alle fattispecie nelle quali nella nuova
famiglia formata da parte del coniuge titolare di un
assegno di mantenimento o dell’ex coniuge a cui è
attribuito un assegno post-matrimoniale siano presenti figli sembra suggerire una revisione degli
orientamenti formatisi riguardo al problema di sta-
bilire se l’accertamento di un rapporto di convivenza sufficientemente solido e stabile costituisca
una condizione di per sé sufficiente a legittimare
una limitazione dei doveri gravanti sul coniuge o
ex coniuge oppure se tale accertamento costituisca
solamente una condizione necessaria a tal fine, ma
non sufficiente.
Come anticipato, da alcune pronunce sembra
emergere una propensione a considerare la convivenza instaurata dal beneficiario del mantenimento
alla stregua di un elemento capace di limitare gli
obblighi del coniuge onerato solo laddove sia effettivamente riscontrabile un miglioramento della posizione economica conseguente all’instaurazione
della convivenza. Così la soppressione, o, quanto
meno, la congrua riduzione dell’assegno dovuto a
titolo di mantenimento del coniuge separato è stata giustificata ponendo in rilievo i “notevoli benefici economici” derivanti dalla possibilità di “condividere, con il convivente, le spese di ordinaria
amministrazione (vitto, alloggio, e relativi oneri)”;
possibilità preclusa al “coniuge rimasto solo”, il
quale, oltre a dover affrontare le spese di ordinaria
amministrazione e “le spese relative al mantenimento del coniuge separato” non aveva instaurato
una nuova convivenza.
In modo ancor più esplicito, è stato disposto che
sul coniuge tenuto al pagamento dell’assegno di
mantenimento grava l’onere di provare “non solo
l’instaurazione ed il permanere di una convivenza
more uxorio dell’avente diritto con altra persona,
ma anche il miglioramento delle condizioni economiche dell’avente diritto a seguito di un contributo
al suo mantenimento da parte del convivente,
quanto meno in termini di risparmio di spesa”. Infatti, precisa la motivazione, “la convivenza in
quanto tale è di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare
dell’assegno, potendo essere instaurata anche con
una persona priva di redditi e patrimonio” (24).
L’impostazione appena riassunta e, in particolare,
(22) Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2013, 2,
osserva che, a seguito della riforma introdotta con la l. n.
219/2012 risulta ampliata “la nozione legale di famiglia, che
ora non appare più necessariamente fondata sul matrimonio,
considerato che la disciplina dei vincoli giuridici tra i suoi
membri può prescindere da esso”.
(23) Trib. Lamezia Terme 1 d icembre 2011, in Di r.
fam., 2012, 2, 797, ha disposto la riduzione dell’assegno divorzile dovuto all’ex coniuge economicamente debole sottolineando che nel caso in cui quest’ultimo abbia instaurato una nuova
convivenza more uxorio nell’ambito della quale sia nata prole,
la persistenza di diritti economici scaturenti dal precedente
matrimonio condurrebbe “alla paradossale, inopportuna, illegittima conclusione che il coniuge tenuto all’assegno debba
contribuire al mantenimento del figlio (o dei figli) nato dalla relazione concubinaria del coniuge separato”.
(24) Trib. Roma, sez. I, 22 aprile 2011, in Giur. merito, 2013, 10, 2106, con nota di Serrao, ha disposto che “il coniuge onerato del pagamento dell’assegno di mantenimento
ha l’onere di provare non solo l’instaurazione ed il permanere
di una convivenza more uxorio dell’avente diritto con altra persona, ma anche il miglioramento delle condizioni economiche
dell’avente diritto a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, quanto meno in termini di risparmio di spesa, poiché la convivenza in quanto tale è di per
sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare dell’assegno, potendo essere instaurata anche
con una persona priva di redditi e patrimonio”.
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l’ultimo degli assunti riportati, sembrano indicare
che il presupposto necessario al fine di giustificare
l’eliminazione alla riduzione del contributo dovuto
dal coniuge economicamente forte per il mantenimento dell’altro non sia rappresentato dall’instaurazione della convivenza in sé considerata, ma dal
beneficio economico che ne scaturisce. Questa ricostruzione - sicuramente coerente con il contesto
normativo in cui fu elaborata - appare oggi da rimeditare soprattutto in ragione delle riflessioni già
svolte con riferimento alle intervenute modificazioni del sistema normativo che hanno reso unica
la condizione dei figli ed attribuito piena rilevanza
giuridica alle unioni non matrimoniali nelle quali
siano presenti figli. Come si è avuto modo di osservare, infatti, la creazione di legami di parentela
che si basano sul mero dato della derivazione biologica e l’affermazione della regola generalizzata
dell’esercizio condiviso dalla responsabilità genitoriale hanno conferito alla famiglia non fondata sul
matrimonio una rilevanza tale per cui appare oggi
possibile affermare che, in ogni caso, la nascita di
un figlio impone ai genitori l’assunzione di un nucleo minimo di responsabilità richieste dalla conduzione del nucleo familiare in ogni suo frangente.
Il che non sembra lasciare spazio alla persistenza di
diritti vantati nei confronti dell’ex coniuge divorziato. In altri termini, nel mutato contesto normativo, l’instaurazione di una nuova famiglia e l’assunzione di responsabilità nei confronti dei figli comuni generati con il nuovo partner dovrebbe comportare, di per sé, la tendenziale eliminazione di
ogni posizione di dipendenza dal coniuge separato
o dall’ex coniuge divorziato ed ogni aspirazione al
mantenimento del tenore di vita riferito al periodo
della convivenza matrimoniale, ormai venuta meno ed alla quale è stata sovrapposta una nuova
convivenza familiare nell’ambito del nuovo nucleo
formato successivamente alla crisi del matrimonio.
Ogni considerazione relativa alle condizioni economiche godute dal nuovo convivente ed ogni comparazione tra il livello di benessere della nuova famiglia fondata sulla convivenza rispetto a quello
che aveva caratterizzato la precedente unione matrimoniale dovrebbero risultare in linea di principio prive di rilievo proprio perché, una volta assunta la decisione (e la responsabilità) di costituire
un nuovo nucleo familiare autonomo, non dovrebbe residuare più spazio per interferenze tra questo
nuovo nucleo e persistenti doveri di solidarietà
post- coniugale radicati sul matrimonio precedente.
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Adottando l’impostazione appena descritta sarebbe
possibile risolvere un’ulteriore incertezza interpretativa: ossia quella di stabilire se a seguito dell’accertamento di una stabile convivenza del coniuge
beneficiario del sostegno economico da parte dell’altro la limitazione dei doveri della parte obbligata debba risolversi in una netta esclusione del dovere di mantenimento o debba essere modulata tenendo conto dell’entità del beneficio economico
ricavato dalla nuova convivenza. Tale questione,
allineandosi all’impostazione tuttora prevalente
nella giurisprudenza di merito e di legittimità, dovrebbe essere risolta nel senso di modulare il dovere di mantenimento gravante sul coniuge separato
o sull’ex coniuge divorziato in funzione del beneficio che il coniuge economicamente debole ricavi
dalla nuova convivenza. Tuttavia, adottando la diversa impostazione che attribuisce rilievo alle sopravvenute modifiche legislative e vede nell’instaurazione di una nuova convivenza nella quale
siano presenti figli una rottura netta ed incondizionata della situazione di interdipendenza economica
creata con il matrimonio, appare preferibile optare
per una soluzione che conduce, in linea di principio, ad una eliminazione radicale del contributo
dovuto dalla parte economicamente forte, quanto
meno nell’ipotesi in cui si tratti di ex coniugi divorziati.
3.3. La formazione di una nuova famiglia
da parte del coniuge economicamente debole
e la “quiescenza” del suo diritto
al mantenimento
Le osservazioni svolte a proposito della rilevanza
assunta nel contesto normativo attuale dalla formazione di una famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli assumono rilievo
anche quando si tratta di risolvere la questione relativa al carattere definitivo o reversibile della riduzione o eliminazione del contributo economico
dovuto per il mantenimento del coniuge separato
o dell’ex coniuge divorziato che abbia dato vita ad
una nuova famiglia. In questo caso, a differenza di
quanto osservato con riferimento alle questioni
che precedono, sembra opportuno adottare soluzioni differenziate a seconda che si verta nel contesto
della separazione o in quello del divorzio.
Con riferimento alla situazione dell’ex coniuge divorziato la soluzione accolta dalla giurisprudenza di
legittimità e di merito sembra indicare il carattere
reversibile delle limitazioni al dovere di mantenimento gravante sull’ex coniuge. Pronunce recenti,
infatti, hanno chiarito che l’instaurazione di una
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stabile convivenza da parte del beneficiario dell’assegno divorzile costituisce un limite agli obblighi
imposti alla parte economicamente forte e pone
detto assegno “in una fase di quiescenza”; il che
comporta la possibilità che una parte economicamente debole riproponga l’istanza volta al conseguimento dell’assegno divorzile in caso di rottura
della convivenza (25). Questa soluzione, soprattutto in ragione delle argomentazioni esposte in precedenza, sembra meritevole di una revisione. Infatti l’intervenuta instaurazione di una convivenza da
parte dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno postmatrimoniale dopo la definitiva rottura del vincolo
coniugale dovrebbe determinare l’effetto di limitare o escludere i doveri di mantenimento gravanti
sull’altro in via definitiva ed irreversibile. La soluzione contraria – peraltro avallata da pronunce di
legittimità recenti – appare in effetti espressione di
una concezione dei rapporti tra ex coniugi non più
in linea con il contesto normativo attuale e con la
rilevanza che in esso viene attribuita alla formazione di una nuova famiglia nella quale siano presenti
figli comuni dei partners. Infatti qualora si convenga circa il fatto che attraverso la creazione di una
nuova famiglia si compie un atto di autoresponsabilità inconciliabile con il persistente godimento
dei benefici economici derivanti da rapporto coniugale ormai terminato, si dovrebbe giungere a
concludere che venir meno dell’assegno post-matrimoniale dovrebbe assumere, in linea di principio, un carattere definitivo e quindi non reversibile.
Peraltro, quando si tratta di decidere riguardo alla
posizione del coniuge separato il cui diritto al mantenimento venga limitato o escluso dalla sopravvenuta formazione di un nuovo nucleo familiare ove
siano presenti figli, sembra opportuno formulare
considerazioni in parte diverse rispetto a quelle
che riguardano la situazione dell’ex coniuge divorziato. Nell’ambito della separazione, infatti, resta
possibile l’eventualità di una riconciliazione tra i
coniugi, che potrebbe condurre addirittura al ripristino dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c.
e, in caso di una successiva crisi dei coniugi riconciliati, ad un obbligo di mantenimento ex art. 156
c.c. In altri termini l’instaurazione di una convi(25) Cass. 26 febbraio 2014, n. 4539, in Diritto & Giustizia
online, 2014, in cui è stato stabilito che “la convivenza more
uxorio del coniuge, destinatario dell’assegno, tale da aver dato
vita ad una vera e propria famiglia di fatto, può rendere inoperante o comunque può produrre una sospensione dell’assegno
divorzile”; in senso analogo Cass. 11 agosto 2011, n. 17195,
cit.
1052
venza more uxorio da parte di un soggetto che, in
quanto separato, conserva ancora un significativo
legame con l’altro coniuge può sicuramente legittimare la limitazione o l’esclusione dei doveri di
mantenimento scaturenti dall’art. 156 c.c. Al tempo stesso la persistenza del vincolo coniugale dovrebbe consentire di attribuire alla limitazione o
all’esclusione dei doveri di mantenimento gravanti
sul coniuge i caratteri della provvisorietà e reversibilità in ragione dei quali appare possibile ritenere
che il diritto al mantenimento della parte economicamente debole venga eventualmente a trovarsi
in una situazione di quiescenza.
4. Il mantenimento del coniuge debole
nella prospettiva delle famiglie
che si sovrappongono tra solidarietà
post-coniugale e autoresponsabilità
Le fattispecie prese in esame, nel loro insieme, testimoniano l’opportunità di una revisione degli
orientamenti in materia di mantenimento del coniuge economicamente debole che tenga conto
della diffusione di modelli familiari che rappresentano un elemento di novità rispetto al paradigma
tradizionale della famiglia unita o di quella che, al
più, poteva vivere in una dimensione “destrutturata” successivamente alla separazione o al divorzio
dei coniugi. La rilevanza dei modelli familiari nei
quali nuovi nuclei si sovrappongono a quello che
si è diviso a seguito della separazione o del divorzio, del resto, è ormai emersa anche nelle recenti
modifiche del sistema legislativo e negli orientamenti giurisprudenziali che ad essi hanno attribuito
rilevanza. Così, l’enfatica enunciazione del diritto
“diritto costituzionalmente fondato di ottenere la
separazione personale” (26) e quella del diritto a
dare vita ad una nuova famiglia successivamente
alla disgregazione del primo gruppo familiare possono essere osservate come la presa d’atto di mutamenti sociali e demografici la cui diffusione ed
espansione è costantemente confermata dagli studi
statistici. Del resto, anche la conseguita consapevolezza del legislatore riguardo alla varietà di situazioni che possono caratterizzare la relazione tra i
genitori, incidendo sulla sua solidità e sulla sua stabilità, ha condotto a valorizzare legami familiari
(26) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, in questa Rivista, 2008,
28, con nota di La Torre, Perdita dell’affectio coniugalis e diritto
alla separazione, nella quale è stato enfaticamente evocato un
“diritto costituzionalmente fondato di ottenere la separazione
personale e interrompere la convivenza”, ove questa sia divenuta intollerabile.
Famiglia e diritto 11/2014
Opinioni
Doveri coniugali
che in precedenza non assumevano rilievo giuridico ed a creare intorno al fatto della generazione
biologica un nucleo di diritti del figlio e di responsabilità dei genitori che, per la prima volta nel nostro ordinamento, prescindono dall’esistenza di
un’unione stabile di questi ultimi e dalla circostanza che essa sia fondata sulla convivenza o sul matrimonio.
Proprio l’elemento di novità costituito dalla rilevanza che oggi il nostro ordinamento attribuisce
alla famiglia non fondata sul matrimonio nella
quale siano presenti figli sembra suggerire l’opportunità di una revisione degli orientamenti giurisprudenziali consolidati formatisi in materia di
conseguenze economiche della crisi coniugale in
funzione di paradigmi e di modelli familiari che,
pur continuando a conservare assoluto rilievo nel
contesto normativo attuale, risultano modificati o
comunque, affiancati da modelli più articolati e
complessi.
In definitiva il problema del mantenimento del coniuge economicamente debole deve essere affrontato nel sistema giuridico attuale considerando, accanto al modello della famiglia che si disgrega a seguito della separazione e del divorzio, anche la prospettiva più complessa dei modelli di famiglia che
scaturiscono dalla ricomposizione di nuovi nuclei
familiari successivamente alla separazione ed al divorzio.
Lo scenario della ricomposizione di nuovi nuclei
familiari da parte del coniuge economicamente forte postula l’esigenza di rivedere e circostanziare,
anzitutto, l’assunto secondo cui dopo la rottura del
matrimonio deve essere perseguito l’obiettivo di
garantire ai componenti del primo nucleo familiare
il persistente godimento del tenore di vita della famiglia unita. A questa impostazione dovrebbe sostituirsi quella che mira a garantire un’equa ripartizione delle risorse economiche di cui dispone la
parte più benestante e quindi la finalità di garantire un tenore di vita tendenzialmente analogo tra
loro a tutti i soggetti economicamente deboli, appartenenti al primo e al secondo nucleo familiare e
dipendenti dal medesimo soggetto. In quest’ottica
sembra necessaria una parziale revisione degli
orientamenti in materia di assegno post-matrimoniale, che, ove si ponga il problema della tutela del
coniuge ancora in giovane età, reduce da un rapporto matrimoniale di breve durata e senza figli,
(27) A questo proposito, riveste notevole interesse una recente pronuncia di illegittimità (Cass. 6 giugno 2014, n. 12781,
cit.) concernente una fattispecie nella quale i coniugi avevano
Famiglia e diritto 11/2014
dovrebbe assumere una funzione assistenziale-riabilitativa ed essere circoscritto entro ragionevoli limiti di tempo (27). Questa soluzione, del resto, risulterebbe coerente con quelle già adottate in alcuni paesi europei e nella maggior parte dei sistemi
giuridici statunitensi.
Per quanto concerne l’ipotesi della ricomposizione
di un nuovo nucleo familiare da parte del coniuge
economicamente debole, beneficiario del diritto al
mantenimento nei confronti dell’altro, sembra auspicabile una revisione degli orientamenti consolidati che tenga conto della rilevanza giuridica attribuita dalla recente riforma alla famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli.
In altri termini le modificazioni legislative nell’attribuire rilevanza giuridica ai rapporti familiari non
fondati sul matrimonio e nell’investire i genitori di
nuove responsabilità, hanno conferito alla formazione sociale che un tempo veniva definita “famiglia di fatto” caratteri che, a ben vedere, non possono non essere presi in considerazione quando si
tratta di definire le conseguenze economiche che
scaturiscono da rapporti matrimoniali instaurati in
precedenza ed ai quali la nuova formazione familiare si è sovrapposta. Adottando questa prospettiva,
gli orientamenti giurisprudenziali concernenti la
posizione del coniuge separato beneficiario del
mantenimento e, in particolare, quella dell’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile appaiono meritevoli di una revisione che valorizzi il profilo della
autoresponsabilità inevitabilmente connesso alla
formazione di un nuovo nucleo familiare.
5. La limitazione delle perduranti
posizioni di interdipendenza economica
tra ex coniugi tra prospettive de iure
condendo ed interpretazioni evolutive
Le complesse questioni che si pongono nella definizione delle conseguenze economiche della rottura del matrimonio e della successiva ricomposizione dei familiari sono state affrontate in altri ordinamenti predisponendo efficaci strumenti funzionali ad eliminare persistenti posizioni di interdipendenza economica tra gli ex coniugi e, quindi a
risolvere in radice molti dei problemi a cui si è fatto riferimento. In quest’ottica vengono in considerazione anzitutto l’introduzione di forme di mantenimento con funzione riabilitativa e soggette a rigorosi limiti temporali; quindi gli strumenti di deficonvenuto che la parte economicamente debole percepisce
un assegno dall’altra per un arco di tempo limitato, in vista del
conseguimento dell’indipendenza economica.
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Opinioni
Doveri coniugali
nizione una tantum delle conseguenze del divorzio
che consentono di eliminare i problemi connessi
alla sussistenza di obblighi di mantenimento periodici; infine la crescente attribuzione di rilievo alla
formazione di nuclei familiari non fondati sul matrimonio come limite alla persistenza di obblighi di
mantenimento scaturenti dalla dissoluzione di una
precedente unione matrimoniale.
Come si è osservato, in molti paesi dell’Unione europea si sta affermando il cosiddetto principio della
autoresponsabilità (28), che conduce a prevedere
una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da
un matrimonio di breve durata, ancora in giovane
età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli (29). Questa scelta del legislatore
non di rado si accompagna a norme che impongono una definizione una tantum delle conseguenze
economiche del divorzio. Nei sistemi di common
law, ad esempio, l’adesione alla c.d. clean break
theory (30) consente di risolvere il problema dei riflessi patrimoniali del divorzio mediante l’attribuzione di una somma una tantum (lump sum) o l’assegnazione al coniuge economicamente debole di
uno o più beni appartenenti all’altro, limitando ad
ipotesi residuali il pagamento di somme periodiche
a titolo di mantenimento. Tale impostazione è indubbiamente funzionale all’esigenza di consentire
ai coniugi di definire una volta per tutte i rapporti
patrimoniali conseguenti al divorzio e lasciarsi alle
spalle la passata esperienza per ricominciare una
nuova vita (31). Del resto, anche in ordinamenti
di civil law maggiormente affini al nostro, sono stati
introdotti in tempi relativamente recenti strumenti
idonei a conciliare l’esigenza di mantenimento del
coniuge economicamente debole con quella di evitare il protrarsi di posizioni di interdipendenza economica successivamente al divorzio. Così, ad esempio, nell’ordinamento francese, la corresponsione
della pension compensatoire deve essere effettuata,
ove possibile, mediante l’attribuzione una tantum
di una somma di denaro o di un bene immobile
(art. 270 c.c.) (32) e, solo in caso di mancanza di
risorse sufficienti in capo al coniuge economicamente forte, può essere assolta mediante pagamenti
periodici (art. 275 c.c.) (33).
Per quanto riguarda l’attribuzione di rilievo alle relazioni familiari non basate sul matrimonio riveste
sicuro interesse la soluzione recepita nel nuovo art.
101 del codice civile spagnolo che, oltre al passaggio a nuove nozze, annovera tra le cause di estinzione del diritto a percepire l’assegno divorzile anche la formazione di una famiglia non fondata sul
matrimonio (34). Anche nel nostro ordinamento,
invero, la possibilità che dall’instaurazione di una
nuova convivenza stabile possa derivare il venir
meno di diritti che scaturiscono da un’esperienza
matrimoniale precedente trova riscontro in un’espressa disposizione di legge. La disciplina della assegnazione della casa familiare introdotta dalla l.
n. 54/2006 (art. 155 quater c.c.) e ora contenuta
nell’art. 337 sexies c.c., infatti, prevede la possibilità che il coniuge titolare del provvedimento di assegnazione della casa familiare possa perdere il diritto al godimento della stessa nel caso in cui instauri una nuova convivenza more uxorio (35).
(28) Sul punto cfr. retro nota 11.
(29) Sul punto cfr. retro nota 12.
(30) Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution,
cit., 393 ss.; Katz, Family Law in America, cit., 87.
(31) In questo senso in più trattazioni si richiamano le incisive parole di Lord Scarman nella decisione Minton v Minton
[1979] AC 593, 608: “An object of the modern law is to encourage [the parties] to put the past behind them and to begin a
new life which is not overshadowed by the relationship which
has broken down”.
(32) Cfr. l’art. 270 c.c., modificato dalla Loi n. 2004-439 in
vigore dal 1° gennaio 2005, in cui è disposto che “L’un des
époux peut etre tenu de verser à l’autre une prestation destinée à compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la
rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives. Cette prestation a un caractère forfaitaire. Elle prend la
forme d’un capital dont le montant est fixé par le juge”. Il successivo art. 214, chiarisce che “Le juge décide des modalités
selon lesquelles s’exécutera la prestation compensatoire en
capital parmi les formes suivantes : 1° Versement d’une somme d’argent, le prononcé du divorce pouvant etre subordonné
à la constitution des garanties prévues à l’article 277 ; 2° Attribution de biens en propriété ou d’un droit temporaire ou viager d’usage, d’habitation ou d’usufruit, le jugement opérant
cession forcée en faveur du créancier. Toutefois, l’accord de
l’époux débiteur est exigé pour l’attribution en propriété de
biens qu’il a reçus par succession ou donation”
(33) Cfr. l’art. 275 c.c., modificato dalla Loi n. 2004-439, in
vigore dal 1 gennaio 2005, ai sensi del quale “Lorsque le débiteur n’est pas en mesure de verser le capital dans les conditions prévues par l’article 274, le juge fixe les modalités de
paiement du capital, dans la limite de huit années, sous forme
de versements périodiques indexés selon les règles applicables aux pensions alimentaires”.
(34) L’artículo 101 codigo civil dispone: “El derecho a la
pensión se extingue por el cese de la causa que lo motivó, por
contraer el acreedor nuevo matrimonio o por vivir maritalmente con otra persona.
El derecho a la pensión no se extingue por el solo hecho de la
muerte del deudor. No obstante, los herederos de éste podrán
solicitar del Juez la reducción o supresión de aquélla, si el caudal hereditario no pudiera satisfacer las necesidades de la deuda o afectara a sus derechos en la legítima”.
(35) La norma contenuta nell’art. 155 quater c.c. è stata oggetto di una sentenza interpretativa del di rigetto della Corte
costituzionale che chiarito la non automaticità della caducazione del provvedimento di assegnazione in ragione dell’accertamento della nuova convivenza instaurata dal coniuge assegnatario della casa familiare ed ha precisato che a tal fine è sempre necessario verificare quale sia l’interesse dei minori che
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Doveri coniugali
Questa disposizione, in effetti, testimonia che l’ordinamento attribuisce rilievo alla sopravvenuta instaurazione della convivenza more uxorio da parte
del coniuge beneficiario della casa familiare e tende, in linea di principio, ad escludere la compatibilità tra essa ed il perdurante godimento della casa
familiare (36).
Indubbiamente - anche nella prospettiva dell’approvazione della riforma sul c.d. divorzio breve (37)
e dell’introduzione delle recenti disposizioni del
d.l. n. 132/2014, recanti Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione - sarebbe auspicabile un intervento
del legislatore che - allineandosi a soluzioni già
praticate in altri ordinamenti - risulti funzionale ad
adeguare la disciplina delle conseguenze economiche della rottura del matrimonio alle esigenze determinate dalla crescente diffusione di nuovi modelli familiari articolati e complessi determinati
dalla sovrapposizione nel tempo di diversi nuclei
familiari che fanno capo all’unico soggetto economicamente forte.
Per quanto concerne l’introduzione di strumenti di
definizione una tantum dei rapporti economici tra
ex coniugi divorziati e la previsione di un mantenimento dell’ex coniuge circoscritto entro ragionevoli limiti temporali l’intervento del legislatore appare l’unica soluzione percorribile, stante l’assenza di
elementi positivi sulla base dei quali operare una
rilettura interpretativa del sistema. Diversamente,
la possibilità di individuare nella autoresponsabilità
del coniuge economicamente debole e, in particolare, nella scelta di quest’ultimo di dare vita ad
nuova famiglia elementi capaci di eliminare posizioni di interdipendenza scaturenti dal precedente
matrimonio costituisce un obiettivo che - oltre a
poter essere attuato dal legislatore in una prospettiva de iure condendo - sembra possibile conseguire,
allo stato attuale, anche in via interpretativa.
nella casa familiare vivono ed in funzione del quale l’assegnazione è stata disposta (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 300, in
questa Rivista, 2008, 1661, con nota di Quadri, Vicende dell’assegnazione della casa familiare e interesse dei figli e in Nuova
giur. civ. comm., 2008, II, 411, con nota di C. Irti, La revoca dell’assegnazione della casa familiare: dalle critiche della dottrina al
giudizio della Consulta).
(36) Roma, L’assegnazione della casa familiare, in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di Sesta e Arceri,
Torino, 2012, 177
(37) Cfr. Il testo unificato delle proposte di legge (C. 831892-1053-1288-1938-2200-A), intitolato Disposizioni in materia
di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi, approvato alla Camera
il 29 maggio 2014 e, in particolare, la modifica dell’art. 3 l. n.
898/1970, che condiziona la proposizione della domanda di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili al del matrimonio al protrarsi ininterrotto della separazione legale per “almeno dodici mesi dalla notificazione della domanda di separazione”, in caso di separazione giudiziale, e, in caso di separazione
consensuale, “di sei mesi decorrenti dalla data di deposito del
ricorso ovvero dalla data della notificazione del ricorso, qualora esso sia presentato da uno solo dei coniugi”.
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Opinioni
Cittadinanza
Acquisto di cittadinanza
Disabilità e capacità di volere
nelle procedure di acquisto
della cittadinanza
di Paolo Morozzo della Rocca
L’Autore, esaminati gli orientamenti giurisprudenziali riguardo alle dichiarazioni di volontà in materia di
cittadinanza, condivide l’opinione favorevole ad esonerare il soggetto incapace di intendere e di volere
dal giuramento di cui all’art. 10 della legge n. 91 del 1992 e ritiene che delle dichiarazioni tese all’acquisizione dello status civitatis - diversamente da quelle dismissive o di rifiuto - possa essere autore anche il
soggetto legalmente incapace, purché capace di intendere e di volere. In ogni caso la dichiarazione di volontà in materia di cittadinanza può essere validamente formulata dal rappresentante legale dell’incapace
nell’interesse di quest’ultimo, occorrendo però l’autorizzazione del giudice tutelare quando si tratti di dichiarazione dismissiva. L’autore ritiene, infine, che i segnalati orientamenti in tema di cittadinanza possano contribuire alla più ampia riflessione degli interpreti in materia di “atti personalissimi”.
Sull’eccessivo rilievo della volontà
nell’attuale disciplina della cittadinanza
Diverse sono le modalità del rilievo della volontà
nei procedimenti di acquisto della cittadinanza.
Un rilievo normativamente diffuso ma non sempre
necessario: si pensi, ad esempio ai casi di “cittadinanza originaria” (espressione questa molto criticata ma ancora diffusa) nei quali si nasce cittadini e
solo in casi particolari si ha la possibilità di rinunziarvi.
La volontà svolge invece, quasi sempre, un ruolo
determinante nei casi di acquisto successivo alla
nascita. Qui la dichiarazione di volontà può assumere diverse collocazioni all’interno del procedimento: a) potrà costituirne un elemento necessario
senza il quale il procedimento non può essere iniziato o non potrà essere concluso; b) potrà assumere un rilievo solo eventuale, riconoscendo al soggetto la possibilità di esprimere una volontà impeditiva dell’acquisto della cittadinanza, altrimenti
attribuita ex lege; c) potrà aversi, infine, una dichiarazione di volontà dismissiva, volta a rinunciare alla cittadinanza precedentemente acquisita
(1) È questa la critica già espressa alla previgente disciplina
da R. Quadri, Cittadinanza, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959,
330.
(2) Non mi risultano statistiche relative al problema posto
nel testo. Per farsi un’idea delle sue dimensioni sociali, seppur
1056
(specie se l’acquisto sia avvenuto senza il concorso
della volontà dell’interessato).
In termini ancora molto generali vanno denunciati
i gravi inconvenienti derivanti dalla inopportuna
scelta del legislatore (sia quello storico che l’attuale) di riversare eccessivamente sul singolo individuo la responsabilità di fattispecie acquisitive della
cittadinanza che in realtà troverebbero già la loro
ragion d’essere in elementi oggettivi di gran lunga
più significativi della volontà individuale (1), ignorando, in particolare, le conseguenze che tale sopravvalutazione produce nei casi di fragilità psichica o mentale del soggetto chiamato a volere (2).
Un primo suggerimento che dunque potrebbe essere dato al legislatore in sede di riforma potrebbe essere quello di rivedere - e dove opportuno ridimensionare - il ruolo della volontà individuale nelle
singole fattispecie. Questo ridimensionamento a
volte potrebbe sostanziarsi in una diversa collocazione funzionale della volontà individuale all’interno del procedimento. Ad esempio, là dove attualmente la legge richiede una dichiarazione di volontà positiva per il compiersi della fattispecie acquisitiva, potrebbe talvolta essere introdotta una mera
limitatamente alle giovani generazioni, può essere tuttavia
considerato che, secondo i dati del MIUR, nell’anno scolastico
2009/2010 vi erano nelle classi italiane 10.500 alunni immigrati
con disabilità intellettiva.
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Opinioni
Cittadinanza
facoltà di rifiuto della cittadinanza altrimenti attribuita ope legis. Potrebbe essere questo il caso dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei
cittadini stranieri nati in Italia e residenti sul territorio nazionale sino al compimento del diciottesimo anno di età, i quali oggi divengono cittadini
solo su loro richiesta, ai sensi dell’art. 4, comma 2
della legge n. 91/1992. Si tratta di una disposizione
ripresa nella prima metà dell’ottocento dal codice
napoleonico e ripetuta senza modifica alcuna nei
pochi passaggi legislativi sopravvenuti, sino alla
legge del 1992. In Francia - Paese da cui questa regola è stata importata - il legislatore vi ha invece
messo mano, modificandola, in tre diverse occasioni (nel 1851, nel 1889 e nel 1927) al fine, principalmente, di poter coinvolgere i giovani di origine
straniera nella difesa militare della Patria. Accadeva infatti che un certo numero di stranieri di seconda generazione, giovani francesi di fatto, ma
non di diritto, rimanessero in città a studiare, lavorare o commerciare – ben guardandosi dal dichiarare la loro volontà di divenire francesi in tempo di
guerra - mentre quelli con cui erano cresciuti sino
al giorno prima partivano per il fronte. Mi chiedo
se abbiamo necessariamente bisogno di una guerra
per chiamare tutti i giovani cresciuti e formati nel
nostro Paese a servire il bene comune; e se, finito
il tempo dei conflitti armati territoriali, dobbiamo
considerare esaurita anche l’esigenza di politiche di
inclusione nella cittadinanza dei ragazzi che crescono nel nostro Paese, o se invece tale esigenza non
sia addirittura accresciuta dalla nuova collocazione
dell’Italia nel mondo ed in Europa, lontani dalle
vecchie guerre territoriali ma esposti ad una competizione globale nella quale vince chi meglio sa
insinuarsi in ogni luogo e cultura.
Oggi in Francia lo straniero nato sul territorio nazionale può divenire cittadino già a 13 anni per volontà del rappresentante legale, salvo poi eventualmente rinunciare; in caso di inerzia del suo rappresentante legale potrà personalmente eleggere la cittadinanza francese al compimento dei sedici anni;
ed infine, diverrà ope legis cittadino francese al
compimento dei diciotto anni se non vi si opporrà
rifiutandola (3). Questo modello ci mostra dunque
la possibilità e forse la convenienza di ricollocare
la volontà individuale da presupposto necessario ad
eventuale fatto impeditivo dell’acquisto della cittadinanza di residenza.
(3) In tal senso il combinato disposto tra l’art. 21-7 e l’art.
21-11 del code civil.
(4) Cfr., per tutti, E. Pagano, Legge 13 giugno 1912, n.555,
Famiglia e diritto 11/2014
In effetti i minori stranieri nati nel Paese di residenza sono esistenzialmente cittadini ben prima di
diventarlo sotto il profilo giuridico, benché siano
nati stranieri; e non è detto che sia saggio far dipendere l’ingresso nella cittadinanza del Paese di
residenza da una loro dichiarazione di volontà; né
che la volontà loro richiesta debba esprimersi in
un atto negoziale; né che la dichiarazione di volontà eventualmente richiesta debba essere considerata come atto personalissimo.
Una ben diversa prospettiva caratterizza invece i
casi di ingresso nella cittadinanza di residenza degli
stranieri che siano immigrati nel Paese già da adulti, per i quali la dichiarazione di volontà dovrebbe
rimanere, nella normalità dei casi, il presupposto
fondamentale e dunque necessario, almeno riguardo a coloro che siano in effetti capaci di intendere
e di volere, avendo già essi una loro cittadinanza
effettivamente vissuta. In tutti questi casi è infatti
più che logico che si debba desiderare di divenire
cittadini del paese di immigrazione ed ancor più
necessario è che la nuova cittadinanza non sia loro
imposta (come pure uno Stato non democratico
potrebbe decidere di fare).
Il requisito di capacità nelle dichiarazioni
di volontà in tema di cittadinanza
Dato il rilievo che nella maggior parte dei casi di
attribuzione non originaria della cittadinanza è riconosciuto alla volontà individuale, diviene essenziale stabilire quale sia la capacità di volere richiesta al dichiarante. L’opinione tradizionale ritiene
che per le dichiarazioni di volontà relative all’acquisto o alla rinunzia alla cittadinanza occorra la
piena capacità legale di agire oltre, ovviamente, alla capacità naturale nel momento della dichiarazione stessa (4).
A sorreggere questa idea v’è la considerazione per
la particolare gravità dell’atto da compiere – col
quale verrà dichiarata la volontà di ingresso o di
fuoriuscita dallo status civitatis – alla quale dovrebbe dunque corrispondere un più esigente grado di
capacità di volere e dunque l’indefettibilità della
piena capacità legale di agire.
Sul piano del diritto comune la norma di riferimento è l’art.2 del codice civile, ove è disposto
che “con la maggiore età si acquista la capacità di
compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita
una età diversa”. Da queste parole del legislatore
sulla cittadinanza italiana, in P. Perlingieri, La legislazione civile
annotata con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli, 1985, 14
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Opinioni
Cittadinanza
potrebbe in effetti essere tratta la deduzione che gli
atti leciti per il cui compimento non è richiesta la
normale capacità legale di agire (nonché la maggiore età, che ne è il presupposto legale naturale)
sono solo quelli espressamente previsti, tra i quali
non figura alcuna ipotesi di dichiarazione di volontà in materia di acquisto o rinunzia alla cittadinanza.
Dell’art. 2 del codice civile è stata però da altri
proposta una diversa interpretazione costituzionalmente orientata e propensa, in particolare, a valorizzare nella sua lettura l’art. 2 della Costituzione,
di modo che l’espressa previsione di legge per eccepire alla regola generale sulla capacità legale parrebbe necessaria solo nell’ambito degli atti negoziali, specie se a contenuto patrimoniale, rimanendone invece esenti gli atti di autodeterminazione della persona nell’ambito degli interessi non patrimoniali rilevanti ai sensi dell’art. 2 Cost., per i quali
parrebbe invece necessaria e sufficiente la capacità
di intendere e di volere, ovvero la consapevolezza
dell’atto che viene compiuto dal portatore dell’interesse (5). Questa seconda linea interpretativa
trae forza dall’idea che l’autodeterminazione non
sia solo una modalità (talvolta oculata, altre volte
malaccorta) di gestione degli interessi ma costituisca già in sé un diritto nel quale è specificata la dignità della persona (6).
Sotto altro profilo, il favore di una parte degli interpreti per il solo requisito di capacità naturale si
spiega con la presupposizione che le dichiarazioni
di volontà in materia di cittadinanza siano atti personalissimi per i quali non sia possibile la sostituzione dell’interessato da parte di terzi che ne curino ordinariamente gli interessi. Il rischio sarebbe
dunque quello di escludere dall’accesso alla cittadinanza persone interdette, beneficiarie dell’amministrazione di sostegno, sottoposte a tutela o ad altri
uffici di protezione previsti dalla legge del Paese di
origine (7), mentre per i minori, considerate le modalità previste dalla legge per l’acquisto della cittadinanza italiana, il problema si pone in termini decisamente diversi e forse opposti, dato che i casi
nei quali si è posto effettivamente il quesito sulla
rilevanza della dichiarazione di volontà del minore
non riguardano ipotesi di acquisto ma di rinuncia.
Sul punto l’opinione prevalente, fatta propria anche dall’Amministrazione dell’Interno, è nel senso
che “per il nostro ordinamento non ha rilevanza la
manifestazione di volontà del minore intesa a conseguire uno status civitatis straniero” (con la conseguenza, nei casi ivi considerati, della perdita della cittadinanza italiana) (8). Nello stesso senso, per
orientamento ancor più risalente, è anche il Consiglio di Stato, secondo cui per acquistare spontaneamente la cittadinanza straniera e perdere di
conseguenza quella italiana occorre avere la maggiore età (9).
Dei due orientamenti sin qui riferiti quello poc’anzi
definito come tradizionale è senza dubbio da preferire riguardo alle dichiarazioni rinunciative ed è
avvalorato, limitatamente a tale ambito, dalle norme che disciplinano tali fattispecie. Ciò corrisponde, del resto, anche al migliore interesse del minore e dell’incapace, come a breve vedremo. Già sotto la previgente disciplina l’art. 7 della legge n.
555/1912 consentiva al cittadino italiano residente
all’estero ed in possesso della cittadinanza di quel
paese per nascita di rinunziare alla cittadinanza italiana solo se emancipato o se divenuto maggiorenne. Il successivo art. 8, comma 1, n. 1, imponeva
invece, ope legis, la perdita della cittadinanza italiana per chi, stabilendosi all’estero, avesse spontaneamente acquisito una cittadinanza straniera. Ma
la dottrina era ferma nel considerare come involontaria la cittadinanza straniera acquisita mediante dichiarazione di volontà del genitore del minorenne, di modo che quest’ultimo potesse mantenere doppia cittadinanza oppure rinunziarvi, ai sensi
dell’art. 8, comma 1, n. 2, successivamente alla
maggiore età (10). Nel suo breve periodo di vita,
l’art. 5 della legge n. 123 del 1983, mentre consentiva la doppia cittadinanza durante la minore età,
prevedeva invece che la rinunzia ad una delle due
potesse avvenire solo tra il diciottesimo ed il diciannovesimo anno d’età.
Non meno nette, al riguardo, paiono le indicazioni
fornite da due disposizioni contenute nella legge
(5) In tal senso, tra gli altri, M. Dogliotti, Le persone fisiche,
in Trattato Rescigno, I, 2, 43 ss.
(6) In termini generali è questa, ad esempio, la posizione
assunta da S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012,
140 ss.
(7) Sul problema dell’applicazione degli istituti dell’interdizione e dell’amministrazione di sostegno allo straniero, cfr. L.
Lenti, Gli istituti di protezione e rappresentanza e il compito di
assistenza sociale dell’ente locale, in (a cura di) P. Morozzo della Rocca, Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assisten-
za, Napoli, 2013, 142; A. Belotti, Sulla possibilità di nominare
un amministratore di sostegno in capo allo straniero infermo di
mente, in Gli stranieri, 2011, 2, 177 ss.
(8) È quanto affermato da Circolare 27.5.1991, n. K.31.9 riguardo all’art. 8, n. 1 della legge 555 del 1912.
(9) Cons. Stato, Parere 24.10.1975, n. 1820.
(10) Per riferimenti di dottrina e giurisprudenza cfr. R. Clerici, Cittadinanza, in Digesto, disc. Pubbl., 3, Torino, 1988, 131,
nonché alle note 153 e 154.
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Cittadinanza
vigente: ai sensi dell’art. 3 della legge n. 91 del
1992, in caso di revoca dell’adozione per ragioni
diverse dal fatto dell’adottato quest’ultimo può rinunciare, se vuole, alla cittadinanza italiana ma solo se la revoca sia intervenuta quando abbia già
raggiunto la maggiore età; dispone inoltre l’art. 14
che coloro che abbiano acquistato ope legis la cittadinanza italiana, perché figli minori conviventi
col genitore che abbia acquistato o riacquistato la
cittadinanza italiana, possano rinunciarvi una volta
divenuti maggiorenni. Il riferimento contenuto
nelle due norme ora richiamate al requisito della
maggiore età, in linea con la regola di diritto comune di cui all’art. 2 c.c., consente all’interprete
di ritenere che esso valga anche per le disposizioni
dove, pur non essendo espressamente indicato, deve essere dato per presupposto, come nel caso dell’art. art. 11, dove è disposto che il cittadino italiano residente all’estero che acquista o riacquista
una cittadinanza straniera non perde la cittadinanza italiana ma può rinunziarvi se crede.
Riguardo al requisito della capacità legale ai fini
dell’esercizio della facoltà di rinunzia, la soluzione
del suo mantenimento anche da parte del legislatore attuale, in continuità con i suoi predecessori,
sembra da condividere perché consentire al minore
di età la facoltà di dichiarare efficacemente la propria volontà riguardo allo status civitatis in base ad
una sua propria e solitaria valutazione comporterebbe almeno i seguenti rischi: a) che la capacità
di intendere e di volere trovi come valutatore l’ufficiale di stato civile, il quale non ha alcuna specifica preparazione professionale per valutarla; b)
che l’apparente volontà del minore venga eccessivamente condizionata, quando non plagiata, dai
suoi genitori o dal suo tutore o amministratore,
senza però che tali soggetti se ne assumano formalmente la responsabilità; c) che gli atti rinunciativi
siano oggettivamente pregiudizievoli al dichiarante.
Diverso ragionamento potrebbe essere svolto riguardo alle dichiarazioni di volontà miranti all’acquisto, anziché alla dismissione, dello status civitatis. Richieste di cittadinanza da parte di minorenni
stranieri, ai sensi della disciplina vigente, sono forse improbabili ma non impossibili, ad esempio a
termini dell’art. 9, comma 1, lett. d), e) ed f): si
pensi al caso di un minorenne che abbia maturato
il requisito di residenza in Italia non accompagnato
da genitori od i cui genitori non vogliano o non
possano ottenere la cittadinanza prima che lui divenga maggiorenne.
Nel silenzio della legge n. 91/1992 riguardo al requisito di capacità di volere l’interprete potrà percorrere due strade: la prima, come vedremo a breve, lo condurrà all’utilizzo dello strumento della
rappresentanza legale, l’altra, invece, l’obbligherà
ad una più attenta lettura dell’art. 2 c.c., muovendo da alcune fondamentali riflessioni della dottrina
falzeiana sulla capacità.
Senza contestare l’inequivocabile dato normativo,
di cui all’art. 2, comma 2, c.c., dell’attribuzione
della capacità legale di agire al compimento della
maggiore età, l’illustre autore osservava infatti che
ciò non implica affatto la preclusione al minorenne
degli atti giuridici cui non sia stato espressamente
abilitato dalla legge ma solo quelli che richiedano
necessariamente la capacità di agire, coincidenti
tendenzialmente con le dichiarazioni di volontà
negoziali che generano responsabilità e dunque
comportano rischi in senso giuridico. Non si tratta,
quindi, di affermare l’idolo dell’autodeterminazione
come bene giuridico in sé considerato, ma di affermare l’inutilità del requisito della capacità di agire
per quegli atti che, invece, “mettono in gioco e
realizzano unicamente l’interesse del soggetto agente (...) tali ad esempio in gran parte gli atti reali leciti, molte dichiarazioni di volontà non negoziali,
e quelle dichiarazioni di giudizio e di desiderio che
la legge frequentemente richiede (...)” (11).
A me pare, dunque, che l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero costituisca oggi per quest’ultimo una indubbia posizione di vantaggio e
che quindi egli possa considerarsi abilitato a richiederla anche in mancanza di una esplicita indicazione normativa, purché sia capace di intendere e di
volere. Pare inoltre di poter considerare il minore
sicuramente capace di prestare il giuramento prescritto all’art. 10, purché capace di intendere e di
volere, tanto più che da tale atto (la cui ratio è sicuramente simbolico-pedagogica, mentre ne è controversa sia l’esatta classificazione che l’efficacia),
non deriva un impegno giuridicamente vincolante
al cui inadempimento possa conseguire una sanzione per l’incauto dichiarante. La medesima conclusione, per quanto di utilità, potrebbe valere anche
riguardo al soggetto adulto incapacitato giudizial-
(11) A. Falzea, Capacità, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 8
ss., ma qui tratta dalla raccolta di Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1978, 126.
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Cittadinanza
mente ma in grado di intendere il significato del
giuramento e di volerlo compiere.
Gli orientamenti giurisprudenziali sulla
legittimazione del rappresentante legale
in materia di cittadinanza
È senza dubbio opportuno che nel caso in cui un
soggetto non abbia capacità di agire rispetto ad un
atto a lui favorevole, o non abbia capacità di intendere e di volere, la dichiarazione di volontà, per
se stessa divenuta inammissibile, possa essere surrogata - in presenza dei requisiti oggettivi previsti
dalla legge - dall’accertamento affidabile del suo
personale interesse a divenire cittadino compiuto
da un rappresentante necessario.
Di questa affermazione, perché non rimanga apodittica, è possibile reperire argomenti e ragioni nel
lavorio degli interpreti, dato che il legislatore purtroppo non si è occupato del problema (12). Tale
disattenzione sembra comunque essere l’esito di
una mera imprevisione e non certo di una volontà
di esclusione che, del resto, se avesse davvero guidato il legislatore storico sarebbe oggi caduta per
effetto delle norme del diritto internazionale che
saranno richiamate a conclusione di questo breve
contributo.
Di tali norme nemmeno poteva tenere conto, per
ragioni temporali, un risalente ma mai contraddetto parere reso dal Consiglio di Stato nel 1987 che
alla disattenzione del legislatore ha posto un efficace, anche se non completo, rimedio (13). Il Supremo Collegio Amministrativo giunse in quell’occasione a due conclusioni molto nette, affermando in
primo luogo la possibilità per il tutore (cui oggi occorre aggiungere la figura dell’amministratore di sostegno) di proporre istanza di naturalizzazione nell’interesse del tutelato.
Nel motivare tale affermazione il Supremo Collegio osservava tra l’altro come la volontà individuale non potesse ritenersi un requisito sempre necessario ed indefettibile della naturalizzazione, portando ad esempio il caso – oggi considerato dall’art.
14 della legge n. 91/1992 - dell’attribuzione dello
status civitatis al figlio convivente con il genitore
che abbia acquistato o riacquistato la cittadinanza
italiana. Se in quel caso l’acquisto automatico della
cittadinanza dipende dalla volontà del genitore(12) Tale disattenzione non è un dato del tutto generalizzato
tra i legislatori nazionali. Il code civil, ad esempio, prevede
espressamente il caso dell’incapacità dell’interessato all’art.
17-3.
(13) Cons. Stato, Parere della sez. I, 13.3.1987, n. 261/85.
1060
rappresentante legale ciò vuol dire che alla medesima volontà (del rappresentante legale) può essere
riconosciuta, anche in altre situazioni, analoga capacità di determinare l’acquisto della cittadinanza
in capo al rappresentato. Ma l’argomento forse più
convincente che ha determinato e poi consolidato
presso le corti del merito la posizione del Consiglio
di Stato risiede nella constatazione che là dove vi
sia un soggetto bisognoso di rappresentanza necessaria negare legittimazione al rappresentante significa affermare un’incapacità giuridica speciale in
capo al rappresentato che come tale necessiterebbe, secondo il Supremo Collegio, di un espresso
fondamento normativo che invece nel caso di specie manca.
Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che costituisca espressione di un principio generale in materia di cittadinanza la regola di cui all’art. 13, R.D.
30.12.1920, n. 1890, per la quale, ai fini della opzione di cittadinanza nei territori acquisiti all’Italia
con la I guerra mondiale, le persone “che per qualsiasi motivo sono incapaci od assenti, sono rappresentati in ogni atto relativo al presente decreto
dalla tutela o dal curatore secondo le leggi locali”.
Il Supremo Collegio, qualificato il giuramento di
fedeltà alla Repubblica come atto personalissimo,
ha inoltre ritenuto che l’interdizione costituisca un
impedimento legittimo idoneo ad esonerarne il naturalizzando, consentendo così la trascrizione del
decreto di cittadinanza anche in sua mancanza.
Questo parere del Consiglio di Stato ha poi trovato
costante conferma nella pur scarsa giurisprudenza
di questi ultimi anni ed in particolare nella decisione presa dal Tribunale di Bologna nel 2009, che
ha ribadito la legittimazione del rappresentante legale a proporre istanza per l’incapace includendovi
la figura dell’amministratore di sostegno e esonerando dal giuramento il beneficiario dell’amministrazione (14).
L’anno successivo il Tribunale di Mantova, adito
probabilmente al fine di convincere la prefettura
territorialmente competente a non dichiarare
inammissibile la domanda di concessione della cittadinanza, interveniva disponendo, ipoteticamente, che “se l’istanza di naturalizzazione presentata
dal tutore-genitore nell’interesse dell’interdetto
verrà accolta non si dovrà procedere a giuramento” (15).
(14) Trib. Bologna 9.1.2009, in Fam. pers. succ., L’osservatorio del merito, con scheda di commento a cura di A. Costanzo, 2009, 664.
(15) Trib. Mantova 2.12.2010, in www.ilcaso.it.
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Cittadinanza
La brevità delle motivazioni addotte per giungere
alla soluzione, certamente condivisibile, dell’esonero dal giuramento può essere spiegata dalla difficoltà di esprimere nel ragionamento giuridico una
percezione che è in primo luogo dettata dal buon
senso. Tanto più che l’esonero consegue di necessità all’affermazione della sostituibilità dell’incapace
nell’istanza di concessione o attribuzione della cittadinanza da parte del rappresentante legale.
Lo storico del diritto ed il costituzionalista avrebbero forse maggiori parole da spendere al riguardo
di un istituto dalle omonimie piuttosto insidiose. È
palese infatti l’estraneità del giuramento di cui ci
stiamo occupando al giuramento quale mezzo di
prova, così come a quello utilizzato come asseverazione di dichiarazioni da rendere davanti ad un
pubblico ufficiale. Ben diversa è anche la figura del
giuramento richiesto invece a chi assuma un ufficio
od una funzione, a meno che non si voglia intendere l’Italia come una repubblica di ufficiali, inclusi i cittadini totalmente incapaci di intendere e di
volere. Anche nella prospettiva del privatista il
giuramento permane, ad esempio, nell’assunzione
dell’ufficio di tutore, a conferma solenne del “dovere morale altruistico che connota le origini dell’istituto” (16), ma alla violazione del giuramento
reso al momento dell’assunzione di un ufficio o do
una funzione corrisponde di necessità la sanzione
giuridica della revoca o decadenza dell’ufficiale infedele mentre non così accade per le “infedeltà”
del cittadino, al quale nessun giuramento è normalmente richiesto ed il quale comunque, quando
gli sia richiesto, non decadrà dalla cittadinanza per
l’infedeltà a quanto giurato. È probabile, dunque,
che la più fondata ragione, in prospettiva storica,
del giuramento richiesto allo straniero per l’acquisto della cittadinanza risieda nella “maggior cautela
ispirata al tradizionale sospetto che l’acquisto della
cittadinanza per naturalizzazione ha sempre suscitato” e trovi dunque la sua implicita premessa nella
maggiore capacità di infedeltà di cui il cittadino di
origine straniera è sospettabile (17).
Pare allora che la conformità alla Costituzione del
giuramento previsto dall’art. 10 della legge n. 91
del 1992 dipenda dal significato che l’interprete gli
attribuisca e dal suo ambito soggettivo di applicazione, sembrando, ad un tempo, opportuno valorizzarlo come momento di consapevolezza del “patto
di cittadinanza” che in quel momento trova compimento solenne, ma anche configurandolo come
obbligo giuridico al compimento dell’atto per sua
natura riferibile solo a chi sia in effetti capace di
compierlo e non come condizione legale di efficacia che discrimini i soggetti incapaci, in violazione
dunque del divieto di discriminazione ma anche, a
questo punto – e secondo autorevole dottrina –
dell’art. 54 Cost., dato che tale norma prevede per
tutti i cittadini il dovere di fedeltà alla Repubblica,
ma solo a quelli ai quali siano affidate funzioni
pubbliche impone di giurare detta fedeltà; ed è evidente che il nuovo cittadino incapace non eserciterà alcuna funzione, nemmeno in senso lato, come
potrebbero essere intese quella di elettorato attivo
o quella referendaria (18).
Pienamente condivisibile è dunque l’orientamento,
ormai sufficientemente consolidatosi nel diritto vivente, che, collocando il giuramento di fedeltà alla
Repubblica tra gli atti personalissimi, ne esonera
dal compierlo i soggetti incapaci; come pure consolidato è ormai l’orientamento favorevole a consentire che la richiesta di diventare cittadino sia presentata dal rappresentante legale nell’interesse della persona sottoposta al suo ufficio, che agirà nel
compimento di tale atto non già come nuncius ma
come gestore dell’interesse altrui.
Nel senso della più ampia legittimazione del rappresentante legale a proporre istanze in materia di
cittadinanza quando non vi sia contrasto con l’interesse in senso oggettivo del rappresentato, si è di
recente pronunciato anche il giudice amministrativo, ritenendo illegittima la dichiarazione di irricevibilità della domanda di cittadinanza ex art. 9
presentata dall’amministratore di sostegno di una
giovane donna disabile (19). Giustamente il T.A.R
del Lazio ha ritenuto applicabile alla fattispecie
l’art. 18 della Convenzione dell’ONU sui diritti
delle persone con disabilità, firmata a New York il
13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con la l. 3
(16) Così F. Macioce, Ufficio (dir. priv.), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 649.
(17) Così P. Grossi, Giuramento (dir. cost.), in Enc. dir., XIX,
Milano, 1970, 154.
(18) Così, P. Grossi, op. loc. cit.
(19) Così T.A.R. Lazio 4.6.2013, il cui dispositivo è senza
dubbio condivisibile. Suscita tuttavia perplessità il passaggio
centrale posto a motivazione della sentenza, ove è affermato
che l’amministrazione aveva l’onere, rimasto inadempiuto, di
verificare l’effettiva volontà di cittadinanza, che avrebbe potuto
anche darsi per presunta sulla base di indici biografici. A mio
parere, infatti, la funzione da attribuire ai cosiddetti “indici biografici” non dovrebbe essere quella di far presumere la volontà
di compiere un atto giuridico determinato bensì quella di
orientare ulteriormente la valutazione dell’Amministrazione in
ordine alla opportunità di concedere la cittadinanza su istanza
del rappresentante legale (a meno che la persona tutelata non
esprima un desiderio opposto che, per legge – si veda al riguardo l’art. 410 c.c. - costituisce l’unico limite all’efficace volere nel suo interesse del rappresentante legale).
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Cittadinanza
marzo 2009, n. 18, ove è previsto che “1. Gli Stati
Parti riconoscono alle persone con disabilità, su
base di uguaglianza con gli altri (...) il diritto alla
cittadinanza, anche assicurando che le persone con
disabilità: (a) abbiano il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non siano private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità;”. La sentenza richiama inoltre il divieto di
discriminazioni fondate sulla condizione di disabilità, di cui all’art. 21 della Carta europea dei diritti
fondamentali, completando riguardo alla questione
oggetto del suo scrutinio la cornice sistematica di
cui questa aveva bisogno.
Il merito principale della decisione da ultimo richiamata sta dunque nell’avere consolidato le “antiche” conclusioni cui già era pervenuto il Consiglio di Stato fornendo loro il riferimento normativo superprimario che invece sino ad oggi era rimasto nell’ombra (20). Entrambe le questioni in campo (la possibilità di esercizio del potere di rappresentanza e l’esonero dal giuramento) non trovano
più soluzione, dunque, solo su argomenti raffinati e
condivisibili e tuttavia controvertibili, ma nel ricorso, divenuto ormai obbligato, all’interpretazione
costituzionalmente orientata, mancando la quale la
norma di legge risulterebbe inevitabilmente illegittima sia davanti al Giudice delle leggi che davanti
ai Giudici Europei.
Le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza in
materia di acquisto della cittadinanza da parte dell’incapace mediante la dichiarazione di volontà del
suo rappresentante legale dovrebbero essere considerate dall’interprete nel ridisegnare, in una prospettiva sistematica, confini e contenuto della controversa categoria degli atti personalissimi.
Ci si potrebbe chiedere se di tale categoria sia davvero possibile individuare elementi morfologici costanti, in modo da tracciarne una definizione valida oltre i singoli casi previsti dalla legge, oppure se
i confini della categoria siano destinati a rimanere
frastagliati, secondo le convenienze operazionali
proprie ad ogni singola disciplina.
La risposta, in una prospettiva giuspositivista, è sicuramente nel senso che il carattere personalissimo
o meno dell’atto è, in primo luogo, una qualità che
il legislatore può dare o togliere; ed è bene che ciò
faccia senza ambiguità o lacune. Poiché però que-
ste ultime non mancano, all’interprete è richiesto
comunque di comprendere in base a quali caratteristiche un atto si presta particolarmente ad essere
qualificato come personalissimo, pur sempre considerando che la regola generale consiste invece nell’affermazione della possibilità di sostituzione della
volontà del rappresentante legale per tutti quegli
atti per i quali non sia possibile riferirsi alla volontà dell’interessato (rimangono perciò piuttosto
contenute le possibilità di scoprire atti personalissimi nelle esili pieghe dell’art. 12 delle Preleggi).
Le definizioni della dottrina si sono rivelate spesso
generiche, facendo riferimento agli atti con cui si
dispone delle situazioni familiari o di status personali (e dunque individuando aree nelle quali più
frequentemente il legislatore prevede fattispecie di
atti personalissimi), altre volte troppo evanescenti.
È stato però autorevolmente affermato che il legislatore, assieme alla possibilità dell’atto, reso personalissimo dalla norma, intende negare alla persona
incapace la possibilità di diventare soggetto del potere o del dovere che risulterebbe dall’atto se prodotto (21); e non sembra proprio che tale intenzione sia rintracciabile presso il legislatore della cittadinanza, dove la mancanza di una soluzione normativa alla questione della capacità giuridica pare
piuttosto espressione, come già osservato, di dimenticanza, nel trapasso dalle discipline ottocentesche - dove alla disabilità non corrispondeva un diritto sociale e culturale di integrazione e alle condizioni di vita a quelle contemporanee.
Forse, in rerum natura, la necessità che un atto
giuridico venga considerato personalissimo si pone
solo per quegli atti che non producono effetti oggettivamente valutabili come positivi o negativi da
un terzo. In tali casi, infatti, la mancanza della capacità di compiere l’atto da parte del soggetto interessato esclude in radice che l’atto stesso possa
svolgere la sua funzione e non avrebbe dunque alcun senso consentire ad altri – con o senza autorizzazione giudiziale - di compierlo. In tali casi si potrebbe forse osservare che non v’è alcun oggettivo
pregiudizio che colpisca l’incapace a causa della
mancata realizzazione degli interessi astrattamente
serviti dall’atto reso inattuabile e dunque non v’è
nemmeno un effetto discriminatorio da rimproverare alla norma di qualificazione dell’atto come
personalissimo.
Quando invece l’atto, pur coinvolgendo intimamente la sfera dei sentimenti della persona che ne
(20) Coglie la questione L. Tria, Stranieri extracomunitari e
apolidi, Milano, 2013, 721 s.
(21) Così F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto
civile, Napoli, 1985, 25.
In quali casi un atto è personalissimo?
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Cittadinanza
è direttamente interessata, realizza un piano di interessi oggettivamente percepibile e dunque valutabile da terzi, può nuovamente trovare spazio l’istituto della rappresentanza degli interessi. Insomma:
la personalità dell’atto, con la conseguente regola
dell’insostituibilità della persona, presuppone a
mio avviso la mancanza di interessi oggettivamente
(o, se si preferisce, razionalmente) valutabili (22).
Solo circoscrivendo il fenomeno degli atti personalissimi entro questi ristretti confini il legislatore darà pienezza al riconoscimento della soggettività
giuridica agli incapaci, il quale “non è dato in vista
della loro maturità futura o del ritorno alla normalità” ma in ragione di un principio di eguale dignità della loro condizione umana, per cui “la inidoneità degli incapaci, di determinare e soddisfare le
più complesse esigenze, trova un compenso giuridico negli istituti che la legge predispone per la cura
degli interessi” (23).
Una pur breve ricognizione sugli atti che il legislatore italiano e la giurisprudenza (intervenuta talvolta a colmare le lacune legislative) hanno posto
di qua e di là dei confini disciplinari della categoria
sembrerebbe confermare, in linea di massima, tali
ultime considerazioni, mostrando che a fronte di
atti esclusivamente o presumibilmente vantaggiosi
per l’incapace, oppure vantaggiosi per i terzi ma
senza possibilità di un pregiudizio apprezzabile per
l’incapace, il rappresentante legale è stato legittimato al loro compimento oppure è stata data all’incapace stesso la possibilità di compierlo nono-
stante la sua incapacità. L’insostituibilità dell’interessato nel compimento dell’atto e l’indefettibilità
della capacità di volerlo sono state invece affermate quando l’atto è parso invece potenzialmente pregiudizievole alla sua persona (24), oppure a terzi
collocati in una posizione a lui prossima; o quando
è stato ritenuto così determinante la sfera dei motivi dell’atto da farne la causa in concreto dell’atto
stesso e rendere così impossibile ad altri di sostituirsi all’incapace, come pare essere, in particolare,
per la donazione (25) (nonostante un’incauta e ad
oggi isolata giurisprudenza (26)) e per il testamento (27). Vero è che si tratta, in tutti questi casi, di
valutazioni appartenenti alla cultura del legislatore
e dunque destinate a mutare nei tempi e luoghi dei
diversi ordinamenti. Basti ricordare, al riguardo,
l’esistenza nel diritto romano dell’istituzione di erede da parte del pater familias in sostituzione del figlio impubere o del discendente infermo di mente,
nonché, anche riguardo a diverse consuetudini ancora attuali in altre culture, al matrimonio dei minori d’età o per decisione delle famiglie anziché
dei promessi sposi (28).
Di contro è vero, oggi molto più di ieri, che v’è
una tensione fortissima degli interpreti (e su loro
impulso dello stesso legislatore) ad attribuire effetti
giuridici anche alla più fragile volontà dell’incapace nel compiere atti personalissimi mediante forme
procedimentali di sostegno (29), nella cui carenza,
proprio riguardo a donazioni e testamenti di cui sia
autore il beneficiario dell’amministrazione di soste-
(22) Nel medesimo senso: G. Lisella, Gli istituti di protezione
dei maggiori di età, in G. Lisella e F. Parente, Persona fisica, Napoli, 2012, 321, il quale osserva che l’intervento del legale rappresentante è da ammettere “se l’atto, pur essendo di natura
esistenziale, si presta ad essere valutato in termini oggettivi
sotto il profilo della convenienza in relazione agli interessi del
beneficiario”; nonché L. Bruscuglia, Interdizione per infermità
di mente, Milano, 1983, 116 s., sebbene l’attenzione di questo
autore sembri piuttosto rivolta ai cosiddetti atti di cura.
(23) Così, ancora, A. Falzea, op. cit., 121.
(24) Ciò appare con massima evidenza nel caso della scriminante data dal consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50
c.p., ed ancor più nella grave ipotesi dell’omicidio del consenziente di cui all’art.579 c.p., ove pare improponibile l’attribuzione di effetti ad una volontà delegata o sostituita. In tal senso,
tra molti, P. Pittaro, La tutela della vita e dell’incolumità, Milano,
2014, 142 s. Ma ugualmente è a dirsi per la confessione (da ultimo, Cass. pen. 10.12.2013, n. 10487).
(25) È controversa la capacità di donare del beneficiario
dell’amministrazione di sostegno. Al riguardo va però rammentato che tale soggetto non è genericamente incapacitato
e che dunque la sua incapacità potrebbe non ricomprendere il
concreto tipo di donazione posto in essere (cfr, in tal senso,
Trib. La Spezia 2.10.2010, con nota di G. Maniglio, La capacità
di donare del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Riv. notariato, 2011, 1452). Sul punto, utile ricognizione degli orientamenti di dottrina e giurisprudenziali in G. Lisella, Questioni tendenzialmente definite e questioni ancora
aperte in materia di amministrazione di sostegno, in Nuova giur.
civ. comm., 2013, II, spec. 289 e 291 s.
(26) Trib. La Spezia 2.10.2010, in Nuova giur. civ. comm.,
2011, I, 77 ss., con osservazioni di G. Donadio, La capacità di
donare del beneficiario di amministrazione di sostegno. Il caso
riguardava una donazione, al cui compimento è stato autorizzato il pro-amministratore, riguardo alla quale l’amministratore
di sostegno aveva riferito al giudice che l’amministrata aveva
espresso la sua intenzione negoziale prima che intervenisse il
decadimento delle sue facoltà mentali. In senso critico, cfr., altresì, G. Lisella, op. cit., 294 s.
(27) Sulla personalità del testamento e le attenuazioni di tale regola restano attuali le considerazioni di G. Giampiccolo, Il
contenuto atipico del testamento, (ristampa), Napoli, 2010, 118
ss.
(28) Sul matrimonio come atto personalissimo, cfr. E. Giacobbe, Il matrimonio, I, L’atto e il rapporto, in Trattato di diritto
civile diretto da R. Sacco, Torino, 2011, 88 ss.
(29) Il tema non riguarda la disabilità fisica, che può essere
affrontata con il ricorso a forme testamentarie diverse dall’olografo, ma l’incapacità a sensi dell’art. 591 c.c. Lascia perplessi, al riguardo, Trib. Varese 12.3.2012, in Nuova giur. civ.
comm., 2012, I, 779 ss., con nota di S. Landini, Autonomia testamentaria dei soggetti beneficiari di amministrazione di sostegno e formalismo degli atti di ultima volontà. Su cui la garbata
critica di A. Barba, Testamento olografo scritto di mano dal curatore del beneficiario di amministrazione di sostegno, in Fam.
pers. succ., 2012, 440 s.
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Cittadinanza
gno, è stata da taluni individuata una delle lacune
della legge 9 gennaio 2004, n. 6 (30). In particolare, è stata criticata l’attuale situazione di incapacità
a testare dell’incapace, in considerazione delle motivazioni esistenziali e sentimentali dell’atto, i cui
effetti patrimoniali, intervenendo dopo la morte
del testatore, non potrebbero essergli considerati
pregiudizievoli (31). Non sfugge peraltro il rischio
di plagio che deriverebbe dalla capacità di testare
dell’incapace; e ciò anche nell’ipotesi di una riforma legislativa che disciplini un procedimento di
“testamento amministrato” (32) Continua d’altra
parte ad essere oggetto di critiche - superate però
in parte proprio dall’introduzione dell’amministratore di sostegno - l’incapacità matrimoniale dell’interdetto (33). Per capire gli attuali orientamenti
culturali del legislatore è anche interessante esaminare la disciplina della legittimazione in materia di
atti di disposizione del corpo. L’intervento biomedico, in caso di incapacità dell’interessato, sarà infatti autorizzato dal suo rappresentante legale oppure dall’autorità giudiziaria tutelare, ma questo ben
si spiega con l’obbligatorietà dell’offerta delle cure
e la conseguente necessità di ricevere il consenso
alle stesse una volta che esse non siano più giustificate dall’urgenza. Sembra tuttavia essere stato
inopportunamente sorpassato il limite di legittimazione del rappresentante legale riguardo al rifiuto
delle cure salvavita e delle misure di sostegno vitale, motivato sulla base di una presunta quanto
oscura volontà biografica del tutelato di non volere
vivere in determinate condizioni (34).
Sono certamente atti personalissimi quelli che dispongono in modo oblativo del corpo, come nel
caso di donazione di organi e di prelievo di midollo
osseo; e ciò si comprende bene in ragione della lesione dell’integrità fisica che essi comportano, da
cui la definizione proposta in dottrina di tali atti
come superetici (35). Ugualmente personalissimo,
per ragioni diverse ma ugualmente rilevanti, è l’atto di volontà con cui si decida il mutamento di
sesso, mentre è stato contestato, a mio parere inopinatamente, il carattere personalissimo del consenso all’inseminazione artificiale da parte dell’uomo, donatore del seme, dato in sostituzione del figlio giacente in uno stato di coma, dal padre (36).
Non sono invece disciplinati come atti personalissimi, consentendo dunque la decisione sostitutiva
del legale rappresentante, la donazione del sangue
o di emocomponenti, il prelievo di cellule staminali emopoietiche periferiche e la donazione di tessuti e di cellule di cui al d.lgs. n. 191/2007 (37).
Quanto all’affermazione, consueta in dottrina, del
carattere personalissimo degli atti che incidono
sullo status della persona, essa pare contraddetta da
diverse norme e, in mancanza di queste, contestata
efficacemente da alcuni orientamenti giurisprudenziali.
Il legislatore non considera atti personalissimi, ad
esempio, il disconoscimento della paternità (art.
245 c.c.); l’impugnazione del riconoscimento da
parte del riconosciuto interdetto (art. 264 c.c.); e
l’impugnazione del riconoscimento da parte dell’autore divenuto poi incapace (art. 266 c.c.). Particolarmente significativa pare essere la legittimazione attribuita al rappresentante legale dell’incapace o del minore a proporre l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (art. 273),
dato che con essa si ammette l’acquisto di uno status personale a prescindere dalla volontà dell’inte-
(30) In tal senso: P. Cendon, Un altro diritto per i soggetti deboli, l’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in G.
Ferrando (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova
forma di protezione dei soggetti deboli, Giuffrè, Milano, 2005,
38, che pure della legge è stato promotore. Nel medesimo
senso: L. Balestra, Gli atti personalissimi del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Familia, 2005, 659.
(31) In tal senso già G. Bonilini, Il testamento dell’infermo di
mente, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e
soggetti della trasformazione, a cura di P. Cendon, Napoli,
1988, 511 ss., spec. 517.; M. Gorgoni, Autonomia del beneficiario e amministrazione di sostegno, Padova, 2012, 159; L. Balestra, op. cit., 663; G. Lisella, op. cit., 292 s.
(32) In tal senso, S. Delle Monache, sub art. 404, in L. Balestra, Della famiglia, 3, Commentario del codice civile diretto da
E. Gabrielli, Torino, 2009, 184 s.
(33) Cfr., al riguardo, E. Carbone, Libertà matrimoniale e
nuovo statuto dell’infermo di mente, in Familia, 2004, 1032 ss.
(34) Per considerazioni critiche riguardo all’orientamento riferito nel testo: L. Nivarra, Autonomia (bio)giuridica e tutela della persona, in Europa e diritto privato, 2009, 3, 727 s.; A. Nicolussi, Testamento biologico e problemi del fine-vita: verso un bi-
lanciamento di valori o un nuovo dogma della volontà?, in Europa e diritto privato, 2013, 2, 469.
(35) Così A. Palazzo, in A. Palazzo, S. Mazzarese, I contratti
gratuiti, Torino, 2008, 16 ss.; Id., Atti gratuiti e donazioni, in
Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 2000, 273
ss. G.B. Ferri, Dall’intento liberale al cosiddetto impegno etico e
superetico: ovvero l’economia della bontà. Dall’economia della
bontà all’economia del dolore. Due saggi di diritto civile, Padova, 2005, 130 s.
(36) Trib. Vigevano 28.5.2009, in Dir. fam. pers., 2009,
1847, con nota di G. Gaimo, Il consenso inespresso ad essere
genitore. Riflessioni comparatistiche, ivi, 855 ss. A logiche ed
esigenze diverse obbediscono, determinandone, pare, la fuoriuscita dall’alveo degli atti personalissimi, la richiesta di interruzione della gravidanza, che può invero essere fatta sia dall’interdetta che dal tutore o dal marito non tutore (ma con l’assenso dell’interdetta) ai sensi dell’art. 13 l. n. 194/1978, nonché la richiesta di cremazione del cadavere (art. 3, lett. b, l. n.
130/2001).
(37) Per un approfondimento cfr. M.C. Venuti, Corpo (atti di
disposizione del), in S. Martuccelli e V. Pescatore, Diritto civile,
Milano, 2011, 500 ss.
1064
Famiglia e diritto 11/2014
Opinioni
Cittadinanza
ressato ma nel suo interesse, il cui ulteriore effetto
è, spesso, l’acquisto automatico della cittadinanza
italiana in capo al minore riconosciuto non spontaneamente dal genitore italiano.
Quanto alla giurisprudenza, forzando un poco il dato normativo, è stata ammessa la legittimazione del
curatore dell’interdetto e dell’amministratore di sostegno dell’incapace all’atto a richiedere la separazione personale (38) ed il divorzio (39), atti certamente personali, se non personalissimi (40). Non
sembra convincente, tuttavia, almeno riguardo allo
scioglimento del matrimonio, l’argomento a volte
utilizzato, secondo cui l’incapace aveva espresso
l’intenzione di divorziare prima di cadere in una situazione di fragilità psichica (41). Occorrerebbe
piuttosto, a mio parere, valutare i profili di oggettivo interesse dell’incapace-sostituito in relazione
anche alla situazione patrimoniale ed al comportamento dell’altro coniuge, fermo restando l’illiceità
di una eventuale richiesta di separazione o di scioglimento del matrimonio nell’interesse ed in nome
dell’incapace nel caso in cui questi sia di contrario
avviso.
All’esito della breve ricognizione sin qui svolta –
pur certamente non esaustiva – sarebbe difficile sostenere l’esistenza di una categoria ben riconoscibile di atti naturalmente personalissimi cui il legislatore potrebbe fare eccezione ma non l’interprete.
Sembra invece di poter affermare che oggi la categoria degli atti personalissimi costituisca piuttosto
un agglutinato eterogeneo di eccezioni alla regola
– questa sì davvero generale - della legittimazione
del rappresentante legale a curare gli interessi del
rappresentato.
Si potrebbe poi sostenere che la regola generale sia
stata ribadita dall’art. 357 c.c., ove è disposto che
il tutore rappresenti il minore o l’interdetto “in
tutti gli atti civili”, da intendere come categoria
generalissima e dunque più ampia dei soli atti a
contenuto patrimoniale (42), senza escludere
espressamente quelli relativi a diritti che non siano
espressamente considerati personalissimi dal legislatore.
In questa prospettiva, l’area degli atti personalissimi in senso stretto viene ovviamente di molto ridotta, ampliando invece i casi in cui, salvaguardato
in linea di massima il principio del rispetto della
volontà residua dell’incapace (specie nell’ambito
della cosiddetta sfera esistenziale), il rappresentante necessario è chiamato a compiere tutti gli atti
che realizzino il migliore interesse del tutelato e
comunque la protezione dei suoi diritti fondamentali (tra questi ultimi: il diritto all’identità personale e quello ad una cittadinanza effettiva).
Si dovrà però porre attenzione agli atti del rappresentante necessario che fuoriescano dall’ordinaria
amministrazione ed a quelli che non coincidano
con le concrete aspirazioni dell’incapace legale, per
i quali è necessario che il rappresentante richieda
l’autorizzazione al giudice tutelare (43).
Se questo pare essere il caso dell’atto di dismissione
della cittadinanza già posseduta dal soggetto incapace, non pare invece scontato per i casi di acquisto della cittadinanza previsti dalla legge italiana
l’inquadramento della relativa istanza da parte del
tutore tra gli atti di straordinaria amministrazione,
da cui discenderebbe l’obbligo di richiedere preventiva autorizzazione al giudice tutelare, il quale
non avrebbe mai, in concreto, ragioni per rifiutarla
(se non in caso di rischio di perdita della cittadinanza di origine per effetto di un divieto di doppia
cittadinanza).
(38) In dottrina è stata espressa contrarietà riguardo alla
possibilità per il rappresentante legale di negoziare l’accordo
di separazione, il quale se concordato dall’interdetto sarebbe
annullabile, mentre se concordato dal tutore sarebbe radicalmente inefficace perché esulante dal suo potere rappresentativo. Così C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1., La famiglia, 2014, 256
s.
(39) Così Cass. 21.7.2000, n. 9582, in Giust. civ., 2001,
2751, con nota critica di G. Cicchitelli, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, ove si ritiene, in analogia con quanto disposto dall’art.4, comma 5, l. n.
898/1970, che l’azione debba essere proposta dal curatore
speciale. L’attore divenuto incapace aveva precedentemente
ottenuto la separazione giudiziale desiderando sin da allora di
poter sciogliere il matrimonio.
(40) Già ipotizzata dalla dottrina (vedi G. Lisella, I poteri del-
l’amministratore di sostegno, in G. Ferrando, L’amministrazione
di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli,
Milano, 2005, 116 ss.) la legittimazione dell’amministrazione di
sostegno è stata poi affermata in giurisprudenza. Così Trib.
Roma 10.3.2009, in Fam. pers. succ., 2009, 368.
(41) In senso diverso, cfr. A. Cordiano, L’esercizio delle situazioni esistenziali del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Dir. fam. pers., 2011, 1937 ss.
(42) Parte della dottrina ritiene tuttavia che il connotato patrimoniale implicitamente caratterizzerebbe l’art. 357 c.c. Così,
ad esempio, L. Bruscuglia, op. cit., 111.
(43) In tal senso, proprio con riferimento ad una richiesta di
elezione della cittadinanza, ex art. 4, comma 2, da parte di
neomaggiorenne incapace per disabilità psichica al 100%, è la
risposta dell’esperto al Quesito n. 293984 de Lo stato civile italiano, in www.sepel.it
Famiglia e diritto 11/2014
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Opinioni
Mass media
Deontologia professionale
Se i mass media travisano
la Cassazione: una questione
di professionalità del cronista
di “giudiziaria”
di Paolo Pittaro
Avviene con una certa frequenza che i mass media riportino in modo del tutto erroneo una pronuncia della
Cassazione, criticando ed enfatizzando quanto questa avrebbe affermato e suscitando, di conseguenza, la vivace reazione dell’opinione pubblica. È avvenuto anche di recente, quando non solo nei giornali, ma perfino
in una trasmissione televisiva di largo seguito, si è stigmatizzato una sentenza della Suprema Corte che avrebbe disposto una minore pena se lo stupratore fosse stato ubriaco al momento del fatto. L’Autore ne trae lo
spunto per formulare un richiamo alla responsabilità etica e professionale del cronista della c.d. “giudiziaria”.
Lo stupro ed il marito ubriaco
Non è la prima volta che i mezzi di comunicazione
riportano una decisione della Cassazione a titoli di
scatola, esprimendo riprovazione e suscitando una
forte eco negativa nella pubblica opinione.
È successo anche di recente, in riferimento ad una sentenza della Suprema Corte (1), che avrebbe – sempre
nella visione dei mass media – concesso un’attenuante
allo stupro del marito effettuato nei confronti della
moglie, in quanto ubriaco al momento del fatto.
Perfino in una trasmissione televisiva di grande audience della domenica sera (2), dopo l’intervento del Presidente del Consiglio, ospite del conduttore, una nota
attrice ha concluso la sua consueta performance, ironica sulle notizie correnti, in modo estremamente serio,
riferendosi alla citata sentenza, ed affermando che mai
una situazione del genere dovrebbe costituire un’attenuante per lo stupro, esecrabile sempre e richiamando
le donne ad una costante attenzione e denuncia.
Tutto da condividere in assoluto, se non ci fosse
un “ma”...
La sentenza della Cassazione
Il punto è che la Cassazione non ha affatto sostenuto quello che i media le attribuiscono.
(1) Trattasi di Cass. pen., sez. III, 1° luglio – 25 settembre
2014, n. 39445.
(2) Alludiamo alla trasmissione Che tempo che fa, del 28
1066
L’imputato era stato condannato per il reato di
violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e chiedeva l’attenuante ivi prevista (pena diminuita fino ai due
terzi “nei casi di minore gravità”), affermando di
essere stato ubriaco nel momento dal fatto. Ebbene, la Corte d’Appello non è entrata nel merito di
tale richiesta, ma ha sostenuto, in via preliminare,
che essendosi trattato di un rapporto sessuale completo non può raffigurarsi nessun caso di “minore
gravità”, reputando, pertanto, che solo nell’ipotesi
di un rapporto sessuale incompleto possa in astratto ammettersi una violenza sessuale meno grave.
La Cassazione censura – e correttamente – tale ragionamento, riconducibile alla disciplina originaria
del codice Rocco, quando si faceva distinzione fra
violenza carnale (con penetrazione) ed atti di libidine violenti (senza penetrazione), ove la seconda
ipotesi era considerata meno grave della prima. Un
quadro profondamente mutato dalla successiva legislazione ora vigente, ove il delitto di violenza sessuale è raffigurabile sempre e comunque, indipendentemente dall’atto sessuale più o meno completo, in quanto viene a violare in ogni caso la libertà
sessuale della donna. Se, pertanto, è quest’ultima il
bene giuridico tutelato, la circostanza attenuante
prevista della minore gravità “deve ritenersi applisettembre 2014, condotta da Fabio Fazio, ed all’intervento dell’attrice Luciana Littizzetto.
Famiglia e diritto 11/2014
Opinioni
Mass media
cabile in tutte quelle fattispecie in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la
libertà sessuale personale della vittima sia stata
compressa in maniera non grave”.
La Corte d’Appello, facendo la distinzione fra rapporto sessuale completo (con attenuante non configurabile) ed atto sessuale non completo (con possibile attenuante) ha dunque errato. Ora, posto che
la Cassazione è giudice del diritto e non del fatto,
non poteva valutare il fatto concreto in esame: ne
deriva l’annullamento della sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello affinché, applicando tale principio, verifichi se l’attenuante (astrattamente concedibile) possa configurarsi nel fatto raffigurato dalla
difesa, ossia nell’ubriachezza del reo. Il che difficilmente potrà avvenire, in quanto l’attenuante deve
basarsi, come stabilito dalla Suprema Corte, sulla
entità della compressione della libertà sessuale della
vittima: il che nulla ha a che vedere con il fatto
che il reo fosse ubriaco o meno. La Cassazione, pertanto, non ha affatto enunciato quello che i mass
media le hanno attribuito, e che ha suscitato la levata di scudi da parte dei mezzi di informazione (3).
Un precedente: niente carcere per lo
stupro di gruppo
Invero, non è prima volta che i mezzi di comunicazione di massa riportino in tono allarmistico o polemico
sentenze di organi giurisdizionali, le quali, tuttavia, approfondendo il tema, si rivelano di ben altro tenore.
Potremmo ricordare, ad esempio, la nota sentenza
che avrebbe ritenuto non configurabile la violenza
sessuale se la vittima indossasse i jeans, ovvero
quella sentenza della Cassazione che, sempre secondo i media, avrebbe sancito che i colpevoli di
stupro di gruppo non debbano andare in carcere (4). Anche in questo caso affatto inutile sottolineare le reazioni polemiche da parte della pubblica
opinione (5): lettere ai giornali, e-mail, perfino
una lista di “indignati” su Facebook.
Invero, in tale caso ci si riferiva non alla pena da scontare dopo una sentenza definitiva di condanna, bensì
ad una misura cautelare stabilita in attesa del processo.
Ebbene, i media riferivano che la Cassazione aveva
(3) Tale erronea diffusione del decisum della Corte è stata immediatamente segnalata (cfr., volendo, Pittaro, Quando i mass
media travisano la Cassazione, in www.personaedanno.it, 29 settembre 2014) anche da Macrì, Violenza sessuale: l'attenuante
della minore gravità non è esclusa nei casi di rapporto sessuale
completo, in www.quotidianogiuridico.it, 3 ottobre 2014.
(4) Ci riferiamo a Cass. pen., sez. III, 20 gennaio 2012 – 1°
febbraio 2012, n. 4377.
Famiglia e diritto 11/2014
sancito che gli autori dello stupro di gruppo non potevano essere ristretti in carcere e che, quindi, potevano
scorazzare a piede libero, ovvero ancora, come riferito
da una illustre penna, che lo stupratore singolo ora va
in carcere mentre quello di gruppo no, per cui - paradossalmente - sarebbe conveniente effettuare una violenza sessuale in compagnia e mai da soli.
Ben diverse e più complesse le scansioni giuridiche
della questione.
La custodia cautelare, come è noto, non è rigida ed
unica (la carcerazione in carcere), ma flessibile, nel
senso che, a seconda delle esigenze poste dal caso singolo, il giudice può scegliere fra una rosa graduata di
misure (ad esempio: gli arresti domiciliari) quella più
aderente alle necessità concrete. A tale proposito l’art.
275, comma 3, c.p.p. (6), dopo aver disposto che la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto
quando ogni altra misura risulti inadeguata, stabilisce
che, in ordine ad alcuni gravi reati ivi indicati (fra i
quali l’omicidio, i reati sessuali nonché quelli relativi
alla pedo-pornografia), “è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Come dire, che, in tali ipotesi, o la carcerazione preventiva o niente: una disposizione di particolare rigore.
Ebbene, la Corte costituzionale, con la sentenza 7 luglio 2010, n. 265, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo
periodo, del codice di procedura penale, nella parte in
cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi
di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli
600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice
penale, è applicata la custodia cautelare in carcere,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che
non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in
relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure. La Consulta, in altri termini, con una sentenza “additiva” aveva sancito che, in riferimento ai reati
oggetto della rimessione, la norma doveva intendersi
incostituzionale nella parte in cui non ammetteva
l’ordinaria flessibilità fra le varie misure cautelari, disponendo solo l’ipotesi della carcerazione preventiva
(o il carcere o niente). Pertanto, a seguito di tale in(5) Su tale situazione ci permettiamo rinviare a Pittaro, Stupro di gruppo e mass media, in www.personaedanno.it, 6 febbraio 2012.
(6) Come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio
2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori),
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38.
1067
Opinioni
Mass media
tervento, e sempre in relazione alle cennate fattispecie
criminose, era possibile che giudice scegliesse la misura cautelare ritenuta più idonea al caso concreto.
Ebbene, fra i reati cui la Corte costituzionale faceva riferimento figuravano i delitti di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater), ma non l’art. 609-octies
(violenza sessuale di gruppo).
Ora, nella citata sentenza, la Corte di Cassazione
aveva ritenuto il dictum della Consulta totalmente
applicabile anche alla fattispecie della violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies), posto che tale reato presenta caratteristiche essenziali non difformi
da quelle che la Corte costituzionale aveva individuato per i reati sessuali (art. 609-bis e art. 609quater c.p.) sottoposti al suo giudizio.
Gli ermellini avevano così affermato che “deve,
dunque, concludersi che nel caso in esame l’unica
interpretazione compatibile coi principi fissati dalla
sentenza n. 265 del 2010, citata, è quella che
estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609-octies c.p.” (7). Donde l’annullo
con rinvio, spettando al giudice di merito, in applicazione di tale principio, esaminare il caso concreto e decidere, sulla base della sua discrezionalità, se
a tale fattispecie dovesse applicarsi la misura cautelare del carcere ovvero altra misura cautelare che,
inizialmente, sembrava a tale ipotesi inibita.
Pertanto, le cose stavano in maniera ben diversa rispetto a quanto i media avevano evidenziato, suscitando le indignate reazioni degli utenti: 1) trattavasi
di una misura cautelare e non di una pena da scontare: pacifica la disposizione che per i partecipanti di
una violenza sessuale di gruppo è prevista la reclusione da sei a dodici anni (art. 609-octies c.p.); 2) non è
vero che all’autore di una violenza sessuale di gruppo
non è applicabile la misura cautelare della detenzione in carcere; 3) spetta al giudice di merito vagliare
quale misura cautelare disporre al caso concreto, scegliendola nella rosa di quelle previste.
I mass media ed il legislatore: il caso
della legittima difesa
Peraltro, deve segnalarsi, e con altrettanta preoccupazione, come tale travisamento giuridico da parte
(7) Ora la questione risolta dalla Cassazione è superata, in
quanto la Corte costituzionale, con la sentenza 23 luglio 2013,
n. 213, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 3,
terzo periodo, dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine
al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale, è appli-
1068
dei media sia avvenuto non solo in riferimento a
sentenze, specie della Cassazione, ma anche nei
confronti del legislatore.
Ricordiamo, ad esempio, fra gli altri casi, perfino
l’erronea lettura di una norma del codice penale.
Ci riferiamo alla novellazione della legittima difesa, quando la legge 12 febbraio 2006, n. 59 introdusse due ulteriori commi all’art. 52 c.p. Ebbene, i
media (anche televisivi) davano fiato alle trombe,
denunciando il ritorno alla legge del Far West, posto che la norma così integrata avrebbe previsto la
possibilità di sparare a vista verso chi si fosse introdotto nella propria abitazione: un’affermazione del
tutto erronea, in quanto la norma prevede, per ritenere proporzionata la reazione con l’uso delle armi, anche il pericolo di aggressione e la difesa della
propria incolumità.
Con il risultato che, qualche giorno dopo, un soggetto, scorgendo dalla finestra che un estraneo si
era furtivamente introdotto nel suo giardino, prendeva il fucile e gli sparava uccidendolo sul colpo.
Arrestato e contestatogli il delitto di omicidio, si
stupiva affermando che giornali e televisione avevano detto che ora si poteva reagire in tal modo e
che lui si era comportato di conseguenza.
Conclusione
A questo punto la conclusione è scontata: le sentenze (come le disposizioni di legge) prima di essere divulgate e commentate devono essere lette e
comprese nella loro completezza, non fidandosi del
resoconto altrui, e controllandone l’originale. Il
che sta a significare non solo il rifiuto di ogni notizia lanciata per scoop o per aumento dell’audience,
ma anche la necessità di una preparazione giuridica
per il giornalista della c.d. “giudiziaria”, la cui responsabilità presenta risvolti di grande rilievo: il
lettore o l’ascoltatore comune non può essere indotto a ritenere che Cassazione o legislatore, abbiano stabilito, per esempio, che conviene effettuare lo stupro da ubriachi o in gruppo, ovvero che si
possa impunemente sparare a chi si introduce nell’abitazione o nelle sue pertinenze.
Una questione, insomma, non solo etica, ma anche
di deontologia professionale.
cata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Famiglia e diritto 11/2014
Indici
Famiglia e diritto
INDICE DEGLI AUTORI
Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord. ..
Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811 ..........
Enrico Al Mureden
Cassazione, sez. VI, 1 settembre 2014, n. 18468 ...
Il ‘‘diritto a formare una seconda famiglia’’ tra doveri
di solidarietà post-coniugale e principio di ‘‘autoresponsabilità’’ ...............................................
Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869 .....
1043
1036
1037
1038
1035
Corte di Cassazione penale
Cassazione penale, sez. V, 19 maggio - 13 giugno
2014, n. 25443 .............................................
1041
Ilaria Bresciani
Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio - 1 luglio
2014, n. 28212 .............................................
1039
Il lavoro prestato a favore del convivente more uxorio ............................................................
Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo - 15 luglio
2014, n. 31123 .............................................
1039
Cassazione penale, sez. I, 23 maggio - 17 luglio
2014, n. 31622 .............................................
1040
Antonella Batà
Osservatorio di giurisprudenza civile ...................
1035
996
Vincenzo Carbone
L’adottato alla ricerca della madre biologica ..........
1003
Remo Danovi
La deontologia nel diritto di famiglia tra principi e
prospettive ..................................................
988
Federica Ferrara
Allontanamento volontario e allontanamento forzato
dalla casa familiare ........................................
Tribunali
Tribunale di Milano, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord. ....
1028
Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013,
ord. ...........................................................
Tribunale di Roma 18 aprile 2014 .......................
1022
1013
Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014,
ord. ...........................................................
1003
Mariacarla Giorgetti
Corti d’appello
Il provvedimento di assegnazione della casa familiare come titolo esecutivo per il rilascio in via coattiva
Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n. 62 .
1023
Paolo Morozzo della Rocca
Disabilità e capacità di volere nelle procedure di acquisto della cittadinanza ..................................
1027
994
INDICE ANALITICO
1056
Adozione
Paolo Pittaro
Osservatorio di giurisprudenza penale .................
1039
Se i mass media travisano la Cassazione: una questione di professionalità del cronista di ‘‘giudiziaria’’
1066
L’adottato alla ricerca della madre biologica (Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014) di Vincenzo Carbone .............................................
Antonio Scalera
Atti persecutori
Il ‘‘caso Stamina’’ all’attenzione della Corte di Strasburgo .......................................................
Il rispetto del principio di determinatezza-tassatività
(Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172) Osservatorio di giurisprudenza penale ........................
981
1003
1040
Michele Sesta
Prescrizione dell’azione di regresso per il mantenimento del figlio e dell’azione di risarcimento del danno da mancato riconoscimento .........................
Casa familiare
1018
Angelo Spirito
Osservatorio di giurisprudenza civile ...................
1035
INDICE CRONOLOGICO
1027
Il provvedimento di assegnazione della casa familiare come titolo esecutivo per il rilascio in via coattiva
(Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013,
ord.) di Mariacarla Giorgetti ..............................
1022
Cittadinanza
Giurisprudenza
Disabilità e capacità di volere nelle procedure di acquisto della cittadinanza di Paolo Morozzo della Rocca .............................................................
Corte europea dei diritti dell’uomo
Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio 2014,
ricorso n. 62804/13 ........................................
Allontanamento volontario e allontanamento forzato
dalla casa familiare (Tribunale di Milano, sez. IX, 8
ottobre 2013, ord.) di Federica Ferrara .................
1056
977
Codice deontologico
Corte Costituzionale
Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172 .........
1040
La deontologia nel diritto di famiglia tra principi e
prospettive (Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n.
8057) di Remo Danovi ....................................
987
Corte di Cassazione civile
Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057 ........
Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649 ..........
Famiglia e diritto 11/2014
987
1035
Diritto del lavoro
Il lavoro prestato a favore del convivente more uxo-
1069
Indici
Famiglia e diritto
rio (Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n.
62) di Ilaria Bresciani ......................................
Violazione degli obblighi di assistenza familiare
994
Divorzio
Assegno (Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n.
18869) Osservatorio di giurisprudenza civile ..........
1035
Sentenza non definitiva (Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord.) Osservatorio di giurisprudenza civile .................................................
1036
Il genitore malato e senza lavoro deve mantenere il
figlio minore (Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio
- 1 luglio 2014, n. 28212) Osservatorio di giurisprudenza penale ...............................................
1039
Doveri coniugali
Il ‘‘diritto a formare una seconda famiglia’’ tra doveri
di solidarietà post-coniugale e principio di ‘‘autoresponsabilità’’ di Enrico Al Mureden .....................
1043
Fondo patrimoniale
Scioglimento (Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n.
17811) Osservatorio di giurisprudenza civile ..........
1037
Maltrattamenti contro familiari e conviventi
Attualità della relazione familiare (Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo - 15 luglio 2014, n. 31123) Osservatorio di giurisprudenza penale .....................
1039
Molestia o disturbo alle persone
Reato eventualmente abituale (Cassazione penale,
sez. I, 23 maggio - 17 luglio 2014, n. 31622) Osservatorio di giurisprudenza penale .........................
1040
Mass media
Se i mass media travisano la cassazione: una questione di professionalità del cronista di ‘‘giudiziaria’’
di Paolo Pittaro .............................................
1066
Prescrizione
Prescrizione dell’azione di regresso per il mantenimento del figlio e dell’azione di risarcimento del danno da mancato riconoscimento (Tribunale di Roma
18 aprile 2014) di Michele Sesta ........................
1013
Separazione personale dei coniugi
Assegno e casa familiare (Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649) Osservatorio di giurisprudenza
civile .........................................................
1035
Somministrazione di bevande alcooliche a minori o a
infermi di mente
Anche il dipendente risponde del reato (Cassazione
penale, sez. V, 19 maggio - 13 giugno 2014, n.
25443) Osservatorio di giurisprudenza penale ........
1041
Successioni
Esecutore testamentario: esonero (Cassazione, sez.
VI, 1 settembre 2014, n. 18468) Osservatorio di giurisprudenza civile ..........................................
1038
Trattamenti sanitari
Il ‘‘caso Stamina’’ all’attenzione della Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio
2014, ricorso n. 62804/13) di Antonio Scalera ........
1070
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