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RIVISTE WOLTERS KLUWER RINNOVI RIVISTE 2015 Y40EM CL FA MIG LIA CAMPAGNA 15/10/14 10:20 Famiglia e diritto Sommario SOMMARIO GIURISPRUDENZA Internazionale Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio 2014, ricorso n. 62804/13 Trattamenti sanitari 977 IL ‘‘CASO STAMINA’’ ALL’ATTENZIONE DELLA CORTE DI STRASBURGO di Antonio Scalera 981 Legittimità Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057 Codice deontologico 987 LA DEONTOLOGIA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA TRA PRINCIPI E PROSPETTIVE di Remo Danovi 988 Merito Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n. 62 Diritto del lavoro IL LAVORO PRESTATO A FAVORE DEL CONVIVENTE MORE UXORIO di Ilaria Bresciani Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014, ord. Adozione L’ADOTTATO ALLA RICERCA DELLA MADRE BIOLOGICA di Vincenzo Carbone Tribunale di Roma 18 aprile 2014 Prescrizione PRESCRIZIONE DELL’AZIONE DI REGRESSO PER IL MANTENIMENTO DEL FIGLIO E DELL’AZIONE DI RISARCIMENTO DEL DANNO DA MANCATO RICONOSCIMENTO di Michele Sesta Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord. Casa familiare 994 IL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE COME TITOLO ESECUTIVO PER IL RILASCIO IN VIA COATTIVA di Mariacarla Giorgetti 996 1003 1003 1013 1018 1022 Tribunale di Milano, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord. 1023 1027 ALLONTANAMENTO VOLONTARIO E ALLONTANAMENTO FORZATO DALLA CASA FAMILIARE di Federica Ferrara 1028 Osservatorio di giurisprudenza civile a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito 1035 Osservatorio di giurisprudenza penale a cura di Paolo Pittaro 1039 OPINIONI Doveri coniugali IL ‘‘DIRITTO A FORMARE UNA SECONDA FAMIGLIA’’ TRA DOVERI DI SOLIDARIETÀ POST-CONIUGALE E PRINCIPIO DI ‘‘AUTORESPONSABILITÀ’’ di Enrico Al Mureden Cittadinanza DISABILITÀ E CAPACITÀ DI VOLERE NELLE PROCEDURE DI ACQUISTO DELLA CITTADINANZA di Paolo Morozzo della Rocca Famiglia e diritto 11/2014 1043 1056 975 Famiglia e diritto Sommario Mass media SE I MASS MEDIA TRAVISANO LA CASSAZIONE: UNA QUESTIONE DI PROFESSIONALITÀ DEL CRONISTA DI ‘‘GIUDIZIARIA’’ di Paolo Pittaro 1066 INDICE 1069 AUTORI - CRONOLOGICO - ANALITICO COMITATO PER LA VALUTAZIONE Roberto Amagliani, Luigi Balestra, Vincenzo Barba, Giovanni Francesco Basini, Roberto Calvo, Antonio Carratta, Marco De Cristofaro, Giovanni Di Rosa, Lotario Dittrich, Angelo Federico, Gilda Ferrando, Marcella Fortino, Enrico Gragnoli, Andrea Graziosi, Elena La Rosa, Paola Manes, Massimo Montanari, Andrea Mora, Fabio Padovini, Mauro Paladini, Margherita Pittalis, Gianfranco Ricci, Carlo Rimini, Silvio Riondato, Francesco Ruscello, Laura Salvaneschi, Fabrizio Volpe EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) INDIRIZZO INTERNET www.edicolaprofessionale.com/famigliaediritto DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Francesco Cantisani, Ines Attorresi, Felicina Acquaviva REALIZZAZIONE GRAFICA Wolters Kluwer Italia S.r.l. FOTOCOMPOSIZIONE Sinergie Grafiche Srl Viale Italia, 12 - 20094 Corsico (MI) Tel. 02/57789422 STAMPA GECA S.r.l. 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Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo Non viola gli artt. 8 e 14 della Convenzione la decisione del Tribunale che, in applicazione dell’art. 2 d.l. n. 242013, nega l’accesso alle terapie secondo il metodo Stamina ad una paziente affetta da una grave patologia cerebrale neurodegenerativa. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Hristozov e altri c. Bulgaria, nn. 47039/11 e 358/12, CEDU 2012 (estratti) e, mutatis mutandis, Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, §§ 61 in fine e 65, CEDU 2002_III e Costa e Pavan c. Italia, n. 54270/10, §§ 52-57, 28 agosto 2012); Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 38, serie A n. 87; Burden c. Regno Unito [GC], n. 13378/05, § 60, CEDU 2008. ... Omissis ... Il ricorrente, sig. N. D., è un cittadino italiano nato nel 1950 e residente a Udine. Il ricorrente presenta il suo ricorso in qualità di tutore legale della figlia, sig.ra M. D., nata nel 1975. Dinanzi alla Corte è rappresentato dall’avvocato A. Battistutta, del foro di Udine. A. Le circostanze del caso di specie 1. I fatti della causa, così come sono stati esposti dal ricorrente, possono riassumersi come segue. 1. Il procedimento giudiziario avviato dal ricorrente 2. M.D., figlia del ricorrente, è affetta fin dall’adolescenza da una patologia cerebrale degenerativa (leucodistrofia metacromatica). 3. L’8 aprile 2013 il ricorrente avviò un’azione cautelare dinanzi al tribunale di Udine affinché quest’ultimo ordinasse all’ospedale di Brescia di somministrare a sua figlia cellule staminali secondo il metodo «Stamina», introdotto nel 2009 da D.V., professore presso l’Università di Udine. 4. In effetti il decreto del 5 dicembre 2006 consentiva l’impiego di tale metodo, in mancanza di valide alternative terapeutiche, in casi di urgenza tali da mettere in pericolo la vita dei pazienti o di grave danno alla salute e in caso di grave patologia a rapida progressione (si veda anche la parte «Diritto interno pertinente»). 5. Con decisione del 10 aprile 2013, il tribunale accolse provvisoriamente la richiesta del ricorrente. Considerò che la patologia da cui era affetta la figlia del ricorrente comportava, tra altre, un’atrofia cerebrale progressiva, che quest’ultima si era aggravata nel corso dell’anno precedente e che, poiché la figlia del ricorrente correva il rischio di subire danni irreversibili, era necessario non ritardare la somministrazione della terapia in causa. Il tribunale fissò un’udienza al 6 maggio 2013 per far comparire le parti e decidere poi sulla conferma, la modifica o la revoca della misura adottata. In questo intervallo la terapia non fu dunque iniziata. Famiglia e diritto 11/2014 6. Il 3 maggio 2013 l’ospedale di Brescia si costituì parte nel procedimento e chiese il rigetto della domanda del ricorrente, ritenendo non soddisfatte nella fattispecie le condizioni previste dal decreto-legge n. 24 del 25 marzo 2013 (qui di seguito «decreto-legge n. 24/2013»), entrato in vigore il 27 marzo 2013, che regolamentava l’accesso dei pazienti al metodo in questione. In particolare esso esponeva che la figlia del ricorrente non aveva iniziato tale trattamento alla data di entrata in vigore del suddetto decreto legge, come quest’ultimo richiedeva. 7. Con provvedimento dell’11 luglio 2013, il tribunale revocò la sua decisione del 10 aprile 2013 rigettando la domanda del ricorrente. 8. Quest’ultimo propose reclamo. Il 30 agosto 2013 il tribunale rigettò tale reclamo osservando, in particolare, che il decreto-legge n. 24/2013 aveva previsto una sperimentazione clinica del metodo «Stamina» per una durata di diciotto mesi a decorrere dal 1° luglio 2013 e rammentando che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 23671/11), il servizio sanitario nazionale garantiva l’accesso a cure o terapie soltanto nel caso in cui la loro validità e la loro efficacia terapeutiche fossero state testate ed approvate dagli organismi medico-scientifici, ai sensi delle normative nazionali applicabili. 9. Inoltre, il tribunale notò che il decreto-legge n. 24/2013 aveva permesso alle strutture pubbliche nelle quali questo metodo era già stato impiegato di portare a termine i trattamenti avviati. Per «trattamenti avviati», rilevava il tribunale, occorreva intendere quelli in relazione ai quali il prelievo di cellule destinate all’uso terapeutico era stato praticato alla data di entrata in vigore del decreto o per i quali a tale data era stata emessa una autorizzazione giudiziaria di accedere alla terapia. Ora, secondo il tribunale, la situazione di M.D. non rientrava in nessuno di questi due casi e, d’altra parte, il trattamento controverso era in fase di sperimentazione. Così, concludeva il tribunale, l’accesso alla terapia in questione non le poteva essere autorizzato. 977 Giurisprudenza Trattamenti sanitari 2. Il valore scientifico del metodo «Stamina» 10. Attualmente non è provato il valore scientifico del metodo «Stamina». 11. Il 29 agosto 2013 un comitato scientifico istituito dal Ministero della Salute ha emesso un parere negativo sulla sperimentazione di questo metodo, ritenendolo privo di base scientifica. 12. Questa decisione è stata oggetto di ricorso da parte della «Fondazione Stamina», di cui D.V. è presidente, per quanto riguarda la presunta illegittimità della composizione del comitato. Il procedimento è attualmente pendente. B. Il diritto interno pertinente 1. Il decreto del Ministero della Salute del 5 dicembre 2006 13. Secondo tale decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 9 marzo 2007, l’utilizzo della terapia genica e della terapia cellulare somatica è autorizzato in assenza di alternative terapeutiche nei casi urgenti in cui esiste un pericolo per la vita del paziente o un rischio di grave danno per la sua salute, nonché nei casi di gravi patologie a rapida progressione. 14. Per l’impiego delle terapie in causa sono richieste alcune condizioni, fra cui la disponibilità di dati scientifici che ne giustifichino l’uso, l’acquisizione del consenso informato del paziente nonché il parere favorevole del comitato etico. 2. Il decreto-legge n. 24 del 25 marzo 2013 15. Il decreto-legge n. 24 del 5 marzo 2013, entrato in vigore il 27 marzo 2013 e convertito nella legge n. 57 del 23 maggio 2013, costituisce una base legale per un sistema di regolamentazione di alcune terapie avanzate. A titolo di misura transitoria, esso prevede che i trattamenti a base di cellule staminali avviati prima della sua entrata in vigore possono essere portati a termine sotto la responsabilità del medico prescrittore. 16. Ai sensi di questo decreto-legge, si considerano «avviati» i trattamenti in relazione ai quali i prelievi dal paziente o da un donatore di cellule destinate all’uso terapeutico siano già stati effettuati alla data della sua entrata in vigore, e i trattamenti che siano già stati autorizzati dall’autorità giudiziaria prima di questa stessa data. 17. L’articolo 2 bis di tale decreto, inserito al momento della conversione in legge di quest’ultimo, prevede che il Ministero della Salute, attraverso l’Agenzia italiana del farmaco e in collaborazione con l’Istituto Superiore della Sanità, «promuove lo svolgimento di una sperimentazione clinica concernente l’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali da completarsi entro diciotto mesi a decorrere dal 1° luglio 2013». 3. Le decisioni giudiziarie riguardanti l’autorizzazione ad accedere alla terapia «Stamina» 18. Il ricorrente allega al suo ricorso una serie di provvedimenti con le quali i giudici nazionali hanno autorizzato i richiedenti ad accedere al metodo «Stamina» (ad esempio, le ordinanze dei tribunali di Cosenza del 18 giugno 2013, di Pordenone del 5 agosto 2013, di 978 Trieste del 9 agosto 2013, di Ancona del 20 agosto 2013, di Monza del 27 agosto 2013, di Modena del 28 agosto 2013, di Venezia del 18 settembre 2013 e di Vicenza del 23 settembre 2013). 19. Queste ordinanze hanno in effetti autorizzato l’accesso alle cure compassionevoli previste dalla terapia in causa a persone affette da patologie simili a quella da cui era affetta la figlia del ricorrente. 20. Alcune di tali ordinanze riguardano tuttavia situazioni diverse da quella di M.D. in quanto, contrariamente al caso di quest’ultima, le terapie in questione erano iniziate prima dell’entrata in vigore del decretolegge numero 24/2013 (si vedano, ad esempio, l’ordinanza del tribunale di Cosenza del 18 giugno 2013 o quella del tribunale di Venezia del 18 settembre 2013). 21. In altri casi (si vedano, ad esempio, le ordinanze dei tribunali di Pordenone e di Trieste rispettivamente del 5 e 9 agosto 2013) i giudici hanno autorizzato l’accesso dei pazienti alla terapia controversa anche se questi ultimi non rientravano in nessuno dei due casi previsti dal decreto-legge n. 24/2013 (ossia il fatto di aver iniziato o di essere stati autorizzati ad iniziare la terapia «Stamina» in epoca precedente alla data di entrata in vigore di questo decreto). 22. In particolare, il giudice di Pordenone ha sollevato dubbi sotto il profilo della costituzionalità del decretolegge n. 24/2013 nella misura in cui quest’ultimo stabiliva un criterio puramente temporale (ossia, il fatto di aver iniziato il trattamento in questione in una certa data) e non medico, fatto che appariva discriminatorio. Così, il giudice ha ritenuto che il decreto del Ministero della Salute del 5 dicembre 2006 dovesse essere applicato nel caso di specie ed ha autorizzato il richiedente ad accedere alla terapia «Stamina». 23. Da parte sua, il tribunale di Trieste ha osservato, tra l’altro, che il valore scientifico del metodo «Stamina», già utilizzato presso l’ospedale pubblico di Brescia, era provato. 4. L’articolo 669 terdecies del codice di procedura civile 24. Ai sensi del comma V di tale articolo, la risposta data da un organo collegiale al reclamo presentato avverso una decisione emessa nell’ambito di un’azione cautelare non può essere impugnata. Motivi di ricorso 25. Invocando gli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione, il ricorrente lamenta la violazione del diritto alla vita e alla salute di sua figlia in ragione dell’impossibilità per quest’ultima di accedere ad una terapia compassionevole utilizzando cellule staminali secondo il metodo «Stamina». Egli sostiene che, con il decreto-legge n. 24/2013, il Governo ha introdotto una discriminazione nell’accesso alle cure tra le persone che avevano già iniziato la terapia controversa prima dell’entrata in vigore di tale decreto e quelle che, come sua figlia, non si trovavano nella stessa situazione. 26. Inoltre, sotto il profilo dell’articolo 14 della Convenzione, il ricorrente sostiene che, nonostante l’entra- Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Trattamenti sanitari ta in vigore del decreto-legge n. 24/2013, alcuni pazienti avrebbero comunque ottenuto l’autorizzazione giudiziaria per accedere al metodo «Stamina» (il ricorrente fa riferimento ad una serie di decisioni menzionate nella parte «Diritto interno pertinente»). Così, i giudici deterrebbero il potere di decidere caso per caso sull’accesso alla terapia in questione. 27. Invocando gli articoli 6 § 1 e 14 della Convenzione, il ricorrente lamenta il fatto che in materia di accesso ad alcune terapie urgenti, il sistema legislativo italiano prevede certamente la possibilità di avviare un’azione cautelare e di impugnare la decisione emessa all’esito di quest’ultima tramite reclamo, ma non autorizza la presentazione di un ulteriore ricorso dopo l’eventuale rigetto del reclamo, secondo l’articolo 669 terdecies, comma V, del codice di procedura civile. IN DIRITTO 28. Invocando gli articoli 2, 8 e 14 della Convenzione, il ricorrente lamenta l’impossibilità per sua figlia di accedere a una terapia che utilizza cellule staminali secondo il metodo «Stamina», al contrario di altre persone che si trovano in condizioni di salute simili alle sue. 29. La Corte, libera di qualificare giuridicamente i fatti della causa (Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 44, Recueil des arrêts et décisions 1998_I), ritiene che questa parte del ricorso debba essere esaminata sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione e quello dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione. Omissis 30. La Corte osserva innanzitutto che il ricorrente non lamenta la mancanza di fondi pubblici per finanziare il trattamento in causa (al contrario dei ricorrenti nelle cause Penticova c. Moldavia (dec.), n. 14462/03, 30 aprile 2003 e Sentges c. Paesi Bassi (dec.), n. 27677/02), in quanto il suo motivo di ricorso verte specificamente sulla mancanza di accesso per sua figlia alla terapia in causa. 31. La Corte rileva poi che l’impossibilità per la figlia del ricorrente di accedere alla terapia «Stamina» richiede chiaramente un esame sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione, la cui interpretazione, per quanto riguarda la nozione di «vita privata», trae ispirazione dalle nozioni di autonomia personale e di qualità di vita (si vedano Hristozov e altri c. Bulgaria, nn. 47039/11 e 358/12, CEDU 2012 (estratti) e, mutatis mutandis, Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, §§ 61 in fine e 65, CEDU 2002_III e Costa e Pavan c. Italia, n. 54270/10, §§ 5257, 28 agosto 2012). 32. Nel caso di specie, la Corte ritiene che la decisione del tribunale di Udine di rifiutare l’accesso della figlia del ricorrente alla terapia medica in causa costituisca un’ingerenza nel diritto di quest’ultima al rispetto della sua vita privata. 33. Tale ingerenza era prevista dalla legge, ossia il decreto-legge n. 24 del 25 marzo 2013, e perseguiva lo scopo legittimo di tutela della salute. Famiglia e diritto 11/2014 34. Per quanto riguarda la proporzionalità di tale misura con l’obiettivo perseguito, la questione che si pone è quella di stabilire se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti dell’individuo e della collettività (Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata, § 117). 35. In questo contesto, la Corte rammenta che in caso di divieto di accesso a cure compassionevoli opposto a persone affette da patologie gravi, il margine di discrezionalità degli Stati membri è ampio (si vedano Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata, § 124 e anche, mutatis mutandis, Evans c. Regno Unito [GC], n. 6339/05, § 91, CEDU 2007_I e S.H. e altri c. Austria [GC], n. 57813/00, § 106, CEDU 2011). 36. Nella presente causa, secondo il decreto-legge n. 24/2013, soltanto i trattamenti a base di cellule staminali avviati nonché quelli autorizzati dall’autorità giudiziaria prima della data di entrata in vigore del decreto stesso, ossia il 27 marzo 2013, potevano essere essere portati a termine. 37. È in base a questa legge che, il 30 agosto 2013, il tribunale di Udine ha rigettato la domanda presentata dal ricorrente volta ad ottenere per sua figlia la possibilità di accedere alla terapia desiderata. Nei suoi motivi, il tribunale ha rilevato, da una parte, che la terapia in causa era in fase di sperimentazione e che, dall’altra parte, la figlia del ricorrente non soddisfaceva le condizioni necessarie, in quanto non aveva iniziato il trattamento in questione prima della data di entrata in vigore del suddetto decreto e, a tal fine, non aveva ottenuto un’autorizzazione giudiziaria prima di tale data. 38. La Corte rileva peraltro che il 29 agosto 2013, un comitato scientifico istituito dal Ministero della Salute ha emesso un parere negativo sulla sperimentazione del metodo «Stamina». Questa decisione è stata impugnata da D.V., ma il relativo procedimento giudiziario è tuttora pendente e il valore scientifico della terapia in causa non è dunque provato. 39. Inoltre, la Corte rammenta che, in ogni caso, non spetta al giudice internazionale sostituirsi alle autorità nazionali competenti per determinare il livello di rischio accettabile dai pazienti che intendano accedere alle cure compassionevoli nell’ambito di una terapia sperimentale (Hristozov e altri c. Bulgaria, sopra citata § 125). 40. L’ingerenza nel diritto della figlia del ricorrente al rispetto della sua vita privata può dunque essere considerata necessaria in una società democratica. Il motivo di ricorso relativo alla compatibilità del diniego opposto alla figlia del ricorrente di accedere alla terapia compassionevole in causa con l’articolo 8 della Convenzione deve pertanto essere rigettato in quanto manifestamente infondato, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione. 41. Per quanto riguarda il rispetto del principio del divieto di discriminazione garantito dall’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione, la Corte rammenta innanzitutto che l’articolo 14 non fa che completare le altre clausole 979 Giurisprudenza Trattamenti sanitari materiali della Convenzione e dei suoi Protocolli. Esso non ha dunque una esistenza propria, in quanto vale unicamente per «il godimento dei diritti e delle libertà» che le suddette clausole garantiscono (si veda, fra molte altre, Şahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 85, CEDU 2003-VIII). L’applicazione dell’articolo 14 non presuppone necessariamente la violazione di uno dei diritti materiali garantiti dalla Convenzione. Occorre, ma è sufficiente, che i fatti della causa rientrino «nell’ambito» di almeno uno degli articoli della Convenzione (Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, sentenza del 28 maggio 1985, § 71, serie A n. 94, e Karlheinz Schmidt c. Germania, sentenza del 18 luglio 1994, § 22, serie A n. 291-B). 42. Viste le considerazioni riguardanti l’applicabilità dell’articolo 8 della Convenzione ai fatti di causa, la Corte ritiene dunque che l’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 8, trovi applicazione nel caso di specie (si veda, mutatis mutandis, E.B. c. Francia [GC], n. 43546/02, § 51, 22 gennaio 2008). 43. Ora, per quanto riguarda le decisioni giudiziarie citate dal ricorrente che hanno autorizzato l’accesso alla terapia in questione per alcune persone che erano in uno stato di salute simile a quello di sua figlia, la Corte constata innanzitutto che molte delle ordinanze menzionate dal ricorrente riguardano situazioni diverse da quelle di M.D. dal momento che, in alcune cause, le terapie in questione erano state avviate prima dell’entrara in vigore del decreto-legge n. 24/2013 (così, in particolare, nell’ordinanza del tribunale di Cosenza del 18 giugno 2013 o in quella del tribunale di Venezia del 18 settembre 2013). 44. In altri casi (ad esempio nelle ordinanze dei tribunali di Pordenone e di Trieste, rispettivamente del 5 e 9 agosto 2013) di certo i giudici hanno autorizzato l’accesso dei pazienti alla terapia in causa anche se costoro non rientravano in nessuno dei due casi previsti dal decreto-legge n. 24/2013 (ossia il fatto di aver iniziato o di essere stato autorizzato ad iniziare la terapia «Stamina» prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto). 45. A tale riguardo, la Corte tuttavia rammenta che, perché si ponga un problema rispetto all’articolo 14, non è sufficiente che venga rilevato una diversità nel trattamento di persone poste in situazioni simili (D.H. e altri c. Repubblica ceca [GC], n. 57325/00, § 175, CEDU 2007_IV), ma è necessario che la distinzione in causa sia discriminatoria. Secondo la giurisprudenza, una distinzione è discriminatoria rispetto all’articolo 14 se non ha una giustificazione obiettiva e ragionevole, ossia se non persegue uno scopo legittimo o se non vi è un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 38, serie A n. 87; Burden c. Regno Unito [GC], n. 13378/05, § 60, CEDU 2008). 46. Nel caso di specie, anche ammettendo che la figlia del ricorrente si trovi in una situazione analoga a quella delle persone interessate dalle decisioni giudiziarie in causa, la Corte non può concludere che il rifiuto di auto- 980 rizzare l’accesso di quest’ultima alla terapia «Stamina» sia stato discriminatorio nel senso sopra descritto. 47. In questo contesto, la Corte si riporta alle conclusioni alle quale è giunta nel quadro dell’articolo 8 della Convenzione, ossia che il divieto per la figlia del ricorrente di accedere al metodo «Stamina», previsto dal tribunale di Udine con decisione del 30 agosto 2013 in applicazione del decreto-legge n. 24/2013, perseguiva lo scopo legittimo della tutela della salute ed era proporzionato a quest’ultimo. In effetti, la decisione in causa è stata debitamente motivata e non era arbitraria (si veda il paragrafo 39 supra). Inoltre, ad oggi il valore scientifico del metodo in questione non è provato essendo tuttora pendente il procedimento giudiziario avviato da D.V. che ha ad oggetto la sperimentazione del metodo «Stamina». 48. Così, il fatto che alcuni tribunali interni abbiano autorizzato l’accesso a questa terapia ad altre persone che si trovano in uno stato di salute presumibilmente simile a quello della figlia del ricorrente non è da solo sufficiente per individuare una violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione. 49. Di conseguenza, alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, questa parte del ricorso deve essere rigettata in quanto manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione. 50. Il ricorrente contesta infine il sistema legislativo italiano dal momento che, secondo l’articolo 669 terdecies, comma V, del codice di procedura civile, avverso la decisione resa nell’ambito di un’azione cautelare è consentito presentare soltanto un semplice reclamo dinanzi ad un organo collegiale. A tale proposito egli invoca gli articoli 6 § 1 e 14 della Convenzione. L’articolo 6 § 1 della Convenzione è così formulato nelle sue parti pertinenti: «Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversi sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...)». 51. La Corte ritiene a titolo preliminare che questo motivo debba essere esaminato unicamente sotto il profilo dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. 52. Essa rammenta poi che la Convenzione non garantisce in quanto tale un diritto a un doppio grado di giudizio in materia civile (Iorga c. Romania, n. 4227/02, § 44, 25 gennaio 2007 e Associazione delle persone vittime del sistema S.C. Rompetrol S.A. e S.C. Geomin S.A. e altri c. Romania, n. 24133/03, § 68, 25 giugno 2013). 53. Pertanto, questa parte del ricorso deve essere dichiarata irricevibile per incompatibilità ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4. Per questi motivi, la Corte, a maggioranza, Dichiara il ricorso irricevibile. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Trattamenti sanitari IL “CASO STAMINA” ALL’ATTENZIONE DELLA CORTE DI STRASBURGO di Antonio Scalera Per i Giudici di Strasburgo il divieto di accesso alle cure secondo il “metodo Stamina”, successivamente all’entrata in vigore del d.l. 25 marzo 2013, n. 24, non si pone in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU. 1. Il caso A distanza di pochi mesi da una discussa pronuncia del Tribunale di Pesaro (1), della quale tanto si è parlato sulle cronache nazionali sino al punto da indurre il Comitato di presidenza del CSM all’apertura di un apposito fascicolo per l’eventuale accertamento di illeciti disciplinari, la Corte Edu interviene, per la prima volta, sul cosiddetto “caso Stamina”. La fattispecie portata all’attenzione dei Giudici di Strasburgo trae origine da un ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato al Tribunale di Udine dal padre di una ragazza affetta da una grave malattia degenerativa. Il ricorrente chiedeva che fosse ordinato all’ospedale di Brescia di somministrare alla figlia cellule staminali secondo il “metodo Stamina”. Si tratta di una terapia elaborata dalla fondazione Stamina Foundation Onlus, che si propone di curare una consistente varietà di patologie eterogenee, accomunate unicamente dalla prognosi infausta e dall’assenza di rimedi efficaci offerti dalla scienza medica. Essa consiste, anzitutto, nel prelievo di cellule staminali mesenchimali presenti nel midollo osseo; poi, nella loro moltiplicazione in laboratorio; infine, nella loro somministrazione nel paziente attraverso una puntura lombare. Il Tribunale, dopo avere autorizzato le cure con decreto inaudita altera parte del 10 aprile 2013, successivamente, con ordinanza dell’11 luglio 2013, revocò il provvedimento. Proposto il reclamo, il Tribunale lo rigettò in data 30 agosto 2013, evidenziando come il trattamento controverso fosse ancora in fase di sperimentazione e, in ogni caso, non potesse essere consentito sulla base delle disposizioni contenute nel (1) Il Tribunale di Pesaro con ordinanza n. 13/20 maggio 2014, ha ordinato la somministrazione delle cure secondo il “metodo Stamina” ad un bambino marchigiano di tre anni gravemente malato (morbo di Krabbe), nominando il vicepresidente della “Stamina Foundation”, dott. Mario Andolina, com- Famiglia e diritto 11/2014 d.l. 25 marzo 2013, n. 24, convertito nella l. 23 maggio 2013, n. 57. Secondo il dettato normativo, infatti, è permesso alle strutture pubbliche portare a termine questo tipo di trattamento, purché esso sia stato avviato alla data di entrata in vigore del decreto legge. Per “trattamenti avviati” devono intendersi – a mente dell’art. 2, comma 3 del citato d.l. n. 24/2013 – quelli in relazione ai quali sia stato già praticato il prelievo di cellule destinate all’uso terapeutico o quelli per i quali, a tale data, sia stata emessa un’autorizzazione giudiziaria. Impugnata in data 28 settembre 2013 l’ordinanza del Tribunale friulano dinanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 2, 8 e 14 della Convenzione, in quanto la figlia era nell’impossibilità di accedere alle cure secondo il “metodo Stamina”, a differenza degli altri malati che si trovavano nelle condizioni previste dal d.l. n. 24/2013. Deduceva, inoltre, sotto il profilo dell’art. 14 Cedu, che numerose ordinanze avevano autorizzato questo tipo di trattamento, nonostante l’entrata in vigore del d.l. 24/2003. Infine, si doleva che l’ordinamento italiano, in contrasto con gli art. 6, par. 1 e 14 Cedu, non consentisse, in base all’art. 669 terdecies, comma 5, c.p.c., un ulteriore ricorso dopo l’eventuale rigetto del reclamo in materia di accesso alle terapie urgenti. 2. Un breve excursus sul “caso Stamina” Prima di passare ad esaminare il contenuto della decisione della Corte, non appare inopportuno riassumere brevemente la vicenda relativa alle cure secondo il “metodo Stamina”, vicenda che, da qualche tempo, è al centro di un interessante dibattito pubblico (2). missario ad acta per l’esecuzione di questo ordine. (2) Per un commento sulle problematiche giuridiche sollevate dalla vicenda in esame sia consentito rinviare a A. Scalera, Brevi note a margine del caso Stamina, in questa Rivista, 2013, 10, 939 ss. 981 Giurisprudenza Trattamenti sanitari Tutto ha inizio quando l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), all’esito di un sopralluogo ispettivo effettuato su delega della Procura di Torino (3), con ordinanza del 15 maggio 2012, ha vietato “di effettuare prelievi, trasporti, manipolazioni, colture, stoccaggi e somministrazioni di cellule umane presso l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia in collaborazione con Stamina Foundation”. In particolare, nella citata ordinanza, da un lato, si è rilevato che il trattamento in oggetto non può essere in nessun modo considerato come “sperimentazione clinica” e, dall’altro, che esso non soddisfa i requisiti previsti dal D.M. 5 dicembre 2006 (“Utilizzazione di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica al di fuori di sperimentazioni cliniche e norme transitorie per la produzione di detti medicinali”) (4). Successivamente all’emanazione dell’ordinanza da parte dell’AIFA, numerose pronunzie dei giudici del lavoro (5), chiamati a decidere in via d’urgenza, hanno ingiunto - in accoglimento dei ricorsi dei pazienti e dei loro familiari - all’Azienda Ospedaliera la riattivazione dei trattamenti (6). A fondamento di tali decisioni, i Giudici hanno, per lo più, osservato che si tratta di cura compassionevole su caso singolo, disciplinata dal citato D.M. 5 dicembre 2006. La disposizione applicabile al caso di specie è, dunque, quella prevista dall’art. 1, comma 4 del decreto che consente l’impiego di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica su singoli pazienti, in mancanza di valida alternativa terapeutica, nei casi di urgenza ed emergenza che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave danno alla salute nonché nei casi di grave patologia a rapida progressione, a condizione che: a) siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali; b) sia stato acquisito il consenso informato del paziente; c) sia stato acquisito il parere favorevole del Comitato etico; d) siano utilizzati, non a fini di lucro, prodotti preparati in laboratori in possesso di specifici requisiti; e) il trattamento sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o in struttura pubblica o ad essa equiparata; Contrariamente a quanto ritenuto dall’AIFA, ricorrerebbero, secondo queste pronunzie, tutti gli elementi richiesti dalla norma ora richiamata ai fini della legittimità del trattamento. Secondo altro minoritario orientamento giurisprudenziale (Trib. Trento 11 febbraio 2013; Trib. Torino 10 marzo 2014 (7)), tali cure non potrebbero essere autorizzate in difetto dei dati scientifici pubblicati ovvero del parere previsto dal citato art. 4. Le voci di aperto dissenso rispetto alle decisioni favorevoli al “metodo Stamina” levatesi da parte di autorevoli esponenti della comunità scientifica (8) e ancor più le crescenti pressioni a livello sociale e mediatico hanno determinato un intervento del Governo volto a fronteggiare la difficile situazione che si era venuta a creare. E’ stato, perciò, emanato il d.l. 25 marzo 2013, n. 24 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria”) (9), che, con una formulazione di dubbia legittimità costituzionale, ha previsto all’art. 2, comma 2, che “le strutture pubbliche in cui sono stati comunque avviati (...omissis...) trattamenti su singoli pazienti con medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, (...omissis...) possono completare i trattamenti medesimi, sotto la responsabilità del medico prescrittore, nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili secondo la normativa vigente”. All’art. 2, comma 3, viene stabilito che “si considerano avviati, ai sensi del comma 2, anche i trattamenti in relazione ai quali sia stato praticato, presso strutture pubbliche, il prelievo dal paziente o da donatore di cellule destinate all’uso terapeutico e quelli che sono stati già ordinati dall’autorità giudiziaria”. La norma introdotta dall’art. 2, comma 2 del decreto potrebbe essere affetta da vizi di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. per- (3) La Procura della Repubblica di Torino ha avviato una complessa attività di indagine volta all’accertamento di eventuali responsabilità penali connesse all’utilizzo del “metodo Stamina”. Nell’ambito di tale attività, il 24 agosto 2014, è stato eseguito dai Nas, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria, il sequestro delle cellule e delle apparecchiature di laboratorio utilizzate dalla Stamina Foundation. (4) L’ordinanza può essere letta sul sito http://www.biodiritto.org/index.php/novita/news/item/330-dossier-staminali (5) Competenti a conoscere delle controversie in materia assistenziale ai sensi dell’art. 442 c.p.c. (6) Su tutte si veda Trib. Venezia 30 agosto 2012, in http://www.biodiritto.org/index.php/novita/news/item/330-dos- sier-staminali (7) Le ordinanze sono reperibili sul sito http://www.biodiritto.org/novita/news/item/330-dossier staminali (8) Si vedano, in particolare, gli articoli E’ cura solo se vi sono le prove e Doppio imbroglio Stamina entrambi a firma congiunta di E. Cattaneo e G. Corbellini apparsi rispettivamente sul Domenicale de Il Sole 24 ore del 26 agosto 2012, 24 e 7 luglio 2013, 27 ed ancora l’articolo Stamina, lo Stato si muova, a firma congiunta di E. Cattaneo, G. Corbellini, e M. De Luca, apparso sul Domenicale de Il Sole 24 ore, 8 giugno 2014, 23. (9) Convertito, con modificazioni, nella l. 23 maggio 2013, n. 57. 982 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Trattamenti sanitari ché introduce un’irragionevole disparità di disciplina tra i pazienti per i quali il trattamento sia stato già avviato anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto-legge (o che entro quella data abbiano ottenuto un provvedimento giudiziale favorevole) e quei pazienti che, invece, a quella data non abbiano ancora iniziato il trattamento (o che si siano visti rigettare la domanda). In tal senso si è espresso Trib. Taranto che, con ordinanza del 23 settembre 2013 (10), ha ritenuto di sollevare la questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 2 del d.l. n. 24/2013, sull’assunto che sarebbe del tutto irragionevole limitare alla prima categoria di pazienti la possibilità di ottenere beneficio col “metodo Stamina” e negarla, invece, a tutti gli altri. Il d.l. n. 24/2013 ha inoltre disposto, al comma 2 bis, - aggiunto in sede di conversione in legge al testo dell’art. 2 originariamente predisposto dal Governo - l’avvio da parte del Ministero della Salute di una sperimentazione sul “metodo Stamina” da completarsi entro 18 mesi a decorrere dall’1 luglio 2013. In applicazione di tale previsione legislativa, il Ministero della Salute ha emanato il d.m. 18 giugno 2013, col quale è stata disciplinata la promozione della sperimentazione e l’istituzione di un Comitato scientifico avente il compito di individuare le patologie da includere nella sperimentazione, definire i protocolli clinici per il trattamento delle malattie, identificare le officine di produzione dei medicinali a base di cellule staminali mesenchimali e le strutture ospedaliere presso le quali effettuare il trattamento. Il Comitato scientifico, i cui componenti sono stati nominati con successivo decreto del Ministero della Salute del 28 giugno 2013, ha reso un parere negativo sul “metodo Stamina”, ritenendo non sussistenti i presupposti di scientificità e sicurezza necessari per avviare la sperimentazione. La Corte di Strasburgo, con la sentenza in rassegna del 6 maggio 2014, ha dichiarato il ricorso irricevibile, ai sensi dell’art. 35 §§ 3 e 4 Cedu, vuoi perché manifestamente infondato, vuoi perché incompatibile con le disposizioni della Convenzione. Tralasciando l’ultima parte della decisione, nella quale la Corte ha rilevato che “la Convenzione non garantisce in quanto tale un diritto ad un doppio grado di giudizio in materia civile”, mette conto soffermarsi sui passaggi motivazionali concernenti l’applicabilità al caso di specie degli artt. 8 (13) e 14 (14) Cedu. Sotto il profilo dell’art. 8 Cedu, la Corte enuncia un principio molto importante, laddove afferma che il diniego da parte dell’Autorità Giudiziaria all’accesso alle cure secondo il “metodo Stamina” costituisce “un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata del paziente”. Tale ingerenza - osservano i Giudici - è, tuttavia, giustificata dalla legge (il (10) L’ordinanza è pubblicata in Nuova giur. civ. comm. 2014, 2, 115, con nota di commento di T. Pace, Diritto alla salute o diritto alla speranza? L’accesso alle cure secondo il metodo Stamina per i pazienti affetti da patologie incurabili. (11) T.A.R. Lazio, sez. III quater, 4 dicembre 2013, ord., consultabile in www.giustizia-amministrativa.it (12) Secondo quanto si apprende dalle notizie pubblicate sui quotidiani del 3 ottobre 2014 (si veda, ad esempio, Corriere della Sera, 20), il Comitato avrebbe concluso i lavori, rilevando la mancanza dei presupposti per l'avvio di una sperimentazione del “metodo Stamina”. (13) Diritto al rispetto della vita privata e familiare. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. (14) “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”. Famiglia e diritto 11/2014 Con successiva nota del 10 ottobre 2013, il Ministero della Salute ha preso atto che, all’esito del citato parere del Comitato scientifico, la sperimentazione non poteva essere ulteriormente proseguita. Con ordinanza del 4 dicembre 2013, il T.A.R. Lazio (11), in accoglimento del ricorso proposto da Stamina Foundation Onlus, ha sospeso l’efficacia dei decreti ministeriali richiamati nel testo, in particolare affermando che il d.m. 28 giugno 2013 era viziato da mancanza di indipendenza dei componenti del Comitato Scientifico, i quali, prima dell’inizio dei lavori, avevano espresso forti perplessità, o addirittura accese critiche, sull’efficacia del metodo. Al fine di dare attuazione alle indicazioni espresse dai Giudici del T.A.R. Lazio, si è provveduto, con d.m. 4 marzo 2014, alla nomina dei nuovi componenti del Comitato (12). 3. La pronuncia della Corte 983 Giurisprudenza Trattamenti sanitari d.l. n. 24/2013, appunto), che persegue lo scopo di tutelare il bene salute. Si pone, allora, un problema di bilanciamento tra gli interessi concorrenti della “vita privata”, intesa, secondo la giurisprudenza della Corte, come “autonomia individuale” (15), e la salute pubblica. In questo campo ampio è il margine di discrezionalità degli Stati membri e non spetta al Giudice sovranazionale sostituirsi alle Autorità nazionali competenti. Un punto di equilibrio parrebbe essere stato raggiunto dal nostro legislatore, che ha consentito il completamento dei trattamenti a base di cellule staminali avviati o autorizzati dall’Autorità Giudiziaria prima dell’entrata in vigore del d.l. 24/2013. Dunque, secondo la Corte, la disposizione legislativa che limita l’accesso alle cure secondo il “metodo Stamina” non si pone in contrasto con l’art. 8 Cedu, tanto più se si considera che “il valore scientifico della terapia in causa non è provato”. Per quanto concerne la presunta violazione dell’art. 14 Cedu (16), in combinato disposto con l’art. 8 Cedu, la Corte prende atto che alcuni tribunali italiani (17) hanno autorizzato l’accesso ai trattamenti in questione anche a pazienti in condizioni simili a quella del ricorrente. Ciò, tuttavia, non vale a qualificare come “discriminatorio” - ovvero privo di uno scopo legittimo o di un ragionale rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito - il provvedimento del Tribunale di Udine che ha negato l’accesso al “metodo Stamina”. Tale decisione, infatti, non fa altro che applicare la previsione del d.l. n. 24/2013, il cui fine – si è già detto – è quello di tutelare la salute della collettività. In sintesi: la Corte sottolinea per ben due volte che il “metodo Stamina” non ha ancora una validazione scientifica; evidenzia che la regolamentazione dell’accesso a questo tipo di cure è materia ri- servata alla discrezionalità degli Stati membri; afferma che la decisione del Tribunale di Udine, in applicazione del d.l. n. 24/2013, persegue lo scopo legittimo della tutela della salute ed é proporzionato a quest’ultimo. (15) Per un’ampia disamina del diritto all’autodeterminazione nella giurisprudenza della Corte europea, si veda R. Conti, I Giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 260 ss. (16) Sull’art. 14 CEDU, con ampi riferimenti bibliografici, si veda D. Tega, I diritti in crisi, Milano, 2012, 184. (17) Un ricco catalogo di ordinanze sul tema è contenuto in Falletti, La giurisprudenza sul caso Stamina, in questa Rivista, 2014, 6, 609. (18) Si veda, in particolare, Le cellule della speranza. Il caso Stamina tra diritto e scienza, Torino, 2014, a cura di M. Capocci e G. Corbellini. (19) V. Zagrebelsky, Relazione svolta all’incontro su I diritti umani nella prospettiva transazionale, Roma 20 aprile 2009, riportata nella pubblicazione reperibile all’indirizzo www.governo.it/Presidenza/CONTENZIOSO/comunicazione/allegati”ì/diritti_umani_seminario pdf. (20) Il riferimento è a Corte cost. 26 maggio 1998, n. 185, in Foro it., 1998, I, 1713, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo gli artt. 2, comma 1, ultima proposizione, e 3, comma 4, del decreto legge 17 febbraio 1998, n. 23 (c.d. Decreto Bindi), per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., nella parte in cui limitavano l’accesso alle cure secondo il “multitrattamento Di Bella”. Il punto nodale di quella importante decisione può essere colto nel seguente passaggio: “Nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, come quelle che si verificano in alcune patologie tumorali, va considerato che dalla disciplina della sperimentazione, così prevista, scaturiscono indubbiamente aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute. Sì che non può ammettersi, in forza del principio di uguaglianza, che il concreto godimento di tale diritto fondamentale dipenda, per i soggetti interessati, dalle diverse condizioni economiche”. 984 6. Conclusioni All’indomani della sentenza in rassegna, può dirsi concluso definitivamente il “caso Stamina”? La risposta è negativa, a parere di chi scrive. Non v’è dubbio che la Corte di Strasburgo, sottolineando più volte la mancanza di prove sulla validità del “metodo Stamina”, ha dato man forte a quanti, nell’ambito della comunità scientifica, hanno, sin dall’inizio, vigorosamente criticato il trattamento in questione (18). Vi è, anzitutto, da considerare che nelle sentenze della Corte di Strasburgo i principi espressi muovono dall’esame di singole vicende e la soluzione offerta al quesito giuridico è circoscritta ai fatti allegati nel ricorso (19). Va, poi, osservato che l’impianto motivazionale della pronunzia in esame ruota intorno alle disposizioni contenute nel d.l. n. 24/2013, ed in particolare nel citato art. 2. Ora, va tenuto presente che questa norma è stata sospettata di incostituzionalità dal Tribunale di Taranto che, con la richiamata ordinanza del 23.9.2013, ha rimesso la questione dinanzi alla Consulta. Non è da escludere che - come avvenuto in passato in casi analoghi (20) - la Corte Costituzionale possa ritenere fondata l’eccezione di incostituzionalità, ravvisando un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti per i quali siano state già avviate le cure secondo il “Stamina” e quelli che, alla data di entrata in vigore del d.l. n. 24/2013, non avevano ancora iniziato la terapia. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Trattamenti sanitari Un’eventuale decisione di accoglimento comporterebbe la caducazione della norma censurata. Potrebbe allora porsi nuovamente la questione – non del tutto risolta dai Giudici di Strasburgo – se sia o meno rispettoso della Cedu il divieto opposto Famiglia e diritto 11/2014 dallo Stato Italiano, attraverso i suoi organi giurisdizionali, di accedere a terapie allo stato prive di validazione scientifica e, soprattutto, vietate dall’Autorità regolatoria del farmaco. 985 NO V ITÀ FAMIGLIA E PATRIMONIO a cura di GIACOMO OBERTO Aspetti patrimoniali del diritto di famiglia alla luce delle riforme del 2012-2013 e con i più recenti orientamenti interpretativi. 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Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma L’art. 51 del codice deontologico forense prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie famigliari deve astenersi dal prestare, in favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi (è peraltro inammissibile il ricorso che sottopone alla corte il giudizio sul valore e sulla ponderazione degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali, poiché ciò fuoriesce dal controllo di legittimità devoluto dal nuovo art. 360, n. 5, c.p.c.). ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Per l’applicazione dell’art. 51 cod. deont. forense: Cass., sez. un., 17 giugno 2010, n. 14617, in Giust. civ., 2011, I, 2923 Ritenuto in fatto Considerato in diritto 1. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma in data 8 giugno 2010 ha inflitto all’Avv. T.M. la sanzione disciplinare della censura, avendolo ritenuto responsabile della violazione dell’art. 51 del codice deontologico per avere difeso D.F. nei confronti del marito L.F. nella causa, introdotta il 26 giugno 2007, di revisione delle condizioni personali della separazione, e ciò dopo che, nell’ottobre 2005, egli aveva assistito entrambi i coniugi nel procedimento di separazione consensuale. 2. Il Consiglio nazionale forense, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 luglio 2013, ha respinto il ricorso dell’incolpato. Il Consiglio nazionale forense ha rilevato che non è importante stabilire se esista o meno la prova del conferimento della procura, nel giudizio di separazione personale, da parte del L., quanto se l’Avv. T. abbia comunque svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale, in favore di una parte nei cui confronti, per lo stesso oggetto, abbia successivamente assunto iniziative giudiziarie. E nella specie - ha proseguito il giudice disciplinare - il “dato fattuale ed assorbente” è costituito dalla circostanza, “oggettiva e inconfutabile”, che “l’Avv. T. ebbe a raccogliere la volontà del L. di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. Infatti - ha concluso il giudice disciplinare - l’Avv. T., per sua stessa ammissione, ha ricevuto nel proprio studio il L., sia pure insieme alla moglie, ha concordato il testo del ricorso ed ha assistito all’udienza entrambi i coniugi. 3. Per la cassazione della sentenza del Consiglio nazionale forense l’Avv. T. ha proposto ricorso, con atto notificato il 9 ottobre 2013, sulla base di un unico motivo. Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede. Il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza. 1. Con l’unico mezzo, il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 111 Cost. e all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il ricorrente lamenta che il Consiglio nazionale forense abbia ritenuto che l’Avv. T., per sua stessa ammissione, abbia assistito all’udienza entrambi i coniugi, laddove l’incolpato “aveva fermamente negato detta presunta ammissione nel proprio ricorso al CNF del 5 novembre 2010”. Il CNF non avrebbe tenuto minimamente conto del fatto che l’incolpato non aveva mai ammesso, ed anzi aveva sempre negato, la suddetta circostanza. La motivazione sarebbe pertanto carente, illogica e contraddittoria perché basata sul presupposto di una presunta ammissione da parte dell’Avv. T. che non trova alcun riscontro negli atti procedimentali. La motivazione risulterebbe altresì viziata perché il CNF ha ritenuto che la mera presenza di un avvocato all’udienza camerale di separazione proverebbe che lo stesso abbia prestato assistenza in favore di entrambi i coniugi, il che sarebbe apodittico, essendo ben possibile che un avvocato possa comparire in un’udienza camerale in qualità di legale di uno solo dei coniugi a tutela dei diritti di difesa di quest’ultimo, visto che l’altro coniuge, in siffatto procedimento, può comparire senza l’assistenza di un avvocato. 2. Il motivo è inammissibile. 2.1. L’art. 51 del codice deontologico forense ammette l’assunzione in un incarico professionale contro una parte già assistita soltanto quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e sempre che l’oggetto del nuovo incarico sia estraneo a quello espletato in precedenza, fermo il divieto per l’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto professionale già esaurito. In quest’ambito, la stessa disposizione prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve sempre astenersi dal prestare, in favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi. Famiglia e diritto 11/2014 987 Giurisprudenza Professioni 2.2. Il Consiglio nazionale forense, nel confermare la decisione del Consiglio dell’ordine, ha ritenuto integrata la condotta disciplinarmente rilevante, avendo accertato che l’Avv. T., dopo avere assistito entrambi i coniugi - D.F. e L.F. - nel procedimento di separazione consensuale, conclusosi con provvedimento dell’ottobre 2005, ha poi patrocinato, nel gennaio 2007, la causa di revisione delle condizioni di separazione, difendendo la sola moglie contro il marito. A questa conclusione il giudice disciplinare è giunto alla luce del “dato fattuale ed assorbente” costituito dalla “circostanza oggettiva ed inconfutabile che l’Avv. T. ebbe a raccogliere la volontà del L. di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. A tale fine, il Consiglio nazionale forense ha sottolineato che dal processo verbale dell’udienza di separazione consensuale tenuta il 26 ottobre 2005 dinanzi al presidente del Tribunale di Roma risulta che all’udienza stessa comparvero i coniugi e vi assistette l’Avv. T.. Ed ha altresì evidenziato che l’Avv. T., per sua stessa ammissione, ha non solo assistito all’udienza entrambi i coniugi, ma, prima di essa, ha ricevuto nel proprio studio il L., sia pure insieme con la moglie, e concordato il testo del ricorso per separazione consensuale dei coniugi. 2.3. Tanto premesso, è esatto che l’Avv. T., anche nel proprio ricorso al CNF, “ha fermamente negato di essere mai stato incaricato dal L. di patrocinarlo nel procedimento di separazione”; ma il giudice disciplinare ha considerato irrilevante detta contestazione, sul rilievo che, ai fini della configurabilità dell’illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell’assolvimento di un’attività di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato abbia svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale. Nè, d’altra parte, appare decisivo il rilievo che all’udienza davanti al presidente del tribunale i coniugi potevano comparire anche senza l’assistenza di un avvocato, perché il CNF - tenuto conto del tenore del verbale di udienza e del fatto che l’Avv. T. aveva in precedenza ricevuto il L. presso il suo studio, sia pure insieme alla moglie, dove gli interessati si accordavano per depositare un ricorso congiunto volto ad ottenere una separazione consensuale - ha ritenuto, valutando le risultanze probatorie, che l’Avv. T. abbia assistito anche il L. In questo contesto, chiedendo di rimettere in discussione la conclusione raggiunta dal CNF sullo svolgimento di un’attività di assistenza anche in favore del L., solo formalmente il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. In realtà, egli insta per un sindacato, da parte di queste Sezioni Unite, sul valore e sulla ponderazione, operata dal CNF, degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali, il che fuoriesce dall’ambito del controllo devoluto al giudice di legittimità dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo risultante per effetto delle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. 3. Il ricorso è dichiarato inammissibile. In mancanza di controricorso da parte degli intimati, nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente T.M., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis. LA DEONTOLOGIA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA TRA PRINCIPI E PROSPETTIVE di Remo Danovi Il principio richiamato dalla Cassazione è del tutto pacifico. La decisione peraltro offre lo spunto per indagare (pur nella dichiarata inammissibilità del ricorso) gli elementi minimi di fatto che consentono di affermare la sussistenza della violazione disciplinare, anche alla luce del nuovo codice deontologico forense e delle più analitiche disposizioni introdotte in materia di diritto di famiglia. 988 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Professioni 1. La regola deontologica divieto è rafforzato con l’inserimento dell’avverbio sempre («l’avvocato deve sempre astenersi») (2). La sentenza della Cassazione ribadisce sostanzialmente una regola sempre esistita, ma offre anche lo spunto per alcune sintetiche riflessioni che nascono dalle nuove disposizioni inserite nel codice deontologico del 2014 e dalle prospettate riforme legislative. In effetti, possiamo ricordare che il conflitto di interessi è sempre stato sanzionato disciplinarmente, essendo inaccettabile che un avvocato possa difendere contestualmente interessi contrapposti. In questo senso, nella codificazione deontologica del 1997, nell’originario art. 37 era fatto obbligo all’avvocato di astenersi dal prestare attività professionale «quando questa determini un conflitto con gli interessi di un proprio assistito», e nel II canone complementare dello stesso articolo era più particolarmente previsto che «l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi in favore di uno di essi». Questo canone non è mai stato modificato nei tanti interventi di aggiornamento attuati, ma è stato semplicemente collocato in un altro articolo: non più nei rapporti con la parte assistita e nell’articolo sul conflitto di interessi (titolo III, art. 37.II), ma nei rapporti con la controparte, i magistrati e i terzi e nell’articolo che disciplina l’assunzione di incarichi contro ex-clienti (titolo IV, art. 51.I) (1). La stessa disposizione è ora riprodotta nell’art. 68.4 del nuovo codice deontologico forense, con due piccole varianti: a parte la rubrica (che si riferisce ora alla parte già assistita e non più agli exclienti), è precisato che incorre nel divieto l’avvocato che abbia prestato assistenza non solo nei confronti dei coniugi ma anche dei conviventi, e il La ratio del divieto è spiegata abbastanza agevolmente dalla stessa diversa collocazione che è stata data alla disposizione in esame. Inserito dapprima nel conflitto di interessi, il divieto nasceva e nasce dall’idea che l’assunzione di un mandato a favore di un coniuge, quando l’avvocato abbia assistito in precedenza entrambi, di per sé costituisca una inaccettabile alterazione del rapporto professionale, poiché non solo cancella l’elemento della fiducia sorto nella gestione dei rapporti famigliari, ma di fatto consente l’utilizzazione di notizie personali apprese in precedenza, così realizzando un indubitabile vantaggio per la parte che viene assistita successivamente sulla base della diretta conoscenza di tutti i pregressi rapporti. Dal punto di vista soggettivo, invero, non è accettabile che il patrono possa assumere posteriormente un patrocinio contrastante con l’interesse di chi – per primo – ha riposto in lui la sua fiducia e conserva il diritto di contare su di essa; e dal punto di vista oggettivo è evidente l’ambiguità di una assistenza che si svolga nell’ambito della stessa controversia famigliare, per contrastare interessi in precedenza difesi! D’altra parte, più in generale, e sul piano degli stessi principi e delle dinamiche processuali, l’ipotesi dell’esistenza di un conflitto di interessi (potenziale o reale) è di per sé criticabile perché idonea a violare la garanzia irrinunciabile del contraddittorio, con ogni deteriore conseguenza: secondo la giurisprudenza, infatti, l’attività prestata in conflitto di interessi equivale a mancanza di assistenza (3). (1) Ciò è avvenuto con le modifiche apportate il 27 gennaio 2006 e con le varianti introdotte. Si veda sul punto il nostro Il codice deontologico forense, Milano, 2006, III ed., 72. (2) Il nuovo codice deontologico forense è stato approvato con delibera del Consiglio nazionale forense 31 gennaio 2014, ed esso entra in vigore decorsi 60 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, secondo quando disposto dalla nuova legge professionale (art. 3. 4 l.p.f.). Il testo dell’art. 68.4 nuovo cod. deont. è ora formulato in questi termini: «68. Assunzione di incarichi contro una parte già assistita - ... 4.- L’avvocato che abbia assistito congiuntamente coniugi o conviventi in controversie di natura familiare deve sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno di essi in controversie successive tra i medesimi». La sanzione prevista per questa violazione (seguendo le prescrizioni della legge professionale che ha imposto di specificare la sanzione per ogni comportamento disciplinarmente rilevante) è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi (art. 68.6). La sanzio- ne può essere peraltro anche diminuita, nei casi meno gravi (art. 22.3 cod. deont.). (3) Così, nel processo penale, ad esempio, è stabilito dall’art. 106 c.p.p. che «la difesa di più imputati può essere assunta da un difensore comune, purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili»; e quando poi l’autorità giudiziaria rilevi una situazione di incompatibilità, «la indica ed espone i motivi, fissando un termine per rimuoverli», provvedendo se necessario alla sostituzione dell’avvocato con un difensore d’ufficio. Ugualmente, nel processo civile, pur nella inesistenza di una specifica norma, si sono considerate irregolari e nulle le procure conferite da soggetti che risultino nel processo in contrasto di interessi con altre parti, per la ragione espressa che il contraddittorio non è assicurato e, di fatto, l’assistenza non è garantita. Sotto il profilo civilistico si è anche precisato che il conflitto deve essere concreto quando riguardi diritti disponibili, attinenti alla sfera patrimoniale, e può essere invece meramente potenziale o virtuale quando riguardi diritti indisponibili. Sotto il Famiglia e diritto 11/2014 2. La ratio del principio 989 Giurisprudenza Professioni La successiva diversa collocazione del divieto (non più nell’ambito del conflitto di interessi, ma nel divieto di assumere incarichi nei confronti di ex-clienti) non modifica la valutazione del principio, ma anzi valorizza l’elemento personale della fedeltà e della fiducia: in questo caso, infatti, il dovere di fedeltà e il rapporto di fiducia vengono ad assumere un valore particolare, una ultra-attività o espansione che va oltre la cessazione formale del mandato. Non a caso la stessa Cassazione, nell’unico precedente riferito all’art. 51 cod. deont., nel sottolinearne i presupposti, afferma che le condizioni stabilite confermano come la disposizione di cui all’art. 51, sia «un rafforzamento del conflitto di interessi regolato dall’art. 37 cod. deont.» (4). Si spiega così agevolmente il principio riferito alle controversie familiari, per le quali deve sempre astenersi dall’assumere incarichi l’avvocato che abbia assistito in precedenza congiuntamente i coniugi o i conviventi. E’ questa una preclusione assoluta, onde non vale l’eccezione pure prevista nell’art. 51, e ora nell’art. 68 cod. deont. (che ammette l’assunzione del mandato quando sia trascorso «almeno un biennio dalla cessazione del precedente incarico»); né ancora valgono le ulteriori condizioni previste dagli stessi articoli, laddove si precisa che l’oggetto dell’incarico deve essere comunque estraneo a quello precedente e in ogni caso è fatto divieto all’avvocato di utilizzare notizie acquisite in La Cassazione non si è discostata da questi principi e si è limitata a ripercorrere la regola che vieta all’avvocato di assistere un coniuge contro l’altro (nella specie, in sede di revisione delle condizioni di separazione), quando abbia assistito entrambi i coniugi nella precedente fase della separazione. E ha poi giudicato inammissibile il ricorso perché avente a oggetto il giudizio dato dal Consiglio nazionale forense «sul valore e sulla ponderazione degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali», in contrasto con il principio stabilito dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, che limita il controllo di legittimità (6). Fermo dunque il principio enunciato, è interessante ripercorrere la decisione del Consiglio nazionale forense che è stata impugnata ed è stata oggetto della contestazione del ricorrente, poiché essa indica gli elementi minimi di fatto che consentono profilo disciplinare, invece, anche il conflitto meramente potenziale può essere rilevante. In tal senso è lo stesso Consiglio nazionale forense, nella decisione impugnata (Consiglio naz. forense 23 luglio 2013, n. 137, in Rass. forense, 2014, 85), per cui il divieto imposto «si caratterizza per una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto di interessi, non richiedendosi specificatamente l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza». Negli stessi identici termini si sono espressi Consiglio naz. forense 13 marzo 2013, n. 35, in Rass. forense, 2013, 864 e 865, e Consiglio naz. forense 15 ottobre 2012, n. 149, in Rass. forense, 2012, 607. Per il codice deontologico europeo è necessario e sufficiente un «rischio serio di conflitto» (art. 3.2 cod. deont. europeo). Per ogni ulteriore approfondimento su questi punti si veda anche il nostro Il codice deontologico forense, Milano, 2006, III ed., 564. (4) Così, nella motivazione, Cass., sez. un., 17 giugno 2010, n. 14617, in Giust. civ., 2011, 2923. Numerose sono anche le decisioni del Consiglio naz. forense che hanno motivato la sanzione inflitta con l’affermazione che l’assunzione dell’incarico professionale in questi casi costituisce violazione della norma fondamentale di correttezza professionale (Consiglio naz. forense 16 marzo 1978, in Rass. forense, 1980, 197), ovvero violazione del dovere di fedeltà (Consiglio naz. forense 30 dicembre 1997, n. 163, in Rass. forense, 1998, 373), o attuazione di un comportamento lesivo del dovere di correttezza e fedeltà (Consiglio naz. forense 11 settembre 2001, n. 166, in Rass. forense, 2002, 129, e Consiglio naz. forense 12 giugno 2003, n. 139, in Rass. forense, 2003, 883). Ritiene invece che la ratio della disposizione debba essere individuata nella tutela dell’immagine della professione forense, essendo non decoroso né opportuno che un avvocato muti troppo rapidamente clientela, Consiglio naz. forense 30 aprile 2012, n. 76, in Rass. forense, 2012, 596; mentre per Consiglio naz. forense 31 marzo 1979, in Rass. forense, 1983, 76, l’inversione della posizione difensiva del legale giustifica, quantomeno, il sospetto sulla affidabilità del patrono e sullo scrupolo nella sua opera. (5) Il principio enunciato «ha carattere assoluto, tendendo a prevenire anche il solo pericolo di situazioni di possibile conflitto» (Consiglio naz. forense 12 maggio 2010, n. 27, in Rass. forense, 2010, 337). E’ stato anche precisato che rientrano nella previsione delle controversie familiari previste dall’art. 51 cod. deont. «anche le controversie per separazione personale dei coniugi, di cui quelle consensuali incontestabilmente costituiscono una forma di risoluzione» (Consiglio naz. forense 16 marzo 2010, n. 9, in Rass. forense, 2010, 347). (6) In effetti, la Cassazione ha rilevato che solo formalmente il ricorrente ha denunciato un omesso esame di fatto decisivo: in realtà, «egli insiste per un sindacato sul valore e sulla ponderazione, operato dal C.N.F., degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali, il che fuoriesce dall’ambito del controllo devoluto al Giudice di legittimità dal nuovo art. 360 c.p.c. n. 5». Il ricorso è stato dunque dichiarato inammissibile, con la conseguenza che è stato imposto al ricorrente il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata (secondo le prescrizioni previste dalla legge in caso di pronuncia di inammissibilità del ricorso). 990 ragione del rapporto professionale già instaurato. Nel caso in esame, infatti, l’incarico di tutelare un coniuge contro l’altro si svolge nell’ambito dello stesso oggetto e sulla base delle stesse notizie acquisite in precedenza: nessuna eccezione è quindi prospettabile al divieto imposto (5). 3. La pronuncia della Cassazione e gli elementi minimi di fatto per la violazione deontologica Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Professioni di uno solo di essi, ricorrendo nelle varie fattispecie una identica esigenza di tutela (8). Non si tratta in verità, in questo caso, di applicare analogicamente il principio fissato dal codice deontologico (un’applicazione analogica sempre discutibile, tanto più ora con la tipizzazione degli illeciti disciplinari), ma semplicemente di riconoscere che nella previsione dell’assistenza iniziale dei due coniugi è ricompresa anche l’ipotesi dell’assistenza di uno solo di essi, contro il quale non può successivamente essere assunta la difesa nell’ambito degli stessi rapporti familiari. Ciò è escluso anche dai principi generali fissati nell’ambito del divieto di agire contro una parte già assistita. di affermare l’esistenza di una violazione del divieto sancito dalla norma. Nel pensiero del Consiglio nazionale forense, infatti, la disposizione in esame (l’art. 51.I, e ora l’art. 68.4 nuovo cod. deont.) non richiede che sia espletata «una attività defensionale o anche di rappresentanza», ma si limita a «circoscrivere l’attività nella più ampia definizione di assistenza, per l’integrazione della quale non è richiesto lo svolgimento di attività di difesa e rappresentanza essendo sufficiente che il professionista abbia semplicemente svolto attività diretta a creare l’incontro delle volontà seppure su un unico punto degli accordi di separazione» (7). Nel caso in esame, dunque, non vale l’eccezione sollevata secondo cui il divieto non sussisterebbe non essendo stato rilasciato dall’uno e dall’altro coniuge un mandato formale di assistenza. Ciò che conta è la precedente assistenza compiuta, avendo l’avvocato ricevuto nel proprio studio il marito insieme con la moglie e concordato il testo del ricorso per separazione consensuale, con l’assistenza poi all’udienza di entrambi i coniugi. Né poi è rilevante che davanti al presidente del tribunale i coniugi possano comparire anche senza l’ausilio di un avvocato, poiché ciò che conta – ai fini del successivo divieto – è l’avvenuta prestazione di fatto in favore di entrambi i coniugi. Allo stesso modo è sufficiente la consulenza prestata in vista di una separazione o controversia famigliare per escludere la possibilità di agire successivamente nei confronti della stessa parte alla quale sia stata prestata la consulenza. Così indicati oggettivamente gli elementi minimi di fatto per ravvisare la violazione deontologica del principio enunciato, resta solo da precisare che, soggettivamente, non importa che l’attività sia stata svolta inizialmente a favore di entrambi i coniugi o Nello stesso art. 68 del nuovo codice deontologico, oltre al divieto di assumere l’incarico dai coniugi o conviventi già assistiti in una prima fase (art. 68.4) è inserito l’ulteriore divieto per l’avvocato, che abbia assistito un minore in controversie famigliari, «di astenersi sempre dal prestare la propria assistenza in favore di uno dei genitori in successive controversie aventi la medesima natura e viceversa» (art. 68.5 cod. deont.). Per questa infrazione è prevista una sanzione più grave rispetto a quella precedente (da uno a tre anni, anziché da due a sei mesi) (9). E’ previsto anche nel nuovo codice deontologico che l’avvocato debba «in ogni caso assicurare l’anonimato del minore» (artt. 18.2 e 57.2), e al minore infine è dedicato l’intero art. 56 (ascolto del minore), con obblighi vari previsti a carico dell’avvocato: (7) Così Consiglio naz. forense 23 luglio 2013, n. 137, in Rass. forense, 2014, 85, che ha rigettato il ricorso avverso la decisione del C.d.O. di Roma 8 giugno 2010. (8) Così espressamente Consiglio naz. forense 12 maggio 2010, n. 27, in Rass. forense, 2010, 337: «benché l’art. 51, canone I, c.d.f. faccia espresso riferimento alla fattispecie in cui un avvocato, dopo avere assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari, assuma successivamente il mandato in favore di uno di essi contro l’altro, analoga esigenza di tutela è ravvisabile nell’ipotesi in cui l’avvocato abbia prestato consulenza in vista di una separazione ad uno dei coniugi e, in seguito, abbia accettato il mandato dall’altro coniuge per assisterlo nella medesima separazione, con conseguente operatività, anche in tale ultima fattispecie, del medesimo obbligo di astensione dell’avvocato, a prescindere dalla sussistenza di un conflitto di interessi effettivo o meramente potenziale». E’ stato anche deciso che l’avvocato dell’amica del marito non possa difendere la moglie nel giudizio di separazione (C.O. Bruxelles, seduta del 13 gennaio 1998, in Lettre du Barreau, 1997-1998, 6-7, 172), mentre è stata considerata lecita l’assunzione di una causa nei confronti della moglie di un ex-cliente (Consiglio naz. forense 18 maggio 1999, n. 58, in Rass. forense, 1999, 928). (9) L’aggravamento della sanzione dovrebbe giustificarsi per il particolare rilievo dato dal codice alla persona del minore. In verità, l’indicazione delle sanzioni è talvolta criticabile, come nel caso in esame. Non si spiega infatti il motivo per cui la violazione delle disposizioni di cui ai commi 2 (assunzione di incarichi di identico oggetto a quelli precedenti), 3 (utilizzo di notizie acquisite in precedenza) e 5 (difesa del minore) comportino la sanzione della sospensione da uno a tre anni, mentre la violazione di cui ai commi 1 (assunzione dell’incarico prima che siano trascorsi due anni) e 4 (assistenza dei coniugi e conviventi) comporta la minore sanzione della sospensione da due a sei mesi, dal momento che nell’assistere un coniuge precedentemente difeso (comma 4) ricorrono certamente le ipotesi di cui ai commi 2 e 3 (incarico non estraneo a quello precedente e utilizzo di notizie). Probabilmente con il richiamo delle attenuanti o aggravanti le varie sanzioni possono essere maggiormente equilibrate. Famiglia e diritto 11/2014 4. Il diritto di famiglia e il nuovo codice deontologico 991 Giurisprudenza Professioni - l’obbligo di non procedere all’ascolto di un minore senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, e sempre che non sussista conflitto di interessi con gli stessi; - l’obbligo di astenersi da ogni forma di colloquio o contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle controversie familiari; - l’obbligo, nel procedimento penale, di conferire con il minore previo invito formale agli esercenti la potestà genitoriale di intervenire all’atto, e fatto salvo l’obbligo della presenza di un esperto. Per la violazione di questi doveri e divieti è prevista la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno (10). Come si vede, il nuovo codice deontologico dedica ampio spazio ai rapporti famigliari, e in particolare ai rapporti con i minori, nella fondata percezione che ogni contestazione debba essere affrontata con grande sensibilità ponendo l’avvocato a contatto con l’essere delle persone (i sentimenti, gli interessi, la stessa dignità dell’esistenza, ma anche i diritti inespressi e inesprimibili di un minore), che sono ben più rilevanti dell’avere, che pure occupa in misura talvolta ingiustificata i contrasti tra le parti (11). E’ del tutto condivisibile quindi una maggiore attenzione a questi problemi, tenuto conto anche delle varie modifiche in atto sul piano legislativo e processuale (12). 5. Il ruolo dell’avvocato (10) Per l’ascolto dei minori, nel vigore del codice deontologico del 1997, si veda Cass., sez. un., 21 ottobre 2009, n. 22238, in Foro it., 2010, I, 903; Cass. 4 dicembre 2012, n. 21662; Cass. 5 marzo 2014, n. 5097, in Foro it., 2014, I, 1067. In particolare, è stato sanzionato con la sospensione l’avvocato che nell’esercizio del suo ministero di difensore, nel corso di un giudizio di separazione tra coniugi, «nell’interesse della propria assistita abbia intrattenuto colloqui con i figli minori della coppia all’insaputa del padre affidatario e in violazione delle disposizioni specialmente impartite dal giudice nell’interesse dei minori stessi» (Cass., sez. un., 4 febbraio 2009, n. 2637, in Giust. civ., 2009, I, 860, a conferma della decisione del Consiglio naz. forense 22 aprile 2008, n. 17). Più in generale si veda, per i problemi deontologici, G. Dosi, L’avvocato del minore nei procedimenti civili e penali, Torino, 2005, 473; G. Gulotta, La formazione dei magistrati e degli avvocati nella giustizia minorile, Milano, 2005; G.O. Cesaro (a cura di), La tutela dell’interesse del minore: deontologie a confronto, Milano, 2007, a cui si deve la felice sintesi che si richiama all’ascolto, alla assistenza e alla rappresentanza. (11) Si veda, in questo senso, il nostro scritto Dall’avvocato della famiglia all’avvocato del minore: questioni deontologiche, nel volume La tutela dell’interesse del minore: deontologie a confronto, a cura di G.O. Cesaro, Milano, 2007, 29; e ancora La deontologia e i processi della famiglia, in Prev. forense, 2009, 215, con l’analisi dei vari casi disciplinari intervenuti e il riferimento alla normativa esistente; e più in generale Dei doveri dell’avvocato nel processo, in Deontologia e giustizia, Milano, 2003, 63. (12) Basti ricordare l’intervento del legislatore con la legge 10 dicembre 2012, n. 219, e il d.lgs 28 dicembre 2013, n. 154, con i nuovi diritti riconosciuti al minore (artt. 315–bis, 316 e 336–bis c.c.). In materia di audizione del minore si veda anche la giurisprudenza del Tribunale di Milano nella rassegna a cura di G. Servetti, L. Cosmai e G. Buffone. Più in generale, si veda anche M.G. Ruo, Quella riforma indifferibile della giustizia minorile per dare tutela effettiva ai soggetti più vulnerabili, in Guida al diritto, 2014, 33, 10; G. Ceccherini – L. Gremigni Francini, Famiglia in crisi e autonomia privata, Padova, 2013. (13) E’ il caso singolare accaduto negli Stati Uniti e da noi riferito nel volume L’avvocato incolpato (casi clinici di deontologia forense), Milano, 2007, 111, con la conclusione che l’avvocato non può assecondare gli intendimenti del cliente, accompagnandosi allo stesso in una serie di attività materiali che esulano dai suoi compiti e non sono in alcun modo giustificabili. E’ esemplare anche il caso accaduto in Belgio e sanzionato con la radiazione (si veda il nostro commento alla decisione, Il lettino dell’analista e la deontologia forense, in Foro it., 1999, IV, 431, e nel volume L’avvocato incolpato, Milano, 2005, 105). (14) Si veda in particolare, su questi punti A. Mariani Marini, Deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato del minore, in Rass. forense, 2003, 741; A. Mariani Marini, Cultura ed etica della legalità: l’avvocato e il minore, in Prev. forense, 2013, 240, ove si sottolinea la necessità di un particolare impegno per l’avvocato, per la difesa dei valori morali, «immanenti in ogni processo che coinvolga minori»; A. Succi, L’ascolto del minore e i rapporti dell’avvocato con gli organi di informazione, in Rass. forense, 2014, 41. 992 Sono certamente utili le nuove regole in considerazione della specialità del diritto di famiglia e della iper-specialità del diritto minorile. E tuttavia, fermo il fatto che tutti i comportamenti disciplinarmente rilevanti hanno avuto o avrebbero potuto avere una sanzione già nel vigore della codificazione del 1997 (anche il caso del gatto della moglie del cliente dell’avvocato!) (13), nell’ambito del diritto di famiglia, per i valori delle persone che sono coinvolti, il comportamento degli avvocati dovrebbe essere sempre ispirato da un alto grado di sensibilità e dalla volontà e necessità di ricondurre i contrasti all’equilibrio e non all’esasperazione. Non è dunque da invocare soltanto la rigorosa applicazione delle norme deontologiche, con la specificità delle nuove disposizioni, quanto la professionalità dell’avvocato, che nasce con un titolo di specializzazione (quale ora è previsto dalla nuova legge professionale) e dalla formazione ed esperienza che ne costituiscono la base, per avvicinare quanto più possibile le parti alla giustizia (14). Per farlo, è certamente essenziale la solidarietà con la parte assistita, nella espressione dell’attività più intensa, con immedesimazione e senza pigrizie o interessi personali, ma occorre pur sempre non assecondare i soprusi, rinunciare alle falsità, rifiutare l’inganno, l’artificio, la mistificazione, l’ignoranza asserita dei fatti, il capovolgimento delle rappre- Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Professioni sentazioni. In positivo, occorre credere nella essenzialità del dovere di verità (che pure è stato retrocesso nel nuovo codice e non è più posto tra i principi generali ma è stato inserito tra i doveri dell’avvocato nel processo), perché questo è il valore in assoluto che dà equilibrio ai rapporti e realizza compiutamente la giustizia. Né occorre ricordare ancora una volta che i doveri di lealtà e probità previsti dall’art. 88 c.p.c. (e nei medesimi termini dall’art. 105.4 c.p.p.) sono imposti non solo alle parti ma anche ai difensori, ed essi esprimono il dovere giuridico di non alterare il rapporto processuale e quindi di assicurare allo stesso il rispetto della verità. Allo stesso modo devono essere intesi i principi di buona fede e correttezza che «per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione... costituiscono un autonomo dovere giuridico e una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili» (15). E’ tempo di sostenere verità e giustizia. Non è più in gioco il risultato favorevole di un processo, ma lo spirito dell’avvocatura, la coscienza del rispetto di un valore collettivo, che è poi anche l’ordine del mondo. (15) Così, Cass., sez. un., 10 agosto 2012, n. 14374, in Giust. civ., 2013, I, 112, nella motivazione, che richiama Cass., sez. un., 23 dicembre 2009, n. 27214, in Giust. civ., 2010, I, 592, e Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286. Famiglia e diritto 11/2014 993 Giurisprudenza Diritto del lavoro Conviventi more uxorio CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA 21 gennaio 2014, n. 62 - Pres. Brusati Non sussiste un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio, qualora le parti non abbiano originariamente configurato il rapporto lavorativo come tale, rispettando il requisito dell’onerosità. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass. 03 luglio 2012 n. 11089, Cass. 02 agosto 2010 n. 17992, Cass. 26 gennaio 2009 n. 1833, Cass. 15 marzo 2006 n. 5632, Cass. 20 febbraio 2006 n. 3602, Cass. 19 giugno 2000 n. 8330, Cass. 17 luglio 1979 n. 4221, Cass. 07 giugno 1978 n. 2856, Cass. 24 marzo 1977 n. 1161 Difforme Cass. 19 ottobre 2000 n. 13861, Trib. Palermo 03 settembre 1999, Cass. 02 maggio 1994 n. 4204, Cass. 14 giugno 1990 n. 5803, Cass. 22 novembre 1989 n. 5006, Cass. 17 febbraio 1988 n. 1701, Cass. 13 dicembre 1986 n. 7486 Svolgimento del processo Il Tribunale di Modena, quale Giudice del Lavoro, con la sentenza n. 62/2012, ha accertato e dichiarato che tra la società Laghi Balena s.n.c. (poi Laghi Balena di B. A. e c. s.a.s.) e Z. P. si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato con riferimento al periodo settembre 2005 – fine aprile 2008. Ha, quindi, in via equitativa, ai sensi dell’art. 36 Cost., calcolato la retribuzione dovuta, determinandola nella complessiva somma netta, comprensiva di rivalutazione ed interessi fino alla decisione, di euro 12.000,00. Hanno proposto appello la società ed i soci B. G. e B. A. che hanno chiesto la riforma integrale di detta sentenza, con rigetto della domanda della ricorrente. Quest’ultima si è costituita e, senza proporre appello a sua volta, ha contestato integralmente la fondatezza del proposto appello, chiedendone il rigetto con conferma della sentenza appellata. La causa è stata decisa all’udienza del 21 gennaio 2014. Motivi della decisione Le parti appellanti hanno articolato un primo motivo di appello con il quale, per censurare la sentenza di primo grado, ha contestato che tra le parti si fosse mai instaurato un rapporto di lavoro subordinato. Tale motivo di appello è fondato. A fronte delle contestazioni sempre sollevate dalla società odierna appellante in ordine alla instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con la ricorrente/appellata, era onere di quest’ultima fornire in causa la prova della esistenza degli elementi costitutivi di detto rapporto. Detto onere probatorio, ad avviso di questa Corte di Appello, non può dirsi adempiuto. Più specificatamente, se non si è inteso male, la sentenza di primo grado ha fortemente per non dire decisivamente valorizzato le dichiarazioni rese dalle testimoni M. e L. che hanno direttamente riscontrato la presenza al lavoro, presso il locale gestito dalla società, della sig.ra Z. 994 Senonché tali dichiarazioni non appaiono essere sufficienti per ritenere adempiuto da parte della sig.ra Z. l’onere probatorio sulla stessa incombente. La teste M. ha riferito di una frequentazione non certamente continuativa del locale gestito dalla società avendo dichiarato di aver frequentato il ristorante due/tre volte nell’anno 2005, più di dieci volte nell’anno 2006, più di dieci volte nell’anno 2007 e nell’anno 2008 un po’ meno. Si può, quindi, affermare che le sue dichiarazioni, in sé considerate, non appaiono sufficientemente probanti circa il riscontro di un impegno lavorativo da parte della sig.ra Z. continuativo nel corso del tempo. Né specifici e definitivamente convincenti ragguagli in tale senso possono essere desunti dalle dichiarazioni della teste L. Tale testimone ha certamente riferito che, nei periodi di frequentazione con il sig. B. e la sig. Z., aveva frequentato il locale assiduamente potendo così dire di aver visto la sig.ra Z. “collaborare nel locale costantemente negli orari prossimi alle ore 13,00 nonché la sera spesso anche sino alle ore 24,00, soprattutto il sabato”, pur ritenendo di non conoscere pienamente gli orari di lavoro della sig.ra Z. Senonché tali dichiarazioni devono essere esaminate tenendo conto anche di quanto ulteriormente riferito da detta teste vale a dire che “la sig.ra Z. lavorava nel bar e nel ristorante come compagna del sig. G. B., tanto che non veniva retribuita, sicché io stessa come amica sollecitai più volte il sig. Barbieri a renderla indipendente economicamente”, avendo la teste specificato di aver appreso detta circostanza “per averne parlato con la ricorrente e con il sig. Giuseppe Barbieri”. La teste ha fatto riferimento ad una circostanza (quella della convivenza more uxorio della sig.ra Z. con il sig. G. B., socio amministratore e socio di maggioranza della società) proprio nell’arco di tempo interessato dal presente giudizio, e tale circostanza (anch’essa rilevante ai fini del presente giudizio) può dirsi debitamente riscontrata in causa non solo dalle dichiarazioni della teste L. ma anche dalle dichiarazioni degli altri testi M., P. e Q. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Diritto del lavoro nonché dalle stesse dichiarazioni rese dalla sig.ra Z. all’udienza del 14 dicembre 2010. Né specifici ragguagli probatori in favore della domanda proposta dalla sig.ra Z. possono essere rinvenuti (come del resto sostanzialmente riconosciuto dalla stessa sentenza di primo grado) dalle dichiarazioni degli altri due testi P. e Q. Il P., in particolare, ha riferito di una sua assidua frequentazione del bar gestito dalla società “prima di lavorarci”. Ha riferito di avere visto che “talvolta la sig.ra Z. era impegnata al lavoro presso detto bar mentre altre volte quest’ultima non c’era”, ulteriormente specificando di non aver mai visto la sig.ra Z. nel ristorante. La teste Q., a sua volta, ha riferito circa la normale presenza della sig.ra Z. presso l’esercizio commerciale nella giornata del sabato aggiungendo che soltanto talvolta la stessa aveva prestato nel ristorante la propria collaborazione lavorativa, senza peraltro, ricevere direttive, mentre le altre volte era rimasta nel ristorante per consumare pasti o per intrattenersi con altri clienti, ulteriormente riferendo che la presenza della sig.ra Z. era essenzialmente dovuta al fatto che doveva incontrare il suo compagno, e che la prestazione di lavoro da parte della sig.ra Z. era legata alla volontà della stessa (“a volte, se ne aveva voglia, dava una mano al bar ed al ristorante.”). Quanto a quest’ultima teste non si condivide il giudizio di inattendibilità della stessa atteso che non è dato cogliere come ed in che modo le dichiarazioni di tale teste sulla presenza saltuaria al lavoro della sig.ra Z. siano recisamente smentite dalle dichiarazioni degli altri testi, e questo con specifico riferimento alle dichiarazioni della M. e del P. A ciò va aggiunta l’osservazione che dalle predette dichiarazioni testimoniali (fondamentali ai fini di causa, non essendovi certamente riscontri probatori documentali alla domanda della sig.ra Z.) neppure emerge con convincente chiarezza e precisione la circostanza che la sig.ra Z., nel rendere le sue prestazioni di lavoro in favore della società, era sottoposta al potere gerarchico dei responsabili di detta società, inteso come potere organizzativo, gerarchico e disciplinare, estrinsecantesi in ordine e direttive specifiche e nel controllo sulla regolare esecuzione di detti ordini e direttive specifiche. Nessun elemento di riscontro in tale senso lo si può cogliere nelle dichiarazioni dei testi P. e Q. che hanno smentito detta fondamentale circostanza (cfr. dichiarazioni Papa: “non ho mai visto la sig.ra Z. ricevere direttive nei momenti in cui frequentavo il bar”; cfr. dichiarazioni Q. che ha riferito che la sig.ra Z. “non ha mai ricevuto direttive”). Né elementi contrari a quanto qui affermato possono desumersi dalle dichiarazioni delle testi L. e M. che hanno, sostanzialmente in modo generico, parlato di direttive a cui la sig.ra Z. doveva attenersi. Con riferimento, poi, alle dichiarazioni rese dalla teste M., va aggiunta la osservazione che la teste ha riferito che tra le ragioni della frequentazione del locale gestito dalla società vi era anche quella di “trovare la ricorrente”, e proprio tale finalità di un incontro amicale con la sig.ra Z. non si vede come possa armonizzarsi con la esi- Famiglia e diritto 11/2014 stenza, di fatto, di un rapporto di lavoro subordinato della sig.ra Z. con tutti i correlati obblighi lavorativi. Non solo ma la esistenza di un generale rapporto di lavoro subordinato e di uno specifico potere di supremazia gerarchica (sia pure di fatto) in capo ai responsabili della società Laghi Balena nei confronti della sig.ra Z. è sostanzialmente smentita dalle dichiarazioni della sig.ra L. la quale – come già ricordato – ha riferito sostanzialmente come la prestazione di lavoro della sig.ra Z. (anche con le modalità concrete riferite da detta teste) era da ricondursi e trovava il suo fondamento non tanto in detto rapporto di lavoro ma, diversamente, nel rapporto di convivenza more uxorio pacificamente esistente, proprio nell’arco di tempo interessato dal presente contenzioso, con il sig. G. B., socio amministratore e socio di maggioranza della società. Già sulla base di detta ricostruzione dei fatti appare possibile affermare il mancato adempimento da parte della difesa della sig.ra Z. dell’onere di prova sulla stessa sicuramente incombente non solo perché non appare debitamente riscontrata la circostanza così fortemente valorizzata dalla sentenza di primo grado (vale a dire l’avere prestato la sig.ra Z. la propria prestazione di lavoro con carattere di continuità e regolarità) ma anche e soprattutto perché non appare debitamente riscontrato quello che è l’elemento fondamentale distintivo della subordinazione, vale a dire la sottoposizione del prestatore di lavoro al potere gerarchico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. E tale affermazione viene ulteriormente corroborata dalla riscontrata presenza di ulteriori circostanza fattuali che non si vede come possano essere apprezzate a positivo riscontro della domanda proposta in causa dalla sig.ra Z. E’, infetti, emerso che la stessa nel periodo di cui è causa svolgeva altra attività lavorativa quale babysitter (v. dich. M., P., L. e Q.), essendo ulteriormente emerso che era la società odierna appellante a sostenere i costi della scheda del telefono cellulare utilizzato dalla sig.ra Z. Risulta, quindi, condividibile il motivo di appello in esame volto, appunto, a contestare la prova in atti della esistenza dei fatti costitutivi della fattispecie dedotta in giudizio dalla sig.ra Z. Il che consente di accogliere integralmente il proposto appello con riforma della sentenza impugnata e rigetto della domanda proposta dalla ricorrente/appellata. L’accoglimento di detto motivo di appello consente di ritenere assorbiti gli ulteriori motivi di censura articolati nella proposta impugnativa. La peculiarità della controversia e la opinabilità della questione trattata consente di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio. P.Q.M. La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, in accoglimento del proposto appello, con riforma della sentenza di 1° grado, respinge la domanda di Z. P. Compensa integralmente le spese di entrambi i gradi di giudizio. 995 Giurisprudenza Diritto del lavoro IL LAVORO PRESTATO A FAVORE DEL CONVIVENTE MORE UXORIO di Ilaria Bresciani (*) Le prestazioni lavorative rese nell’impresa del convivente more uxorio, prive fin dall’origine della collaborazione dei caratteri della subordinazione e dell’onerosità, non rientrano nella fattispecie del lavoro subordinato. Pur non essendovi ostacoli alla configurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio, qualora, originariamente, la collaborazione si sia svolta in modo non continuativo, volontario e gratuito, non può essere dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a posteriori, ma la fattispecie rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 230 bis c.c. 1. Il fatto La sentenza n. 62 del 21/01/2014 della Corte d’appello di Bologna – Sezione Lavoro si è pronunciata su di una controversia in materia di accertamento circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio. L’appello è stato promosso dalla società e dai relativi soci in proprio, avverso la sentenza n. 62 del 2012 del Tribunale di Modena, con cui il Giudice del lavoro aveva riconosciuto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a favore della compagna di uno dei soci titolari di un’attività di bar- ristorante, in cui essa aveva prestato la propria opera lavorativa per il periodo da settembre 2005 ad aprile 2008, condannando la società al pagamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost. L’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto le istanze proposte dagli appellanti, affermando che tra le parti non si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato, in quanto la signora, che ne chiedeva il riconoscimento, non ha assolto all’onere della prova che su di essa gravava, al fine di dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi di tale rapporto di lavoro, dato che dalle prove testimoniali assunte era emerso con certezza solo che la signora conviveva con uno dei titolari dell’attività, ma non che la stessa fosse una dipendente del bar – ristorante in questione. I testimoni, che avrebbero dovuto fornire la prova dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, in realtà frequentavano il locale gestito dalla società sporadicamente, al massimo una decina di volte all’anno, oppure, pur frequentando il locale assiduamente, hanno affermato di aver visto l’appella(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Appello Bologna 21.1.2014, n. 62. 996 ta lavorare solo qualche volta nel bar – ristorante e senza ricevere direttive dai soci. Inoltre, la stessa appellata aveva riferito ad una teste di lavorare nel bar – ristorante come compagna di uno dei proprietari, in quanto nel periodo in esame i due avevano iniziato una convivenza, tant’è che la signora non percepiva alcun compenso. Ciò che emerge dalle prove testimoniali, decisive per la controversia dato che non vi sono documenti e contratti scritti, è che la signora si trovava spesso nel locale di cui il compagno era proprietario per incontrare quest’ultimo o amici della coppia, e talvolta eseguiva qualche prestazione lavorativa, ma sempre nella veste di compagna, del tutto volontariamente, in modo non continuativo, e senza ricevere alcuna direttiva e alcun compenso da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi datori di lavoro. Pertanto, la Corte d’appello di Bologna, sulla base anche di altre circostanze fattuali, come che la signora in quel periodo svolgeva un’altra attività lavorativa di babysitter, ha accolto le domande degli appellanti e ha riformato integralmente la sentenza di primo grado (1). 2. Il lavoro nell’impresa familiare Se la signora fosse stata la moglie di uno dei titolari del bar – ristorante non vi sarebbe stato alcun dubbio sul fatto che tali prestazioni, rese con le stesse modalità, rientrassero nell’ipotesi di lavoro nell’impresa familiare (2). Al fine di porre rimedio a situazioni di sfruttamento economico – lavorativo, il nostro legislatore ha regolato il lavoro nell’impresa familiare, introducendo, con la legge n. 131 del 1975, l’art. 230 bis c.c., che, riferendosi ai collaboratori dell’impre(2) D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, 468 ss.; Spadafora, Rapporti di convivenza more uxorio e autonomia privata, Roma, 2001, 8. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Diritto del lavoro sa familiare, accosta tale fattispecie ad un rapporto di lavoro associativo, prevedendo in cambio dell’attività prestata il diritto al mantenimento e il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa, il diritto di partecipare alle decisioni e a percepire una liquidazione in denaro alla cessazione della prestazione lavorativa (3). Con questa norma si è tipizzata la presunzione di gratuità del lavoro nell’impresa familiare, sulla base del presupposto che viene reso per ragioni di mutua solidarietà e al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato, per cui il familiare può accettare di lavorare senza essere retribuito essendo comunque tutelato dall’art. 230 bis c.c. (4). Lo scostamento rispetto alla disciplina del lavoro subordinato è giustificato dall’elemento dell’affectio familiaris (5). Il problema si pone in virtù del fatto che la lettera della norma individua come parti del rapporto di lavoro familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado, e pertanto, il modello a cui si riferisce è quello della famiglia legittima (6). Interpretando letteralmente l’art. 230 bis c.c., si arriva alla conclusione che il disposto legislativo non tutela altre situazioni che pur si caratterizzano per la presenza dell’elemento dell’affectio familiaris, come i rapporti di convivenza o di fidanzamento, anche se, nel corso degli anni si sono avute aperture in tal senso. In Dottrina e in giurisprudenza si ritrovano posizioni opposte. Vi è chi sostiene che l’art. 230 bis c.c. non si applichi alle ipotesi di convivenza more uxorio (7), che è l’indirizzo più risalente nel tempo e dunque l’impostazione tradizionale, che si fonda sul dato testuale della norma, e chi invece afferma la possibilità di un’equiparazione della famiglia di fatto a quella legittima (8), operando un’interpretazione estensiva o analogica della norma, attraverso la quale, la famiglia di fatto viene inquadrata come una formazione sociale atipica costituzionalmente rilevante ex art. 2 Cost. e, prendendo le mosse dalla ratio stessa dell’art. 230 bis c.c., si ammette l’applicazione analogica della norma alle famiglie di fatto, “desumendo dalla disciplina della famiglia legittima alcuni principi generali, come tali applicabili a situazioni che presentino un’identità di ratio” (9). In giurisprudenza è stato obbiettato che l’art. 230 bis c.c. si possa applicare in caso di convivenza, partendo dal presupposto che tale norma si pone come un’eccezione rispetto alle norme generali del diritto del lavoro e pertanto è insuscettibile di applicazione analogica (10). Inoltre l’eventuale equiparazione tra la famiglia di fatto e quella legittima, sempre secondo l’impostazione tradizionale, non sarebbe possibile, in quanto mentre il matrimonio comporta per i coniugi conseguenze ben precise, perenni e ineludibili, la convivenza non è altro che una situazione di fatto precaria, che può finire in qualunque tempo per mera volontà di una delle parti del rapporto (11). Tuttavia non si può prescindere dal fatto che, così come il matrimonio, anche la convivenza presuppone un comune progetto di vita delle parti. Nel corso del rapporto si confondono i patrimoni, si mettono i propri beni nella disponibilità del compagno, e allora ci si chiede perché il lavoro prestato nell’impresa del compagno dovrebbe trovare una regolamentazione differente da quella che tutela il coniuge o addirittura nessuna regolamentazione (12). (3) Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Milano, 1989, 195. (4) Carinci - De Luca Tamajo - Tosi - Treu, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2006, 43. (5) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art. 230 bis c.c., in Lav. giur., 2006, IV, 327. (6) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art. 230 bis c.c., cit., 328. (7) In questo senso v., Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, 121; Oppo, in Cian, Oppo, Trabucchi, Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova, 1992, 467; Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 1991, 1023; Palmeri, Regime patrimoniale della famiglia, II, Art. 230 bis, in Galgano (a cura di), Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna, 2004. (8) In questo senso v., Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nell’impresa familiare e famiglia di fatto, in Dir. fam. pers., 1976, 1831; Mazziotti, Diritto del lavoro, Napoli, 1976, 127; Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, 202; Amoroso, L’impresa familiare, Padova, 1998; Menghini, Lavoro familiare e la- voro nell’impresa familiare, in Carinci (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, in Cester (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, Torino, 1998. (9) Nunin, Convivenza more uxorio e inapplicabilità dell’art. 230 bis c.c., cit., 328. (10) Cass. 2 maggio 1994, n. 4204, con nota di Balestra, in Giur. it., I, 1995, 844. (11) Cass. 2 maggio 1994, n. 4204; In dottrina v., Balestra, La famiglia di fatto, in Ferrando (a cura di), Il nuovo diritto di famiglia, II, Bologna, 2008, 1047; D’Angeli, La famiglia di fatto, cit., 468 ss. (12) Sulle attribuzioni patrimoniali tra conviventi v., Colella, Rapporti patrimoniali tra conviventi e uso dello strumento contrattuale, in Fam. pers. succ., 11, 2012, 749; Balestra, La famiglia di fatto, cit., 1047; Proto, Le attribuzioni patrimoniali tra conviventi fuori dal matrimonio, in Fam. pers. succ., 2006, 3, 258; Zoppini, Tentativo d’inventario per il ‘nuovo’ diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, 4; Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, 959 ss.; Balestra, I rapporti patrimoniali tra Famiglia e diritto 11/2014 997 Giurisprudenza Diritto del lavoro Ciò che sembra così naturale, crea non pochi ostacoli nella risoluzione di quei conflitti che puntualmente nascono alla fine della relazione amorosa e che vedono una parte pretendere dall’altra trattamenti economici pregressi, senza aver mai preteso nulla prima, quando la comunanza di vita era ancora in essere. 3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali. L’impostazione tradizionale Concettualmente non vi è incompatibilità tra la subordinazione e la prestazione lavorativa svolta nella comunità familiare, semplicemente si ritiene che il sentimento di solidarietà che lega i conviventi sia prevalente da un punto di vista sociale rispetto ai caratteri della subordinazione, ed è per questo che la giurisprudenza ammette l’esistenza di una presunzione di gratuità, che può essere superata solo dalla prova rigorosa e precisa circa la sussistenza degli elementi oggettivi del rapporto di lavoro subordinato. Anche con riguardo alla convivenza more uxorio si ammette la presunzione di gratuità, dato che anche tra i conviventi si forma una comunanza di vita e di interessi, comunanza che deve essere spirituale ed economica e che non può risolversi in un mero rapporto affettivo e sessuale. Si tratta pur sempre di una presunzione relativa che può essere superata dalla prova contraria fornita da chi afferma l’esistenza della subordinazione e dell’onerosità. L’onere della prova può essere assolto anche mediante presunzioni, ovvero un insieme di indizi che valutati complessivamente conducano al superamento della presunzione di gratuità (13). Secondo tale orientamento, le prestazioni di lavoro rese tra conviventi si presumono effettuate affectionis vel benevolentiae causa, e quindi gratuitamente, sia in virtù delle suddette considerazioni, sia per la mancanza di tutti gli elementi conviventi, in Aa. Vv., a cura di, Convivenza e situazioni di fatto, in Ferrando, Fortino, Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, Milano, 2002, 836 ss.; Ferrando, Gli accordi di convivenza: esperienze a confronto, in Riv. critica dir. priv., 2000, 163 ss.; Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno restituiti alla fine della convivenza?, in questa Rivista, 2000, III, 284; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in questa Rivista, 1998, 183; Amoroso, L’impresa familiare, cit., 82; Menghini, Lavoro familiare e lavoro nell’impresa familiare, cit., 79; Mazzocca, Rapporti patrimoniali tra coniugi e tra conviventi, Milano, 1994, 127 ss.; Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 156 ss.; G. B. Ferri, Qualificazione giuridica e validità delle attribuzioni patrimoniali alla concubina, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1969, II, 403 ss. (ora in Saggi al diritto civile, Rimini, 998 costituitivi del rapporto di lavoro subordinato (14). Secondo l’impostazione tradizionale, per tutelare le prestazioni lavorative rese da un convivente a favore dell’altro, qualora esse non siano riconducibili all’area del rapporto di lavoro subordinato, si dovrebbe invocare l’istituto dell’arricchimento senza causa. Mentre nei rapporti familiari la presunzione di gratuità è stata superata dall’introduzione dell’art. 230 bis. c.c., per i conviventi il problema è rimasto. Tuttavia, così come per il matrimonio, anche nella convivenza le prestazioni lavorative sono condizionate dall’elemento dell’affectio e difficilmente possono esser ricondotte nell’ambito del lavoro subordinato. La dottrina e la giurisprudenza più moderne sono orientate ad accantonare il rimedio dell’arricchimento senza causa e favorevoli ad un estensione analogica dell’ambito di applicazione della disciplina del lavoro familiare. Indagando la ratio dell’art. 230 bis c.c., emerge che lo scopo della disciplina è quello di eliminare gli abusi e gli sfruttamenti che in passato hanno caratterizzato le prestazioni di lavoro all’interno della famiglia. Le medesime situazioni si possono ripresentare negli stessi termini anche tra conviventi e dunque appare logica l’applicazione analogica dell’art. 230 bis c.c. alla famiglia di fatto, in quanto la norma è rivolta a tutelare il lavoro reso all’interno di una comunità fondata sulla solidarietà degli affetti (15). La presunzione di gratuità del lavoro prestato a favore del convivente prescinde dalla durata della convivenza e dalla sua limitazione al periodo di svolgimento delle prestazioni lavorative, bastando una comunanza di vita e di interessi ad escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e quindi oneroso (16). Come già detto, è ammessa la prova contraria che deve essere rigorosa a precisa e deve dimostrare la sussistenza della continuità del rapporto, della 1993, 123 ss.; Jannarelli, Lavoro nella famiglia, lavoro nell’impresa familiare e famiglia di fatto, cit., 1831. (13) Cass. 24 marzo 1977, n. 1161, in Riv. giur. lav., III, 1977, 1058. (14) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, in Riv. giur. lav., III, 1977, 1058; Vacca, Le prestazioni di lavoro nella convivenza more-uxorio, in Temi Romana, 1983, 238. (15) Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir. priv., III, 2000, 469; Bile, La famiglia di fatto: profili patrimoniali, in Aa. Vv., La famiglia di fatto, Montereggio, 1977, 91 ss. (16) Cass. 7 giugno 1978, n. 2856, in Riv. dir. lav., 1980, 198. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Diritto del lavoro subordinazione e del c.d. animus contrahendi, ovvero la volontà delle parti di porre in essere un rapporto di lavoro subordinato (17). Inoltre, la presunzione di gratuità non opera in presenza di una semplice relazione sentimentale, bensì occorre che tra le parti sia instaurato un rapporto di convivenza (c.d. famiglia di fatto), e che sia rigorosamente dimostrata la comunanza di vita e di interessi tra i conviventi con la partecipazione effettiva ed equa delle parti alle risorse della famiglia di fatto (18). Il diritto alla retribuzione non potrebbe essere negato se le prestazioni lavorative fosse state rese prima dell’inizio della convivenza così come nel caso in cui la convivenza rappresenti solo un elemento secondario e accessorio rispetto alle prestazioni lavorative (19). Più recentemente è stata superata la presunzione di gratuità del lavoro nell’impresa del convivente, ma si trattava di una collaborazione professionale svolta in modo continuativo in cui era stata dimostrata l’attività svolta e l’assenza di un compenso per la stessa (20). Tale impostazione, che nega l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. al convivente, rendendo difficile la tutela di queste situazioni, peraltro sempre più frequenti con l’evolversi degli usi e dei modelli sociali, si scontra con la posizione tradizionale che riconosce l’esistenza di una presunzione di gratuità e presuppone che sia fornita la prova della subordinazione, per niente agevole da fornire in tali circostanze (21). 4. L’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale più recente La presunzione di gratuità dovrebbe ritenersi superata alla luce dell’art. 230 bis c.c. che, tutelando il familiare prestatore d’opera, prevede per quest’ultimo una remunerazione del proprio lavoro, caratterizzata dal carattere dell’onerosità, consistente nel diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili (22). Lo stesso dovrebbe valere per i conviventi more uxorio, in quanto alla base della convivenza vi è la (17) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1059. (18) Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 278. (19) Vacca, Le prestazioni di lavoro nella convivenza moreuxorio, cit., 240. (20) Trib. Palermo 3 settembre 1999. (21) Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno Famiglia e diritto 11/2014 stessa comunanza di vita, di affetti e di interessi che sottende al matrimonio e ciò dovrebbe condurre all’applicazione analogica dei principi che regolano la famiglia legittima alla famiglia di fatto, ma si è obbiettato che, essendo l’art. 230 bis c.c., una norma speciale, non è ammessa l’estensione del suo ambito di applicazione. Tuttavia, la presunzione di gratuità è comunque superabile, anche per i conviventi more uxorio, in virtù della norma stessa, che ammette la possibilità di instaurare rapporti di lavoro subordinato, in quanto per niente incompatibili con l’affectio coniugalis (23). La dimostrazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio non è per nulla agevole, tanto che pur in presenza di prestazioni lavorative continuative nel corso degli anni la giurisprudenza afferma che ciò non basta a dimostrare la subordinazione in quanto tali circostanze non sono “indici rivelatori chiari ed univoci di un assoggettamento al datore di lavoro e al suo predominio gerarchico” e nemmeno il fatto che le prestazioni lavorative siano rese nell’interesse del datore di lavoro e nell’ambito della sua organizzazione aziendale può di per sé comportare la subordinazione, in quanto il rapporto personale di due conviventi mal si concilia con l’esistenza di una gerarchia sul piano lavorativo. Dunque, le prestazioni rese da chi è sentimentalmente legato al datore di lavoro escludono di per sé l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, mentre potrebbero configurare un rapporto di lavoro parasubordinato di collaborazione coordinata e continuativa, che comunque consentirebbe il superamento della tradizionale presunzione di gratuità (24). Con il passare degli anni, parte della giurisprudenza, anche se ancora minoritaria, è arrivata ad ammettere che l’attività lavorativa prestata a favore del convivente possa essere ricondotta alla fattispecie delineata dall’art. 230 bis c.c., sulla base del presupposto che la famiglia di fatto è una formazione sociale atipica costituzionalmente rilevante ex art. 2 Cost. La fattispecie dell’impresa familiare ha carattere residuale, come si evince dalla norma stessa che la disciplina. Lo scopo del restituiti alla fine della convivenza?, cit., 284. (22) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1063. (23) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 1064. (24) Bernardini, Rapporto di lavoro, o di collaborazione “parasubordinata”, e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), cit., 283. 999 Giurisprudenza Diritto del lavoro legislatore è stato quello di coprire tutte quelle situazioni di prestazione d’opera lavorativa nell’impresa familiare che non corrispondono alla fattispecie di lavoro subordinato, in modo da ridurre l’area del lavoro familiare gratuito. Pertanto, l’attività lavorativa svolta nell’impresa di un familiare, a cui corrisponde il pagamento di un compenso da parte del titolare, comporta il dover operare una distinzione a seconda che si versi nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o in quello della partecipazione all’impresa familiare. Tale principio è pacificamente ritenuto valido anche per la famiglia di fatto. Solo al di fuori di questa ipotesi, la prestazione lavorativa resa a favore del convinte rimane riconducibile a vincoli di solidarietà e di affettività e quindi caratterizzata dalla gratuità. Tutto ciò risponde al tradizionale principio per cui la convivenza tra le parti di un rapporto di lavoro giustifica la presunzione di gratuità, sul presupposto che la prestazione lavorativa sia resa affectionis vel benevolentiae causae, mentre in caso di soggetti non conviventi, seppure legati da affetto familiare o parentela, entra in gioco la presunzione di onerosità del rapporto di lavoro. Per poter estendere la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una convivenza more uxorio, occorre dimostrare che vi sia una comunanza spirituale ed economica analoga a quella che assiste il matrimonio, e che non si tratti semplicemente di un rapporto affettivo e sessuale, ma che abbia un certo grado di stabilità e certezza tipico di una comunanza di vita e di interessi, e che vi sia un’effettiva partecipazione della convivente alle risorse della famiglia di fatto. Una volta accertato ciò, tenendo conto dei limiti derivanti dalla disciplina dell’impresa familiare, opera la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in favore del convivente more uxorio, mentre grava su chi richiede il ricono- scimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’onere di provare in modo rigoroso la sussistenza degli elementi costituitivi della subordinazione e dell’onerosità (25). Diversamente, la convivenza sarebbe un fatto del tutto irrilevante, in quanto accidentale e marginale (26). Nello stesso modo, ove venga accertato il difetto della convivenza tra le parti, e dunque sia da escludere l’operare della presunzione di gratuità, non opera ipso iure la presunzione di segno opposto dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, che deve essere provato in modo preciso e rigoroso nei suoi elementi costitutivi (27). In conclusione, le prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio, rientrano tra le prestazioni di cortesia e di solidarietà gratuite, salvo che venga fornita la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare (28). (25) Cass. 15 marzo 2006, n. 5632, con nota di Scarano, in Fam. pers. succ., 2006, VIII-IX, 749; Stoppioni, Rapporto d’impresa familiare e convivenza more uxorio, in Fam. pers. succ., 2006, XII, 995; Cass. 17 luglio 1979, n. 4221, con nota di Paleologo, Novità in materia di lavoro della convivente more uxorio?, in Riv. giur. lav., 1979, II-III, 891; Cass. 26 gennaio 2009, n. 1833, in Dir. prat. lav., 2009, 24, 1428; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3602; Cass. 3 luglio 2012, n. 11089. (26) Paleologo, Gratuità o onerosità del lavoro della convivente more uxorio?, cit., 893. (27) Cass. 2 agosto 2010, n. 17992, con nota di Lamberti, Lavoro domestico “alla pari” e lavoro reso affectio vel benevolentia senza convivenza: rilevanza e prova della subordinazione, in Giur. it., 2011, III, 2331. (28) Stoppioni, op. cit., 995; Cass. 6 agosto 2003, n. 11881, in Mass. Giur. lav., 2004, 6, 62, in cui si precisa che la disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. si applica solo alle imprese individuali mentre no si applica alle imprese collettive e sociali in quanto non è configurabile la coesistenza di un rapporto fondato sul contratto di società e uno derivante da un vincolo familiare; contra: Cass. 19 ottobre 2000, n. 13861, con nota di Pinzone, Società di persone ed ammissibilità della tutela ex art. 230 bis c.c. a favore de familiare di uno dei soci, in questa Rivista, 2002, II, 162, e Cass. 23 settembre 2004, n. 19116, in Lav. giur., 2005, 3, 284, in cui si afferma che “il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall’art. 230 bis c.c., anche se l’impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230 bis c.c. nei limiti della quota societaria”. (29) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, in Fam. pers. succ., 2011, II, 87. 1000 5. Conclusioni Non è per niente semplice fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato nell’ambito di un rapporto sentimentale intenso e stabile, che si realizza nella convivenza tra due persone, data l’autorità che contraddistingue la figura del datore di lavoro e la soggezione del lavoratore al potere di questo. I due profili, quello professionale – autoritario e quello affettivo, sembrano inconciliabili e di certo non facilmente dimostrabili, a meno di una invasione della sfera sentimentale e della vita di coppia (29). Il problema sorge alla fine della relazione sentimentale, quando emergono pretese economiche di una parte nei confronti dell’altra per attività lavorative svolte in pendenza del vincolo personale. Nulla quaestio invece nel caso in cui due persone Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Diritto del lavoro dichiarino di impostare il loro rapporto professionale come lavoro subordinato, stipulando apposito contratto, indipendentemente dai legami personali. In quest’ultima ipotesi il rapporto di lavoro subordinato è effettivo e non può essere desunta nessuna presunzione di gratuità dalla convivenza (30). La presunzione di gratuità è automaticamente esclusa in difetto di convivenza, peraltro, senza che in tal caso operi la presunzione opposta di subordinazione e onerosità (31). In realtà, sembra che venga data fin troppa importanza alla circostanza della convivenza, in quanto ben vi possono essere legami affettivi seri, stabili ed altrettanto intensi anche tra due persone che non vivono insieme (32). Il quesito a cui risponde la sentenza della Corte d’appello di Bologna riguarda l’ammissibilità o meno di una qualificazione ex art. 2094 c.c. di comportamenti sorti originariamente in modo spontaneo e volontario. La risposta è negativa, in quanto, se una persona legata da vincoli affettivi ad un’altra svolge delle prestazioni lavorative a favore dell’attività di quest’ultima senza mai percepire e richiedere alcun compenso, emerge chiaramente la volontà di collocare tale comportamento al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato e non è possibile riportare a posteriori nell’area del lavoro subordinato qualcosa che ad essa non è mai appartenuto, proprio per una scelta delle parti di quel rapporto, che erano chiaramente mosse da fini del tutto diversi da quelli professionali (33). Come già detto, l’elemento distintivo è dato dalla previsione o meno di un compenso, e se le prestazioni d’opera sono state rese volontariamente e gratuitamente non fa differenza che tra la parti intercorra un legame di fidanzamento, innamoramento, convivenza o matrimonio (34). Alla luce di ciò l’art. 230 bis c.c. dovrebbe ritenersi applicabile non solo alle convivenze more uxorio, come già affermato dalla giurisprudenza sulla base di una lettura estensiva della norma, ma anche a qualunque altro vincolo affettivo dotato dei caratteri della intensità e stabilità, al fine di evitare situazioni di sfruttamento economico fra persone legate da vincoli sentimentali (35). Pertanto, si ritiene che alla fine di una relazione sentimentale, qualora una parte chieda che venga riconosciuta la natura professionale della collaborazione antecedentemente prestata a favore del fidanzato, convivente o coniuge, non essendo possibile ricondurre la fattispecie nell’alveo del lavoro subordinato, stante l’originaria gratuità e il fine morale e di benevolenza, si debba applicare la tutela prevista dall’art. 230 bis c.c., il cui presupposto è proprio la spontaneità della collaborazione (36). In linea con la giurisprudenza e la dottrina più recenti, le prestazioni lavorative rese nell’impresa del convivente more uxorio, prive fin dall’origine della collaborazione dei caratteri della subordinazione e dell’onerosità, non rientrano nella fattispecie del lavoro subordinato. Tali prestazioni lavorative si presumono effettuate affectionis vel benevolentiae causa, quando rese in modo non continuativo, volontario e gratuito. Nel caso posto all’attenzione della Corte d’appello di Bologna, emerge che la stessa signora non si è mai considerata una dipendente del bar- ristorante del convivente, tanto che la stessa non ha mai chiesto prima di ricevere una remunerazione e la fine della collaborazione è stata una conseguenza automatica della fine della convivenza. Pur non essendovi ostacoli alla configurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra conviventi more uxorio, non può essere dichiarata l’esistenza di tale rapporto professionale a posteriori, quando fino al protrarsi del legame sentimentale non si sia mai avanzata alcuna pretesa e il comportamento delle parti sia tale da rendere evidente il carattere morale e la finalità di assistenza e di solidarietà delle prestazioni lavorative rese a favore del convivente. La convivenza è un fenomeno sociale in continuo aumento, le famiglie di fatto sono sempre più numerose e, come nel matrimonio, il vincolo affettivo che lega le parti è stabile ed intenso, e, dunque, la questione non può rimanere priva di tutela, ma dovrebbe essere disciplinata dal nostro legislatore al pari del matrimonio. (30) Gragnoli, ne, cit., 88. (31) Gragnoli, ne, cit., 93. (32) Gragnoli, ne, cit., 92. (33) Gragnoli, ne, cit., 93. (34) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, cit., 92. (35) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, cit., 94; Balestra, La famiglia di fatto, cit., 1047 ss. (36) Gragnoli, Fidanzamento, matrimonio e subordinazione, cit., 94. Fidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazioFidanzamento, matrimonio e subordinazio- Famiglia e diritto 11/2014 1001 Giurisprudenza Diritto del lavoro Anzi, non dovrebbe essere diversa nemmeno la sorte dei fidanzati, stante l’identità di ratio che sottende la disciplina e il fatto che anche senza l’elemento della coabitazione, ben vi può essere un legame sentimentale forte e stabile, equiparabile a quello tra conviventi e coniugi. 1002 In conclusione, si condivide l’applicazione per analogia dell’art. 230 bis c.c. alle collaborazioni rese dal convivente more uxorio, qualora le parti non abbiano originariamente configurato il rapporto lavorativo come lavoro subordinato, caratterizzato per sua stessa natura dal requisito dell’onerosità. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Adozione Anonimato materno TRIBUNALE PER I MINORENNI DI FIRENZE, sez. civile, 7 maggio 2014, ord. – Pres. Laera – Rel. Pizzi Dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’anonimato materno (Corte cost. n. 278/2013) che non prevedeva che il giudice potesse disporre, con le dovute cautele, le necessarie ricerche, onde verificare l’attuale volontà del genitore biologico dell’adottato, se avesse ancora interesse a mantenere l’anonimato sulla propria identità, il Tribunale di Firenze, non ritenendo necessaria una nuova disposizione legislativa, trattandosi di diritti costituzionalmente tutelati derivanti dalla responsabilità genitoriale (art. 30 Cost.), accoglie il ricorso con cui un’adottata chiede che il giudice voglia interpellare la madre biologica al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato, legittimando in tal modo l’istante ad accedere alle informazioni che lo riguardano. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non constano precedenti conformi Difforme Non constano precedenti difformi Omissis visto il ricorso con cui B. M. chiede che il T.M. voglia “nelle forme che riterrà interpellare la madre biologica dell’istante al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato a suo tempo imposto, in caso di revoca concessa autorizzare l’istante ad accedere alle informazioni che riguardano l’identità della propria madre biologica”; vista la sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013 che ha riconosciuto il diritto dell’adottato di verificare se sia ancora interesse del genitore naturale mantenere l’anonimato sulla propria identità; ritenuto che la succitata sentenza produca conseguenze immediate nella sfera dei diritti dell’adottato dando facoltà al medesimo di verificare se ci sia ancora interesse del genitore naturale a mantenere l’anonimato sulla propria identità; P.Q.M. Delega il giudice relatore a disporre, con le dovute cautele, le necessarie ricerche atte a verificare l’attuale volontà della madre biologica della ricorrente. L’ADOTTATO ALLA RICERCA DELLA MADRE BIOLOGICA di Vincenzo Carbone Poiché la Corte costituzionale con sentenza del 22.11.2013, n. 278 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, come modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs. 30.6.2003, n. 296, che non riconosceva il diritto dell’adottato di verificare se sia ancora interesse del genitore naturale a mantenere l’anonimato sulla propria identità, il Tribunale per i minorenni di Firenze, ritenuto che la sentenza produca effetti immediati nella sfera dei diritti dell’adottato, ha accolto il ricorso di un’adottata che chiede di interpellare la propria madre biologica al fine di raccogliere l’eventuale revoca dell’anonimato, accedendo alle informazioni che la riguardano. 1. Attuazione diretta della decisione della Corte costituzionale da parte del Trib. min. Firenze. Nuove proposte di legge L’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Firenze merita di essere segnalata perché, a quanto consta, e lo rendono noto anche i giornali (1), costituisce il primo provvedimento giudiziale, su richiesta di una signora adottata, alla ricerca della madre biologica. Il Tribunale dà piena ed immediata attuazione alla sentenza della Corte costitu- (1) Corriere della sera 14.8.2014, con il titolo Adottata, cerca madre naturale. Il giudice ordina di rintracciarla. Famiglia e diritto 11/2014 1003 Giurisprudenza Adozione zionale 22.11.2013, n. 278 (2), che ha riconosciuto all’adottato, in funzione della responsabilità genitoriale sancita dall’art. 30 Cost., il diritto di accedere alle informazioni per identificare e interpellare la propria madre biologica al fine di accertare se abbia ancora interesse a mantenere l’anonimato. La rilevanza del provvedimento merita di essere oggetto di attenta riflessione. Infatti, l’ordinanza si sofferma, da una lato, sull’evoluzione del diritto vivente e sulle immediate ripercussioni sullo stesso delle decisioni che abrogano precedenti disposizioni normative, specie se contenenti divieti, ostativi a rapporti familiari e personali, come tra i casi più recenti, quello deciso da Corte cost. 10.6.2014, n. 162 (3) sull’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa in Italia, praticata in molti altri paesi, ovvero quello deciso da Corte cost. 11.6.2014, n. 170 sull’illegittimità del divorzio non richiesto, ma imposto per legge, nel caso di mutamento di sesso di uno dei coniugi, per cui le parti possono proseguire il rapporto di coppia (4), o ancora quello della richiamata Corte cost. 22.11.2013, n. 278 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. 4.5.1983, n. 184, come modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs. 30.6.2003 n. 296, perché non prevede la possibilità per il giudice, sul richiesta del figlio, di interpellare, con riservatezza, la madre che aveva chiesto l’anonimato, al fine di un’eventuale revoca della predetta dichiarazione di volontà. In tali casi, le sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale delle norme che impedivano determinati comportamenti della persona fisica, sia come singolo che come elemento della coppia, di carattere personale e non patrimoniale - come ricerca della maternità biologica o come fecondazione artificiale eterologa anche in Italia, o come prosecuzione del rapporto di coppia pur dopo il mutamento di sesso - producono effetti rilevanti ed immediati nella sfera giuridica del soggetto. In base a questo primo e rilevante impatto si sottolinea che dopo l’incostituzionalità della norma dichiarata da Corte cost. n. 278/2013, “nella sfera dei diritti dell’adottato” sorge direttamente ed immediatamente la facoltà, prima vietata, di verificare se ci siano le condizioni per superare l’anonimato materno, così da poter conoscere la propria madre biologica. Una simile situazione è avvenuta anche dopo l’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, così come riconosciuto dalla riunione di tutte le regioni d’Italia (5), senza bisogno di una nuova legge che concedesse la facoltà alla coppia di ricorrere alla fecondazione eterologa, prima vietata con una norma, cancellata perché ritenuta incostituzionale. In verità, occorre precisare che il Tribunale per i minorenni di Firenze aveva già dimostrato una spiccata sensibilità sulla problematica della ricerca del genitore da parte dell’adottato. Infatti, con ordinanza 21.2.2003 (6) aveva dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7 comma, l. 4.5.1983, n. 184, nella parte in cui esclude la possibilità per l’adottato di accedere alle informazioni sulle proprie origini, senza aver preventivamente accertato la persistente volontà di non voler essere nominato da parte del genitore biologico, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost. Senonché, dopo l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze del 2003, la norma contestata fu modificata dall’art. 177, comma 2 del d.lgs. 30.6.2003, n. 196 e la Corte cost. con decisione n. 184 del 10.6.2004 (7), preso atto dell’intervenuta modifica normativa, restituì gli atti al Tribunale (2) Corte cost. 22.11.2013, n. 278, in questa Rivista, 2014, 1, 11 ss., con nota di Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno, in Foro it., 2014, I, 4, con nota di Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla conoscenza delle origini, in Guida al dir., 2013, 49, 14, con nota di Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere di restare nell’anonimato. (3) È costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 3, legge n. 40 del 2004, nella parte in cui stabiliva il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, anche in presenza di patologie che siano causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili della fecondazione eterologa. La sentenza della Corte cost. è pubblicata in questa Rivista, 2014, 753, con nota di Carbone, Sterilità della coppia. Fecondazione eterologa anche in Italia. (4) Sono incostituzionali gli artt. 2 e 4, l. n. 164 del 1982 nel caso in cui non sia permesso ai due coniugi, in seguito al cambio di sesso di uno dei due, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, sempre ove entrambi lo richiedano. La sentenza della Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170, è pubblicata in Dir. e giur. comm., 2014, 4, 1 ss., con nota di Carbone, Il marito cambia sesso. La rettifica dello stato civile impone il divorzio ma le parti possono mantenere il rapporto di coppia. (5) La notizia di un accordo delle Regioni che hanno approvato le linee guida della fecondazione eterologa, in La Stampa e in La Repubblica del 3.9.2014. (6) Trib. minorenni Firenze 21 febbraio 2003, in Foro it., 2004, I, 975. (7) Corte cost. 10 giugno 2004, n. 184, in Raccolta ufficiale, CXL, II, 2004, 697 ss.: A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 177, 2° comma, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, deve essere disposta la restituzione al giudice a quo, per un riesame della rilevanza, degli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7° comma, l. 4 maggio 1983, n. 184, nel testo sostituito dall’art. 24 l. 28 marzo 2001, n. 149, nella parte in cui prevede che l’accesso alle informazioni non è consentito 1004 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Adozione perché valutasse se, nel giudizio a quo, si dovesse applicare il vecchio o il nuovo testo. Il Tribunale per i minorenni di Firenze, con ordinanza 21.7.2004, ripropose il problema di costituzionalità, ma la Corte cost. con sentenza del 16.11.2005, n. 425 (8) dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. 4.5.1983, n. 184 («diritto del minore ad una famiglia»), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 («codice in materia di protezione di dati personali»), sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui escludeva la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata, da parte della madre biologica. Il Tribunale per i minorenni di Firenze (9) ne prende atto, precisando però che l’adottato può accedere a qualunque atto relativo alle proprie origini, purché siano occultati il nome della madre ed ogni altro elemento che possa riferirsi a persona identificata direttamente o identificabile indirettamente. Si tratta di un’interpretazione evolutiva che ha non poco influito sulla giurisprudenza successiva fino alla sentenza n. 278 del 2013 della Corte costituzionale, tenuto anche conto delle ripercussioni della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 25 settembre 2012, sul “Caso Godelli” (10), che ha condannato l’Italia per il sistema rigido di protezione dell’anonimato materno, a differenza di quello francese, più elastico, che aveva evitato la condanna della Francia, nel “Caso Odièvre” (11), affermando che il figlio, anche se abbandonato e poi adottato, ha diritto ad avere informazioni sui propri genitori biologici, a cominciare dalla madre, diritto che tende a prevalere sull’anonimato della madre, specie dopo la l. n. 219/2012 che considera tutti i figli uguali senza distinzioni o aggettivi, essendo unica la responsabilità genitoriale. Oltre al citato art. 30 della Costituzione, va richiamato anche l’art. 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi del quale “qualsiasi persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non è ammessa l’ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto, tranne che nel caso in cui l’ingerenza medesima sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica è necessaria alla difesa nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.” (12). Applicando questa norma a partire dal “Caso Gaskin” (13) la Corte europea è sempre venuta incontro all’interesse del minore alla ricerca della madre affermando che, nel caso di donna che abbia scelto di partorire nell’anonimato, occorre dare delle possibilità al figlio, adottato da terzi e divenuto adulto, di chiedere l’accesso a informazioni identificative sulle sue origini familiari, verificando anche la persistenza della volontà della madre biologica di non voler essere identificata. Tanto premesso, la tesi della decisione in commento merita di essere condivisa. Tuttavia occorre se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo, in riferimento agli art. 2, 3, 32 Cost. (8) Corte cost. 16 novembre 2005, n. 425, in Raccolta ufficiale, CXLI, VI, 2005, 171 ss., in questa Rivista, 2006, 139, con nota di Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, in Familia, 2006, 161, con nota di Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Fam., pers. e succ., 2006, 884, con nota di Carletti, Accesso dell’adottato alle informazioni sulle proprie origini: legittimo il divieto ove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, in Giur. cost., 2005, 4602, con nota di Cozzi, La Corte costituzionale e il diritto di conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo: un bilanciamento diverso da quello della CEDU?, in Giur. it., 2006, 1801, con nota di Marzucchi, Dei rapporti tra l’identità dell’adottato e la riservatezza del genitore naturale, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 545, con nota di Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: costituzionalmente legittimi i limiti nel caso di parto anonima. (9) Trib. minorenni Firenze 19.12.2007, in Foro it., 2008, I, 2038, in Famiglia e minori, 2008, 5, 76, con nota di Sansotta, in Minori giustizia, 2008, 2, 360, e con nota di Specchio, Il diritto dell’adottato di accesso alle informazioni concernenti la propria origine: un’interpretazione evolutiva da parte del tribunale minorile fiorentino. (10) Corte europea diritti dell’uomo 25.9.2012, in Nuova giur. civ., 2013, I, 103, con nota di Long; in questa Rivista, 2013, 537, con nota di Currò; in Giust. civ., 2013, I, 1597, con nota di Ingenito; in Corr. giur., 2013, 940, con nota di Carbone, Corte EDU: conflitto tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini. (11) Corte europea dei diritti dell’Uomo 13 febbraio 2003, in Giust. civ., 2004, I, 2177, con nota di Piccinni, La Corte europea dei diritti dell’Uomo e il divieto di ricerca della maternità naturale. (12) Margaria, Parto anonimo e accesso alle origini: la corte europea dei diritti dell’uomo condanna la legge italiana, in Minori giustizia, 2013, 2, 340; Arena, La corte europea dei diritti dell’uomo e il nostro diritto di famiglia: strutture portanti di una strada in salita, in Stato civile it., 2014, 2, 16. (13) Corte europea diritti dell’uomo 7.7.1989, in Foro it., 1990, IV, 506. Famiglia e diritto 11/2014 1005 Giurisprudenza Adozione dar conto che sono state presentate in Parlamento e precisamente alla Camera dei deputati sei proposte di legge sul problema dell’interpello della donna in ordine alla prosecuzione dell’anonimato materno. Le prime due sono precedenti alla sentenza della Corte costituzionale del 22.11.2013, n. 278, ma successive alla questione di costituzionalità sollevata Tribunale dei Minorenni di Catanzaro del 13 dicembre 2012 (14), e sono rappresentate dalla proposta di legge n. 784 del 16.4.2013 (15) diretta a chiedere ai genitori biologici “il loro consenso al superamento dell’anonimato” e la proposta di legge n. 1343 del 10.7.2013 (16) che prevede la possibilità di rinunzia all’anonimato materno. Le altre quattro proposte di legge, di poco successive alla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, si riportano alla predetta decisione n. 278/2013, nonché a lla decisione Cedu del 25.9.2012 sul “Caso Godelli”, ma ritengono necessaria per consentire l’accesso al figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini, una nuova normativa che aggiorni l’art. 28 della l. 4.5.1983, n. 184 e successive modificazioni, sia pur nel rispetto della persistenza del diritto all’anonimato materno, con i limiti dovuti al possibile ripensamento della donna. Inoltre, bisogna dare atto che, in due proposte di legge, si aggiunge per la prima volta anche un nuovo, determinante, elemento normativo a favore del figlio per il superamento dell’anonimato materno: il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini quando abbia raggiunto l’età di quaranta anni. Correttamente e opportunamente il Tribunale per i minorenni di Firenze ha ritenuto di poter operare, rispetto alla richiesta del cittadino a tutela del suo diritto costituzionalmente protetto, senza dover attendere modifiche legislative, applicando immediatamente la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7, dell’art. 28 della l. 4.5.1983, n. 184, come modificato dall’art. 177, comma 2 del d.lgs. 30.6.2003, n. 296, nei limiti della predetta pronuncia di incostituzionalità, che riconoscere il diritto dell’adottato di accedere alle informazioni per identificare e interpellare la propria madre biologica onde accertare se abbia ancora interesse a mantenere l’anonimato, senza dover attendere modifiche legislative. La tesi adottata dal Tribunale di Firenze che ritiene non necessaria la modifica normativa per rendere immediatamente operante la pronuncia della Corte costituzionale, di abrogazione, totale o parziale, di una norma che imponeva un divieto al diritto del cittadino di conoscere le proprie origini, si contrappone al richiamato indirizzo normativo, significativamente segnalato, che emerge dalle quattro proposte di legge presentate subito dopo la richiamata decisione della Corte costituzionale e cioè la proposta di legge n.1874 del 3.12.2013 (17), la proposta di legge n. 1901 del 19.12.2013 (18), la proposta di legge n. 1983 del 23.1.2014 (19), e, infine, la proposta di legge n. 1989 del 23.1.2014 (20), ispirate a modifiche normative come diretta conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale. In due delle ricordate proposte si afferma che “l’adottato non riconosciuto alla nascita”, raggiunti i 25 anni, può chiedere al Tribunale dei minorenni che ha pronunciato la sua adozione “di incontrare la donna che lo ha partorito” ove “abbia precedentemente manifestato la propria disponibilità all’incontro” (proposta di legge n. 1989/2014). Ovvero “che l’accesso alle informazioni è subordinato alla rimozione del segreto” da parte della madre (proposta di legge n. 1874 del 3.12.2013). Soltanto in altre due delle richiamate proposte di legge compare, in particolare, un dato normativo, del tutto nuovo, rispetto alla sentenza della Corte costituzionale, e cioè il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e l’identità dei genitori, nonostante l’anonimato materno, dopo aver compiuto quaranta anni. Si legge, infatti, che l’adottato, superati i 25 anni, può accedere alle informazioni che riguardano le sue origini, tranne il ca- (14) Tribunale dei minorenni di Catanzaro 13 dicembre 2012, in questa Rivista, 2013, 817, con nota di Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato? (15) Camera dei deputati, proposta di legge n. 784 del 16.4.2013 da parte dei deputati Bossa, Murer, Argentin e Sbrollini. (16) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1343 del 10.7.2013 da parte dei deputati Campana, Amodio, Manzi. Marroni e Mattiellio. (17) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1874 del 3.12.2013 da parte dei deputati Marzano. Gribaudo, G.Guerini, L. Guerini, Guerra, Iacono, Iori, Laforgia, Malpezzi, Martelli, Martino, Morani, Nesi, Paris, Pastorino, Rotta, Rubinato, Tentori, Tinagli. (18) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1901 del 19.12.2013 da parte del deputato Sarro. (19) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1983 del 22.1.2014 da parte dei deputati Cesaro, Romano, D’Agostino, Dambruoso, Galgano, Mazziotti di Celso, Molea, Rabino, Sottanelli Tinagli, Vecchio, Vargiu, Vezzali, Zanetti, Formisano, Nesi, Nissoli. (20) Camera dei deputati, proposta di legge n. 1989 del 23.1.2014 da parte del deputato Rossomando. 1006 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Adozione so di diniego da parte della madre”, in tal caso “il tribunale può autorizzare l’accesso alle informazioni di carattere sanitario”... restando disponibile ad una rimozione successiva da parte della madre naturale già interpellata” e precisando che “le informazioni sono dovute quando la madre risulta deceduta o irreperibile o incapace di intendere e di volere”, “e in ogni caso al raggiungimento del quarantesimo anno di età” dell’adottato (art. 1, commi 7 e 8, proposta n. 1983/2014). Anche nella proposta di legge n. 1901 del 19.12.2013 si legge che “in ogni caso l’adottato, che non è stato riconosciuto alla nascita dalla madre che non voleva essere identificata, “al compimento del quarantesimo anno di età, accede liberamente ad ogni informazione riguardante la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”. Si tratta di due proposte di legge che non si sa se diventeranno mai legge, ma era importante sottolinearne la sentita esigenza di rendere attuale e operante il diritto dell’adottato a superare l’anonimato materno, introducendo nelle richiamate proposte un dato normativo del tutto nuovo, favorevole alla ricerca dei genitori biologici e in particolare della madre. In definitiva, nel bilanciamento dei rispettivi diritti, tra quello dell’anonimato materno e quello del minore procreato, ma non riconosciuto e non curato - in violazione della responsabilità genitoriale che impone ai genitori il “dovere” oltre che il “diritto” di “mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio” - comincia ad emergere, anche a seguito della nuova legge sulla filiazione che ha introdotto il principio che tutti i figli sono eguali senza distinzioni, il diritto del figlio, procreato e trascurato, perché nato al di fuori del matrimonio, abbandonato e poi adottato, a conoscere chi lo ha biologicamente fatto nascere, specie oggi che i progressi della scienza consentono, attraverso il DNA, di accertare, attraverso il richiamo cromosomico, i genitori biologici effettivi. 2. Una breccia nel diritto all’anonimato materno nel contesto evolutivo della famiglia Al di là del ricordo di Edipo figlio adottivo e re carismatico, che nella tragedia di Sofocle (21), apprende l’orrenda verità sul suo passato di aver, sen(21) Luzzato, Tebe e Corinto: adozione e conoscenza delle origini, in Minori e giustizia 2011, 74 ss. (22) Grosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il Famiglia e diritto 11/2014 za saperlo, ucciso il padre per poi generare figli con la madre, bisogna prendere atto che la normativa sul diritto all’anonimato materno, tuttora vigente in Italia, ha radici antiche. La ratio evidente era quella, sia di evitare l’aborto e dar vita al fanciullo di cui altri si sarebbero presi cura e sostegno, allevandolo e dandolo, se richiesto, in adozione, sia di evitare di rovinare la reputazione ad una giovane ragazza o ad una donna sposata. Su queste basi la società civile, d’accordo con la chiesa che ripudiava l’aborto, si occupava dei minori abbandonati e si può ricordare il regio decreto legge 8 maggio 1927, n.798, convertito in legge 6 dicembre 1928, n. 2838 (servizio di assistenza dei fanciulli illegittimi, abbandonati o esposti all’abbandono) (22), di poco precedente il primo concordato tra lo stato italiano e la chiesa cattolica dell’11 febbraio 1929, anche se si ribadiva, sin da allora, quando la vita era più breve, una durata secolare dell’anonimato, con regole normative già presenti nell’ordinamento dello stato civile del 9 luglio 1939, n. 1238. I figli illegittimi, venivano abbandonati sulle ruote girevoli, predisposte ed approntate dalla società civile dell’epoca, affidandoli ad altri soggetti che li allevavano e accudivano, al di fuori della famiglia legittima con cognomi all’epoca diffusi come si è già ricordato nel precedente commento alla sentenza della Corte cost. Corte n. 278/2013, ma con la sofferenza dei figli illegittimi ben descritta da Collodi nel 1881, con la creazione di Pinocchio burattino di legno che manifesta le sofferenze e le difficoltà di chi sarebbe voluto nascere figlio legittimo o il dramma di De Filippo, in cui Filumena Marturano, non essendo stato ancora scoperto il DNA, non dice al coniuge qual è il figlio procreato con lui, in quanto, come dice oggi la legge 219/2012, tutti i figli sono uguali e senza differenze, o infine Topolino senza figli per i problemi di Walt Disney che, ritenendosi figlio illegittimo perché il certificato di nascita non fu mai trovato, decise che Topolino e consorte non avessero figli, optando per la soluzione dei nipoti. La tutela dell’anonimato era compatibile nella concezione precedente basata sulla sola famiglia legittima e sul far ricadere sui figli le colpe dei loro genitori. Infatti, i figli, se nati al di fuori del matrimonio, venivano chiamati illegittimi e se del caso adulterini (procreati al di fuori del matrimonio) o segreto del parto in anonimato? in questa Rivista, 2013, 8/9, 822 ss. 1007 Giurisprudenza Adozione anche incestuosi (perché nati da rapporti tra consanguinei), mentre adulterino o incestuoso era il rapporto orizzontale di coppia uomo-donna e non quello successivo e verticale tra i due genitori che dava luogo alla nascita del figlio che per tutta la vita riportava come propria la colpa dei suoi genitori (si pensi alle sofferenze oltre che di Pinocchio, di Leonardo da Vinci, figlio illegittimo del notaio locale e di una contadina che non poteva andare a scuola proprio perché nato fuori dal matrimonio). Il diritto all’anonimato, dopo il richiamo nell’art. 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozioni, è stato nel frattempo ulteriormente ribadito, sia dall’art.30 del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), in cui testualmente si riconosce “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”, sia dall’art. 93, comma 3 del t.u. d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, codice in materia di protezione dei dati personali in cui si afferma la validità della dichiarazione della madre di non voler essere nominata (23) e si consente l’accesso al certificato di assistenza del parto e alla cartella clinica solo dopo un secolo dalla loro formazione, cioè quando non ricorre più alcun interesse del figlio, avendo superato “cento anni” per conoscere la madre che, ove vivente, dovrebbe ormai essere ultracentenaria da almeno tre lustri. Sull’evoluzione del diritto all’anonimato, ribadito dall’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983 in tema di adozione, basta ricordare che è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevede la possibilità per il figlio, adottato, di poter interpellare, attraverso il giudice, la madre naturale, sia ai fini di revocare l’anonimato materno, sia per motivi di salute in relazione alle più moderne tecniche diagnostiche collegate a ricerche di tipo genetico. Infatti l’istituto dell’anonimato materno, collegato all’adozione, ha ricevuto in questi ultimi anni interventi della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (Caso Godelli, 25.9.2012) e della Corte costituzionale (20.11.2013, n. 278) che hanno aperto una breccia nel sistema a tutela del diritto dell’adottato di conoscere, quanto meno, se la madre voglia confermare e mantenere la dichiarazione di volontà di restare anonima. In realtà, in questi ultimi tempi, si va delineando, il superamento delle ragioni che hanno, in passato, militato a favore del segreto sull’identità del genitore biologico (24), nel contesto di una profonda trasformazione della famiglia dal modello patriarcale a quello nucleare in cui i singoli acquistano sempre più rilievo, per cui la giurisprudenza ricorre, nei momenti di crisi, alla solidarietà familiare e post-familiare (25). La crisi dell’anonimato materno ed i nuovi sviluppi della responsabilità genitoriale fanno parte del diritto di famiglia, un settore giuridico che si modifica ed aggiorna con grandi difficoltà, spesso solo con il ricambio generazionale, applicando vecchie regole e vecchi brocardi, nonostante l’accertato mutamento del contesto, anche per le intervenute scoperte scientifiche -si pensi al DNA- per cui legislatori e interpreti rinviano il cambio delle regole e si richiedono liberi spazi di riflessione per guadagnare tempo: il cd. rechtsfreier Raum. Bisognerebbe ricordare che solo alla fine degli anni sessanta si svolsero a Roma incontri e dibattiti per stabilire se la riforma del codice civile, specie dopo la Costituzione, con norme precettive e non programmatiche, dovesse essere totale, esaminando tutti i settori giuridici o bastasse, secondo l’opinione che prevalse, una revisione, un aggiornamento con la riforma parziale del solo libro I, sulla famiglia (26). Ne conseguì una prima riforma del diritto di famiglia, ricca di ben 240 articoli - dopo trentatré anni dal codice civile del 1942, e ventisette anni dalla Costituzione del 1948 - che modificò il libro primo del codice civile introducendo disposizioni in favore della parità uomo-donna, in presenza di un’uguaglianza “morale” e non solo “giuridica” (art. 29, comma 2, Cost.), ancorata alla famiglia legittima. È interessante notare che si pervenne al riconoscimento dei figli adulterini, ma non di quelli incestuosi, per i quali si è dovuto attendere altro tempo fino alla legge n. 219/2012 che ha previsto anche il riconoscimento di questi ultimi. Sempre in quest’ottica di interventi legislativi, occorre dare atto degli articoli 6 e 12 del decreto legge 12.9.2014, n. 132 (in Gazz. uff. n. 212 del 2014) in discussione al Senato per la conversione (23) Caggia, I trattamenti dei dati sulla salute, in Cuffaro ed altri, Il codice del trattamento dei dati personali, Torino, 2007, 437. (24) Restivo, L’art. 28 l. adozione tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, 691. (25) Carbone, Crisi della famiglia e principio di solidarietà, in questa Rivista 2012, 1165. (26) Gli atti furono pubblicati a cura di De Cupis, Giorgianni, Torrente, La riforma del codice civile, Roma, 1966. Sul punto cfr. anche Rescigno, Per una rilettura del codice civile, in Giur. it., 1968, IV, 205 ss.; Sacco, Il codice civile: un fossile legislativo? in Tratt. Sacco, Le fonti del diritto italiano, I, Le fonti scritte, Torino, 1998, 441 ss. 1008 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Adozione in legge (atto Senato n. 1612 rel. Cucca), si tenta di introdurre forme semplificate di separazione e divorzio, se non ci sono figli minori, in modo da concludere separazione o divorzio con l’aiuto degli avvocati e senza l’intervento dei giudici o direttamente dai soli coniugi innanzi all’ufficiale di stato civile (27). Non è stato ancora risolto il problema del cognome coniugale, se dev’essere quello maschile, secondo tradizione o dev’essere scelto dalle parti com’è diversamente disciplinato negli altri Paesi (28), tanto è vero che l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con decisione del 7.1.2014 (29). L’Italia però ha preso atto del richiamo e nello stesso anno, la Camera dei Deputati ha approvato, a scrutino segreto, il 24.9.2014, il testo unificato delle varie proposte di legge (30) in materia di attribuzione del cognome ai figli. Le modifiche più significative concernono: a) l’introduzione dell’art. 143 quater che lascia liberi i genitori, come il già ricordato § 1355 del BGB (Bürgerliches Gesetzbuch) di stabilire il cognome del figlio sull’accordo delle parti, indicando il cognome del padre o della madre o di entrambi in ordine alfabetico; b) la modifica dell’art. 262 del c.c. in tema di cognome del figlio nato fuori dl matrimonio, nel senso che se il riconoscimento dei genitori naturali è contemporaneo si applica l’art. 143 quater, come per i figli nati dal matrimonio, se invece il riconoscimento è fatto da un solo genitore ne assumerà il cognome. Nell’ipotesi di riconoscimenti successivi, il secondo si aggiungerà al primo, con il consenso del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento e dello stesso figlio se ha compiuto i 14 anni di età; c) la modifica dell’art. 299 c.c., nel senso che l’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio, con la precisazione che se ha due cognomi, indica quale cognome intende mantenere; d) una particolare disciplina procedurale è prevista per la scelta del cognome da parte del figlio maggiorenne cui era stato attribuito un solo cognome nel senso che può aggiungere il cognome dell’altro genitore con una dichiarazione resa personalmente all’ufficiale dello stato civile o con una dichiarazione con sottoscrizione autenticata. In proposito è opportuno rilevare che, mentre in tema di cognome coniugale, per la filiazione in costanza di matrimonio, siamo in attesa che diventi legge la proposta approvata dalla Camera, in prima lettura, ed ora inviata al Senato, regole diverse erano applicate dalla giurisprudenza sul cognome del figlio nato fuori dal matrimonio, quando la madre riconosce per prima il figlio e il successivo tardivo riconoscimento paterno poteva non essere considerato nell’interesse del figlio (31), ed ora siamo in attesa dell’entrata in vigore della progettata e richiamata modifica all’art. 262 c.c., approvata dalla Camera. La verità è che il diritto di famiglia non riesce a conformarsi al mutato contesto in cui opera, tant’è che per porvi rimedio il legislatore ha effettuato – dopo un’altra generazione (circa trent’anni) - una seconda riforma del diritto di famiglia all’insegna del principio “tutti i figli sono uguali senza aggettivi” con la l. 10.12.2012, n. 219 (32) e successivamente con il d.lgs. 28.12.2013, n. 154 (33), senza però coerentemente riconoscere il diritto del figlio a conoscere i propri genitori, specie la madre, di cui invece la legislazione ordinaria continua a ribadire il diritto all’anonimato tranne le ricordate proposte di legge n. 1983/2014 del 22.1.2014 e n. 1901/2013 del 19.12.2013. (27) Danovi, Il D.L. n. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in questa Rivista, 2014, 10, 949 ss.; Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sull’equivoco della “degiusidizionalizzazione”, in Corr. giur. 2014, 10, 1173 ss. (28) Il § 1355 del BGB stabilisce che sono i coniugi a scegliere il cognome coniugale. Anche in Francia dal 2003 il cognome non deriva dal matrimonio e non si trasmette dal padre ai figli. Nella Spagna, la l. n. 40/1999 regola il cognome dei figli con la particolarità del “doppio cognome”. (29) Corte europea dei diritti dell’uomo 7.1.2014 (Cusan e Fazio c. Italia), in questa Rivista, 2014, 205 ss., con nota di Carbone, La disciplina italiana del cognome dei figli nati dal matrimonio. (30) Atto Camera 360-1943-2044-2123-2407-2517. (31) Cass. 5.6.2013, n. 14232, in questa Rivista 2013, 11, 961, con nota di Forte, La disciplina del cognome del figlio nato fuori dal matrimonio. (32) La riforma della filiazione, in questa Rivista 2013, 221 ss.; Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 1 ss. (33) D.lgs. 28 dicembre 2013, n.154: completata la riforma della fiiazione, in questa Rivista, 2014, 5, 427 ss. (34) Palazzo, La filiazione, in Tratt. Cicu Messineo Mengoni Schlesinger, Milano, 2007, 177 ss. (35) Trucco, Anonimato della madre versus «identità» del figlio davanti alla corte costituzionale, in Dir. inf. e inf., 2006, 107 ss., specie 113. Famiglia e diritto 11/2014 3. Come in altri Paesi, anche in Italia emerge la responsabilità genitoriale per i figli nati fuori dal matrimonio Volendo procedere ad una sintetica comparazione (34) tra l’evoluzione di quanto accade in Italia e negli altri Paesi europei occorre prendere atto che l’anonimato è riconosciuto oltre che dall’Italia, anche da Malta, Austria, Repubblica Ceca e Lussemburgo (35). 1009 Giurisprudenza Adozione In Francia, gli art. 341 e 341-1 del code civil o code Napoleon, sono stati modificati con l. 8.1.1993 e poi con l. 23.1.2003, n. 93. Mentre la prima modifica, attraverso l’art. 341-1 tendeva a ribadire la riservatezza materna, potendo la donna al momento del parto chiedere che fosse mantenuto il segreto sia sulla sua ammissione nella struttura sanitaria sia sulla sua identità, con la legge successiva è stato creato un Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali, con la dovuta discrezione. Si è passati dal “parto anonimo” al “parto con discrezione” (36) perché la donna viene sollecitata a rimuovere con riservatezza il precedente anonimato, tenuto anche conto di possibili esigenze sanitarie. Significativa la creazione di un apposito organo indipendente formato da magistrati, da rappresentanti di associazioni ed esperti di rapporti minorili, i quali tendono a stabilire un equilibrio del rapporto madre-figlio, sollecitando, dopo tanto tempo, la rimozione del segreto sull’identità della propria madre con il consenso della stessa, evitando la persistenza di un diritto assolutamente discrezionale, contrario alla responsabilità genitoriale, come quello di mettere al mondo un figlio nella miseria e nella povertà, condannandolo per tutta la vita all’ignoranza del rapporto genitoriale. Spagna, Portogallo e Paesi Bassi riconoscono all’adottato il diritto a ricercare la madre e il padre per conoscere i soggetti che hanno dato luogo al rapporto biologico, come aspetto del diritto alla dignità umana e al libero sviluppo della persona (37). In Gran Bretagna, il Children Act del 1989 ha previsto che il minore adottato, attraverso appositi registri, divenuto maggiorenne, abbia diritto ad avere informazioni che lo riguardano (38). La Germania ha respinto alcuni progetti di legge sull’anonimato materno di fronte all’inequivoco testo del § 1591 del B.G.B. (Bürgerliches Gesetzbuch) secondo cui “Mutter eines Kindes ist die Frau die es geboren hat, cioè la madre di un figlio è la donna che lo ha procreato. Si ribadisce così il principio di diritto romano: Mater semper certa est. La riflessione di diritto comparato rileva che nella maggior parte dei paesi si tutela il diritto a conoscere le proprie origini biologiche, come un valore fondamentale dell’individuo avente ad oggetto lo sviluppo della propria personalità, detto anche diritto all’identità personale (39). Al contrario, in Italia si sono verificati contrasti che hanno ritardato applicazione dell’art. 30, comma 1, della Costituzione che prevede il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli “anche se nati fuori del matrimonio”, evitando che minori, assolutamente incolpevoli, siano discriminati (40). Il concetto era ben chiaro ai costituenti ed è opportuno ricordare che già in sede di assemblea costituente si fece presente la necessità di parificare i figli, senza distinzioni di sorta, affermando: “colui che mette al mondo dei figli assume il sacrosanto obbligo di mantenerli, istruirli ed educarli siano legittimi o illegittimi” (41). Non migliore sorte ha incontrato il comma 3 dell’art. 30 Cost., secondo cui la legge assicura “ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale” compatibile con i membri della famiglia legittima, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha preferito non interferire, qualificando siffatta norma, come programmatica e non precettiva, in quanto è la legge ordinaria a dover assicurare ai figli nati fuori dal matrimonio una tutela giuridica e sociale “compatibile” con i diritti dei membri della famiglia legittima (42). E l’ordinamento giuridico, solo dopo 64 anni dalla Costituzione del 1948, ha finalmente affermato, con l. 10.12.2012, n. 219 (43) e con il d.lgs. 28.12.2013, n. 154 che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico senza aggettivi e senza discriminazioni di sorta, principio al quale occorre dare immediata e piena attuazione, in tutti i settori. Dalle esposte considerazioni emerge che il contesto della vita familiare è profondamente mutato per una pluralità di cause, dalle scoperte scientifiche (DNA e inseminazione eterologa) ai mutamenti di costume di vita sociale (si pensi alla moda femminile quando la donna ebbe la possibilità di (36) Il concetto espresso nella sentenza della Corte europea dei diritto dell’Uomo, nel caso Odiévre, è illustrato in Palazzo, La filiazione, cit., 186. (37) Vale e Reis, The Right to Know One’s Genetic Origins, in European Review of Private Law, 2008, 5, 779. (38) Urso, L’adozione nel diritto anglo-americano fra problemi attuali e possibili opzioni per una riforma, in Riv. crit. dir. priv. 1996, 745 ss. (39) Petrone, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano, 2004, 85; Renda, L’accertamento della maternità: anonimato materno e responsabilità per la procreazione, in questa Rivista, 2004, 510, Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche, in Giur. it., 2001, 1768. (40) Bessone, Commento all’art. 30 Cost., in Commentario Branca, Bologna-Roma, 1976, 90 s. (41) Crisafulli Paladin, Commentario breve della Costituzione, Padova, 1990, 211. (42) Corte cost. 17.6.1987, n. 229, in Foro it., 1987, I, 2286, con nota di Jannarelli e in Giust. civ., 1987, I, 2454. (43) Carbone, Riforma della famiglia: considerazioni introduttive, in questa Rivista, 2013, 3, 225. 1010 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Adozione acquistare, da sola, anche i tessuti con l. 17.4.1919) dalla parità non solo giuridica, ma anche morale, tra uomo e donna secondo l’art. 29 Cost. alla responsabilità genitoriale anche per i figli nati fuori del matrimonio sancita dall’art. 30 Cost., per cui occorre che giudici ed interpreti ne tengano conto sulla base dell’insegnamento della Corte Costituzionale che si basa, non sul testo letterale della disposizione emanata dal legislatore, ma sull’evoluzione giurisprudenziale della stessa, su come la disposizione sia divenuta norma attraverso l’interpretazione e le applicazioni concrete, specie da parte del giudice di legittimità (44). Si perviene «all’interpretazione adeguatrice delle norme ordinarie» cioè al «diritto vivente», evocato nelle richiamate decisioni del giudice delle leggi, come «attualizzazione» della legge per il tramite dell’interpretazione «costituzionalmente orientata» da parte della giurisprudenza (45). Oggi l’interpretazione è costituzionalmente e comunitariamente “orientata”, così come voluta dall’art.117 Cost. dopo la modifica del 2001, (cfr. anche l’art.1 del nuovo codice del processo amministrativo del 2010), rendendo più attenta e sensibile l’opera dell’interprete che deve tener conto del mutato contesto in cui va ad operare, sebbene il testo normativo sia rimasto immutato, perché secondo l’insegnamento bettiano (46), il “diritto non é ma si fa”. 4. Considerazioni conclusive In conclusione, la tesi dell’anonimato materno, all’epoca maggioritaria, perché basata sull’impossibilità di parificare i figli nati fuori dal matrimonio ai figli legittimi, per i quali v’è sempre stato “un rapporto di parentela tra filiazione e famiglia legittima”, appare in contrasto sia con l’art. 30 della Cost. sulla genitorialità responsabile, sia con nuova legge 10.12.2012, n. 219, che ha introdotto il dovere di assicurare la stessa tutela giuridica e sociale a tutti i figli, senza distinzioni di sorta, in quanto frutto di uno stesso rapporto biologico genitore-figlio che non può essere differenziato, ponendo a carico e a danno dei figli, nati fuori del matrimo(44) Corte cost. 10.2.1981, n. 11, in Racc., 1981, LVII, 67 ss., ma già Corte cost. 11.12.1974, n. 276, ivi, 1974, XLII, 427 ss. Da ultimo, Corte cost. 12.12.2011, n. 338, ribadisce che l’interpretazione giurisprudenziale della Cassazione «costituisce, pertanto, «diritto vivente» del quale si deve accertare la compatibilità con i parametri costituzionali evocati». (45) Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2003, 111; Morelli, La funzione di orientamento ermeneutica della norma costituzionale e l’interpretazione adeguatrice delle norme ordinarie, in Id., Funzioni della norma costituzionale, Urbino, 2000, 27 ss. Famiglia e diritto 11/2014 nio, le turbative del rapporto di coppia che non devono incidere su quello genitoriale. Il principio cardine della nuova legge, per cui “tutti i figli sono uguali”, senza aggettivi, riconosce al figlio naturale il diritto, già sancito dall’art. 30 Cost., di poter avere notizie della madre che lo ha partorito, ricordandole i diritti che sulla stessa incombono per il solo fatto della procreazione. La responsabilità della madre per il fatto della procreazione ed il diritto costituzionalmente protetto del figlio “anche se nato fuori del matrimonio” è appunto quello “di essere mantenuto, istruito ed educato dai genitori” a cominciare dalla madre (47). Non a caso in due delle proposte di legge, presentate subito dopo la decisione della Corte cost. n. 278/2013, si offre un nuovo elemento di equilibrio tra il vecchio diritto all’anonimato e la responsabilità genitoriale della madre che ha partorito il figlio, affermando che “in ogni caso l’adottato, che non è stato riconosciuto alla nascita dalla madre che non voleva essere riconosciuta” “al compimento del quarantesimo anno di età, accede liberamente ad ogni informazione riguardante la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”. Del resto, sia la giurisprudenza che lo stesso legislatore prendono atto della trasformazione della famiglia dal modello patriarcale a quello nucleare in cui i singoli acquistano sempre più rilievo, con ricorso alla solidarietà familiare e post-familiare. Lo si evince dalle modifiche normative, come quella del titolo IX del libro primo delle persone e della famiglia del c.c. Il titolo dal 1942 al 1975 era “Della patria potestas” (48), dopo la prima riforma del diritto di famiglia (l. n. 151/1975), diventa “Della potestà dei genitori” con durata dal 1975 al 2012 ed ora, dopo l’art. 1, comma 6, l. n. 219/2012, in funzione della responsabilità genitoriale e dei diritti dei figli senza aggettivi, il titolo è stato riscritto: “Della potestà dei genitori e dei diritti e doveri dei figli”. Significative di tale mutamento le richiamate recenti decisioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, come quella (7.1.2014) che condanna l’Italia perché i coniugi non possono scegliere il (46) Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, 17 e 34, ove si afferma che l’attività interpretativa di un “testo” normativo necessita di tener conto dell’evoluzione anche sociale ed economica del mutato “contesto”. (47) Bessone, Comm. della Cost. a cura di Branca, sub art. 30, cit., 108 ss. (48) Finocchiaro, Responsabilità genitoriale: dal 1 marzo 2005 va «in soffitta» l’istituto della patria potestà, in Guida al dir.- Dir. comunitario e internaz., 2005, 1, 9. 1011 Giurisprudenza Adozione cognome coniugale, o come il più volte richiamato Caso Godelli (25.9.2012), nonché della Corte cost. come quella più volte richiamata che interviene sulla possibilità per il figlio adottivo di iniziare le ricerche per c onoscere l e sue origini (22.11.2013, n. 278), o quella sul superamento del divieto di fecondazione eterologa in Italia (10.6.2014, n. 162) o ancora quella sul mantenimento del rapporto di coppia, nonostante il mutamento di sesso di uno dei coniugi (11.6.2014, n. 170). Né vanno dimenticate le sezioni unite che, con le sentenze gemelle, sez. un., 17 luglio 2014, nn. 16379 e 16380, hanno precisato che il riconoscimento del matrimonio-rapporto, di natura civili- stica, è ostativo all’efficacia in Italia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio-atto. Mutamenti notevoli che ribadiscono la grandezza dell’insegnamento di Jhering (49) secondo cui non si deve credere “all’immutabilità dei concetti giuridici” sorti in certi periodi storici, ed ancorati a concezioni, costumi, modi di vita, ormai superati, nonché in contrasto con principi costituzionali, perché l’immutabilità “è un’idea totalmente immatura che testimonia un’assenza completa di spirito critico” consentendo al giurista di superare l’esame facendo passare i concetti nella “macchina spaccacapelli” (50) che consente di tagliare un capello in 999.999 parti eguali. (49) Jhering, Della culpa in contrahendo, con trad. e pref. di Procchi, Napoli, 2005, XXVIII, ed ivi note 47 e 48; Larenz, Methodenlehre der Rechtswissenschaft, trad. it. Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, 1988, 60 s. (50) Jhering, Scherz und Ernst in der Jurisprudenz, trad. it., Serio e faceto nella giurisprudenza, Firenze, 1954, 280 s. 1012 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Processo civile Prescrizione TRIBUNALE DI ROMA, sez. I civile, 1° aprile 2014 – Pres. Crescenzi – Rel. Albano - G.C. c. N.G.C. La prescrizione dell’azione di regresso, che spetta al genitore che ha sostenuto in via esclusiva sin dalla nascita gli oneri del mantenimento del figlio, decorre dal momento in cui ogni singola spesa è stata effettuata. La prescrizione della domanda di risarcimento del danno conseguente al mancato riconoscimento ed alla violazione dei doveri genitoriali decorre dal momento in cui il figlio raggiunge l’indipendenza economica. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Difformi Cass. 30 luglio 2010, n. 17914; Cass. 3 novembre 2006, n. 23596 Ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione ritualmente notificato gli attori esponevano che dall’agosto 1963 al giugno 1964 la sig.ra M. G. aveva avuto una relazione con il sig. G. C. N., frequentandosi a Treviglio dove la sig.ra G. lavorava, mentre il sig. N. lavorava a Milano; che nella primavera del 1964 la sig.ra G. si era accorta di essere incinta e lo aveva comunicato al sig. N. il quale aveva opposto un netto rifiuto in ordine all’assunzione di qualsiasi responsabilità nei confronti del nascituro; che la sig.ra G. si era rivolta ai parenti del sig. N. ed al parroco perché intercedessero con il padre del bambino affinché si assumesse le proprie responsabilità, non ottenendo alcun risultato; che il sig. N. non aveva riconosciuto il figlio e nel febbraio 1965, quando la sig.ra G. gli aveva inviato due fotografie del neonato, egli aveva risposto contestando recisamente ogni richiesta; che al momento della nascita del sig. G., il sig. N. aveva una relazione con un’altra donna che sarebbe successivamente diventata, ed era tuttora, sua moglie; che la sig.ra G., quando il figlio aveva compiuto 14 anni, gli aveva riferito che il sig. N. era il suo padre biologico; che a seguito della maternità la sig.ra G. era stata isolata dalla sua famiglia d’origine (la nuova moglie del padre della sig.ra G. era parente del sig. N.); che la sig.ra G. aveva sempre provveduto da sola al figlio; che la sig.ra G. non aveva intentato alcuna azione nei confronti del presunto padre naturale stante le difficoltà frapposte dall’ordinamento negli anni sessanta all’accertamento della paternità naturale. Chiedevano quindi venisse dichiarato che il sig. G. era figlio del sig. N., permettendo la conservazione del cognome G., in quanto segno distintivo della persona dell’attore, senza menzione del cognome del padre; nonché la condanna del sig. N. alla restituzione della metà delle somme anticipate dalla madre per il mantenimento del figlio dalla nascita fino al raggiungimento dell’indipendenza economica (a 31 anni di età) - quantificate in € 174.573,07 - nonché al risarcimento del danno esistenziale subito da entrambi a causa del mancato riconoscimento, quantificato in € 250.000,00, per il sig. G. G., Famiglia e diritto 11/2014 ed in € 80.000,00 per la sig.ra M. G., e del danno morale equitativamente determinato. Si costituiva il convenuto contestando di avere mai intrattenuto una relazione sentimentale con la sig.ra M. G., tanto più che all’epoca era fidanzato con la donna che sarebbe divenuta sua moglie, anch’essa residente a Milano, nonché il valore probatorio dei documenti prodotti in ordine ad una sua presunta paternità. Esponeva, inoltre che l’enorme ritardo con il quale la domanda era stata proposta militava per la sua infondatezza ed eccepiva in ogni caso la prescrizione di ogni diritto connesso all’accertamento giudiziale della paternità, ritenendo incostituzionale l’interpretazione che faceva decorrere il termine di prescrizione dal pronunciamento giudiziale sulla paternità, posto che, nonostante il diritto al mantenimento maturi con la nascita, nessuna richiesta in tal senso era mai pervenuta al convenuto, anche secondo la tesi prospettata dagli attori, almeno dal febbraio del 1965, né dalla madre né dal sig. G. dopo il compimento della maggiore età. La prova orale proposta dall’attore veniva rigettata, in quanto in parte vertente su valutazioni e non su fatti specifici, in violazione dell’art 244 c.p.c., ed in parte irrilevante ai fini del decidere, e veniva disposta C.T.U. sulle persone dell’attore e del convenuto. Il convenuto rifiutava di sottoporsi al prelievo biologico adducendo la volontà di non turbare la stabilità e serenità della propria famiglia. Non può ritenersi che la documentazione prodotta in giudizio da parte attrice costituisca di per sé prova del rapporto di filiazione tra il sig. N. ed il sig. G. I documenti prodotti in giudizio nulla dimostrano in merito: i documenti provenienti da terzi, non confermati attraverso una testimonianza in giudizio che non è stata richiesta, non hanno alcun valore probatorio, non essendo certa la provenienza. In ogni caso nessun elemento di prova può trarsi dal loro contenuto trattandosi di neutri biglietti di auguri per la nascita o di presa d’atto di affermazioni dell’attrice in ordine alla paternità del figlio. Le due lettere sottoscritte dal sig. N. e da questi non disconosciute nulla provano in merito, in quanto, 1013 Giurisprudenza Processo civile senza accennare a presunte paternità, si limitano a rifiutare qualsiasi possibilità di incontro con la sig.ra G., negando che vi fossero spiegazioni da dare ed invitando quest’ultima a smettere di importunarlo. La prova testimoniale articolata era inammissibile e per questo è stata rigettata. In ogni caso sarebbe stata irrilevante in quanto inidonea a fornire prova della sussistenza della relazione tra il sig. N. e la sig.ra G. Posto che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, deve escludersi qualsiasi subordinazione dell’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici all’esito della prova storica sull’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre di quest’ultimo, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, secondo comma, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del tipo di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge (v. Cass. sez. I, n. 14976 del 2.7.200). Il Collegio ritiene del tutto condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale “le prove emato-genetiche sono prove in senso proprio, giacché l’attuale livello della ricerca ed esperienza scientifica consente di esprimere, grazie ad esse, sufficienti garanzie nel ritenere decisivo il loro contributo nell’attribuzione della paternità o maternità di un soggetto, conseguendo risultati dotati di un alto grado di probabilità prossimo alla certezza (cfr. Cass. 29 maggio 2008, n. 14462, App. Milano 9.11.2001, cfr. anche Corte Cost. n. 266/2006 con riguardo all’art. 235 c.c.), orientamento pienamente confermato dalla riforma introdotta con il d.lgs. n. 154 del 2013. Le indagini ematologiche e genetiche possono fornire decisivi elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità (v. Cass., sez. I, n. 15568 del 2011); a volte unico possibile elemento di prova a disposizione della parte in considerazione della difficoltà di fornire prova dell’esistenza di relazioni intime e riservate. Nel caso di specie, poi, stante il tempo trascorso era oltremodo difficoltoso offrire una prova testimoniale dell’esistenza della relazione tra il sig. N. e la sig.ra G. Ferma l’inviolabilità della persona e l’incoercibilità del prelievo medesimo, nel giudizio diretto ad ottenere una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità naturale, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile, da parte del giudice, ai sensi del già citato art. 116 c.p.c., comma 2, anche in assenza di prova di rapporti sessuali tra le parti, in quanto proprio la mancanza di prove oggettive assolutamente certe e ben difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti tra le stesse parti intercorsi e circa l’effettivo concepimento ad opera del preteso genitore naturale, se non consente di fondare la dichiarazione di paternità sulla sola dichiarazione della madre e sull’esistenza di rapporti con il presunto padre 1014 all’epoca del concepimento (secondo l’espresso disposto dell’art. 269 c.c., ultimo comma), non esclude che il giudice possa desumere, appunto, argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti ed, in particolare, dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti biologici, potendo persino trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda esclusivamente dalla condotta processuale di quest’ultimo, globalmente considerata e posta in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre (Cass. n. 18224 del 2006, v. anche Cass. n. 9307/1997, cit.; Cass. 22 ottobre 1997, n. 10377; Cass. 24 gennaio 1998, n. 692; Cass. n. 2749/2002, cit.; Cass. 27 febbraio 2002, n. 2907; Cass. n 2640/2003, cit.; Cass. 24 marzo 2006, n. 6694). Non può, infatti, negarsi che di fronte ad un’indagine tecnica risolutiva, il rifiuto volontario di sottoporvisi da parte di un soggetto capace di autodeterminarsi è il frutto di una scelta non coercibile, ma certamente suscettibile di essere valutata ai sensi dell’art. 116 c.p.c. in modo tendenzialmente coerente con il grado di efficacia probatoria dell’esame, e non alla stregua di un qualunque altro comportamento processuale omissivo della parte. (Cass. 19.7.2013, n. 17773; Cass. n. 12971 del 2012). D’altro canto, alla luce del rifiuto di sottoporsi all’esame ematologico da parte del Natale, gli elementi indiziari forniti dagli attori, sebbene non univoci, possono concorrere ad integrare il quadro probatorio. La domanda di dichiarazione giudiziale di paternità deve, pertanto, essere accolta ed il sig. G. deve essere autorizzato a mantenere il cognome materno, divenuto elemento costitutivo della propria identità fino all’età adulta (l’attore ha oggi 50 anni), senza menzione del cognome paterno. La Corte di Cassazione ha affermato il principio interpretativo, condiviso dal Tribunale, per cui: “Quando la filiazione naturale nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, al fine di decidere se attribuire al figlio il cognome del padre, aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, il giudice deve valutare, ai sensi dell’art. 262 c.c., l’esclusivo interesse del minore, tenendo conto del fatto che è in gioco, oltre all’appartenenza del minore ad una determinata famiglia, il suo diritto all’identità personale, maturata nell’ambiente in cui egli è vissuto fino a quel momento, ossia il diritto del minore ad essere se stesso nel trascorrere del tempo e delle vicende attinenti alla sua condizione personale, e prescindendo, anche a tutela dell’eguaglianza fra i genitori, da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome. Ne deriva che legittimamente viene disposta l’attribuzione al minore, in aggiunta al cognome della madre, di quello del padre, allorché il giudice del merito, da un iato, escluda la configurabilità di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione accrescitiva del cognome (stante l’assenza di ima cattiva reputazione del padre e l’esistenza, anche in fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio), e, dall’altro lato, consideri che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore, Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Processo civile tuttora bambino, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare l’aggiunta del patronimico” (Cass. 5 febbraio 2008, n. 2751). Il cognome, come parte del nome, è, infatti, sempre meno strumento di ordine pubblico e sempre più bene morale della persona, rappresentando elemento costitutivo dell’identità personale e quindi oggetto di un vero e proprio diritto tutelato a livello costituzionale. La sig.ra G., propone domanda di regresso in ordine alle spese di mantenimento sostenute fin dalla nascita ed entrambi gli attori domandano il risarcimento del danno subito per il mancato riconoscimento. Il convenuto eccepisce la prescrizione. Tale domanda è ormai unanimemente ritenuta proponibile anche nel giudizio teso ad accertare il rapporto di filiazione (v. Cass., sez. I, n. 17914 del 2010). La questione relativa alla decorrenza del termine di prescrizione per l’azione di regresso, e di risarcimento del danno da “mancato riconoscimento”, in caso di dichiarazione giudiziale di paternità è questione da molto tempo dibattuta. La giurisprudenza della suprema Corte afferma che il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione in quanto il diritto di regresso non sarebbe in precedenza azionabile, presupponendo la sussistenza del riconoscimento o del giudicato sullo status (v, per tutte, Cass., sez. I, n. 23596 del 2006 e Cass., sez. I, n. 10124 del 26 maggio 2004). Tale orientamento è stato criticato da buona parte della dottrina. Si è da tempo affermato il principio che il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale dello status di figlio hanno natura accertativa e, pertanto, spiegano i loro effetti anche per il passato, fin dalla nascita del figlio, in particolare in ordine ai doveri previsti dagli arti. 147 e 315 bis c.c. (quest’ultimo introdotto dal d.lgs. n. 154/2013). L’orientamento prevalente attribuisce, poi, natura di obbligazione solidale al dovere di mantenimento dei figli da parte dei genitori, con la conseguenza che la domanda di un genitore volta a recuperare la quota della quale sarebbe stato onerato l’altro genitore viene qualificata come azione di regresso tra condebitori solidali. In particolare nella pronuncia n. 23596 del 2006, la Suprema Corte ribadisce più volte il principio per cui, solo e soltanto con l’attribuzione dello status di figlio naturale (o a seguito di riconoscimento spontaneo, ovvero a seguito di dichiarazione giudiziale) sorgono i diritti ad esso legati; in tal senso, il riconoscimento tornerebbe ad avere natura costitutiva, anche se ì suoi effetti rimarrebbero dichiarativi, in quanto i diritti del figlio (e gli obblighi dei genitori) dovrebbero comunque retroagire fin dalla nascita. La questione ha riflessi oltremodo rilevanti sulle singole fattispecie e coinvolge problemi etici di non poco momento: da un lato appare ingiusto, attraverso l’applicazione della prescrizione, penalizzare il genitore che da solo per anni, magari anche a costo di notevoli sacrifici, si era fatto carico del figlio, a vantaggio del genitore che se ne era sempre disinteressato; dall’altro il princi- Famiglia e diritto 11/2014 pio affermato, che in quanto tale è di generale applicazione, può dar luogo a sua volta ad abusi, come messo in luce dalla dottrina più accorta, a scapito della certezza dei rapporti giuridici. La madre, ad esempio, potrebbe avere deciso di non agire per molti anni avendo scelto di non condividere la genitorialità e di crescere il figlio da sola, ed il padre potrebbe non avere nemmeno mai saputo dell’esistenza di un figlio frutto di un rapporto occasionale ed ormai anziano si vedrebbe chiedere tutto in un’unica soluzione, con conseguenze economicamente molto più pesanti, se non devastanti, rispetto all’adempimento periodico dell’obbligazione di mantenimento. Ma si pensi anche al caso in cui il figlio maggiorenne (non economicamente autonomo) decida - perché ritiene non conforme ai propri interessi una pronuncia sullo status - di non promuovere l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, od, avendo compiuto i 14 anni (o nel vigore della precedente normativa i 16) non dia il consenso al riconoscimento tardivo, la madre si troverebbe nell’impossibilità di proporre l’azione di regresso, almeno per gli ultimi dieci anni, e l’azione di mantenimento per il futuro. E’ chiaro che il principio affermato dovrebbe trovare applicazione anche in casi simili. La suprema Corte, con le sentenze n. 10124 del 2004 e n. 23596 del 2006, afferma la natura dichiarativa dell’accertamento di status, traendone delle conseguenze che appaiono contraddittorie con la premessa: l’obbligo di mantenimento sorgerebbe con la nascita, derivando la responsabilità genitoriale dal fatto stesso della procreazione (così anche Cass. n. 5652 del 2012), tuttavia solo dall’attribuzione dello status di figlio (attraverso il riconoscimento o la sentenza) deriverebbero gli effetti tipici connessi dalla legge a tale status. Di tale ultimo assunto è lecito dubitare, posto che logica conseguenza sarebbe che nei casi di figli non riconoscibili (divenute ipotesi solo residuali con la riforma della filiazione) e di mancato assenso od autorizzazione del giudice al riconoscimento tardivo, il padre biologico non avrebbe alcun onere di mantenimento del figlio, mentre è pacifico che così non è. Tanto più che l’art. 261 c.c., che stabiliva che il riconoscimento comportava l’assunzione di tutti i diritti e doveri del genitore verso i figli, è stato abrogato dal d.lgs. n. 154/2013, mentre l’interpretazione analogica od estensiva dell’art. 279 c.c. (che prevede il diritto al mantenimento anche quando non sia possibile proporre l’azione per dichiarazione giudiziale di paternità o maternità) sarebbe impedita da un’interpretazione come quella sopra richiamata. In ogni caso, il testo della norma di cui all’art. 261 c.c. non comportava certo che tali diritti e doveri fossero esclusivamente connessi al riconoscimento e non al fatto stesso della procreazione. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6365 del 2004, ha, invece, affermato la possibilità di proporre l’azione contemplata dalla norma di cui all’art. 279 c.c. anche qualora si trattasse di impossibilità sopravvenuta a proporre l’azione di dichiarazione giudiziale di maternità o paternità, perché derivante dall’omesso esperi- 1015 Giurisprudenza Processo civile mento, nel termine di decadenza all’uopo fissato, dell’azione di disconoscimento del padre legittimo, qualora i genitori legittimi non avessero i mezzi per provvedere oppure qualora, per le circostanze del caso concreto da accertare volta per volta, il figlio medesimo non potesse comunque ottenere il mantenimento (o un sostegno economico) dai genitori legittimi. D’altro canto il tenore dell’art. 30 della Costituzione non dovrebbe lasciare spazio a dubbi interpretativi in ordine al fatto che l’obbligo del genitore di mantenere il figlio consegua direttamente alla procreazione e non all’attribuzione formale di uno status (v. Cass. n. 5652/2012 cit.). “Il precetto costituzionale “indirizza il legislatore ad una regolamentazione del tema informata al principio del dovere (nel senso di obbligo) del genitore di mantenere, istruire ed educare i figli in funzione del solo fatto materiale della procreazione e senza alcun vincolo con il riconoscimento formale della paternità o maternità naturale; al principio, cioè, per cui il diritto al mantenimento deve trovare la sua fonte immediata nel fatto della procreazione e non nello status formale di figlio naturale” (così Cass. n. 5633/1990, in motivazione). La medesima sentenza cosi prosegue: “Emerge, inoltre, la presenza dell’art. 279 cod. civ. nel testo modificato dalla legge di riforma del diritto di famiglia, il cui dettato - ove correttamente interpretato alla luce della norma costituzionale appena richiamata - attribuisce al figlio naturale, una volta accertato incidenter tantum il rapporto materiale di filiazione, il diritto al mantenimento, all’istruzione e alla educazione, quand’anche non sia stato riconosciuto formalmente pur essendo ciò possibile e, quindi, indipendentemente dalla qualifica formale dello status”. Se, dunque, il fatto materiale della procreazione naturale (accettabile anche incidenter tantum e svincolato dal riconoscimento formale del relativo status) costituisce l’antecedente giuridico immediato delle azioni attribuite al figlio naturale dall’art. 279, primo comma, c.c., e se questo dato è direttamente collegabile con l’art. 30, primo comma, della Costituzione, non si rivela coerente con tale precetto costituzionale un’interpretazione che riduca razionabilità di quei diritti ai soli casi in cui l’interessato sia venuto a trovarsi nell’impossibilità assoluta e originaria (e non relativa, in quanto sopravvenuta) di proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità.” (Cass. n. 6365/2004 cit.). Le sentenze richiamate affermano, quindi, espressamente la possibilità di accertamento incidenter tantum del rapporto di filiazione, a prescindere dall’accertamento dello status, affermando un principio contrastante con quello affermato dalle sentenze che affermano la decorrenza della prescrizione dal riconoscimento o dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status. Sulla possibilità di un accertamento incidenter tantum del rapporto di filiazione si è pronunciata anche Cass. n. 4325/2009: “il procedimento previsto dall’art. 250, quarto comma, cod. civ. per conseguire dal Tribunale una pronuncia che tenga luogo del mancato consenso al riconoscimento del figlio minore, da parte del genitore che abbia già effettuato tale riconoscimento, è volto 1016 esclusivamente ad accertare se il secondo riconoscimento risponde all’interesse del minore stesso, sicché in esso resta irrilevante ogni indagine sulla veridicità del secondo riconoscimento, indagine - questa - che presuppone il riconoscimento e che può essere svolta in separato giudizio, ove il riconoscimento autorizzato a norma dell’art. 250 venga impugnato ex art. 263 cod. civ. Un siffatto accertamento non può essere quindi svolto nel giudizio di cui all’art. 250, se non al limitato fine -in presenza di contestazioni della controparte, di verificare, ma solo ‘incidenter tantum’, la legittimazione attiva del richiedente”. Il fatto che le questioni di stato debbano essere decise con efficacia di giudicato, atteso il loro carattere di assolutezza e la loro efficacia erga omnes, non incide sull’ argomento trattato in questa sede, che riguarda il concreto rapporto di filiazione in generale, posto che in alcuni casi la pronuncia sullo status non è nemmeno possibile. Ma il rapporto di filiazione, ed alcune delle conseguenze giuridiche connesse (quelle previste dall’art. 30 della Costituzione, nonché dagli artt. 148 e 315 bis e 316 bis c.c.), prescindono, come si è visto, dal riconoscimento dello status di figlio. “Nel quadro normativo delineato dall’art. 30 cost., dall’art. 279 cod. civ. e dalle convenzioni internazionali ratificate e rese esecutive in Italia, l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato, incidenter tantum, e non nello status formale di figlio naturale” (Cass., sez. un., n. 5633 del 9.6.1990). Qualora si ritenga che l’accertamento del rapporto di filiazione non possa essere effettuato in via incidentale, ma solo con efficacia di giudicato, nulla vieta che il giudice adito per l’azione di regresso o per il mantenimento, qualora il convenuto contesti il rapporto di filiazione, nel caso in cui sussistano la sua competenza anche per le azioni di stato e le condizioni soggettive (legittimazione attiva e passiva) ed oggettive perche si possa pronunziare su di esse, possa giudicare anche sulla questione di stato e la decisione avrà carattere principale ed efficacia di giudicato (v. Cass. n. 2220 del 4.4.1980), o nel caso non sia competente possa sospendere la causa in attesa della decisione sullo status. Mentre nel caso il convenuto non contesti il rapporto di filiazione, il problema nemmeno si porrebbe potendo il giudice pronunciarsi sulla domanda principale (così come ritenuto da Cass. n. 5633/1990 cit.). Questo, del resto, è l’orientamento maggioritario della dottrina, che ha avuto modo di sottolineare come la procreazione determini la titolarità sostanziale della posizione di figlio, e come da questo titolo derivino, in parallelo ed indipendentemente l’uno dall’altro, il diritto al mantenimento e quello alla titolarità formale della filiazione; “nonché l’interpretazione recepita dalla Corte costituzionale la quale nelle sentenze n. 118 e 121 dell’8 maggio 1974 ha affermato che la normativa espressa nei comma più significativi della disposizione in esame denota come il Costituente abbia voluto attribuire il diritto al mantenimento all’educazione ed all’istruzione dei Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Processo civile figli naturali che, pur non riconosciuti o non legittimati, possano secondo la legislazione vigente provare la paternità e la maternità naturale. Emerge, inoltre, la presenza dell’art. 279 c.c. nel testo modificato dalla legge di riforma del diritto di famiglia, il cui dettato - ove correttamente interpretato alla luce della norma costituzionale appena richiamata - attribuisce al figlio naturale, una volta accertato incidenter tantum il rapporto materiale di filiazione, il diritto al mantenimento, all’educazione ed all’istruzione, quand’anche non sia stato riconosciuto formalmente pur essendo ciò possibile e, quindi, indipendentemente dalla qualifica formale dello status. Vale a dire che riconduce il diritto in questione al rapporto biologico di procreazione e non allo status formale di figlio, così come ha affermato questa Corte nelle sentenze n. 7285 del 26 settembre 1987, n. 3015 del 3 maggio 1986 e n. 4044 del 6 novembre 1975” (Cass. n. 5633/1990 cit.). La Corte di Cassazione nella citata sentenza del 1990 conclude: “Deve ritenersi esistente, in altri termini, il principio in base al quale il fatto materiale della procreazione, ove positivamente accertato anche in via incidentale, determina di per sé solo, ed indipendentemente dal riconoscimento formale dello status di figlio naturale la responsabilità (è questo il termine correttamente utilizzato nella rubrica dell’art. 279 c.c.) del genitore per il mantenimento del figlio; in base al quale, cioè, sul genitore grava l’obbligazione giuridica (e non soltanto naturale come sostiene una dottrina minoritaria) di mantenere il figlio naturale anche se non riconosciuto formalmente, mentre, di converso, questi ha diritto all’adempimento di siffatta prestazione.”. I principi sopra richiamati sono stati recentemente anche ribaditi dalla Cassazione con la sentenza n. 5652 del 2012: “viene in considerazione la tesi secondo cui il riconoscimento della paternità, o, come sembra di capire, quanto meno la proposizione della relativa domanda, costituiscano il presupposto della responsabilità aquiliana scaturente dalla violazione dei doveri inerenti al rapporto dì filiazione. Tale assunto è all’evidenza infondato, in quanto contrastante con il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel mantenimento del figlio insorge con la nascita dello stesso, ancorché la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza ...”. Nella giurisprudenza della suprema Corte vengono, come si è visto, affermati, in occasione di fattispecie concrete diverse, principi generali tra loro incompatibili. Ritiene il tribunale che sia conforme all’evoluzione del diritto positivo, sia interno che internazionale, nonché all’evoluzione della coscienza sociale, la tesi che riconnette l’esistenza degli obblighi previsti dagli artt. 148, 315 bis e 316 bis c.c. al solo fatto della probazione, a prescindere dal riconoscimento formale dello status. Ciò significa, trattandosi di obblighi giuridici, che sia l’azione di regresso che quella di concorso negli oneri di mantenimento può essere azionata, a prescindere da una pronuncia sullo status passata in giudicato, in un giudizio nel quale il fatto della procreazione verrà accer- Famiglia e diritto 11/2014 tato - in via incidentale o, come si è visto con efficacia di giudicato - qualora il presunto padre convenuto contesti il rapporto di filiazione. La stessa nozione di “responsabilità” genitoriale, introdotta dal d.lgs. n. 154/2013, in luogo della potestà genitoriale, sembra alludere alla responsabilità connessa al solo fatto della procreazione e non certo al riconoscimento formale dello status di figlio. Tale tesi, ha anche il pregio di rendere coerente un sistema che l’interpretazione oggi dominante rischia di rendere intrinsecamente contraddittorio, avvicinando i casi nei quali, ad esempio, il giudice non autorizza il riconoscimento tardivo perché contrario agli interessi del minore (fatto rientrare attraverso un’interpretazione estensiva nel disposto di cui all’art. 279 c.c.) ai casi in cui siano prima la madre e poi il figlio (compiuti i 14 anni) a ritenere contrario ai propri interessi il riconoscimento o la pronuncia sullo status, evitando così di lasciare in questa materia pericolosi vuoti di tutela. La circostanza che il legislatore della recente riforma della filiazione abbia ritenuto di inserire espressamente nell’art. 480 c.c. il termine di decorrenza della prescrizione per l’accettazione di eredità, in conformità con l’orientamento consolidato della giurisprudenza, conferma a parere del Tribunale la tesi qui sostenuta. Il legislatore ha infatti ritenuto necessario specificare che il termine decorre dal riconoscimento o dalla pronuncia sullo status, forse proprio perché in un sistema in cui i doveri genitoriali derivano dal fatto stesso della procreazione, ciò non poteva considerarsi scontato. E per l’accettazione di eredità tale norma ha un senso, in quanto, andando ad incidere sui successibili, c’è necessità di un atto od una pronuncia che abbia efficacia erga omnes. Si tratta di rendere coerente il sistema disciplinante il rapporto di filiazione traendo tutte le conseguenze dalla affermata centralità degli interessi del figlio. Ed anche dalla nuova norma di cui all’art. 315 c.c. che afferma che “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”, non si può certo ritenere che essa si riferisca ai soli figli riconosciuti o riconoscibili. L’accoglimento di tale tesi comporta che la prescrizione dell’azione di regresso decorra da ogni singola spesa effettuata. Il termine è senz’altro quello decennale, non vertendosi in materia di alimenti, ma di regresso in materia di obbligazioni solidali. Il diritto di regresso azionato in questa sede dalla sig.ra G. deve, pertanto, ritenersi ampiamente prescritto. Gli attori propongono altresì domanda di risarcimento del danno conseguente al mancato riconoscimento ed alla conseguente violazione dei doveri genitoriali, la sig.ra G. per aver dovuto provvedere da sola alla crescita del figlio ed il sig. Greco per essere cresciuto senza un padre. Le conseguenze dell’illecito cd. “endofamiliare” da mancato riconoscimento, ormai ampiamente riconosciuto da dottrina e giurisprudenza (v. Cass. n. 5652 del 2012 cit.), si articolano nel danno derivante da violazione dell’obbligo di mantenimento, connesso alla perdita di chances conseguenti, ad esempio, al mancato conseguimento della posizione sociale confacente a quella del 1017 Giurisprudenza Processo civile padre biologico, ed in quello derivante dalla violazione degli altri doveri genitoriali, in particolare il diritto a ricevere cura, educazione, protezione, da entrambi i genitori. Anche in ordine a tale domanda il convenuto eccepisce l’intervenuta prescrizione. Valgono anche in questo caso le considerazioni effettuate in ordine alla prescrizione dell’azione di regresso, sicché deve ritenersi che per razionabilità del diritto al risarcimento del danno da violazione dei doveri genitoriali non sia necessaria la sussistenza di una sentenza sullo status passata in giudicato. Più difficoltoso individuare il termine di decorrenza della prescrizione. Ritiene il Tribunale che il termine debba esser individuato nel momento in cui il figlio raggiunge l’indipendenza economica, in quanto in quel momento cessa il dovere del genitore di contribuire al suo mantenimento. Il termine di prescrizione è pertanto abbondantemente decorso, posto che gli attori affermano che il sig. G. avrebbe raggiunto l’indipendenza economica all’età di 31 anni (nel 1995), sia che si faccia riferimento al termine di cinque anni previsto per il danno da atto illecito, sia che si faccia riferimento al termine previsto per il reato di cui all’art. 570 c.p. Più difficoltoso è individuare il termine iniziale per la violazione degli altri doveri genitoriali. Ritiene il tribunale che non possa farsi riferimento al raggiungimento della maggiore età, essendo indubbio che il bisogno da parte del figlio della figura costruttiva ed educativa del genitore perduri ben oltre il compimento del diciottesimo anno di età, pur venendo meno la responsabilità (già potestà) genitoriale. Al di là dei compiti strettamente educativi, i doveri giuridici di solidarietà, protezione e cura permangono fino a che il figlio non sia in grado di conseguire una completa autonomia anche psicologica che verosimilmente, nella maggior parte dei casi, coincide con il raggiungimento dell’autonomia economica e, quindi, con il momento in cui cessa l’obbligo di mantenimento. Anche in questo caso il termine di prescrizione deve ritenersi abbondantemente decorso, tanto più che gli attori hanno dichiarato, per quel che riguarda il figlio, che quest’ultimo era consapevole della paternità del sig. N. fin da quando il sig. G. aveva 14 anni. Sussistono giusti motivi, in considerazione della natura controversa delle questioni trattate, per dichiarare le spese di lite integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione così provvede: Dichiara che N. G. C. è padre naturale di G. G.; Autorizza G. G. a mantenere il cognome materno, senza menzione del cognome paterno; ordina all’Ufficiale dello Stato civile del Comune competente di annotare la presente sentenza, al passaggio in giudicato; rigetta le ulteriori domande proposte dagli attori; dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le parti. PRESCRIZIONE DELL’AZIONE DI REGRESSO PER IL MANTENIMENTO DEL FIGLIO E DELL’AZIONE DI RISARCIMENTO DEL DANNO DA MANCATO RICONOSCIMENTO di Michele Sesta La sentenza del Tribunale di Roma - discostandosi a ragione dall’indirizzo più volte seguito dalla Corte di cassazione - ha deciso che il termine di prescrizione dell’azione di regresso promossa dal genitore per conseguire dall’altro le spese di mantenimento da lui sostenute in via esclusiva fin dalla nascita del figlio, nonché quello dell’azione promossa dal figlio per il risarcimento del danno conseguente al mancato riconoscimento, non decorrono dal momento del passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione, ma, rispettivamente, dalla data in cui ogni singola spesa è stata effettuata e dal raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio. La questione Il Tribunale affronta e risolve la controversa questione della decorrenza dei termini di prescrizione dell’azione di regresso di cui è titolare il genitore che abbia provveduto in via esclusiva dalla nascita al mantenimento del figlio, nonché dell’a- 1018 zione di risarcimento del danno esperibile dal figlio a seguito della violazione dei doveri genitoriali di colui che non l’abbia riconosciuto. Discostandosi dal prevalente indirizzo della Corte di Cassazione, il Tribunale stabilisce che la decorrenza dei predetti termini non esige il previo accertamento con ef- Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Processo civile ficacia di giudicato dello stato di filiazione; a tale condivisibile conclusione, invero argomentata in modo assai ampio e perspicuo, il Tribunale perviene valorizzando il fatto che il sorgere degli obblighi previsti dagli artt. 30 Cost. e 315-bis c.c. si connette al solo fatto della procreazione, a prescindere quindi dall’attribuzione formale dello stato di filiazione, opportunamente rilevando come la stessa nozione di responsabilità genitoriale introdotta dal d.lgs. n. 154/2013, in luogo della potestà, alluda alla responsabilità per i destini del figlio connessa al solo fatto della procreazione piuttosto che al riconoscimento formale dello stato (1). È pacifico che il dovere del genitore di mantenere il figlio non matrimoniale costituisca un obbligo giuridico che lo vincola indipendentemente dall’intervenuto riconoscimento (2); in tale prospettiva, la giurisprudenza è quindi concorde nello statuire che, laddove il figlio sia riconosciuto da un solo genitore – che provveda per intero al mantenimento –, non venga meno il corrispondente obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio ad essere mantenuto, istruito, educato e – secondo il catalogo del nuovo art. 315-bis c.c. – assistito moralmente da parte di entrambi. Da ciò si fa, dunque, derivare che il secondo genitore, dichiarato tale con provvedimento del giudice, non possa sottrarsi all’obbligo di rimborsare al primo la quota parte posta a suo carico, essendo egli tenuto a provvedervi a far data dal momento della nascita, e, pertanto, che il genitore, il quale abbia provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio, sia titolare dell’azione per ottenere dall’altro il rim- Con una soluzione che è stata per vero oggetto di rilievi critici da parte della dottrina, la Suprema Corte ha risolto il problema accedendo alla seconda tesi, statuendo, cioè, che l’azione di rimborso sia utilmente esercitabile solo a partire dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione, in quanto, soltanto per effetto della relativa pronuncia si costituisce – sia pure con effetti retroagenti alla data della nascita – lo status di figlio non matrimoniale, che determina, ai sensi dell’art. 2935 c.c., il momento a partire dal quale il diritto può essere fatto valere e, quindi, il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto stesso (4). L’accertamento dello status di figlio (1) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti nelle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 236; Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in questa Rivista, 2014, 466, 467. (2) Cfr., ex multis, Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, in questa Rivista, 2007, 1007, con nota di Ortore, Mantenimento del figlio e prescrizione dell’azione di regresso nei confronti del genitore inadempiente. (3) Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, cit., ove ulteriormente si stabilisce che trattasi di azione di regresso tra condebitori solidali ex art. 1299 c.c., vertente in materia di diritti disponibili e retta dai principi ordinari. (4) Cass. 30 luglio 2010, n. 17914, in questa Rivista, 2011, 135, con nota di Ortore, Ancora sui limiti temporali dell’esercizio dell’azione di regresso nei confronti del genitore; Cass. 3 novembre 2006, n. 23596, cit.; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2328, in questa Rivista, 2006, 504, con nota di Figone, Dichiarazione giudiziale di paternità, mantenimento del figlio e rimborso delle spese anticipate dall'altro coniuge; Cass. 11 luglio 2006, n. 15756, in Giust. civ. Mass., 2006. Secondo alcuni Autori, tale soluzione confligge con la ratio della prescrizione (cfr. Ortore, Mantenimento del figlio e prescrizione dell’azione di regresso nei confronti del genitore inadempiente, cit., il quale ritiene contrario all’ordine pubblico far decorrere la prescrizione da un momento assolutamente incerto qual è quello in cui interviene la pronuncia giudiziale che accerti la paternità, tenuto conto dell’imprescrittibilità dell’azione di cui trattasi. Allo stesso modo, sarebbe gravoso per il figlio danneggiato far decorrere la prescrizione da un momento in cui egli non poteva ancora far valere i propri diritti, non essendo intervenuto alcun accertamento giudiziale della paternità). Secondo altra parte della dottrina (Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, in La responsabilità nelle relazioni familiari, a cura di Sesta, Torino, 2008, 217), un parziale punto di bilanciamento tra l’esigenza di tutelare il figlio danneggiato e il contrapposto interesse a non esporre a un limite di tempo indeterminato l’azione di responsabilità contro il genitore potrebbe ravvisarsi nell’art. 1227 c.c. In tale prospettiva, il danneggiato avrebbe il dovere di adottare le misure cautelari opportune per ridurre – o comunque non aggravare – le conseguenze dannose del fatto illecito, cosicché si dovrà valutare, caso per caso, se il figlio danneggiato avrebbe potuto, in base al dovere di correttezza, limitare i danni subiti, assumendo iniziative nei confronti del genitore, per far valere le proprie pretese. In tal modo, la nor- Famiglia e diritto 11/2014 borso pro quota delle spese sostenute (3). Ed il discorso deve naturalmente valere non solo per il genitore che abbia provveduto, in luogo dell’altro, al mantenimento del figlio, ma con riguardo altresì all’ipotesi in cui sia il figlio stesso ad agire in giudizio per conseguire quanto dovuto dal genitore inadempiente. In un simile contesto, si è posto il problema relativo al decorso del termine di prescrizione cui soggiace la pretesa del genitore adempiente, poiché è controverso se esso decorra dalla nascita del figlio – il che finirebbe, nella maggior parte dei casi, per limitare il diritto di regresso agli esborsi eseguiti nei dieci anni anteriori all’accertamento della genitorialità – ovvero dalla sentenza che accerta definitivamente lo stato di filiazione, il che renderebbe nella sostanza imprescrittibile la pretesa relativa al periodo anteriore alla dichiarazione. L’orientamento della Cassazione … 1019 Giurisprudenza Processo civile costituirebbe insomma il presupposto per l’esercizio dei diritti connessi a tale status, di guisa che la domanda di rimborso delle spese sostenute per il mantenimento da parte del genitore coobbligato presuppone tale accertamento. Sempre secondo tale orientamento, la predetta domanda può comunque essere proposta insieme con quella di accertamento giudiziale della paternità o maternità; tuttavia, essa non può trovare accoglimento se non in quanto il giudice si pronunci, con efficacia di giudicato, sulla condizione di figlio nato fuori del matrimonio, oppure a condizione che tale giudicato si sia in precedenza formato. Di recente, peraltro, la Suprema Corte si è pronunciata nuovamente in materia con una decisione in cui – interpretando i propri precedenti sul punto – ha ribadito, da un lato, che la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità, e precisato, dall’altro lato, che l’esecuzione del titolo postula la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello status (5). … e quello del Tribunale di Roma Occorre qui ribadire che la chiave di lettura offerta dalla Suprema Corte non appare persuasiva, e, quindi, che si giustifica e va condivisa la difforme coraggiosa statuizione del Tribunale di Roma, che sottopone a serrata critica l’orientamento del giudice di legittimità, sulla scia dei rilievi formulati dalla dottrina (6). In breve, il Tribunale muove dalla considerazione che, in linea generale, la Cassazione ammette l’accertamento incidenter tantum del rapporto di filiazione e che l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio trova la sua fonte immediata nel fatto della procreazione, anche se accertato solo in via incindentale, e non ma viene a rappresentare un punto di equilibrio tra l’esigenza di garantire al danneggiato il risarcimento del danno e quella, opposta, volta ad assicurare la certezza dei rapporti giuridici, in modo da non esporre l’eventuale responsabile ad azioni risarcitorie originate da una condotta troppo lontana nel tempo (cfr. Trib. Venezia 18 aprile 2006, in Danno e resp., 2007, 583, con nota di De Stefanis, Mancato riconoscimento del figlio naturale e risarcimento del danno, secondo cui la protratta inerzia del figlio ha senz’altro aggravato il pregiudizio subito, nel senso che se egli avesse agito per ottenere il mantenimento dal padre una volta raggiunta la maggiore età avrebbe potuto sin da allora contare su di un ausilio quanto meno economico che gli avrebbe garantito di seguire il percorso di studi o di lavoro più confacente alle sue capacità ed aspirazioni. Sul punto, v., in dottrina, Rossello, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra diligenza ed efficienza, Padova, 1990). (5) Cass. 30 luglio 2010, n. 17914, cit. 1020 nello status formale del figlio (7). Non si deve invero dimenticare che il disposto dell’art. 279 c.c., compendiante la responsabilità per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione, stabilisce a chiare lettere che l’azione per il mantenimento del figlio non riconosciuto possa essere promossa dall’altro genitore esercente la responsabilità genitoriale (comma 3). La norma in parola, benché espressamente prevista per il caso in cui non possa proporsi la dichiarazione di genitorialità, viene comunemente interpretata (8) nel senso che la stessa possa essere intrapresa anche dai figli non riconosciuti (ma riconoscibili) e dichiarabili, i quali, in concreto, non abbiano agito giudizialmente a tal fine. Ma, se così è, ovvero se il figlio può agire per ottenere il mantenimento senza che sia preventivamente necessario agire ai sensi dell’art. 269 c.c., sembra allora che anche il genitore non possa trovare ostacoli di diritto ad agire nei confronti dell’altro per ottenere la contribuzione al mantenimento, comprensiva degli eventuali rimborsi per somme anticipate, pur laddove non si sia proceduto all’accertamento in via principale del vincolo di filiazione (9): dunque, la relativa prescrizione deve decorre sin dalla nascita, tempo per tempo. Anche con riguardo alla domanda di risarcimento del danno conseguente dal mancato riconoscimento ed alla violazione dei doveri genitoriali, il Tribunale applica le medesime considerazioni svolte con riferimento alla prescrizione della azione di regresso, ed ha, quindi, affermato che, ai fini dell’esercizio di detta azione, non sia necessario il previo accertamento, con efficacia di giudicato, dello stato di filiazione. Merita, inoltre, sottolineare come l’orientamento in tema di decorrenza della prescrizione dell’azione di regresso tra genitori, che è stato giustamente disatteso dal Tribunale di Roma, si è formato sulla base di un’erronea prospettiva sistematica, (6) Cfr. Ortore, Mantenimento del figlio e prescrizione dell’azione di regresso nei confronti del genitore inadempiente, cit.,1007; Id., Ancora sui limiti temporali dell’esercizio dell’azione di regresso nei confronti del genitore, cit., 135; cfr. Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, in Nuovi percorsi di diritto di famiglia, diretti da Sesta, II ed., Milano, 2009, 128; Sesta, La filiazione, in Tratt. Dir. Priv. Bessone, Torino, 2011, 378. (7) Cass. 9 giugno 1990, n. 5633, in Giust. civ., 1991, I, 75. (8) Cass. 1 aprile 2004, n. 6365, in questa Rivista, 2005, 27, con nota di Sesta, Un ulteriore passo avanti della S.C. nel consentire la richiesta di alimenti al preteso padre naturale da colui che ha lo stato di figlio legittimo altrui. (9) In dottrina, cfr. Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., 128; v., inoltre, Giacobbe, Responsabilità per la procreazione ed effetti del riconoscimento del figlio naturale, in Giust. civ., 2005, 3, 730. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Processo civile vale a dire estendendo analogicamente a tale questione il principio in precedenza affermato dalla S.C. a proposito della decorrenza della prescrizione del diritto (del tutto differente) del figlio non matrimoniale, dichiarato dopo l’apertura della successione paterna, di conseguire quanto a lui spettante in qualità di erede (10). È, infatti, evidente che, per beneficiare della qualità di erede, l’accertamento principale dello stato di filiazione è indispensabile, poiché, in difetto, il figlio non viene chiamato all’eredità, potendo tutt’al più invocare i diritti di cui all’art. 580 c.c., la cui attribuzione non comporta lo status di erede. Nella richiamata fattispecie ereditaria, pertanto, l’accertamento dello status rappresenta un prius ineludibile, la cui mancanza non consente al figlio di agire in via successoria, e, pertanto, non tollera il previo decorso della prescrizione delle relative azioni. Tutto all’opposto, come visto, è la questione che qui si agita, considerato che nessun ostacolo giuridico sussiste a che - indipendentemente dall’accertamento principale dello status - il genitore chieda la ripetizione di quanto anticipato, o che il figlio biologico reclami il risarcimento dei danni che assume patiti. Sotto altro profilo, deve aggiungersi che l’impostazione che collega il termine di decorrenza della prescrizione dell’azione risarcitoria di cui si discute al momento dell’accertamento giudiziale della paternità o maternità naturale è contrario all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, facendo decorrere il relativo termine iniziale da un momento assolutamente incerto, quale quello in cui interviene la pronuncia giudiziale che accerta la paternità o la maternità naturale, tenuto conto dell’imprescritti- bilità dell’azione di cui trattasi sancita dall’art. 270 c.c. (11). Non solo, ma l’accoglimento di tale soluzione può addirittura dare luogo a risultati paradossali e certamente non auspicabili. Stante, infatti l’imprescrittibilità dell’azione per la dichiarazione di paternità e maternità naturale (art. 270 c.c.) e la possibilità che la stessa sia esercitata nei confronti degli eredi del genitore defunto (art. 276 c.c.), ben potrebbe accadere che tali eredi vengano chiamati a rispondere di eventuali condotte illecite del genitore defunto addirittura dopo anni dall’accettazione dell’eredità ed essendo per di più quest’ultima avvenuta senza beneficio di inventario poiché, in quel momento, non ne sussisteva alcuna ragione (12). In conclusione, la innovativa decisione del Tribunale di Roma, di cui va apprezzato il ricco e persuasivo apparato argomentativo (13), è ampiamente condivisibile, per le conclusioni cui giunge, con riguardo sia alla decorrenza del termine decennale dell’azione di regresso, individuato nel momento in cui ogni spesa sia stata effettuata, sia a quella del risarcimento del danno, che, sulle orme di una attenta dottrina (14), è stata individuata nel momento in cui il figlio raggiunga l’indipendenza economica, poiché da tale momento cessa il dovere del genitore di provvedere al mantenimento e, quindi – intendendolo in senso lato –, di mettere a disposizione del figlio le risorse necessarie alla sua formazione professionale. Alla luce delle considerazioni che precedono, è auspicabile che l’indirizzo seguito dalla decisione in epigrafe apra la strada ad un ripensamento da parte della Corte di Cassazione. (10) Cass. 21 marzo 1990, n. 2326, in Giur. it., 1991, 1, 82, con nota di Rapone, Dichiarazione giudiziale di paternità e prescrizione del diritto di accettare l'eredità (le riforme e il diritto transitorio); Cass. 11 giugno 1987, n. 5075, in Foro it. Rep., 1987, voce Successione ereditaria, n. 42; Cass. 12 marzo 1986, n. 1648, in Giust. civ., 1986, I, 1639. (11) V. Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, cit., 216. Cfr. altresì Azzari, Scarpello, Della prescrizione e della decadenza, in Comm. Scialoja Branca, II ed., Bologna-Roma, 1977, 203. (12) Si leggano le condivisibili considerazioni di Ortore, Mantenimento del figlio e prescrizione, cit., 1012; ed altresì Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, cit., 220. (13) L’unico punto criticabile – che invero sembra costituire un obiter dictum – è quello ove si afferma che il principio enun- ciato dall’art. 315 c.c., alla cui stregua tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, “non si può certo ritenere che […] si riferisca ai soli figli riconosciuti o riconoscibili”; invero, come stato messo in luce, la recente riforma non supera il principio secondo il quale la formazione di un titolo sia sempre necessaria perché possa propriamente parlarsi di stato di filiazione. Dal combinato disposto degli artt. 279, 573, 580 e 594 c.c. emerge che pur nella raggiunta unicità di stato, residuano figli che si trovano, rispetto a chi li ha generati, in una situazione peculiare considerato che essi beneficiano solo della specifica tutela prevista dalle predette disposizioni che li riguardano. In argomento cfr. Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 1, spec. 18 ss. (14) Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., 130, 131. Famiglia e diritto 11/2014 1021 Giurisprudenza Casa familiare Provvedimento di assegnazione TRIBUNALE DI MILANO, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord. - Est. Buffone Alla scadenza del termine stabilito dal magistrato, il genitore non assegnatario va qualificato come occupante l’immobile sine titulo e, pertanto, verso lo stesso, la parte assegnataria ha titolo (esecutivo: l’ordinanza ex art. 708 c.p.c.) per ottenere il rilascio o comunque l’allontanamento. Ne consegue che lo strumento rimediale è da intravedersi nell’esecuzione e non nel ricorso al giudice della famiglia che ha, sul punto, consumato i suoi poteri (salve le successive valutazioni in merito al comportamento di colui il quale abbia violato l’ordinanza presidenziale). ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cass. 24 luglio 2007, n. 16389, Cass. 31 gennaio 2012, n. 1367 Difforme non constano precedenti difformi All’esito dell’udienza presidenziale del 2 luglio 2013, il Presidente del Tribunale f.f. ha assegnato alla sig.ra …. (nata a …, il … 1971, cod. fisc. …), la casa familiare, sita in … (Milano), via …, in quanto genitore presso cui collocata la prole (…, nata il …2011). L’ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. (del 2 luglio 2013, letta in udienza) ha assegnato al marito termine massimo entro il 30 settembre 2013 per lasciare l’abitazione attribuita in godimento esclusivo alla moglie (la quale, peraltro, ne è l’esclusiva proprietaria). Successivamente alla scadenza del 30 settembre, il marito della assegnataria (Gian…, nato a … il … ..) non ha lasciato l’abitazione coniugale e, con istanza del 3 ottobre 2013, la … richiede i provvedimenti urgenti opportuni da emettersi nei confronti del ... Sull’istanza non vi è luogo a provvedere. Giova ricordare che l’assegnazione si sostanzia nel diritto di continuare a vivere nell’abitazione familiare (al godimento della stessa, secondo l’art. 155-quater, c.c., introdotto dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54) senza l’altro coniuge. La caratteristica essenziale, connaturale alla funzione, è di costituire un limite rispetto a un diritto dominicale di altri (l’altro coniuge o un terzo) sullo stesso bene; costituisce, insomma, un limite, di carattere eccezionale, posto all’ordinario assetto dei rapporti reali e obbligatori sull’immobile. Il provvedimento di assegnazione della casa familiare (pronunciato ex art. 155quater c.c.), pertanto, concentra in capo al genitore collocatario il godimento dell’abitazione coniugale e, per l’effetto, l’altro partner è tenuto ad allontanarsi dal contesto domestico entro il termine concesso dal giudice. Rispetto al momento dell’attribuzione, infatti, il diritto non può venire ad esistenza se non si accompagna all’allontanamento dalla casa familiare dell’altro coniuge. Se non c’è l’allontanamento (il rilascio) da parte dell’altro coniuge, non manca solo la possibilità di esercitare un diritto (in astratto esistente sulla carta); manca il diritto stesso, essendo il godimento esclusivo l’unico contenuto della assegnazione. Sul piano dell’esecuzione, ciò comporta che il provvedimento, o sentenza, con cui il diritto è attribuito, contiene in sé, implicita- 1022 mente, la condanna al rilascio nei confronti dell’altro coniuge; attribuzione e rilascio non si pongono su due piani distinti: il rilascio non si pone come consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto. Ciò vuol dire che, alla scadenza del termine stabilito dal magistrato, il genitore non assegnatario va qualificato come occupante l’immobile sine titulo e, pertanto, verso lo stesso, la parte assegnataria ha titolo (esecutivo: l’ordinanza ex art. 708 c.p.c.) per ottenere il rilascio o comunque l’allontanamento. Giova, infatti, ricordare che, giusta gli artt. 708 c.p.c. e 189 disp. att. c.p.c., il provvedimento anticipatorio e provvisorio, ex art. 708 c.p.c. costituisce titolo esecutivo, anche e soprattutto relativamente alla assegnazione della casa familiare (Cass., sez. III, 31 gennaio 2012, n. 3167). In tal senso, la Corte di Cassazione non ha dubitato che l’ordinanza attributiva del diritto ad uno dei coniugi di abitare la casa familiare sia soggetta, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva (in via breve, tramite l’ufficiale giudiziario, o mediante normale procedura di esecuzione forzata; cfr. Cass. 1 settembre 1997, n. 8317). Ne consegue che lo strumento rimediale è da intravedersi nell’esecuzione e non nel ricorso al giudice della famiglia che ha, sul punto, consumato i suoi poteri (salve le successive valutazioni in merito al comportamento di colui il quale abbia violato l’ordinanza presidenziale). Come detto, dunque, l’assegnatario può, certamente, ottenere rituale provvedimento di rilascio della casa familiare (Cass., sez. I, 17 settembre 2003 n. 13664) e, in caso di urgenza e necessità, può anche rivolgere le proprie istanze alle Autorità di Polizia o giudiziarie penali nell’ipotesi in cui la condotta dell’occupante l’immobile sine titulo si sostanzi in una condotta penalmente rilevante. Lo strumento rimediale della protezione immediata, in caso di violenza di genere, è, peraltro, oggi rafforzato dalle norme di nuovo conio introdotte dal decreto legge 14 agosto 2013 n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere …), in cui spicca la previsione di cui all’art. 3, deputata a fornire supporto protettivo alle persone vittime di violenze domestiche. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare Per questi motivi Visti gli artt. 155-quater c.c., 708 c.p.c., 189 disp. att. c.p.c., dichiara di non luogo a provvedere sull’istanza della ricorrente. IL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE COME TITOLO ESECUTIVO PER IL RILASCIO IN VIA COATTIVA di Mariacarla Giorgetti (*) Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale espresso nell’ordinanza presidenziale è un’entità inscindibile con l’ordine al non assegnatario al rilascio della stessa. Ossia, il rilascio non si pone come consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto di godimento esclusivo connaturato al provvedimento di assegnazione, sicché, in caso di non ottemperanza a tale ordine, è il medesimo provvedimento a costituire già di per sé titolo esecutivo. Tale diritto si esegue coattivamente in via breve, ovvero anche mediante la consueta procedura di esecuzione forzata. La decisione in commento dell’ordine di rilascio avviene; il rapporto tra la previgente disciplina dell’art. 155 quater c.c., alla luce del quale il provvedimento annotato è stato reso, e il nuovo art. 337 sexies c.c. All’esito dell’udienza presidenziale il Presidente del Tribunale di Milano assegnava la casa familiare alla moglie, presso cui era collocata la prole, e dava termine al marito sino ad una certa data per lasciare l’abitazione coniugale. Poiché alla data fissata il marito non abbandonava la casa, la moglie chiedeva al medesimo Tribunale provvedimenti urgenti da emettersi nei confronti del marito; il Tribunale, però, giudicava di non doversi procedere. Questo, perché il provvedimento di assegnazione della casa coniugale contiene già in sé la condanna al rilascio nei confronti dell’altro coniuge, con la conseguenza che il genitore non assegnatario che si trattenga oltre il termine fissato deve essere qualificato come occupante sine titulo, nei confronti del quale l’altro coniuge ha già titolo esecutivo per il rilascio dell’abitazione, costituto dalla stessa ordinanza presidenziale. Tale diritto, secondo la decisione in commento, si esegue coattivamente in via breve, ovvero anche mediante la consueta procedura di esecuzione forzata. La pronuncia qui in esame presenta diversi e interessanti spunti di riflessione. I problemi giuridici da essa affrontati e sui cui si desidera, ora, soffermare l’attenzione sono, in particolare: il contenuto del provvedimento di assegnazione della casa familiare; le forme con cui l’esecuzione in via coattiva L’assegnazione dell’abitazione al coniuge presso il quale è collocata la prole consente di violare il diritto di proprietà o il diritto reale minore o anche, eventualmente, il diritto personale di godimento sull’immobile adibito a casa di famiglia (1) all’esclusivo fine di tutelare i figli ed evitare loro un ulteriore turbamento derivante dallo sradicamento dall’ambiente abituale in aggiunta alla già dolorosa crisi familiare che coinvolge la coppia genitoriale. Difatti, in assenza di prole minorenne – ma anche di prole maggiorenne, tuttavia non ancora indipendente economicamente – il giudice non ha il potere di disporre in ordine all’assegnazione della casa familiare, prevalendo, in tal caso, l’ordinaria situazione giuridica di signoria sull’immobile (2). Anzi, in difetto dei predetti presupposti, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere sul capo relativo a tale profilo, ove eventualmente l’assegnazione dell’abitazione fosse ugualmente richiesta (3). (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) V. infra, par. 4. (2) Cfr. Cass. 24 luglio 2007, n. 16389. (3) V. App. Roma 28 gennaio 2005. Appare invece tramontata e decisamente minoritaria la tesi secondo la quale l’asse- Famiglia e diritto 11/2014 Il contenuto del provvedimento di assegnazione della casa familiare 1023 Giurisprudenza Casa familiare Questo significa che, in assenza del requisito fondamentale della presenza dei figli, il diritto di proprietà sull’immobile non può essere compresso o limitato in alcun modo. In punto, la decisione in esame è assai chiara: la limitazione rispetto ad un diritto dominicale altrui (del coniuge o di terzi) sul bene costituisce un’ipotesi eccezionale rispetto all’ordinario assetto dei rapporti reali o obbligatori sull’immobile. La peculiarità della pronuncia annotata, peraltro, è data dal fatto che, secondo il tribunale milanese, il provvedimento di assegnazione della casa coniugale espresso nell’ordinanza presidenziale è un’entità inscindibile con l’ordine al non assegnatario al rilascio della stessa. Ossia, il rilascio non si pone come consequenziale all’attribuzione, ma come coessenziale per la nascita stessa del diritto di godimento esclusivo connaturato al provvedimento di assegnazione, sicché, in caso di non ottemperanza a tale ordine, è il medesimo provvedimento a costituire già di per sé titolo esecutivo. La tesi espressa dalla decisione non è nuova: se non vi è allontanamento da parte del coniuge non assegnatario, manca la possibilità materiale di esercitare il diritto e, dunque, manca il diritto stesso, poiché il godimento esclusivo è il solo ed unico contenuto possibile del provvedimento di assegnazione (4). Da ciò consegue, e in modo netto, la conclusione che il provvedimento attributivo del diritto contenga già in sé la condanna implicita al rilascio. In tale prospettiva, infatti, attribuzione e successivo rilascio sono due facce della stessa medaglia, poiché il rilascio è condizione necessaria e sufficiente per il sorgere del diritto di godimento esclusivo. Questo implica che eventuali espressioni con le quali nel provvedimento fosse precisato che lo stes- so è idoneo a costituire titolo esecutivo sono assolutamente irrilevanti, perché chiaramente pleonastiche. Per tale ragione, anche in caso di successiva revoca dell’assegnazione, in modo del tutto simmetrico il mero provvedimento costituisce titolo esecutivo per tale specifica e contraria situazione, anche quando l’ordine di rilascio non sia stato espressamente pronunciato (5) e, in ogni caso, il provvedimento di assegnazione della casa familiare reso con ordinanza presidenziale continua ad espletare la sua funzione di titolo esecutivo anche in caso di estinzione del procedimento principale (6). Il principio testé esposto pone le sue fondamenta nel rilievo che solo le sentenze meramente dichiarative di un diritto non sono suscettibili di esecuzione forzata, mentre invece lo sono quelle dichiarative che, affermando un diritto, implicano la necessità della sua attuazione, anche in difetto di una formula specifica di condanna: questo, naturalmente, a patto che dal dispositivo e dalla motivazione emerga in re ipsa l’esigenza dell’esecuzione (7). Si tratta, a ben vedere, del noto e discusso tema delle condanne implicite (8). In argomento, appare invero condivisibile il principio enunciato dalla giurisprudenza in tema di provvisoria esecuzione ai sensi dell’articolo 282 c.p.c. Per tale principio, deve ritenersi legittimamente predicabile la provvisoria esecutività di tutti i capi delle sentenze di primo grado aventi portata condannatoria, trattandosi di un meccanismo del tutto automatico e non subordinato all’accoglimento della domanda introdotta dalle parti (qual essa sia): questo vale anche per le pronunce di condanna implicita, ossia quelle nelle quali l’esigenza di esecuzione della decisione scaturisce dalla stessa funzione che il titolo è destinato a svolgere, come nel caso del provvedimento di assegnazione della casa familiare (9). gnazione della casa familiare rappresenterebbe non soltanto uno strumento a tutela della prole, bensì anche un mezzo di tutela per il coniuge economicamente più debole (v. Bianca, Diritto civile, La famiglia, Le successioni, II, Milano, 2001 e, in giurisprudenza, Cass. 11 aprile 2000, n. 4558). (4) Cassano, La tutela del padre nell’affidamento condiviso, Ravenna, 2013, 255 ss. (5) Così Cass. 31 gennaio 2012, n. 1367, la quale ha enunciato il principio in relazione a un caso relativo all’opposizione al precetto per il rilascio dell’immobile, notificato sulla base della sola sentenza del tribunale di revoca dell’attribuzione. (6) V. Trib. Latina 14 aprile 1988, in Dir. fam., 1989, 137 ss. (7) Cfr. Pret. Ravenna 8 giugno 1985, relativa proprio ad un provvedimento di assegnazione della casa familiare. (8) Su cui v. Arieta – De Santis, L’esecuzione forzata, in Montesano – Arieta, Trattato di diritto processuale civile, Padova, 2007; Consolo-Parisi, sub art. 282 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, diretto da Consolo, Milano, 2010, I, 2793. In giurisprudenza, v. Trib. Modena 30 agosto 2011; Cass. 22 febbraio 2010, n. 4059 (che, però, in caso di sentenza costitutiva esclude l'esecutività provvisoria della condanna implicita del promittente venditore al rilascio dell'immobile, poiché in tale specifico caso il trasferimento della proprietà è condizionato al passaggio in giudicato della sentenza) e Cass. 26 gennaio 2005, n. 1619. (9) In argomento, in senso critico, cfr. però Trinchi, È titolo esecutivo il provvedimento che revoca l’assegnazione della casa familiare?, in questa Rivista, 2012, 880 ss., il quale ritiene che il provvedimento di condanna al rilascio debba essere espresso, in ossequio ai principi di forma contenuto di cui all’art. 474 c.p.c. La tesi dell’A. non appare condivisibile in quanto non si può, a sommesso avviso della scrivente, concordare sull’enunciato che un conto sarebbe il provvedimento di assegnazione della casa familiare, che presuppone il rilascio per l’esistenza del relativo diritto, ed altro il caso del provvedimento di revoca della precedente assegnazione. Appare infatti una superfeta- 1024 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare A maggior ragione tale conclusione deve essere considerata corretta nella misura in cui, nell’ambito del diritto di famiglia, l’art. 189 att. c.p.c. prescrive che anche l’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’articolo 708 costituisce titolo esecutivo: e ciò deve valere necessariamente anche per le statuizioni implicite relative al rilascio dell’abitazione, come prontamente registrato anche dai giudici milanesi. Alla luce di tale inconfutabile dato costituirebbe, invero, a parere di chi scrive, superfluo dover richiedere – nel caso in cui il provvedimento non rendesse esplicito l’ordine di rilascio dell’abitazione – un ulteriore pronunciamento per potere procedere in via coattiva. ipotesi, giudice competente per l’esecuzione è quello che ha emesso il provvedimento o quello competente per il merito, se risulta già iniziato il relativo giudizio; mentre, nella seconda ipotesi, competente è il giudice dell’esecuzione secondo le regole ordinarie (12). Rapporto tra art. 155 quater e art. 337 sexies c.c. La premessa appena ricordata fonda la base per la risposta anche al successivo quesito relativo alle forme con le quali il rilascio dell’immobile possa essere attuato in via coattiva. Se il provvedimento contiene già in sé l’ordine al rilascio, anche in modo implicito, è ben possibile che si possa procedere immediatamente all’esecuzione forzata che, in questo campo, come spesso avviene, può essere anche per le vie brevi. In alternativa, è sempre possibile seguire le forme ordinarie di esecuzione forzata. Entrambe le opzioni appaiono condivise dalla giurisprudenza (10). È infatti noto, al riguardo, che per quanto riguarda l’esecuzione di siffatti provvedimenti, la giurisprudenza di legittimità ha più volte enunciato (11) che i provvedimenti temporanei ed urgenti, adottati dal presidente del Tribunale o dal giudice istruttore nel procedimento di separazione personale a norma dell’art. 708 c.p.c., sono soggetti, in mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve, a mezzo dell’ufficiale giudiziario competente, salvo che il beneficiario del provvedimento preferisca avvalersi, come gli è alternativamente consentito, della normale procedura di esecuzione forzata: nella prima La recente riforma del diritto di famiglia introdotta dall’art. 55 del d.lgs. n. 154 del 2013 ha condotto, per quanto qui interessa, all’abrogazione dell’art. 155 quater, relativo al tema dell’assegnazione della casa familiare e della residenza (13). Infatti, la relativa disciplina, è trasmigrata nell’art. 337 sexies c.c., il quale però presenta alcuni tratti differenti rispetto alla normativa previgente. Onde sondare la validità delle conclusioni raggiunte dalla decisione in esame – resa sotto la vigenza della precedente disciplina – occorre verificare il rapporto che intercorre tra le due disposizioni. Il contenuto dell’art.155 quater è stato integralmente riprodotto nell’art. 337 sexies c.c.; il d.lgs. n. 154 del 2013 non ha però abrogato l’art. 6, comma 6, l. div., che disciplina il medesimo profilo. Poiché secondo il combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 sexies c.c. la nuova disposizione di cui al menzionato art. 337 sexies c.c. si applica espressamente anche al caso dello scioglimento e della cessazione degli effetti civili, occorre chiedersi come tale apparente discrasia possa essere conciliata. In altre parole, si tratta di capire se l’art. 6, comma 6, legge div. debba considerarsi tacitamente abrogato o se, ferma la sussistenza della norma testé citata, la nuova disposizione di cui all’art. 337 c.c. debba essere applicato al divorzio alla luce di un criterio di compatibilità con la specifica disciplina prevista per quest’ultimo caso (14). Per quanto qui interessa, giova in primo luogo rammentare che è stato reiterato il principio dell’opportunità dell’assegnazione della casa familiare tenendo conto in modo prioritario dell’affidamento dei figli e dell’interesse di costoro a non vedersi zione distinguere tali due ipotesi, posto che se il diritto viene ad esistenza ed è antitetico alla permanenza del coniuge assegnatario nella casa, in caso di revoca dell’assegnazione tale diritto ad occupare l’immobile deve necessariamente venir meno, tertium non datur. (10) Cfr. Cass. 1 settembre 1997, n. 8317. (11) Cfr. sentt. nn. 5696 del 1984, 5947 del 1982 e 553 del 1979. (12) V. anche Pini, L’esecuzione dei provvedimenti nel diritto di famiglia, in Rivista dell'Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori, 2013, 38 ss. (13) V. AA.VV., La riforma del diritto della filiazione, Commentario sistematico, a cura di Bianca, in Nuove leggi civili comm., 2013, 437 ss. (14) Giacobbe, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, in Dir. fam., 2006, 707, in relazione all’analogo problema occorso in rapporto all’art. 4, comma 2, l. div., dopo la novella apportata dalla l. n. 54 del 2006. Le forme con cui l’esecuzione in via coattiva dell’ordine di rilascio avviene Famiglia e diritto 11/2014 1025 Giurisprudenza Casa familiare sradicati dall’ambiente in cui sono soliti vivere (15). Per tale ragione, anche nella vigenza della nuova norma, l’abitazione viene attribuita essenzialmente al coniuge presso il quale è collocata la prole minorenne o maggiorenne, ma ancora non autonoma dal punto di vista economico. Il diritto di godimento sull’immobile derivante dall’assegnazione viene meno nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa ovvero conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. E’ stata confermata anche la trascrivibilità e l’opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione o di revoca, sebbene si evidenzi il mancato coordinamento con l’art. 6, comma 6, l. div., il quale rinvia invece ad un regime di trascrizione differente e, precisamente, quello della locazione che qualifica, ai sensi dell’art. 1599 c.c., il diritto del destinatario del provvedimento di assegnazione come un diritto personale di godimento (16). Al fine di superare l’evidente discrasia interpretativa che rischia di porsi, in ragione della mancata espressa abrogazione dell’art. 6, comma 6, l. div., a sommesso avviso della scrivente occorre muovere dal rilievo che la lettera della novella si propone di unificare il regime mediante l’estensione dell’applicazione dell’art. 337 sexies c.c. ad ogni tipologia di situazione, ma senza nel contempo negare eventuali differenze proprie di ciascun rito. In tale prospettiva, pertanto, ferme le eventuali specificità di determinate disposizioni - quali ad es. l’art. 6, comma 6, l. div. - appare plausibile ritenere che per tutto quanto non espressamente disciplinato dalla disposizione speciale si debba far riferimento all’art. 337 sexies c.c. E, così, ad esempio si può ritenere che la nuova disposizione intenda l’art. 2643 c.c. come una mera norma di rinvio finalizzata unicamente all’individuazione dell’elenco tassativo degli atti che sono soggetti a trascrizione onde ricomprendervi in modo espresso il provvedimento di assegnazione della casa familiare in qualsivoglia ipotesi (separazione, divorzio, nullità del matrimonio, ecc.), senza negare le specificità previste in punto di trascrizione dall’art. 6 l. div. Deve, del pari, reputarsi che la nuova disciplina sia applicabile per analogia anche al caso dell’assegnazione della casa familiare in presenza di figli nati fuori dal matrimonio: ciò non solo in forza di un orientamento costante in tal senso, ma a maggior ragione in virtù del carattere tendenzialmente omnicomprensivo del combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 sexies c.c. sopra ricordato. Costituisce invece una novità assolutamente inedita la regola per cui, in presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro un termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto mutamento della residenza o del domicilio (art. 337 sexies, comma 2, c.c.). A prescindere da tale ultima innovazione, peraltro, è evidente che, con riguardo all’oggetto della pronuncia qui in commento, si può certamente concludere che i principi da essa enunciati continuano ad essere condivisibili e a protrarre la loro validità anche in relazione al tenore del nuovo art. 337 sexies c.p.c., che in parte qua non ha mutato assolutamente nulla. Il provvedimento di assegnazione, pertanto, sarà sufficiente per costituire il titolo esecutivo da utilizzare per il caso in cui il coniuge non assegnatario non abbandoni spontaneamente la casa familiare, essendo rilascio ed assegnazione dell’immobile due profili assolutamente inscindibili. Per precisione, infine, in relazione al diverso caso della locazione, in applicazione analogica dell’art. 6, comma 2, l. div., va solo ricordato che in quell’ipotesi si verifica un caso di successione ex lege nella titolarità del contratto, più che di limitazione del diritto dominicale del non assegnatario sul bene; ma le conclusioni in punto di funzione del provvedimento al fine di ottenere il materiale rilascio della casa familiare rimangono certamente invariate (17). (15) Cfr., in argomento, Frezza, Mantenimento diretto e affidamento condiviso, Milano, 2008, 144 ss.; Di Majo, Doveri di contribuzione e regime dei beni nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. trim. dir. proc., 1981, 365 ss. (16) Cfr. Virgadamo, Opponibilità ai terzi del provvedimento assegnativo della casa familiare e affidamento condiviso, in Dir. fam., 2008, 1598 ss.; Gabrielli, I problemi dell’assegnazione del- la casa familiare al genitore convivente con i figli dopo la dissoluzione della coppia, in Riv. dir. civ., 2003, 131; Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 222. Il regime della trascrizione in caso di separazione e divorzio rimane, in relazione alla locazione, in ogni caso differenziato, come messo in evidenza da Corte cost. n. 2/1990 e da Cass., S.U., 26 luglio 2002, n. 11096. (17) Cfr. Cass. 30 aprile 2009, n. 10104. 1026 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare Assegnazione della casa familiare TRIBUNALE DI MILANO, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord. - Pres. Est. Canali Ai fini dell’assegnazione della casa familiare, l’allontanamento volontario da parte di uno dei coniugi, che porti con sé i figli minori, determina una cesura tra l’ambiente domestico ed i figli stessi; occorre, però, distinguere tra un allontanamento volontario (o anche solo determinato dalla necessità di sottrarre i figli minori alla tensione endofamiliare che i conflitti coniugali sollevano) dall’allontanamento determinato o indotto dalla necessità di preservare sia il coniuge che i figli minori dalla violenza subita o anche solo assistita; in tal caso ad una cesura meramente “materiale” del rapporto tra i figli minori e il loro ambiente domestico, può non corrispondere (o non corrisponde necessariamente) una cesura di tipo psicologico o soggettivo, poiché un allontanamento “forzato” comporta inevitabilmente una tensione ed una aspettativa di ritorno quando, per scelta del genitore abusante ovvero per provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, sia cessato lo stato di pericolo. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non si rinvengono precedenti Difforme Non si rinvengono precedenti Omissis Con ricorso depositato in data 30.5.2013 M chiede: - pronunciarsi la separazione coniugale con addebito al marito G; - l’affidamento esclusivo delle figlie MM (1996) e MMM (2005) segnalando come sia attualmente pendente dinanzi al Tribunale per i Minorenni di Milano un provvedimento di limitazione della potestà genitoriale a carico del signor G in merito ad un episodio di violenza domestica denunciato in data 4.9.2012; - l’assegnazione della casa coniugale in atto occupata dal marito e dalla quale la ricorrente, a seguito dell’episodio in data 4.9.2012, ebbe ad allontanarsi trovando momentanea ospitalità presso la casa della madre in ...; - che venga posto a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento per le figlie in ragione di euro 700,00 mensili oltre al 50% delle spese mediche, ludiche, scolastiche, ricreative e sportive; in sede di dichiarazioni avanti il Presidente delegato, la signora M ha segnalato: - che la propria madre dorme sul divano ed ella, con le due figlie, in un letto matrimoniale e che le figlie devono sopportare non pochi disagi per poter frequentare i rispettivi Istituti scolastici con sede a … nei pressi dell’abitazione già casa coniugale; - di svolgere unicamente lavori saltuari per i quali percepisce circa 400,00 euro mensili (pur potendo contare sull’ospitalità ed un minimo aiuto da parte della madre); con memoria difensiva depositata in data 25.9.2013 in … il signor G: - segnala che la querela a suo tempo presentata dalla moglie è stata rimessa in data 30.10.2012 e che a partire dal 4.2.2013 egli ha visto saltuariamente la figlia minore nonostante non vi fosse uno specifico provvedimento del T.M. che impedisse la frequentazione tra padre e figlia; - si oppone all’assegnazione della casa coniugale alla moglie sostenendo che la signora M se ne sia già da Famiglia e diritto 11/2014 tempo allontanata sì che, citando copiosa giurisprudenza sul punto, sottolinea come sia venuta meno la necessità “di preservare la continuità delle abitudini e delle relazioni domestiche dei figli, nell’ambiente nel quale durante il matrimonio esse si sviluppavano” e che “la casa familiare abbia quindi cessato di essere tale e la prole sia già de finitamente sradicata dal luogo in cui la vita domestica si svolgeva”; - si oppone altresì all’affidamento esclusivo delle figlie alla madre e chiede di fissare in euro 200,00 mensili il contributo al mantenimento delle figlie. Vi è in atti una relazione in data 2.5.2013 del Dipartimento Politiche Sociali e Cultura della Salute – settore Servizi per i Minori e le Famiglie – Servizi Sociali della Zona ... di Milano - pervenuta al Tribunale per i Minorenni di Milano in data 6.6.2013 e depositata dalla signora M all’udienza dell’8.10.2013 in cui si riferisce: - che “in data 3.9.2012 a seguito di un episodio di violenza che ha reso necessario l’intervento delle Forze dell’Ordine...la signora M insieme alle due figli minori MM e MMM ha lasciato l’abitazione familiare e si è trasferita presso la casa della propria madre a ... ”; - che è stata accertata dell’esistenza all’interno della coppia di “continui conflitti causati dal signor G che, talvolta alterato dall’uso smodato di alcool, mette in atto condotte aggressive nei confronti della moglie”; - che il sig. G, nell’episodio del 3.9.2012 sotto l’effetto di alcool avrebbe minacciato con un coltello da cucina la moglie provocando l’intervento a sua difesa della figlia maggiore MM contro il quale il padre ebbe una reazione violenta; - che il signor G oltre ad essere in carico al .... è in carico anche al ... di .. e viene riferito essere “poco consapevole e molto negante sul tema della dipendenza”; - che, per altro, la stessa signora M sembra mostrare atteggiamenti altalenanti ed ambivalenti nei confronti del marito: pur dichiarandone le inadeguatezze e la pericolosità, per un certo periodo ha continuato a ‘’coinvol- 1027 Giurisprudenza Casa familiare gerlo concretamente nella vita delle figlie ”, le quali, a loro volta, hanno decisamente manifestato un’avversione ed un rifiuto ai rapporti con il padre; quanto sopra premesso allo stato si ritiene: a) di dover lasciare i rapporti tra il padre e la figlia maggiore MM (che tra poco compirà 18 anni) ai diretti accordi tra di essi e di affidare MMM ai Servizi Sociali del Comune di .. perché, mantenuta prevalentemente collocata presso la madre, regolamentino i tempi e le modalità di frequentazione del padre, avuto riguardo alle di lui problematiche ed all’andamento dei suoi percorsi riabilitativi presso il N.O.A. ed il Ser.T; b) quanto all’assegnazione della casa coniugale se è ben vero che un allontanamento volontario da parte di uno dei coniugi, che porti con sé i figli minori, può effettivamente determinare una cesura tra l’ambiente domestico ed i figli stessi, cionondimeno occorre distinguere tra un allontanamento volontario (o anche solo determinato dalla necessità di sottrarre i figli minori alla tensione endofamiliare che i conflitti coniugali sollevano) dall’allontanamento determinato o indotto dalla necessità di preservare sia il coniuge che i figli minori dalla violenza subita o anche solo assistita ; in tal caso ad una cesura meramente “materiale” del rapporto tra i figli minori e il loro ambiente domestico, può non corrispondere (o non corrisponde necessariamente) una cesura di tipo psicologico o soggettivo, poiché un allontanamento “forzato” comporta inevitabilmente una tensione ed una aspettativa di ritorno quando, per scelta del genitore abusante ovvero per provvedimento dell’Autorità Giudiziaria , sia cessato lo stato di pericolo, e ciò è tanto più vero in casi come quello di specie, in cui l’am- biente sociale delle minori (scuole frequentate, relazioni sociali in senso lato) sia di stretta prossimità con la casa già familiare, il ritorno alla quale costituirebbe, per le ragazze, la conseguenza logica di un’esistenza che esse conducono nel quartiere nel quale esse vivevano ( in tal senso si esprime, per altro, anche la relazione dei servizi sociali in atti); c) in siffatte circostanze il lasso di tempo trascorso dal, forzato, abbandono dall’abitazione coniugale non sradica per nulla i figli ( avuto anche riguardo alla loro età) dal ‘contesto domestico’ dovendosi accedere ad una più ampia accezione che il concetto stesso sottende e che rende l’ambiente sociale complessivo come comprendente – sotto un profilo psicologico e sociologico, oggettivo e soggettivo, - lo stesso ambiente ‘domestico’ non certo limitato alla ‘fisicità’ delle mura di casa; d) diversamente argomentando, in caso di allontanamento forzato di uno dei coniugi dalla casa coniugale al fine di preservare se stesso ed i figli dalla violenza subita od assistita, la permanenza in essa del genitore abusante finirebbe per doppiamente penalizzare proprio le parti più deboli del nucleo familiare e ciò sia pure tenendo in vista le possibilità offerte dalla legge ( ma non sempre accessibili alle risorse psicologiche ed economiche delle parti deboli) di ottenere - in tempi relativamente brevi - misure di protezione in esse comprese l’assegnazione della casa coniugale; e) ne consegue che nel caso di specie l’abitazione coniugale debba essere assegnata alla signora M, che in essa abiterà con le figlie minori delle quali è genitore prevalentemente collocatario; Omissis ALLONTANAMENTO VOLONTARIO E ALLONTANAMENTO FORZATO DALLA CASA FAMILIARE di Federica Ferrara (*) Il Tribunale di Milano, chiamato a pronunciarsi sull’assegnazione della casa familiare in favore di una donna che aveva abbandonato il tetto coniugale per preservare sé stessa ed i propri figli dalle violenze del marito, con l’ordinanza in commento, traccia una distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato” dalla casa familiare. In particolare, il Tribunale milanese statuisce che “l’allontanamento volontario” da parte di uno dei coniugi, che porti con sé i figli, determina una cesura materiale e psicologica tra l’habitat domestico ed i figli stessi, facendo venir meno il presupposto dell’assegnazione della casa familiare, costituito dall’interesse dei figli a conservare l’habitat naturale del nucleo familiare nonostante la crisi coniugale; “l’allontanamento forzato”, invece, determinato o indotto dalla necessità di preservare sé ed i propri figli dalle violenze del coniuge, determina una cesura materiale tra l’ambiente domestico ed i figli, cui non necessariamente si accompagna una cesura di tipo psicologico, potendo ben avere i figli un’aspettativa di ritorno nella propria casa, una volta cessato lo stato di pericolo. In considerazione di ciò, con l’ordinanza de qua, il Tribunale afferma che l’allontanamento forzato dalla casa coniugale per sottrarre sé ed i propri figli dalle violenze del coniuge non osta, a differenza del mero allontanamento volontario, all’assegnazione della casa familiare, ove ciò risponda all’interesse dei figli. (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. 1028 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare 1. Il caso La fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento concerne il caso di una donna che, al fine di salvare sé ed i propri figli minori dalla violenza del marito, abbandonava la casa familiare e trovava momentanea ospitalità presso la casa della madre. La stessa proponeva allora ricorso al Tribunale di Milano per ottenere la separazione coniugale con addebito al marito, l’affidamento esclusivo dei figli minori, l’assegnazione della casa coniugale occupata dal marito, nonché la regolazione dei rapporti economici. Il marito, con memoria difensiva, si opponeva all’affidamento esclusivo dei figli alla madre e all’assegnazione alla stessa della casa familiare, rilevando che la donna aveva rimesso la querela presentata dinanzi all’autorità giudiziaria per i presunti episodi di violenza e che, avendo la donna abbandonato la casa coniugale trasferendosi dalla madre, mancavano i presupposti per l’assegnazione, in quanto la casa coniugale aveva cessato di essere tale ed i figli si erano sradicati definitivamente dal luogo in cui si era svolta la loro vita domestica in passato. Nel corso del giudizio la donna dichiarava che il trasferimento dalla madre per sottrarsi alle violenze del marito era solo momentaneo e comportava disagi a lei, alla madre di lei, ma soprattutto ai figli, in quanto tale abitazione era sprovvista di posti letto per tutti e gli istituti scolastici frequentati dai figli erano distanti dalla stessa e situati, invece, nei pressi dell’abitazione già casa coniugale. La donna depositava, inoltre, una relazione dei Servizi Sociali dalla quale risultavano le violenze perpetrate dal marito nei suoi confronti. In considerazione di ciò, con l’ordinanza de qua, il Tribunale di Milano decideva sul ricorso e, con particolare riferimento all’assegnazione della casa familiare, dopo aver tracciato un’interessante distinzione tra allontanamento volontario e allontanamento forzato, assegnava la casa familiare alla (1) Per un primo inquadramento dell’istituto, si segnalano: E. Quadri, Assegnazione della casa familiare, interesse della prole e tutela del coniuge, in Nuova giur. civ. comm., Padova, 1996, I, 517; T. Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 2004, 255; M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni, Milano, 2005, 221; V. Carbone, Assegnazione della casa coniugale, in Corr. giur., Milano, 2005, 319; M. Paladini, L’abitazione della casa familiare nell’affidamento condiviso, in questa Rivista, 2006, 335; E. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, in Familia, Milano, 2006, 3, 432; C. Rimini, L’assegnazione della casa familiare: l’art 155 quater c.c. alla luce delle più recenti affermazioni giurisprudenziali, in Fam. pers. succ., Torino, 2007, 497. (2) V. Belloma, Intorno al concetto di <casa familiare> ed alla sua assegnazione in sede di divorzio, in Giur. merito, Milano, Famiglia e diritto 11/2014 donna nonostante si fosse dalla stessa allontanata con i figli per un periodo di tempo, per aver accertato che si trattava di ipotesi di “allontanamento forzato” determinato dalla necessità di sottrarre se stessa ed i propri figli dalle violenze del marito, inidoneo a recidere il legame dei figli con l’habitat domestico originario. 2. L’istituto dell’assegnazione della casa familiare e la sua funzione L’istituto dell’assegnazione della casa familiare (1) trova la sua sede naturale nella fase patologica dei rapporti familiari. La “casa familiare” (2) è l’immobile che ha costituito il centro di riferimento e di aggregazione della famiglia durante la convivenza; essa viene intesa quale habitat naturale del nucleo familiare, centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini di vita in cui si esprime e si articola la vita della famiglia (3). La casa ha una duplice valenza, oggettiva e psicologica, nel senso che, oltre a costituire il luogo fisico di stabile dimora della famiglia, rappresenta il luogo ideale in cui si svolgono gli affetti e si concentrano i sentimenti dei genitori e dei figli (4). In considerazione di ciò, secondo la tesi prevalente (5), la “casa familiare” non è il mero immobile in cui ha vissuto la famiglia, ma va intesa quale immobile comprensivo dei beni mobili, quali arredi, suppellettili, utensili, ad eccezione dei beni personali appartenenti al singolo familiare. Essa va intesa, inoltre, quale dimora stabile e abituale per la famiglia e ciò induce ad escludere che le case di villeggiatura o quelle in cui la famiglia si reca saltuariamente nel corso di brevi periodi dell’anno possano rientrare nel concetto di “casa familiare” (6). La “crisi familiare” pone il problema di individuare il soggetto cui eventualmente assegnare in 2003, 1943. (3) In tali termini, Corte Cost. 13 maggio 1998, n. 166, in Giur. it., 1998, 1783; Cass. 2 luglio 1990, n. 6774, in Giur. it., 1991, 424; Cass. 23 maggio 2000, n. 6706, in Giust. civ. Mass., 2000, 1091; Cass. 9 settembre 2002, n. 13065, in Dir. Fam., 2003, 36; Cass. sez. un., 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e Giustizia online, 2012, 8 giugno. (4) C. Trapuzzano, Assegnazione della casa familiare, in Giur. merito, Milano, 2011, 1731. (5) In tal senso, A. Jannarelli, L’assegnazione della casa familiare nella separazione personale dei coniugi, in Foro it., 1981, 1385; M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni, cit., 221. (6) Cass. 20 marzo 1993, n. 5793, in Giur. it., 1994, I, 242. 1029 Giurisprudenza Casa familiare godimento la casa in cui si è svolta la vita del nucleo familiare prima che intervenisse la disgregazione dello stesso. L’assegnazione della casa trova oggi la sua compiuta disciplina nell’art 337 sexies del codice civile (7) secondo il quale l’assegnazione in godimento della casa, in caso di crisi familiare, deve avvenire “tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, determinando l’acquisto in capo al soggetto, secondo alcuni, di un diritto reale di abitazione (8), secondo altri, di un diritto reale di godimento (9). In considerazione del valore economico del godimento della casa, specie ove venga assegnata al coniuge o ex convivente non proprietario della stessa, la norma prevede che dell’assegnazione occorre tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. L’art 337 sexies dispone, infine, che il diritto al godimento della casa venga meno, previo provvedimento di revoca da parte del giudice, ove l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio e che i provvedimenti di assegnazione e revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi, ai sensi dell’art 2643c.c.. La ratio dell’istituto, secondo la tesi prevalente (10), risiede esclusivamente nell’esigenza di tutelare i figli in caso di crisi della famiglia, consentendo agli stessi di conservare l’habitat domestico, inteso, come già anticipato, quale centro di affetti, interessi e consuetudini in cui si è svolta la vita familiare prima che intervenisse la crisi tra i genitori. Secondo tale orientamento, l’assegnazione della casa familiare, essendo finalizzata ad evitare ai figli minorenni o maggiorenni, non economicamente autosufficienti, il trauma dell’allontanamento forzoso dall’abituale ambiente di vita, può essere disposta solo ed esclusivamente in presenza di figli e nei confronti del genitore che convive con gli stessi. Tale tesi trova fondamento nel dato letterale di cui all’art 337 sexies (ove prevede che occorre tener conto in via prioritaria dell’interesse dei figli e fa riferimento al concetto di “genitori”) e risulta oggi suffragata dalla nuova collocazione dell’istituto, per effetto della Riforma sulla Filiazione del 2013, non più nell’ambito dello scioglimento del matrimonio e della separazione, ma nell’ambito della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio. Non può comunque sottacersi l’esistenza di un indirizzo minoritario (11) secondo il quale l’istituto de quo è volto a tutelare non solo l’interesse dei figli, ma anche l’interesse economico, morale ed affettivo del coniuge “debole”. Tale tesi trova conforto sia nell’art 337 sexies che, prevedendo che ai fini dell’assegnazione della casa occorre tenere “prioritariamente” conto dell’interesse dei figli, pare non escludere che il giudice possa decidere anche in considerazione di altri interessi ritenuti meritevoli di tutela, sia dell’art 6 della Legge 1 dicembre 1970, n. 898 ove dispone che “in ogni caso ai fini dell'assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”. In considerazione di ciò, è stato, quindi, sostenuto che il giudice possa assegnare la casa familiare al (7) L’istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151 che l’ha disciplinato, con riferimento alle ipotesi di separazione personale, all’art 155 c.c. Successivamente è stato esteso alle ipotesi di divorzio con l’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74 che ha modificato l’art. 6, comma 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898. Nel 2006, è intervenuto l’art. 1, comma 1 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 che ha inserito l’art 155 quater c.c. prevedendo l’applicazione dell’istituto alle ipotesi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili o nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, l’art. 155 quater è stato abrogato ed oggi l’istituto è disciplinato dall’art 337 sexies c.c. (8) In tal senso, A. Jannarelli, L’assegnazione della casa familiare nella separazione personale dei coniugi, cit., 1318. (9) In tal senso, in dottrina, A. Belvedere, Residenza e casa familiare: riflessioni critiche, in Riv. critica dir. priv., Napoli, 1988, 243; in giurisprudenza, Cass. 22 novembre 1993, n. 11508, in Vita not., 1994, I, 765; Cass. 19 settembre 2005, n. 18476, in Giust. civ., 2006, I, 2450. Si veda, inoltre, per la sintesi degli orientamenti sul punto, Cass., sez. un., 26 luglio 2002, 11096, in Giur. it., 2003, 1133, con nota di A. Carrino. (10) In tal senso, Cass., sez. un., 23 aprile 1982, n. 2494, in Foro it., 1982, I, 1985, con nota di A. Jannarelli; Cass., sez. un., 26 luglio 2002, n. 11096, cit.; Cass. 29 agosto 2003, n. 12705, in Dir. fam., 2003, 943; Cass., sez. un., 21 luglio 2004, n. 13603, in Giust. civ. Mass., 2004, 7-8; Cass. 18 febbraio 2008, n. 3934, in Guida al diritto, 2008, 12, 51; Corte Cost. 30 luglio 2008, n. 308, in Dir. fam., 2009, 2, 515; App. Roma 30 aprile 2008, n. 1820, in Giur. merito, 2009, 4, 900, con nota di V. Santarsiere; Cass. 13 gennaio 2012, n. 387, in Il civilista, 2012, 2, 14. (11) In tal senso, Trib. Catania 31 gennaio 1994, in Dir. fam., 1994, 695, secondo cui il giudice può assegnare la casa la genitore non affidatario “qualora gli interessi di costui ... vengano ritenuti nettamente più meritevoli di tutela di quelli della prole”; Trib. Napoli 29 ottobre 1984, in Dir. giur., 1984, 968; Cass. 9 giugno 1990, n. 5632, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 91, con nota di M. Di Nardo; Cass. 9 maggio 1997, n. 4061, in Dir. fam., 1997, 929; Cass. 28 gennaio 1998, n. 822, in questa Rivista, 1998, 125; Trib. Milano 29 ottobre 1999, in Giur. it., 2001, 1175; Cass. 23 febbraio 2000, n. 2070, in Giur. it. Mass., 2000; Cass. 11 aprile 2000, n. 4558, in Giur. it., 2000, 2235, secondo cui in assenza di figli, il giudice può assegnare la casa al coniuge privo di adeguati redditi propri. In dottrina M. C. Bianca, Diritto civile – La famiglia, le successioni, cit., 221. 1030 Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare coniuge privo di diritti sulla stessa sia nel caso in cui i figli non siano con lo stesso conviventi sia in assenza di figli, ove ricorrano interessi meritevoli di tutela (12). L’assegnazione della casa può cosi costituire una modalità di adempimento dell’obbligo di mantenimento normativamente previsto in tema di separazione e divorzio. Individuata la ratio dell’istituto, occorre esaminare i presupposti in presenza dei quali il giudice può disporre l’assegnazione della casa familiare. Presupposto fondamentale per l’assegnazione della casa familiare è costituito dall’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico in cui si è svolta la propria vita, onde evitare di aggiungere al trauma dovuto alla crisi familiare quello relativo all’allontanamento dal luogo di crescita e sviluppo, con conseguente perdita della continuità ambientale. A tale presupposto si affianca quello della coabitazione del genitore assegnatario con il figlio nella casa coniugale (13). In genere vi è coabitazione del figlio minore con il genitore cui è attribuito l’affidamento esclusivo del figlio o con quello presso cui è collocato prevalentemente in caso di affidamento congiunto; in caso di figlio maggiorenne, non economicamente autosufficiente, la coabitazione con il genitore è invece frutto della scelta del figlio stesso. La coabitazione rilevante ai fini dell’assegnazione deve svolgersi nella casa familiare. Al riguardo, si registrano due diversi orientamenti. Secondo una tesi più rigorosa (14), perché il giudice possa disporre l’assegnazione è necessario che la casa costituisca la “stabile dimora” del figlio. In altri termini, perché vi sia una coabitazione rilevante occorre che il figlio viva stabilmente, continuativamente e abitualmente nella casa familiare. Sono ammessi solo allontanamenti sporadici, per brevi periodi, altrimenti si configura un rapporto di mera ospitalità (15), che impedisce l’assegnazione della casa. E’ stato così negato il diritto di godimento della casa nell’ipotesi di un figlio studente fuori sede che si recava nell’abitazione familiare soltanto saltuariamente in alcuni periodi dell’anno (vacanze estive) o di un figlio che viveva con i nonni o al figlio trasferitosi all’estero (16). La tesi prevalente in giurisprudenza (17) ritiene, invece, che, ai fini dell’assegnazione, non sia necessario che la casa costituisca stabile dimora del figlio, essendo piuttosto sufficiente un “collegamento stabile” con la casa. È possibile infatti l’assegnazione anche nelle ipotesi di convivenza non quotidiana, purché permanga un collegamento tra il figlio e la casa e sussista l’interesse del figlio a mantenere integro il suo habitat domestico, da valutarsi tramite ricorso al criterio della regolarità del ritorno a casa e della prevalenza temporale dell’effettiva presenza del figlio nell’abitazione familiare (18). Cosi la giurisprudenza (19) ha ammesso l’assegnazione della casa in caso di figlio che, benché lontano per ragioni di studio, tornava periodicamente a casa, avendo ivi conservato la residenza. In presenza dei citati presupposti il genitore può ottenere l’assegnazione della casa familiare. Il provvedimento di assegnazione può essere oggetto di revoca da parte del giudice. Al riguardo, l’art 337 sexies prevede che il diritto di godimento venga meno nelle ipotesi in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. La revoca, secondo costante orientamento (20), non opera automaticamente ma occorre un espres- (12) In senso contrario, in dottrina V. Carbone, Assegnazione della casa coniugale, cit., 319; in giurisprudenza, Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476, in Diritto e giustizia online 2007, secondo cui “l’assegnazione non può essere disposta in funzione integrativa o sostitutiva dell’assegno divorzile, oppure allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge economicamente più debole”; Cass. 21 gennaio 2011, 1491, in Giust. civ. Mass., 2011, 1, 102; Cass. 13 gennaio 2012, n. 387, cit. (13) Per un’analisi degli orientamenti sul concetto di coabitazione rilevante, si veda Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, in Foro it., 2012, 5, I, 1384, con nota di A. Di Lallo. (14) In tal senso, Cass. 22 aprile 2002, n. 5857, in Giust. civ., 2002, I, 1805, con nota di G. Frezza; Cass. 16 maggio 2013, 11981, in Diritto & Giustizia, 17 maggio 2013, con nota di M. Di Michele. (15) In tal senso, Cass. 22 aprile 2002, n. 5857, cit. (16) Cass. 13 febbraio 2006, n. 3030, in Giust. civ. Mass., 2006, 4; Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476, cit.; Cass. 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e Giustizia online, 8 giugno 2012; Cass. 10 maggio 2013, 11218, in Arch. Locazioni, 2013, 4, 417. (17) Cass. 27 maggio 2005, 11320, in Giust. civ. Mass., 2005, 5; Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, cit.; Cass. 9 agosto 2012, n. 14348, in Giust. civ. Mass., 2012, 9, 1079; App. Caltanissetta 11 aprile 2013, in Arch. Locazioni, 2013, 5, 631. (18) Cass. 22 marzo 2012, n. 4555, cit. (19) Cass. 22 marzo 2012, 4555, cit. (20) E. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della ca- 3. I presupposti per l’assegnazione e la conservazione del diritto di godimento della casa familiare Famiglia e diritto 11/2014 1031 Giurisprudenza Casa familiare so provvedimento da parte del giudice che deve essere trascritto ai fini dell’opponibilità ai terzi. L’interesse dei figli alla conservazione dell’habitat domestico e la convivenza tra genitore e prole costituiscono presupposti dell’assegnazione della casa familiare e, ove vengano meno, il coniuge non assegnatario ha la possibilità di chiedere la revoca dell’assegnazione. Se l’assegnatario non abiti o cessi di abitare in modo stabile e continuativo nella casa familiare l’assegnazione perde la sua ragion d’essere in quanto il figlio non gode più della continuità ambientale che giustifica l’assegnazione, specie ove venga in rilievo la necessità di tutelare il diritto di proprietà del coniuge non assegnatario (21). Dubbi interpretativi sono sorti con riferimento alle ipotesi in cui l’assegnatario instauri una convivenza more uxorio o contragga nuove nozze (22). Ciò in quanto il dato letterale di cui all’art 337 sexies c.c. sembra non tener conto del fatto che tali eventi non determinino necessariamente il venir meno dell’interesse dei figli a mantenere integro il proprio habitat. Una revoca che prescinda dalla considerazione dell’interesse dei figli determinerebbe un ingiusto sacrificio per gli stessi, a causa di una scelta di vita del genitore assegnatario. Sulla scorta di tali osservazioni, il Giudice delle leggi, con una nota pronuncia (23), ha affermato che la norma va interpretata nel senso che la decisione sull’assegnazione e sulla revoca sono sempre subordinate alla valutazione dell’interesse dei figli. 4. L’allontanamento dalla casa familiare: “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato” La coabitazione stabile e continuativa tra il genitore ed il figlio nella casa coniugale, come evidenziato, costituisce presupposto indefettibile per ottenerne l’assegnazione della casa ed evitare la revoca della stessa. Ciò pone il problema di individuare la rilevanza da attribuire, ai fini dell’assegnazione e della revoca della stessa, all’allontanamento del genitore o del figlio dalla casa coniugale. sa familiare: la recente riforma, cit., 395. (21) R. Villani, La nuova disciplina dell’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, in Studium iuris, 2006, 674. (22) Sugli orientamenti formatisi in passato sul punto, si veda C. Trapuzzano, Assegnazione della casa familiare, cit. 1731. (23) Corte Cost. 30 luglio 2008, n. 308, in Giur. cost., 2008, 4, 3362, con nota di G.U. Rescigno. 1032 Per considerarsi rilevante, l’allontanamento secondo costante giurisprudenza, deve caratterizzarsi innanzitutto per la sua stabilità e irreversibilità (24). Tali caratteri spezzano la continuità ambientale che giustifica l’assegnazione della casa familiare. Con l’allontanamento, infatti, i figli vengono sradicati dal luogo in cui la famiglia svolgeva la propria vita e viene meno l’esigenza abitativa. Al riguardo, però, occorre osservare come in realtà non sempre l’allontanamento del genitore o del figlio dalla casa coniugale sia idoneo a far venir meno la necessità di tutelare i figli in caso di crisi familiare e di garantire agli stessi la conservazione delle proprie abitudini di vita. Possono, infatti, verificarsi nella prassi delle ipotesi in cui, nonostante l’allontanamento dalla casa, permanga in capo ai figli l’interesse a ritornarvi, onde evitare che, al trauma derivante dalla crisi tra i genitori, si aggiunga quello derivante dalla perdita della casa in cui si concentrano i propri affetti ed abitudini di vita. In tema di allontanamento dalla casa familiare è cosi possibile operare una distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato”, distinzione tracciata dal Tribunale di Milano nell’ordinanza in commento. L’allontanamento volontario consiste nell’abbandono della casa familiare da parte del genitore o del figlio in modo spontaneo, in conseguenza di una libera scelta, frutto della volontà di cominciare una nuova vita. Tale allontanamento recide il legame materiale e psicologico con la casa familiare e la casa cessa di essere un punto di riferimento per la vita del figlio, il centro dei propri affetti e delle consuetudini di vita. Per tale ragione, in caso di allontanamento volontario, dotato dei caratteri della stabilità, non spetta l’assegnazione della casa o si può disporre la revoca della stessa. La giurisprudenza (25) ha così negato o revocato l’assegnazione nel caso in cui il genitore si sia allontanato dalla casa volontariamente, per ragioni personali, anche ove ciò sia avvenuto per sottrarre i figli alle tensioni endofamiliari che i conflitti coniugali comportano (26). (24) In tal senso, Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, in Diritto e giustizia, 13 maggio 2013; Cass. 9 agosto 2012, n. 14348 , in Foro it., 2013, 4, I, 1193, con nota di G. Casaburi. (25) App. Roma 1 marzo 2006, n. 1130, in Guida al diritto, 2006, 22, 48. (26) Trib. Milano 8 ottobre 2013, ord., in commento. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Casa familiare Si rinvengono anche numerose pronunce in cui i giudici hanno ritenuto reciso il legame dei figli con la casa in cui vivevano in passato, per essersi questi allontanati dalla stessa per andare ad abitare dai nonni, per ragioni di lavoro, per ragioni di studio o per aver cambiato città (27). Dall’allontanamento volontario occorre distinguere l’allontanamento forzato. Trattasi di un allontanamento obbligato e/o necessitato. Tale allontanamento, come sostenuto nell’ordinanza de qua, determina una cesura meramente materiale del rapporto tra i figli ed il loro ambiente domestico cui non corrisponde necessariamente una cesura di tipo psicologico, ben potendo i figli mantenere una aspettativa di ritorno una volta cessata la causa che ha dato luogo all’allontanamento forzato o obbligato. Ove l’allontanamento non sia stabile e sia determinato da valide ragioni giustificatrici e non comporti uno sradicamento dei figli dal loro habitat domestico è possibile ottenere o mantenere il diritto di godimento della casa familiare. Ciò al precipuo fine di riconoscere ai figli la più ampia tutela possibile a fronte della crisi familiare. La giurisprudenza precedente l’ordinanza in commento (28), pur non operando un’espressa distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato o obbligato”, ha di fatto ammesso l’assegnazione della casa coniugale, in talune particolari ipotesi, nonostante l’allontanamento dalla stessa. E’ stato così sostenuto che l’allontanamento del genitore e del figlio dalla casa familiare per esigenze lavorative, ove nel caso concreto non venga reciso il vincolo psicologico con la casa, che continua a costituire habitat naturale della famiglia, non dia luogo a revoca dell’assegnazione. È il caso, ad esempio, di un’infermiera turnista presso una struttura ospedaliera costretta ad allontanarsi dalla casa durante la settimana e ad affidare i figli ai nonni a causa dei turni di lavoro, per farvi però rientro insieme a questi nei fine settimana (29). Oppure il caso di un figlio che si allontana dalla casa familiare durante la settimana per ragioni di studio e ritorna nei weekend o comunque quanto possibile (30) (per altro orientamento (31), in questa ipotesi non è consentita l’assegnazione in quanto trattasi di mera ospitalità data dal genitore al figlio, essendosi già reciso il vincolo che lo lega alla casa). Di allontanamento forzato o obbligato è possibile parlare anche nelle ipotesi in cui lo stesso sia determinato da cause di forza maggiore (32), che costringono il coniuge ed il figlio ad allontanarsi dalla casa familiare, pur non volendolo. È il caso, ad esempio, di un allontanamento determinato dalla necessità di ristrutturare la casa o di compiere su di essi interventi urgenti di sicurezza (33). Altra ipotesi di allontanamento forzato può configurarsi in caso di inottemperanza da parte di uno dei genitori ad un ordine di protezione, quale l’ordine di allontanamento dalla casa familiare, il che comporta la necessità per l’altro coniuge, assegnatario, di allontanarsi dalla casa insieme ad i figli in attesa di ulteriori provvedimenti giudiziari. In questo caso, l’assegnatario ed i figli si allontanano dalla casa con l’aspettativa di farvi rientro al più presto, mantenendo vivo il legame psicologico con l’habitat domestico. Anche in questa ipotesi il genitore dovrebbe ottenere o comunque mantenere il diritto di godimento della casa di famiglia. In tale contesto, si inserisce l’ordinanza in commento con cui il Tribunale di Milano ha assegnato la casa familiare ad una donna vittima di violenze da parte del marito, nonostante la stessa si fosse allontanata dalla casa, portando con sé i figli, andando a vivere per un periodo dai propri genitori. Il Tribunale ha assegnato la casa familiare alla donna in quanto l’allontanamento non era stato volontario, ma forzato, in quanto la donna era stata a ciò costretta dalla necessità di sottrarre sé ed i propri figli alla violenza del marito. Tale allontanamento aveva determinato una mera cesura materiale tra i figli e l’ambiente domestico cui, nel caso concreto, non era seguita (27) Cass. 13 febbraio 2006, n. 3030, in Giust. civ. Mass., 2006, 4; Cass. 14 dicembre 2007, n. 26476, cit.; Cass. 8 giugno 2012, n. 9371, in Diritto e Giustizia online, 8 giugno 2012; Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, in Dir. fam. e pers., 2013, 4, 1, 1335; Cass. 16 maggio 2013, n. 11981, cit.; Cass. 10 febbraio 2014, n. 2952, in Diritto & Giustizia, 10 febbraio 2014. (28) Cass. 10 maggio 2013, n. 11218, cit.; Cass. 9 agosto 2012, n. 14348, cit. (29) Cass. 9 agosto 2012, n. 14348, cit. (30) Cass. 22 marzo 2012, 4555, cit. (31) Cass. 22 aprile 2002, 5857, cit. (32) G. Pagliani, Modifica delle condizioni di separazione e divorzio, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2013, 274. (33) Trib. Modena 10 gennaio 2007, in Fam. pers. succ., 2007, 362. Famiglia e diritto 11/2014 1033 Giurisprudenza Casa familiare una cesura psicologica, avendo i figli mantenuto l’aspettativa e la speranza di tornare in quella casa che costituisce centro di affetti e abitudini di vita. L’allontanamento forzato dalla casa determinato dallo stato di necessità di sottrarsi alle violenze perpetrate tra le mura domestiche non osta, quindi, secondo il decisum in oggetto, all’assegnazione della casa familiare. Ciò in quanto per negare l’assegnazione in caso di allontanamento occorre accertare che lo stesso abbia determinato una cesura sia materiale sia psicologica tra i figli e l’habitat domestico. Ove ciò non si sia verificato in quanto all’allontanamento fisico non sia seguito un distacco psicologico, perché i figli hanno tenuto viva un’aspettativa di ritorno al proprio ambiente domestico una volta cessato lo stato di pericolo (per scelta del genitore abusante o a seguito di un provvedimento giudiziario) la casa familiare, secondo il Tribunale di Milano, deve essere assegnata al genitore vittima di violenza. Tale soluzione abbracciata dall’ordinanza in commento appare assolutamente in linea con la ratio dell’istituto volto a salvaguardare i figli in caso di crisi familiare. 1034 Si evita cosi che al trauma derivante dalla crisi familiare e dalle violenze subite o anche solo assistite si aggiunga quello derivante dallo sradicamento dal proprio habitat domestico. D’altronde una soluzione differente finirebbe per penalizzare eccessivamente le parti più deboli del nucleo familiare, ossia i figli ed il coniuge vittima di violenze, a vantaggio di un soggetto che non merita protezione da parte dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che se si negasse l’assegnazione della casa familiare in caso di allontanamento forzato, specie ove determinato da una condotta violenta dell’altro coniuge, si darebbe la stura ad intollerabili atteggiamenti volti a “costringere” il coniuge ad abbandonare la casa al precipuo fine di impedire che questi ottenga successivamente l’assegnazione della stessa. La distinzione tra “allontanamento volontario” e “allontanamento forzato” (o comunque “obbligato” o “necessitato”) tracciata dal Tribunale di Milano costituisce cosi un valido strumento a presidio dell’interesse sotteso all’assegnazione della casa, ossia la tutela dei figli nella fase patologica dei rapporti familiari, specie nei casi in cui la crisi sia complicata da episodi di violenza e la casa costituisca quel minimun che consenta ai figli di ritrovare la serenità perduta. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Sintesi Osservatorio di giurisprudenza civile a cura di Antonella Batà e Angelo Spirito SEPARAZIONE PERSONALE DEI CONIUGI ASSEGNO E CASA FAMILIARE Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649 Il passaggio dal regime di affidamento esclusivo a quello di affidamento condiviso dei figli non comporta alcuna riduzione della misura del contributo al mantenimento dei figli disposto nel regime di affidamento esclusivo. Il caso Il Tribunale dichiara la separazione dei coniugi M e F, disponendo l’affido condiviso dei figli e fissando la loro residenza presso la madre, cui viene assegnato la casa familiare; pone, inoltre, a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli mediante la corresponsione alla F di un assegno mensile di 800 euro. La Corte d’appello aumenta l’importo dell’assegno a 1.000 euro e rigetta la richiesta di M di riduzione della casa familiare (su due livelli) assegnata alla F, con attribuzione in suo favore dell’appartamento al primo piano dell’immobile, previe opere di chiusura della comunicazione con l’appartamento sito al piano terreno, da riservare all’abitazione della moglie insieme ai figli. Il marito M propone ricorso per cassazione; in primo luogo lamenta che, pur essendo stato disposto l’affidamento condiviso dei figli, la misura dell’assegno, disposto in fase presidenziale in relazione all’affido alla sola madre, non sia stata rideterminata in considerazione del mantenimento diretto di cui alla nuova formulazione dell’art. 155 c.c.; in secondo luogo, contesta l’assegnazione alla sola moglie dell’intero fabbricato, divisibile in due unità abitative. La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. rigetta il ricorso. In relazione alla misura dell’assegno di mantenimento, i giudici di legittimità precisano che il passaggio dal regime di affidamento esclusivo a quello di affidamento condiviso dei figli non comporta alcuna riduzione della misura del contributo al mantenimento dei figli disposto nel regime di affidamento esclusivo. Tale riduzione può essere disposta solo con riguardo a concrete evidenze di riduzione del carico di spesa e di impiego di disponibilità personali derivanti dall’affido condiviso. Infatti, l’affidamento congiunto dei figli ad entrambi i genitori previsto dall’art. 6 della legge sul divorzio e analogicamente applicabile anche alla separazione personale dei coniugi - è un istituto che, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza; va escluso, quindi, che l’istituto implichi, Famiglia e diritto 11/2014 come conseguenza “automatica”, che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed autonomo, alle predette esigenze (cfr. Cass. 18 agosto 2006, n. 18187, in questa Rivista 2007, 345, con nota di Dogliotti, nonché in Corr. giur. 2006, 1348, con nota di Carbone, Foro it. 2006, I, 3346, Giur. it. 2007, 2193, con nota di Gandolfi, Dir. fam. 2007, I, 149, Nuova giur. civ. comm. 2007, I, 268, con nota di Quadri; in senso conforme anche Cass. 29 luglio 2011, n. 16736, non massimata, in Giust. civ. 2012, I, 729, con nota di M. Finocchiaro). Quanto all’assegnazione della casa familiare, la S.C. rileva che la Corte d’appello si è basata sul principio ispiratore dell’istituto, che è quello di conservare, nell’interesse esclusivo dei figli, l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare (cfr., tra le varie, Cass. 4 luglio 2011, n. 14553). Nel caso di specie, anche se è vero che si tratta di una casa familiare di ampie dimensioni, articolata su due livelli abitativi, ciascuno dotato di autonomi servizi e comunque collegati da una scala interna, è altrettanto vero che, al di là delle concrete possibilità di creazione di due distinte ed autonome unità abitative, il “fabbricato-villetta” è stato progettato e destinato a unitaria abitazione della famiglia. Sulla base di questo accertamento di fatto esattamente la Corte distrettuale ha ritenuto non sacrificabile l’interesse dei figli - da ritenersi preminente - a mantenere quell’habitat domestico nelle dimensioni volute e realizzate dagli stessi genitori; del resto, la conflittualità tra i due ex coniugi, emersa nel corso del giudizio, potrebbe essere di pregiudizio per i minori in caso di convivenza dei genitori nello stesso stabile. Sul principio per cui l’assegnazione della casa familiare, in presenza di figli minori, non può essere disposta a favore del coniuge proprietario esclusivo, neppure qualora l’eccessivo costo di gestione ne renda opportuna la vendita, se i figli sono affidati all’altro coniuge, in quanto eventuali interessi di natura economica assumono rilievo nella misura in cui non sacrifichino il diritto dei figli a permanere nel loro habitat domestico, cfr. Cass. 22 novembre 2010, n. 23591, in Corr. giur. 2011, 1100, con nota di Galluzzo. DIVORZIO ASSEGNO Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869 L’inclusione in via forfettaria delle spese straordinarie nell’ammontare dell’assegno di mantenimento per i figli minori, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art. 155 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento. 1035 Giurisprudenza Sintesi Il caso Nel giudizio di divorzio tra G e P, il Tribunale dispone l’affido condiviso delle 4 figlie minori e la loro collocazione presso la madre; prevede, inoltre, l’obbligo del padre di contribuire al mantenimento delle figlie con il versamento di un assegno mensile di 250 euro per ciascuna di loro, oltre all’importo degli assegni familiari eventualmente percepiti per il nucleo familiare ed oltre il 50% delle spese straordinarie, in aggiunta al contributo ordinario. La Corte d’appello, in parziale accoglimento del gravame proposto dal marito P, determina in complessivi 1.000 euro l’assegno per il mantenimento delle figlie, comprensivo anche delle spese mediche, scolastiche, ecc. La G propone, allora, ricorso per cassazione, contestando la ricomprensione delle spese straordinarie nell’importo dell’assegno di mantenimento, che si sostanzia nella negazione del riconoscimento del diritto al contributo per tali spese. Il P, a sua volta, nel ricorso incidentale, lamenta la mancata riduzione dell’assegno per il periodo estivo, durante il quale le figlie soggiornano presso di lui. La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. accoglie il ricorso principale. I giudici di legittimità precisano che devono intendersi per spese “straordinarie” quelle che, per la loro rilevanza, la loro imprevedibilità e la loro imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli; pertanto, la loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’art.155 c.c. e con quello dell’adeguatezza del mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti. In altri termini, pur non trovando la distribuzione delle spese straordinarie una disciplina specifica nelle norme inerenti alla fissazione dell’assegno periodico, la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia (cfr. Cass. 8 giugno 2012, n. 9372). Il ricorso incidentale è, invece, rigettato. Infatti, secondo i giudici di legittimità, in mancanza di diverse disposizioni, il contributo al mantenimento dei figli minori, determinato in una somma fissa mensile in favore del genitore affidatario, non costituisca il mero rimborso delle spese sostenute dall’affidatario nel mese corrispondente, bensì la rata mensile di un assegno annuale determinato, tenendo conto di ogni altra circostanza emergente dal contesto, in funzione delle esigenze della prole rapportate all’anno. Pertanto, il genitore non affidatario non può ritenersi sollevato dall’obbligo di corresponsione dell’assegno per il tempo in cui i figli, in relazione alle modalità di visita disposte dal giudice, si trovino presso di lui ed egli provveda pertanto, in modo esclusivo, al loro mantenimento (cfr. Cass. 17 gennaio 2011, n. 566). SENTENZA NON DEFINITIVA Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord. 1036 E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 12, della legge n. 898 del 1970, nel testo sostituito dall’art. 8 della legge n. 74 del 1987, che consente la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio indipendentemente dalla risoluzione delle questioni economiche, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost. Il caso In un giudizio di divorzio, il Tribunale pronuncia sentenza non definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da D e G e dispone la rimessione della causa sul ruolo per l’ulteriore trattazione delle questioni economiche. La G propone appello avverso la sentenza non definitiva, chiedendo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la verifica della legittimità dell’art. 4, comma 12, della legge n. 898 del 1970, che consente la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, rilevando la possibile lesione di interessi costituzionalmente protetti derivanti dallo scollamento fra la pronuncia di cessazione degli effetti civili e il momento della definizione delle questioni economiche, tenuto conto, nel caso di specie, anche dell’avanzata età dei coniugi. La Corte d’appello respinge il gravame, per cui la G ripropone la questione davanti alla Corte di cassazione. La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. rigetta il ricorso. Ritiene, infatti, che la questione di costituzionalità è manifestamente infondata in primo luogo in relazione al principio di rilevanza costituzionale della durata ragionevole del processo e al diritto fondamentale di porre fine al matrimonio e poter formare una nuova famiglia. In secondo luogo, l’emanazione della sentenza non definitiva di divorzio non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 898 del 1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio (in tal senso, cfr. anche Cass. 22 aprile 2010, n. 9614; Cass. 5 agosto 2003, n. 11838). Del resto, la pronuncia sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio integra un capo autonomo della sentenza che, in difetto d’impugnazione, passa in giudicato anche in pendenza di gravame contro le statuizioni sull’attribuzione e sulla quantificazione dell’assegno; il procedimento per la definizione delle questioni di rilevanza patrimoniale, pertanto, non si estingue per cessazione della materia del contendere, ma prosegue, nonostante il decesso di uno dei coniugi (cfr. Cass. 11 aprile 2013, n. 8874). Ferma infatti la pronuncia dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ormai passata in giudicato, resta da definire una questione di rilevanza esclusivamente patrimoniale, ma non priva di riflessi sulla sfera giuridica delle parti e dei loro eredi. Ne deriva anche che non risulta pregiudicata da una pronuncia non definitiva che dichiari lo scioglimento del matrimonio la posizione del coniuge superstite che non ha ancora ottenuto una pronuncia sulla domanda di assegno divorzile ai fini del riconoscimento delle prestazioni previdenziali che presuppongono il percepimento dell’assegno divorzile. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Sintesi FONDO PATRIMONIALE SCIOGLIMENTO Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811 Lo scioglimento del fondo patrimoniale può intervenire sulla base del solo consenso dei coniugi solo nell’ipotesi di mancanza di figli minori, in capo ai quali, anche se solo concepiti e non ancora nati, va ravvisata una posizione giuridicamente tutelata in ordine agli atti di disposizione del fondo. Il caso I coniugi M e C, con atto pubblico del 2004, concordano lo scioglimento del fondo patrimoniale, costituito nel 2002 sulla casa di abitazione di esclusiva proprietà del marito M. Con atto di citazione del 2007, A, curatore speciale del minore X, che all’epoca dell’atto di scioglimento del fondo era concepito ma non ancora nato, propone giudizio per sentire dichiarare la nullità o l’annullamento del suddetto atto, ritenendolo viziato perché lesivo degli interessi del figlio nascituro e per essere stato adottato in una situazione di conflitto di interessi fra quest’ultimo ed i genitori. Il Tribunale rigetta la domanda, con sentenza confermata dalla Corte d’appello. Infatti, i giudici di merito ritengono, per quanto qui interessa, l’ammissibilità dello scioglimento consensuale del fondo patrimoniale, intervenuto per atto pubblico e l’insussistenza di un diritto soggettivo dei minori in ordine ad atti dispositivi dei beni del fondo patrimoniale. Il curatore speciale propone, allora, ricorso per cassazione. La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. accoglie il ricorso. In primo luogo, i giudici di legittimità affrontano la questione della legittimità o meno della intervenuta risoluzione consensuale del negozio costitutivo del fondo. A tale proposito, l’art. 171 c.c., al comma 1, stabilisce che “la destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”, senza nulla prevedere in ordine agli effetti riconducibili alle manifestata volontà negoziale delle parti di dare corso all’estinzione del fondo. Occorre, quindi, stabilire, sul piano interpretativo, se l’elencazione contenuta nella disposizione richiamata abbia o meno carattere tassativo, in quanto nel primo caso sarebbe ininfluente l’accordo in tal senso delle parti. La Corte di cassazione, sul punto, concorda con l’interpretazione dei giudici di merito, per i quali la natura giuridica dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale sarebbe del tutto assimilabile alle convenzioni matrimoniali; la conferma di tale interpretazione può rinvenirsi nella previsione dell’ultimo comma dell’art. 171 c.c., che, nel caso di mancanza di figli, richiama le disposizioni sullo scioglimento della comunione legale elencate dall’art. 191 c.c., fra le quali è compreso il mutamento convenzionale del regime patrimoniale. Pertanto, in mancanza di figli, lo scioglimento del fondo patrimoniale può intervenire anche sulla base del solo consenso dei coniugi. La Corte d’appello ha peraltro ritenuto che la stessa conclusione debba valere anche in presenza di figli minori; ma i giudici di legittimità non condividono tale affermazione. Infatti, in senso contrario depongono sia la ragione ispiratrice dell’istituto, individuabile nell’obiettivo di assicurare un sostegno patrimoniale alla famiglia e di Famiglia e diritto 11/2014 realizzare una situazione di vantaggio per tutti i suoi diversi componenti, sia la disciplina dettata negli artt. 169 e 171 c.c. (che risulta del tutto in linea con la ratio dell’istituto), per quanto attiene, in particolare: al limite all’alienazione dei beni del fondo che, se vi sono figli minori, possono essere trasferiti soltanto con l’autorizzazione del giudice nei casi di necessità o utilità evidente (art. 169); alla prescrizione della durata del fondo fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio, nel caso in cui vi siano figli minori (art. 171, comma 2); alla facoltà conferita al giudice di attribuire ai figli in godimento o in proprietà una quota dei beni del fondo, ove le condizioni economiche dei genitori e dei figli, o comunque ogni altra circostanza, lo suggeriscano (art. 171, comma 3). Se è vero, quindi, che la costituzione del fondo non determina per ciò solo la perdita della proprietà dei singoli beni da parte dei coniugi che ne sono titolari e che gli stessi possono riservarsi nell’atto di costituzione la facoltà di alienazione dei beni, è pur vero che la detta istituzione (peraltro concretizzata per effetto di una libera scelta dalle parti) determina un vincolo di destinazione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia (cfr., tra le altre, Cass. 15 maggio 2014, n. 10641), e quindi di tutti i suoi componenti, ivi compresi i figli minori, che il legislatore ha inteso assicurare con la previsione di una serie di misure di sostegno in favore dei componenti più deboli. Alla luce di tali considerazioni, dunque, va ravvisata in capo ai figli minori una posizione giuridicamente tutelata in ordine agli atti di disposizione del fondo. Considerato poi che, nel caso di specie, alla data in cui è stato redatto l’atto di scioglimento del fondo i coniugi non avevano prole, ma la donna era in attesa di un figlio, si pone l’ulteriore questione della estensibilità o meno della disciplina ritenuta applicabile in presenza di figli minori al caso di nascituri. A tale interrogativo il collegio da risposta positiva. Infatti, il nostro ordinamento riconosce espressamente al concepito la possibilità di divenire titolare di diritti (art. 1, comma 2, c.c.); nello stesso codice civile sono dettate disposizioni che attribuiscono diritti patrimoniali al concepito, in particolare in tema di successione (art. 462, comma 1) e di donazione (art. 784, comma 1); inoltre, forme di tutela del nascituro sono anche previste in altre leggi, quali la legge n. 40 del 2004, in materia di procreazione assistita, il cui capo terzo contiene “Disposizioni concernenti la tutela del nascituro”, la legge n. 405 del 1975 (sui consultori familiari), che, tra l’altro, attribuisce al nascituro la tutela del diritto alla salute riconosciuto dall’art. 32 Cost., la legge n. 194 del 1978, per la quale la vita umana è tutelata fin dal suo inizio. Inoltre, analogo riconoscimento è intervenuto ad opera della giurisprudenza di legittimità che, nell’affrontare i profili risarcitori, ha reiteratamente ritenuto meritevole di accoglimento la domanda di danno proposta da soggetto non ancora nato alla data della commissione dell’illecito (cfr. Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in Guida al dir. 2012, 46, 16, con nota di Martini, Danno e resp. 2013, 492, con nota di Mastrorilli, ed ivi 139, con nota di Cacace, Riv. it. medicina legale 2013, 993, con nota di Gerbi e Mazzilli, Contratti 2013, 563, con nota di Muccioli, Giur. it. 2013, 1052, con nota di Coppo, ed ivi 809, con nota di Carusi, Giust. civ. 2013, I, 2119, con nota di Famularo, Dir. fam. 2013, I, 1301, con nota di Putignano, ivi 473, con nota di Stanzione e Salito, ed ivi 79, con nota di Giacobbe, Corr. giur. 2013, 45, con nota di Monateri, Foro it. 2013, I, 204, con nota di Oliva, Resp. civ. 2013, II, 124, con nota di Gorgoni, ed ivi III, 334, con nota di Frati, Gulino, Zaami e Turillazzi, Rass. dir. 1037 Giurisprudenza Sintesi civ. 2013, 894, con nota di Landi, Nuova giur. civ. comm. 2013, 198, con nota di Palmerini; Cass. 3 maggio 2011, n. 9700, in questa Rivista 2011, 1103, con nota di Pisano, nonché in Danno e resp. 2011, 1168, con nota di Galati, Guida al dir. 2011, 22, 48, con nota di Castro, Nuova giur. civ. comm. 2011, I, 1272, con nota di Palmerini, Dir. fam. 2012, I, 1419, con nota di Landi, Corr. giur. 2012, 382, con nota di Suppa; Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in Resp. civ. 2009, II, 2063, con nota di Gorgoni, Dir. e giur. 2009, 549, con nota di Salvatore, Guida al dir. 2009, 31, 49, con nota di Castro, Nuova giur. civ. comm. 2009, I, 1258, con nota di Cricenti, Dir. fam. 2009, I, 1159, con nota di Ballarani, Danno e resp. 2009, 1167, con nota di Cacace, ed ivi 2010, 144, con nota di Di Ciommo, Dir. e giur. 2010, 91, con nota di Feola, Foro it. 2010, I, 141, con nota di Bitetto e Di Ciommo, Corr. giur. 2010, 365, con nota di Liserre, Rass. dir. civ. 2011, 587, con nota di Iannone). La S.C. conclude, quindi, che anche al nascituro deve essere riconosciuta l’attitudine ad essere titolare di diritti e, di conseguenza, la sua legittimazione sostanziale in relazione ad atti di disposizione del fondo, quale quello oggetto del giudizio. SUCCESSIONI ESECUTORE TESTAMENTARIO: ESONERO Cassazione, sez. VI, 1 settembre 2014, n. 18468 È inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza resa in sede di reclamo contro un provvedimento di esonero dall’incarico di esecutore testamentario. Il caso Il presidente del Tribunale, provvedendo su ricorso ex art. 710 c.c., esonera M dall’incarico di esecutore testamentario designato in relazione all’eredità di G. Il reclamo proposto ai sensi dell’art. 750 c.p.c. viene rigettato, per cui M 1038 propone ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., denunciando la violazione delle norme che disciplinano il giusto processo, per la mancata convocazione delle parti e la mancata concessione di termini per lo svolgimento delle proprie difese. La soluzione della Corte di cassazione ed i collegamenti giurisprudenziali La S.C. dichiara inammissibile il ricorso per la non impugnabilità del provvedimento. Infatti, il provvedimento di esonero dell’esecutore testamentario per gravi irregolarità nell’adempimento dei suoi obblighi è assunto - in considerazione dell’espresso richiamo all’art. 710 c.c., contenuto nell’ultimo comma dell’art. 750 c.p.c. - dal presidente del Tribunale con ordinanza reclamabile davanti al presidente della Corte d’appello; la decisione emessa da quest’ultimo in sede di reclamo non è ricorribile in Cassazione, in conformità alla previsione specifica dell’art. 750 c.p.c. e alla regola generale di cui all’art. 739 c.p.c. (cfr. Cass. 26 novembre 2013, n. 26473; Cass. 28 gennaio 2008, n. 1764, in Riv. not. 2009, II, 729, con nota di Musolino). E’ altresì infondato il rilievo del ricorrente, il quale sostiene che la non ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso ai sensi dell’art. 750 c.p.c., in sede di reclamo, dal presidente della Corte d’appello riguarderebbe il solo merito della decisione, mentre nel caso in esame oggetto del ricorso sarebbe non il provvedimento del presidente della Corte d’appello nel suo aspetto decisorio e motivazionale, bensì tale provvedimento quale atto consequenziale ad un vizio processuale del procedimento di reclamo. Il collegio precisa, infatti, che le invalidità procedimentali si propagano all’atto terminale che ne dipenda, in base all’art. 159, comma 1, c.p.c., e si convertono in motivi d’impugnazione di quest’ultimo ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c. La S.C. ricorda, inoltre, che la ricorribilità straordinaria per cassazione ex art. 111 Cost., di un provvedimento diverso dalla sentenza dipende dal duplice requisito di decisorietà e di definitività dell’atto, caratteri che nel caso di specie non sussistono. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Sintesi Osservatorio di giurisprudenza penale a cura di Paolo Pittaro VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE MALTRATTAMENTI CONTRO FAMILIARI E CONVIVENTI IL GENITORE MALATO E SENZA LAVORO DEVE MANTENERE ATTUALITÀ DELLA RELAZIONE FAMILIARE IL FIGLIO MINORE Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo – 15 luglio 2014, n. 31123 – Pres. Agrò – Rel. Leo Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio – 1 luglio 2014, n. 28212 – Pres. De Roberto – Rel. Leo Il genitore che omette il versamento di un assegno mensile in favore del figlio minorenne è responsabile del delitto di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se malato e privo di lavoro, qualora non alleghi la sussistenza di un’assoluta impossibilità di corrispondere la somma, in quanto la responsabilità dei genitori verso i figli in stato di bisogno implica un dovere di diligente attivazione per il recupero dei redditi. Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello confermava la pronuncia di primo grado che condannava un uomo per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., per aver egli fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore. Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione di legge, data la situazione di impossibilità ad adempiere, determinata dalla malattia di cui egli è afflitto e dall’assenza di stabile attività lavorativa. La Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e respinge le doglianze della difesa, non sussistendo la prova di una oggettiva ed assoluta impossibilità di adempiere, non dipendente da colpa dell’obbligato. Inoltre, i giudici di legittimità individuano in capo al genitore di figli minorenni che versino in stato di bisogno un dovere di diligente attivazione per recuperare i redditi necessari al sostentamento della prole, anche quando egli sia privo di stabile attività lavorativa e sia afflitto da una malattia che non impedisca lo svolgimento di una qualche, pur limitata, occupazione. I collegamenti giurisprudenziali Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato in giurisprudenza, secondo cui, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la prova dell’impossibilità di adempiere e del carattere incolpevole di tale incapacità deve essere fornita in modo pieno dall’obbligato, sul quale incombe l’onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l’impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione. Tale orientamento, del tutto univoco, richiede l’allegazione di una impossibilità assoluta e oggettiva, che impedisca in modo pieno all’obbligato di recuperare i mezzi necessari ad adempiere (da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 7372, in De Jure). Famiglia e diritto 11/2014 Non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p.; l’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare. Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello condannava l’imputato per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi commesso ai danni delle figlie. I Giudici territoriali ritenevano sussistente il suddetto delitto, benché fosse venuta a mancare la convivenza del nucleo familiare. Secondo gli stessi, ciò che rilevava era l’idoneità delle minacce e delle violenze a provocare un penoso regime di vita. Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando violazione di legge e sostenendo che il rapporto di familiarità previsto dalla norma incriminatrice richiede almeno un’effettiva continuità di interessi e consuetudini di vita, che nel caso concreto, mancava del tutto e da molti anni. La Suprema Corte ritiene il ricorso fondato e annulla la sentenza impugnata con rinvio, evidenziando che non ogni reato commesso con continuità nei confronti di un parente, quand’anche provochi un penoso regime di vita, può essere qualificato a norma dell’art. 572 c.p. L’integrazione del delitto contestato deve essere verificata in base al principio che, sul piano obiettivo, è necessaria l’attualità di una relazione familiare intesa come vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà ed assistenza e che, sul piano soggettivo, l’agente deve volere la produzione del regime di vita segnato dalla vessazione nella sua specifica qualità di patologica relazione familiare. I collegamenti giurisprudenziali Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione viene a precisare un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, secondo cui l’interruzione della convivenza non influisce sulla configurabilità del reato de quo, dal momento che non interrompe l’immanenza dei doveri di rispetto e di solidarietà fondati sul vincolo familiare (Cass. pen., sez. VI, 13 novembre 2012, n. 7369, in De Jure). Tuttavia, i Giudici di legittimità hanno precisato che l’interruzione della convi- 1039 Giurisprudenza Sintesi venza non esclude la possibile prosecuzione o l’avvio di una condotta di maltrattamenti, solamente nel caso in cui la dinamica familiare rimanga inalterata in termini di attualità del vincolo familiare (Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282, in Cass. pen., 1999, 1803). ATTI PERSECUTORI Infine, il riferimento del legislatore alle abitudini di vita costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo. I collegamenti giurisprudenziali IL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI DETERMINATEZZATASSATIVITÀ Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172 – Pres. Silvestri – Rel. Cartabia Per verificare il rispetto del principio di determinatezza, la valutazione deve condursi con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Il caso e la soluzione della Corte Costituzionale Con questa pronuncia il giudice delle leggi dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612 bis c.p. con riferimento all’art. 25 Cost., secondo comma. Il giudice rimettente ritiene che tale norma costituisca violazione del principio di determinatezza, poiché non definirebbe in modo «sufficientemente determinato il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante». Inoltre, neppure risulterebbe sufficientemente determinato cosa debba intendersi per perdurante e grave stato di ansia o di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi «fondato». Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di «abitudini di vita», di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini. La Suprema Corte dichiarava la questione infondata. Quanto al primo punto è opinione della Consulta che la condotta di minaccia, infatti, oltre ad essere elemento costitutivo di diversi reati, è oggetto della specifica incriminazione di cui all’art. 612 c.p. e, nella tradizionale e consolidata interpretazione che ne è data, in piena adesione al significato che il termine assume nel linguaggio comune, essa consiste nella prospettazione di un male futuro. Molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l’equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato dall’art. 660 c.p., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di una condotta. Inoltre, il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. 1040 In senso conforme si veda: Cass. pen., sez. V, 13 giugno 2012, n. 36737, in Dir. e Giust. online, 2012, 5 ottobre: «È manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 612 bis c.p. sollevata in relazione, tra gli altri, all’art. 25 comma 2, cost., giacché la disposizione normativa delinea esaurientemente la fattispecie incriminatrice in tutte le sue componenti essenziali, assumendo il fatto costitutivo del reato i connotati dell’antigiuridicità attraverso la realizzazione reiterata di condotte che, sia pure non definibili preventivamente, sono fatte oggetto da parte del legislatore di un elevato grado di determinatezza, dovendo consistere non in generiche minacce e molestie, ma solo in quelle che assumono una gravità tale da cagionare nella vittima uno degli eventi alternativamente previsti dalla stessa disposizione». MOLESTIA O DISTURBO ALLE PERSONE REATO EVENTUALMENTE ABITUALE Cassazione penale, sez. I, 23 maggio – 17 luglio 2014, n. 31622 – Pres. Siotto – Rel. Di Tomassi Il reato di molestie è fattispecie solo eventualmente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione. Tuttavia, la qualificazione della condotta come molesta può derivare anche dalla connessione causale e temporale tra diversi episodi che, altrimenti, presi singolarmente sarebero irrilevanti. Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione Il Tribunale condannava l’imputata per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., poiché con condotte ripetute nel tempo aveva recato molestia, per biasimevole motivo, alla persona offesa. In primo luogo la donna aveva affrontato e spintonato la vittima, successivamente l’aveva pedinata in strada e infine si era apostatata alla finestra del balcone di casa. Avverso tale sentenza l’imputata proponeva personalmente ricorso per Cassazione, sostenendo che le condotte contestate erano sì state poste in essere, ma prese singolarmente erano penalmente irrilevanti. L’enorme lasso di tempo tra una e l’altra, inoltre, avrebbe dovuto escludere l’abitualità dell’azione. La Sezione I riteneva il ricorso fondato e conseguentemente annullava la sentenza impugnata senza rinvio. I giudici di legittimità in primis sottolineavano come il reato di molestia potesse venire integrato anche da una sola condotta, purché idonea a ledere l’interesse tutelato. Nel caso per cui si procedeva, invece, le singole condotte non erano qualificabili come petulanti né avevano turbato la serenità della persona offesa. I fatti contestati si collocavano in un arco temporale assai ampio - a un anno uno dall’altro - e pertanto non erano espressivi di una condotta abituale, realizzata con apprezzabile e sistematica continuità, tale da integrare la fattispecie ex art. 660 c.p. Famiglia e diritto 11/2014 Giurisprudenza Sintesi I collegamenti giurisprudenziali La sentenza in commento ribadisce principi già ampiamente consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di molestia. La contravvenzione ex art. 660 c.p., infatti, non è per sua natura necessariamente abituale, in quanto può essere realizzata anche con una sola azione di disturbo o di molestia alle persone (conformi: Cass. pen., sez. I, 25 marzo 2010, n. 11514, in Lex24; Cass. pen., sez. I, 5 maggio 2008, n. 17787, ivi). Ne consegue che, se le singole molestie integranti già un fatto tipico sono ripetute nel tempo, ricorre una molteplicità di reati, eventualmente uniti dal medesimo disegno criminoso (Cass. pen., sez. I, 30 maggio 2005, n. 21237, in De Jure). SOMMINISTRAZIONE DI BEVANDE ALCOOLICHE A MINORI O A INFERMI DI MENTE ANCHE IL DIPENDENTE RISPONDE DEL REATO Cassazione penale, sez. V, 19 maggio – 13 giugno 2014, n. 25443 – Pres. Dubolino – Rel. Micheli Nella previsione normativa dell’art. 689 c.p. non rientra solo il titolare della licenza di esercizio di osteria od altro pubblico spaccio, ma anche chi gestisce per lui, legittimamente o abusivamente. Il caso e la soluzione della Corte di Cassazione Nel caso in esame, il Giudice di pace emetteva sentenza di condanna nei confronti dell’imputato, reo di aver commesso la contravvenzione di cui all’art. 689 c.p. L’uomo, barista Famiglia e diritto 11/2014 stagionale presso uno stabilimento balneare, aveva somministrato bevande alcooliche a un minore infrasedicenne. Avverso tale pronuncia l’imputato ricorreva per Cassazione, lamentando inosservanza ed erronea applicazione della legge penale poiché la norma incriminatrice prevedeva un’ipotesi di reato proprio, in cui l’autore poteva essere solamente l’esercente di un pubblico spaccio di cibi e bevande e non il mero dipendente. A sostegno di tale interpretazione adduceva il fatto che la pena accessoria – la sospensione dell’esercizio – non avrebbe avuto alcun efficacia sanzionatoria nei confronti di un soggetto diverso dal titolare. La Sezione V rigettava il ricorso e confermava la decisione del giudice di prime cure. La qualifica di esercente, infatti, doveva essere interpretata in senso estensivo, ritenendosi comprensiva non solo del titolare, ma anche di colui che gestiva effettivamente l’attività in sua vece, così come nel caso de quo. I collegamenti giurisprudenziali La sentenza pronunciata dai giudici di legittimità si inserisce in un consolidato filone giurisprudenziale, secondo cui il dipendente può essere chiamato a rispondere dell’illecito in concorso con il titolare della licenza ovvero, qualora abbia agito di propria esclusiva iniziativa, come rappresentante di fatto dell’esercente (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 maggio 2011, n. 27706, in Lex24). Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, la contravvenzione è integrata, inoltre, dalla condotta di chiunque somministri bevande alcooliche a un infrasedicenne, limitandosi a prendere atto della risposta di quest’ultimo sul superamento dell’età richiesta (conforme Cass. pen., sez. V, 20 novembre 2013, n. 46334, in Lex24; Cass. pen., sez. V, 7 luglio 2009, n. 27916, ivi). 1041 IL TRASFERIMENTO DEI PATRIMONI UTET GIURIDICA ® è un marchio registrato e concesso in licenza da De Agostini Editore S.p.A. a Wolters Kluwer Italia S.r.l. di Enzo Rossi Il volume tratta, in modo concreto, degli strumenti a disposizione -sia inter vivos che mortis causa - per trasferire agli eredi il proprio patrimonio (immobili, danaro, aziende, quote societarie, beni culturali…) in modo efficace e sicuro, al riparo, per quanto possibile, da incomprensioni e da liti in famiglia, tenendo sempre presenti i relativi costi e le disposizioni fiscali che regolano i vari istituti. 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Questa particolare prospettiva - la cui crescente rilevanza viene costantemente confermata dagli studi demografici e statistici - reclama oggi una specifica attenzione, anche in considerazione dei profondi mutamenti del sistema normativo introdotti dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013. Essa fa emergere la necessità di una rilettura di alcuni orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza e quindi di affrontare il problema del mantenimento del coniuge economicamente debole considerando, accanto al modello della famiglia che si disgrega a seguito della separazione e del divorzio, anche gli scenari più complessi dei modelli di famiglia che scaturiscono dalla ricomposizione di nuovi nuclei familiari successivamente alla separazione ed al divorzio. 1. I doveri di solidarietà post-coniugale ed il diritto alla formazione di una seconda famiglia Una recente decisione di legittimità (1) ha affrontato, introducendo significativi elementi di novità, il problema - già affacciatosi in più occasioni in giurisprudenza - della equilibrata divisione delle risorse economiche nel caso in cui al nucleo familiare originario si sovrapponga, a seguito della separazione e del divorzio, un nucleo familiare nuovo formato dal soggetto economicamente forte tenuto alla corresponsione del mantenimento nei confronti del coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato. L’analisi della casistica giurisprudenziale mostra che, ormai da tempo, è emersa la consapevolezza riguardo al fatto che nelle fattispecie in cui, successivamente alla rottura del matrimonio, il coniuge economicamente forte formi una seconda famiglia si impone la necessità di commisurare la spettanza e l’entità del mantenimento dovuto alla parte economicamente debole abbandonando il riferimento al tenore di vita goduto nel momento in cui la fa(1) Cass. 19 marzo 2014, n. 6289, in De Jure. (2) Cass. 22 novembre 2000, n. 15065, in questa Rivista, 2001, 34, con nota di De Marzo, Mantenimento dei figli nati da Famiglia e diritto 11/2014 miglia era unita e perseguendo il diverso obiettivo di garantire ai nuovi nuclei familiari che si formano a seguito della separazione un tenore di vita simile tra loro in modo da realizzare un’equilibrata ripartizione delle risorse tra la prima famiglia (composta dall’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile e i figli del primo matrimonio) e la seconda famiglia che l’ex coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile abbia ricostituito successivamente al divorzio. Un precedente ormai datato aveva adottato - con specifico riferimento al profilo del mantenimento dei figli - una soluzione, invero criticabile, che si basava sull’assunto secondo cui la decisione di formare una seconda famiglia costituisce una scelta e non una necessità. Muovendo da questo presupposto, la S.C. aveva concluso che il diritto dei componenti della prima famiglia di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non potesse subire limitazioni a seguito della decisione del familiare economicamente forte di dare vita ad una nuova famiglia (2). Questo orientamento, a ben vedere, risultava diffiprecedente matrimonio e rilevanza della costituzione di una nuova famiglia. 1043 Opinioni Doveri coniugali cilmente conciliabile con i principi fondamentali dell’ordinamento in quanto la sua applicazione avrebbe condotto a privilegiare ingiustificatamente i componenti del nucleo familiare originario a scapito dei componenti del nuovo nucleo familiare formato successivamente al divorzio. Così, seguendo un orientamento diverso e sicuramente condivisibile, la S.C. ha preso atto del dato per cui la presenza di una nuova famiglia costituita dall’ex coniuge tenuto al mantenimento dei figli e dell’ex coniuge comporta una variazione degli assetti pregressi di cui non può non tenersi conto. In questi casi, pertanto, si impone l’esigenza di un “temperamento dei diritti della prima famiglia” necessario ad “evitare un trattamento deteriore della seconda”. Dunque, il secondo matrimonio e, più in generale, la nascita di figli dell’obbligato, rendono in linea di principio necessaria una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti da cui può scaturire una rideterminazione dell’assegno di mantenimento dovuto ai figli e, a maggior ragione, dell’assegno dovuto all’ex coniuge (3). La recente pronuncia a cui si è fatto cenno appare sicuramente in linea con l’indirizzo appena riassunto. Essa, comunque, merita particolare attenzione in ragione degli elementi di novità che si riscontrano nella motivazione in particolare laddove afferma che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 12) (4) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9) (5). Da ciò discende che il diritto dell’individuo a formarsi una famiglia non può incontrare un limite, né essere considerato alla stregua di una mera scelta individuale non necessa- ria nemmeno laddove sia già presente un primo nucleo familiare la cui unità è venuta meno a seguito del divorzio. Le argomentazioni addotte pongono in risalto un problema di portata più generale e inducono ad osservare le conseguenze economiche della rottura del matrimonio in una prospettiva più complessa rispetto a quella - assunta generalmente come paradigma dall’elaborazione degli interpreti - che tende a limitare l’attenzione ai rapporti tra i componenti del nucleo familiare originariamente unito, omettendo di considerare in modo sistematico le complesse trame di rapporti che scaturiscono nell’eventualità in cui ad esso si sovrappongano nuclei familiari nuovi formati dai coniugi dopo la separazione o dagli ex coniugi dopo il divorzio. Tale prospettiva, in effetti, reclama oggi una particolare attenzione sia per la rilevanza che assume sul piano sociale - e che viene costantemente confermata dagli studi statistici (6) - sia, soprattutto, in considerazione dei profondi mutamenti del sistema normativo introdotti dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2013. In quest’ottica emerge la necessità di una rilettura di alcuni orientamenti consolidatisi nella giurisprudenza. Sotto tale profilo vengono in considerazione, anzitutto, le crescenti insoddisfazioni manifestate rispetto all’orientamento che assume il “tenore di vita coniugale” come parametro in funzione del quale definire l’adeguatezza dei mezzi del coniuge che richiede l’assegno di mantenimento o dell’ex coniuge che aspira a conseguire l’assegno postmatrimoniale. Inoltre, le profonde modificazioni introdotte dalla l. n. 219/2012 e dal d.lgs. n. 154/2003 con riguardo alla condizione dei figli nati da persone non coniugate sembra suggerire una rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali formatisi con riferimento al problema dell’incidenza (3) Cass. 23 agosto 2006, n. 18367, in De Jure; Cass. 24 gennaio 2008, n. 1595, in De Jure. (4) Bonini Baraldi, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, Milano, 2009, 140. (5) Bergamini, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, in Codice della famiglia, a cura di Sesta, cit., 153 ss. (6) Nello studio Separazioni e divorzi in Italia, anno 2011, p u b b l i c a t o n e l m a g g i o 2 0 1 3 , r e p e r i b i l e a l l’ i n d i r i z z o http://www.istat.it/it/archivio/91133, si legge che “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi”. In particolare, secondo i dati elaborati dall’ISTAT, infatti, risulta che su 1000 matrimoni si registrano quasi 311 separazioni e 182 divorzi. Le indagini demografiche mettono a fuoco la presenza di un rilevante numero di separazioni e divorzi in cui sono coinvolti figli minori (50,5% e 35,5%). Un altro dato rilevan- te, che emerge solo in parte dalle statistiche dell’ISTAT, è quello che evidenzia la diffusione del fenomeno delle seconde nozze. Anche questo dato deve essere ulteriormente integrato tenendo conto di due fattori che le statistiche disponibili non possono prendere in considerazione, ma che, cionondimeno, riveste un particolare rilievo. In particolare occorre tenere presente il considerevole aumento di separazioni e divorzi tra coniugi “giovani” (18-24% età inferiore ai 40 anni); questo dato, infatti, segnala la presenza di persone che, verosimilmente, dopo la rottura del matrimonio vivranno altre esperienze familiari di convivenza o si accosteranno ad un secondo matrimonio. Occorre poi tenere conto della presenza di un considerevole numero di persone che dopo avere avuto figli fuori dal matrimonio, si apprestano a contrarre matrimonio e a vivere una “seconda esperienza familiare”. A questo proposito deve essere considerato, un dato, più volte richiamato nella Relazione illustrativa della riforma che unificato la condizione giuridica dei figli, secondo cui circa un quinto dei figli nati nel nostro Paese è generato da persone non coniugate. 1044 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali dell’instaurazione di una nuova convivenza da parte del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento o titolare dell’assegno post-matrimoniale; ciò perché, ove siano presenti figli, sussiste oggi una trama di responsabilità all’interno della famiglia intesa in senso ampio, ed in particolare della coppia dei genitori, che, come si osserverà, appare incompatibile con la persistenza di diritti patrimoniali basati su doveri di solidarietà post-coniugale riferiti ad un rapporto ormai terminato o al quale se n’è sovrapposto uno nuovo. 2. Il diritto del coniuge debole alla conservazione del tenore di vita coniugale ed i doveri assunti dal coniuge forte che forma una seconda famiglia Il problema di conciliare i doveri che scaturiscono dalla solidarietà post-coniugale con quelli che derivano dalla formazione di una seconda famiglia appare strettamente collegato a quello della persistente attualità dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale le decisioni relative alla spettanza ed all’entità dell’assegno divorzile dovrebbero essere assunte in funzione dell’obiettivo di garantire al coniuge economicamente debole la persistenza di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. La questione è stata sollevata con un’articolata motivazione da un’ordinanza del Tribunale di Firenze che ha posto in dubbio la conformità dell’orientamento menzionato al principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3 Cost.) (7). Più specificamente la questione di costituzionalità riguarda la regola di “diritto vivente” formatasi con riferimento all’art. 5 l. n. 898/1970. Tale regola si caratterizza, a parere del giudice remittente, per “una palese contraddizione” logica oltre che giuridica - che appare irragionevole, secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale fra l’istituto del divorzio, che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio, ed una disciplina delle conseguenze economiche “che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il <tenore di vita> in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell’assegno”. In questo modo, continua il Tribunale di Firenze, vengono prolungati “all’infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non (7) Sul principio di ragionevolezza delle leggi v. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 275 ss.; Id., sub art. 3 Cost., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, cit., in part. 41. (8) I Principles on European Family Law sono stati elaborati dalla Commission on European Family Law con la finalità di in- Famiglia e diritto 11/2014 esiste più proprio a seguito del divorzio”; e ciò “senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione”. Proprio in questa prospettiva, quindi, il diritto vivente formatosi con riferimento ai presupposti di attribuzione dell’assegno divorzile appare irragionevole in quanto “conduce ad esiti palesemente irrazionali” ed “incompatibili con la stessa ratio legis” della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio. I profili di irragionevolezza insiti nell’attuale diritto vivente vengono ulteriormente testimoniati anche nell’ottica del raffronto con i principi emergenti in altri Paesi dell’Unione europea. La motivazione del provvedimento indicato, infatti, pone in luce che la Commissione europea sul diritto di famiglia ha stabilito il principio secondo il quale “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni” (principio 2.2) (8). Da questo principio, continua la motivazione del Tribunale di Firenze “deriva che dopo il matrimonio, gli unici legami a rimanere in vita sono quelli che riguardano i figli”; in ogni caso, qualora siano effettivamente mantenuti rapporti di tipo patrimoniale tra i coniugi, essi dovrebbero rivestire il carattere della temporaneità (principio 2.8). Questa impostazione, invero, testimonia ulteriormente l’inopportunità di commisurare l’assegno divorzile al tenore di vita goduto durante il matrimonio e la necessità di adottare una prospettiva diversa: quella di garantire un tenore di vita equivalente a tutti coloro che dipendono da un medesimo soggetto economicamente forte. Indubbiamente, focalizzando l’attenzione sul problema della divisione delle risorse di un soggetto a cui fanno capo due famiglie che si sovrappongono nel tempo, la questione può porsi in termini assai particolari nell’ipotesi in cui l’esigenza di attuare un’equilibrata divisione delle risorse della parte economicamente forte veda interessato da un lato l’ex coniuge ancora giovane, reduce da un matrimonio di breve durata e senza figli e, dall’altro, il secondo coniuge ed i figli nati nel secondo matrimonio o nell’ambito di una relazione non matrimoniale. In una fattispecie come questa emerge chiaramente l’inadeguatezza dell’impostazione che mira a garantire all’ex coniuge ecodividuare soluzioni tese al perseguimento della armonizzazione del diritto di famiglia nei diversi stati dell’Unione europea (cfr. http://ceflonline.net/). Sul punto v. Cubeddu, I contributi al diritto europeo della famiglia, in Patti e Cubeddu, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 16. 1045 Opinioni Doveri coniugali nomicamente debole un assegno divorzile idoneo a permettergli di conservare “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, ovvero che poteva ragionevolmente prefigurarsi sulla base di aspettative esistenti nel corso del rapporto matrimoniale” (9). Così, applicando senza opportuni correttivi ai matrimoni di breve durata i criteri adottati dalla S.C. con riferimento al mantenimento dell’ex coniuge economicamente debole, si potrebbe giungere in alcuni casi a soluzioni applicative non convincenti. Garantire il tenore di vita coniugale all’ex coniuge incapace di reperire autonomamente mezzi adeguati, infatti, significherebbe esporre l’ex coniuge obbligato ad una “distrazione” ingiustificata delle proprie risorse a scapito della nuova famiglia che egli abbia formato successivamente al divorzio (10); distrazione che appare tanto più inopportuna quanto più è breve la durata del rapporto matrimoniale e quanto più siano presenti condizioni che rendano verosimile il conseguimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge economicamente debole. Proprio questa particolare prospettiva sembra confermare l’opportunità di ricercare in via interpretativa soluzioni che consentano di limitare le perduranti posizioni di interdipendenza tra i coniugi con riferimento a matrimoni di breve durata e nei quali non siano presenti figli. In queste fattispecie, infatti, risulterebbe opportuno valorizzare il principio dell’autoresponsabilità ed attuare la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in ragione di un ottica “riabilitativa”; occorrerebbe, in altri termini, (9) Cass. 4 novembre 2010, n. 22501, in De Jure. (10) Ronfani, Recensione ad Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, in Sociologia del diritto, 2008, 194. (11) Sul punto v. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229; Id., Obbligo di mantenere e obbligo di lavorare, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 309; Ferrando, Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, in Dir. fam., 1998, 728; Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia, 2008, 22, la quale illustra la riforma del mantenimento operata nell’ordinamento tedesco il 1° gennaio 2008 ed il principio dell’autoresponsabilità; Ronfani, Recensione a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, cit., 193. Un’elevata sensibilità verso questi ultimi problemi si riscontra negli ordinamenti di common law: Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution, in AA.VV., Cross currents, Family Law and Policy in the United States and England, edited by Katz, Eekelaar e Maclean, Oxford, 2000, 398; Katz, 1046 che l’assegno divorzile svolgesse solamente la funzione di consentire per un tempo determinato il superamento della incapacità di procurarsi redditi propri. Del resto, in molti paesi dell’Unione europea si sta affermando il cosiddetto principio della autoresponsabilità (11), che conduce a prevedere una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da un matrimonio di breve durata, ancora in giovane età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli (12). 3. La formazione di una seconda famiglia da parte del coniuge economicamente debole ed i suoi riflessi sull’assegno di mantenimento e sull’assegno divorzile Nell’ambito della complessa trama di rapporti che può crearsi quando, successivamente alla rottura della coppia coniugale si instaurano nuove relazioni familiari, rientra indubbiamente l’ipotesi - speculare rispetto a quella fino a qui esaminata - nella quale il coniuge titolare di assegno di mantenimento o dell’assegno post-matrimoniale formi una seconda famiglia. Al riguardo il legislatore ha contemplato la sola ipotesi nella quale l’ex coniuge titolare di assegno divorzile passi a nuove nozze, sancendo che, in tal caso, “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa” (art. 5, comma 10, l. div.). Può accadere, tuttavia, che l’ex coniuge divorziato titolare di assegno post-matrimoniale instauri una nuova convivenza nell’ambito della quale benefici del supporto economico del nuovo partner; da ultimo occorre considerare anche la fattispecie nella quale sia il coniuge titolare di assegno di mantenimento Family Law in America, New York, 2003, 87. (12) Sul punto v. Cubeddu, Solidarietà e autoresponsabilità nel diritto di famiglia, in Introduzione al diritto della famiglia in Europa, cit., 153, in part. 170; Ead., I principi europei su divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, ivi, 271. Nell’ambito degli ordinamenti di civil law è da segnalare la riforma della disciplina dell’assegno post- matrimoniale introdotta nell’ordinamento spagnolo dalla Ley 15/2005, in ragione della quale il riformato art. 97 c.c. prevede la possibilità assegno il coniuge economicamente debole limitato nel tempo. La propensione a prevedere una tutela di tipo riabilitativo a favore del coniuge relativamente giovane e reduce da matrimoni di breve durata e poi particolarmente sviluppata negli ordinamenti di common law (per una illustrazione più diffusa si rinvia a Al Mureden, Nuove prospettive di tutela del coniuge debole. Funzione perequativa dell’assegno divorzile e famiglia destrutturata, Milano, 2007, 108 ss.). Da ultimo, nel nostro ordinamento, riveste interesse una recente decisione di legittimità nella quale è stata confermata la validità di un accordo tra i coniugi che prevedeva una limitazione temporale del diritto al mantenimento della parte economicamente debole Cass. 6 giugno, 2014, n. 12781, in De Jure. Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali ad instaurare una nuova convivenza durante la separazione. In questi casi si pone il problema di stabilire se il principio espresso con riferimento all’ipotesi delle seconde nozze dall’art. 5, comma 10, l. div. possa essere esteso anche al caso in cui il coniuge economicamente debole formi una nuova famiglia non fondata sul matrimonio. In prima approssimazione si può affermare che l’instaurazione di una nuova convivenza da parte del coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato economicamente dipendente dall’altro impone di risolvere tre ordini di problemi. Occorre stabilire, in primo luogo, quali siano i presupposti al ricorrere dei quali l’instaurazione di una convivenza more uxorio possa assumere rilievo al fine della ridefinizione dei rapporti economici tra i coniugi separati o tra gli ex coniugi divorziati; in altri termini si tratta di individuare quali caratteristiche debba presentare la relazione instaurata con il nuovo partner affinché essa possa essere considerata alla stregua di un elemento capace di giustificare una limitazione dei doveri di solidarietà postconiugale gravanti sul coniuge tenuto alla corresponsione dell’assegno ex art. 156 c.c. o sulle coniuge tenuto a versare l’assegno post-matrimoniale. Un diverso problema consiste nello stabilire se l’accertamento di un rapporto di convivenza sufficientemente solido e stabile costituisca una condizione di per sé sufficiente a legittimare una limitazione dei doveri gravanti sul coniuge o ex coniuge, oppure se tale accertamento costituisca solamente una condizione necessaria a tal fine, ma non sufficiente. Questa seconda opzione interpretativa, infatti, sembra ravvisabile in quelle motivazioni nelle quali l’instaurazione di una nuova convivenza viene considerata rilevante non di per sé, ma solamente laddove da essa scaturisca un effettivo miglioramento della condizione economica del coniuge beneficiario di assegno di mantenimento o dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile. Una volta individuati i presupposti al ricorrere dei quali risulta possibile affermare che la nuova convivenza del coniuge beneficiario del mantenimento presenti caratteri tali da poter condurre ad una limitazione dei doveri gravanti sulla parte economicamente forte, può porsi l’ulteriore interrogativo di stabilire se tale limitazione si risolva nella netta esclusione del dovere di mantenimento e debba essere modu- lata tenendo conto dell’entità del beneficio economico ricavato dalla nuova convivenza. Da ultimo, inoltre, può porsi il problema di stabilire se limitazione o esclusione dell’obbligo di mantenimento gravante coniuge economicamente forte possa essere considerata “reversibile” oppure se, una volta intervenuta, essa precluda la possibilità di una reviviscenza degli obblighi di mantenimento fondati sulla solidarietà post-coniugale. Con riferimento ai problemi illustrati la giurisprudenza ha elaborato principi comuni applicabili al coniuge separato ed all’ex coniuge divorziato. In effetti sotto alcuni profili sembra emergere l’opportunità di formulare regole uniformi, applicabili sia nel contesto della separazione che in quello del divorzio; al tempo stesso, tuttavia, occorre tenere conto di significativi profili di differenziazione tra i due istituti, che, soprattutto per quanto concerne il problema della reviviscenza degli obblighi gravanti sulla parte economicamente forte, sembrano suggerire l’opportunità di affrontare le questioni connesse all’instaurazione di una nuova convivenza da parte del beneficiario del mantenimento secondo approcci che tengano conto delle peculiarità che la separazione presenta rispetto al divorzio. (13) In questo senso v. Trib. Bari 25 settembre 2012, in Dir. fam., 2013, 2, 549, nella quale la soppressione dell’assegno di mantenimento inizialmente disposto a vantaggio del coniuge economicamente debole è stata motivata in ragione dell’accer- tamento di una relazione di convivenza “more uxorio”, la cui stabilità era dimostrata non tanto in base ad una “mera formula temporale”, ma alle caratteristiche e ai contenuti e alle finalità del rapporto instaurato. Famiglia e diritto 11/2014 3.1. La distinzione tra famiglia di fatto e mera convivenza negli orientamenti giurisprudenziali e alla luce dell’unificazione della condizione dei figli Per quanto concerne l’individuazione dei presupposti al ricorrere dei quali l’instaurazione di una convivenza more uxorio possa assumere rilievo al fine della ridefinizione dei rapporti economici tra i coniugi separati o tra gli ex coniugi divorziati, è stato valorizzato principalmente il profilo dell’intento “di mettere in comune con il nuovo partner tutti i propri interessi materiali, morali ed affettivi”. Utilizzando questa espressione la giurisprudenza di legittimità ha voluto affermare il principio secondo cui “la stabilità del rapporto di convivenza (...) non può rapportarsi ad una mera formula temporale, ma dipende principalmente da una valutazione relativa al livello di compenetrazione delle scelte di vita effettuate dalla nuova coppia” (13). Tale criterio appare, invero, connotato da un significativo margine di indeterminatezza, che si risolve nell’attribuzione di una ampia discrezionalità giudizia- 1047 Opinioni Doveri coniugali le. Le considerazioni appena svolte possono essere estese anche alle motivazioni nelle quali viene affermata l’opportunità di distinguere “tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto”, ribadendo che tale distinzione dovrebbe basarsi sul carattere di stabilità e di certezza del rapporto di fatto sussistente tra i partners (14). La possibilità di operare una simile distinzione sulla base di criteri affidabili risulta estremamente complessa nell’ipotesi in cui si tratta di decidere riguardo alla convivenza tra persone che non hanno figli. Peraltro, ove la coppia non coniugata abbia figli comuni, sembra possibile, soprattutto alla luce delle recenti modificazioni della disciplina del rapporto genitori-figli, individuare con sicurezza quei presupposti al ricorrere dei quali si può escludere che la famiglia non fondata sul matrimonio si risolva in un mero rapporto di convivenza ed affermare che, al contrario, essa presenta quei caratteri di certezza e stabilità necessari per poter parlare di una vera e propria formazione familiare autonomo e stabile. La base sulla quale sostenere quest’ultimo assunto non è solo quella che fa capo a considerazioni di carattere demografico e sottolinea la diffusione della famiglia non fondata sul matrimonio nell’attuale tessuto sociale. A ben vedere le ragioni che inducono ad attribuire i caratteri della certezza e della stabilità ad una famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli si basano sulle profonde modificazioni del sistema normativo che hanno reso unica condizione dei figli, hanno determinato il loro inserimento nelle relazioni di parentela dei genitori a prescindere dal matrimonio di questi ultimi (art. 74 c.c. e art. 258 c.c.) ed hanno sancito la portata generale della regola dell’esercizio condiviso dalla responsabilità genitoriale a prescindere dal tipo di unione che lega i genitori e dalla sua sorte (artt. 316, comma 4 e 337 ter, comma 3, c.c.). Le trasformazioni del sistema giuridico appena indicate hanno dato vita ad una condizione del figlio della coppia non coniugata completamente diversa da quella propria del contesto normativo precedente l’introduzione della l. n. 219/2012 del d.lgs. n. 154/2013. Oggi il figlio di una coppia non coniugata risulta inserito contemporaneamente nelle reti di parentela di entrambi i genitori, e quindi in due famiglie non comunicanti fra loro (15). Al tempo stesso la regola dell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale può dar luogo a situazioni nelle quali i genitori di figli nati nell’ambito di contesti familiari diversi esercitino parallelamente ed autonomamente la responsabilità genitoriale in due famiglie distinte (16). In definitiva si può affermare che l’ordinamento crea intorno al fatto della generazione biologica un nucleo di diritti del figlio e di responsabilità dei genitori che prescindono dall’esistenza di un’unione stabile di questi ultimi e dalla circostanza che essa sia fondata sulla convivenza o sul matrimonio. In questo mutato contesto persino la coppia di genitori che non abbia mai formato una famiglia unita si trova, in ogni caso, nella condizione di essere obbligata ad assumere decisioni concordate relativamente alla vita del figlio ed agli aspetti che, sebbene in modo indiretto, si riflettono anche sulla vita della coppia (17). A (14) I caratteri della stabilità sono stati individuati con frequenza laddove sono presenti convivenze nelle quali i partner hanno figli comuni. In tal senso Cass. 11 agosto 2011, n. 17195, in Guida al diritto, 2011, 63, con nota di Vaccaro, Il coniuge divorziato perde il mantenimento se instaura una convivenza stabile con un altro. Gli obblighi connessi al matrimonio possono avere un seguito per tutta la vita, nella quale è stato stabilito che “in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la sperequazione dei mezzi del coniuge economicamente più debole a fronte delle disponibilità economiche dell’altro, che avevano caratterizzato il tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio, non giustifica la corresponsione di un assegno divorzile a carico del primo ove questi instauri una convivenza con altra persona che assuma i connotati di stabilità e continuità, trasformandosi in una vera e propria famiglia di fatto”. In tal caso, continua la motivazione, “il diritto all’assegno viene a trovarsi in una fase di quiescenza, potendosi riproporre in caso di rottura della convivenza”. In senso conforme v. Cass. 18 novembre 2013, n. 25845, in Diritto e giustizia, 2013: “in tema di diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, la quale rescinde, quand’an- che non definitivamente, ogni connessione con il livello ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, conseguentemente, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile”; Cass. 12 marzo 2012, n. 3923, in Giust. civ., 2013, 10, 2197, in cui si legge che “qualora la convivenza “more uxorio” si caratterizzi per i connotati della stabilità, continuità e regolarità, tanto da venire ad assumere i connotati della cosiddetta famiglia di fatto, connotata, in quanto tale, dalla libera e stabile condivisione di valori e modelli di vita, il parametro di valutazione dell’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione dell’ex coniuge non può che registrare una tale evoluzione, recidendo, finché duri tale convivenza e ferma rimanendo, in questa fase, la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé, ove non compensato all’interno della convivenza, ogni plausibile connessione con il tenore e il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, e ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile fondato sulla conservazione di esso”. (15) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in questa Rivista, 2013, 233. (16) Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 5. (17) Al Mureden, La responsabilità genitoriale precondizione unica delle figlie pluralità di modelli familiari, in questa Rivista, 1048 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali seguito delle intervenute modifiche legislative viene meno la necessaria corrispondenza tra famiglia e matrimonio in quanto l’instaurazione di legami di parentela dipende oggi esclusivamente dal fatto biologico della generazione. Al tempo stesso la riforma introduce una necessaria corrispondenza tra la generazione dei figli e la formazione di una famiglia incidendo profondamente su situazioni che nel sistema previgente non assumevano rilievo giuridico. I doveri richiesti i genitori nei confronti del figlio, infatti, impongono la definizione concordata di un indirizzo della vita familiare persino a coloro che non hanno mai formato una coppia unita. La portata concreta di queste affermazioni può essere colta con immediatezza osservando la condizione del c.d. figlio adulterino. In questa prospettiva è possibile immaginare una situazione nella quale una donna dia alla luce un figlio concepito con un uomo già coniugato e che non intende rompere il proprio vincolo matrimoniale. Nel contesto precedente la riforma del ‘75 il figlio adulterino non poteva - salvo casi del tutto particolari - essere riconosciuto dal genitore già coniugato (art. 252 c.c.) (18); egli poteva essere riconosciuto solamente dal genitore unito in matrimonio e, stante il tenore dell’art. 252 c.c., non poteva entrare nelle reti di parentela di quest’ultimo e quindi conseguire un legame giuridicamente rilevante con i nonni, gli zii e i cugini “naturali”; la potestà veniva esercitata in via esclusiva dall’unico genitore che avesse effettuato il riconoscimento. La situazione appena descritta si presentava in termini sostanzialmente analoghi nel contesto normativo vigente tra il ‘75 e il 2014. Infatti, il venir meno del divieto di riconoscimento dei figli adulterini, da un lato, avrebbe consentito la possibilità del riconoscimento da parte del padre; d’altra parte, tuttavia, stante il tenore degli artt. 74 e 258 c.c., l’inserimento del figlio nelle reti di parentela dei genitori continuava ad essere indefettibilmente condizionato al matrimonio di questi ultimi; anche l’esercizio della potestà genitoriale avrebbe potuto essere condiviso solo nel caso in cui, dopo la rottura del primo matrimonio del padre, i genitori avessero potuto formare una coppia di fatto convivente oppure avessero deciso di dare vita ad un’unione matrimoniale. Nel primo caso sarebbero risultati soddisfatti i presupposti al ricorrere dei quali l’art. 317 bis c.c. ricollegava l’esercizio condiviso della potestà; nel secondo caso avrebbe trovato applicazione la regola generale sancita dall’art. 316, comma 2, c.c. Diversamente, qualora, il padre avesse deciso di non rompere il vincolo coniugale già in atto al momento del concepimento, doveva escludersi radicalmente l’eventualità di un esercizio condiviso della potestà. Il figlio adulterino che oggi si trovi in una situazione coincidente con quella assunta come esempio risulterà inserito in due famiglie che non comunicano tra di loro (19); la responsabilità genitoriale sarà condivisa tra la madre e il padre, nonostante quest’ultimo sia ancora inserito nel suo nucleo familiare fondato sul matrimonio (20). Nel mutato contesto normativo, quindi, sembra che il legislatore abbia delineato una serie di situazioni nelle quali i genitori si trovano nella condizione di essere obbligati ad assumere decisioni concordate relativamente alla vita del figlio ed agli aspetti che, sebbene in modo indiretto, si riflettono anche sulla vita della coppia; coppia che, anche nell’ipotesi in cui non sia mai stata unita, è chiamata oggi a comporre secondo la regola dell’accordo una trama di rapporti necessariamente correlata alla generazione del figlio (21). In definitiva il nucleo di diritti riconosciuti al figlio e le correlative responsabilità attribuite ai genitori consente di ravvisare la sussistenza di un consorzio familiare nel quale l’ordinamento esige 2014, 478. (18) Al riguardo l’art. 252 c.c., nella sua formulazione precedente la Riforma del ‘75, limitava la possibilità di riconoscimento del figlio adulterino al solo genitore che non era unito in matrimonio al tempo del concepimento. Per quanto concerneva il genitore unito in matrimonio, invece, il riconoscimento del figlio adulterino era possibile solo a seguito dello scioglimento del matrimonio per effetto della morte dell’altro coniuge ed a condizione che non fossero presenti figli legittimi, o legittimati, o loro discendenti legittimi. Nel caso in cui essi fossero stati presenti, la possibilità di riconoscimento era condizionata all’emissione di un decreto da parte del Presidente della Repubblica, che doveva essere preceduta da un parere del Consiglio di Stato e che, in ogni caso, presupponeva che i figli legittimi o legittimati avessero raggiunto la maggiore età e fossero stati sentiti (sul punto v. Azzariti, voce Filiazione legittima e naturale, in Noviss. Dig. it., VII, Torino 1961, 324; Id., voce Adulterini e incestuosi (Figli), ibid., I, Torino, 1957, 309). (19) Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, cit., 233. (20) Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, cit., 5. (21) Osserva Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, cit., 5, che, con particolare riferimento all’ipotesi della filiazione “adulterina” si verificherà la situazione per cui la persona già coniugata che abbia un figlio fuori dal matrimonio verrà a trovarsi nella condizione di dover concordare due diversi indirizzi familiari: uno all’interno della sua famiglia legittima, l’altro nel nucleo familiare composto dal figlio “non matrimoniale” e dal partner con il quale egli condivide la responsabilità genitoriale. Il figlio, pertanto, “è soggetto alla responsabilità dei genitori, che l’esercitano congiuntamente, in parallelo con quella che ciascuno di loro si trovi eventualmente ad esercitare col proprio coniuge nei riguardi del figlio matrimoniale”. Famiglia e diritto 11/2014 1049 Opinioni Doveri coniugali una stabilità ed una certezza del coinvolgimento dei genitori e assume oggi una piena valenza giuridica. Tant’è che, come si è opportunamente osservato, la stessa espressione famiglia di fatto non appare più appropriata per designare quei nuclei familiari non fondati sul matrimonio nei quali sono presenti figli comuni della coppia (22). A ben vedere, proprio quella responsabilità a cui l’ordinamento chiama i genitori non può non assumere rilievo anche quando si tratta di decidere riguardo alla persistenza di diritti scaturenti dalla solidarietà post-coniugale nei confronti di un soggetto che, successivamente alla separazione o al divorzio abbia dato vita ad una famiglia nella quale siano presenti figli. In altri termini colui che, assieme al partner, assume la veste di genitore ed una responsabilità nei confronti del figlio, pone in essere un atto di autoresponsabilità che nel sistema giuridico attuale mal si concilia con il persistente godimento di diritti che scaturiscono dalla solidarietà post-coniugale riferita ad un rapporto matrimoniale terminato. Ciò, infatti, determinerebbe l’ingresso di risorse economiche provenienti da un coniuge separato o da un ex coniuge divorziato nella nuova famiglia costituita dopo la separazione o il divorzio, creando una situazione incoerente rispetto all’atto dell’assunzione di autoresponsabilità determinato dalla sua formazione (23). 3.2. La formazione di una nuova famiglia da parte del coniuge beneficiario del mantenimento e l’opportunità di una revisione del parametro del “tenore di vita coniugale” La lettura interpretativa appena prospettata con riferimento alle fattispecie nelle quali nella nuova famiglia formata da parte del coniuge titolare di un assegno di mantenimento o dell’ex coniuge a cui è attribuito un assegno post-matrimoniale siano presenti figli sembra suggerire una revisione degli orientamenti formatisi riguardo al problema di sta- bilire se l’accertamento di un rapporto di convivenza sufficientemente solido e stabile costituisca una condizione di per sé sufficiente a legittimare una limitazione dei doveri gravanti sul coniuge o ex coniuge oppure se tale accertamento costituisca solamente una condizione necessaria a tal fine, ma non sufficiente. Come anticipato, da alcune pronunce sembra emergere una propensione a considerare la convivenza instaurata dal beneficiario del mantenimento alla stregua di un elemento capace di limitare gli obblighi del coniuge onerato solo laddove sia effettivamente riscontrabile un miglioramento della posizione economica conseguente all’instaurazione della convivenza. Così la soppressione, o, quanto meno, la congrua riduzione dell’assegno dovuto a titolo di mantenimento del coniuge separato è stata giustificata ponendo in rilievo i “notevoli benefici economici” derivanti dalla possibilità di “condividere, con il convivente, le spese di ordinaria amministrazione (vitto, alloggio, e relativi oneri)”; possibilità preclusa al “coniuge rimasto solo”, il quale, oltre a dover affrontare le spese di ordinaria amministrazione e “le spese relative al mantenimento del coniuge separato” non aveva instaurato una nuova convivenza. In modo ancor più esplicito, è stato disposto che sul coniuge tenuto al pagamento dell’assegno di mantenimento grava l’onere di provare “non solo l’instaurazione ed il permanere di una convivenza more uxorio dell’avente diritto con altra persona, ma anche il miglioramento delle condizioni economiche dell’avente diritto a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, quanto meno in termini di risparmio di spesa”. Infatti, precisa la motivazione, “la convivenza in quanto tale è di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare dell’assegno, potendo essere instaurata anche con una persona priva di redditi e patrimonio” (24). L’impostazione appena riassunta e, in particolare, (22) Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2013, 2, osserva che, a seguito della riforma introdotta con la l. n. 219/2012 risulta ampliata “la nozione legale di famiglia, che ora non appare più necessariamente fondata sul matrimonio, considerato che la disciplina dei vincoli giuridici tra i suoi membri può prescindere da esso”. (23) Trib. Lamezia Terme 1 d icembre 2011, in Di r. fam., 2012, 2, 797, ha disposto la riduzione dell’assegno divorzile dovuto all’ex coniuge economicamente debole sottolineando che nel caso in cui quest’ultimo abbia instaurato una nuova convivenza more uxorio nell’ambito della quale sia nata prole, la persistenza di diritti economici scaturenti dal precedente matrimonio condurrebbe “alla paradossale, inopportuna, illegittima conclusione che il coniuge tenuto all’assegno debba contribuire al mantenimento del figlio (o dei figli) nato dalla relazione concubinaria del coniuge separato”. (24) Trib. Roma, sez. I, 22 aprile 2011, in Giur. merito, 2013, 10, 2106, con nota di Serrao, ha disposto che “il coniuge onerato del pagamento dell’assegno di mantenimento ha l’onere di provare non solo l’instaurazione ed il permanere di una convivenza more uxorio dell’avente diritto con altra persona, ma anche il miglioramento delle condizioni economiche dell’avente diritto a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, quanto meno in termini di risparmio di spesa, poiché la convivenza in quanto tale è di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare dell’assegno, potendo essere instaurata anche con una persona priva di redditi e patrimonio”. 1050 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali l’ultimo degli assunti riportati, sembrano indicare che il presupposto necessario al fine di giustificare l’eliminazione alla riduzione del contributo dovuto dal coniuge economicamente forte per il mantenimento dell’altro non sia rappresentato dall’instaurazione della convivenza in sé considerata, ma dal beneficio economico che ne scaturisce. Questa ricostruzione - sicuramente coerente con il contesto normativo in cui fu elaborata - appare oggi da rimeditare soprattutto in ragione delle riflessioni già svolte con riferimento alle intervenute modificazioni del sistema normativo che hanno reso unica la condizione dei figli ed attribuito piena rilevanza giuridica alle unioni non matrimoniali nelle quali siano presenti figli. Come si è avuto modo di osservare, infatti, la creazione di legami di parentela che si basano sul mero dato della derivazione biologica e l’affermazione della regola generalizzata dell’esercizio condiviso dalla responsabilità genitoriale hanno conferito alla famiglia non fondata sul matrimonio una rilevanza tale per cui appare oggi possibile affermare che, in ogni caso, la nascita di un figlio impone ai genitori l’assunzione di un nucleo minimo di responsabilità richieste dalla conduzione del nucleo familiare in ogni suo frangente. Il che non sembra lasciare spazio alla persistenza di diritti vantati nei confronti dell’ex coniuge divorziato. In altri termini, nel mutato contesto normativo, l’instaurazione di una nuova famiglia e l’assunzione di responsabilità nei confronti dei figli comuni generati con il nuovo partner dovrebbe comportare, di per sé, la tendenziale eliminazione di ogni posizione di dipendenza dal coniuge separato o dall’ex coniuge divorziato ed ogni aspirazione al mantenimento del tenore di vita riferito al periodo della convivenza matrimoniale, ormai venuta meno ed alla quale è stata sovrapposta una nuova convivenza familiare nell’ambito del nuovo nucleo formato successivamente alla crisi del matrimonio. Ogni considerazione relativa alle condizioni economiche godute dal nuovo convivente ed ogni comparazione tra il livello di benessere della nuova famiglia fondata sulla convivenza rispetto a quello che aveva caratterizzato la precedente unione matrimoniale dovrebbero risultare in linea di principio prive di rilievo proprio perché, una volta assunta la decisione (e la responsabilità) di costituire un nuovo nucleo familiare autonomo, non dovrebbe residuare più spazio per interferenze tra questo nuovo nucleo e persistenti doveri di solidarietà post- coniugale radicati sul matrimonio precedente. Famiglia e diritto 11/2014 Adottando l’impostazione appena descritta sarebbe possibile risolvere un’ulteriore incertezza interpretativa: ossia quella di stabilire se a seguito dell’accertamento di una stabile convivenza del coniuge beneficiario del sostegno economico da parte dell’altro la limitazione dei doveri della parte obbligata debba risolversi in una netta esclusione del dovere di mantenimento o debba essere modulata tenendo conto dell’entità del beneficio economico ricavato dalla nuova convivenza. Tale questione, allineandosi all’impostazione tuttora prevalente nella giurisprudenza di merito e di legittimità, dovrebbe essere risolta nel senso di modulare il dovere di mantenimento gravante sul coniuge separato o sull’ex coniuge divorziato in funzione del beneficio che il coniuge economicamente debole ricavi dalla nuova convivenza. Tuttavia, adottando la diversa impostazione che attribuisce rilievo alle sopravvenute modifiche legislative e vede nell’instaurazione di una nuova convivenza nella quale siano presenti figli una rottura netta ed incondizionata della situazione di interdipendenza economica creata con il matrimonio, appare preferibile optare per una soluzione che conduce, in linea di principio, ad una eliminazione radicale del contributo dovuto dalla parte economicamente forte, quanto meno nell’ipotesi in cui si tratti di ex coniugi divorziati. 3.3. La formazione di una nuova famiglia da parte del coniuge economicamente debole e la “quiescenza” del suo diritto al mantenimento Le osservazioni svolte a proposito della rilevanza assunta nel contesto normativo attuale dalla formazione di una famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli assumono rilievo anche quando si tratta di risolvere la questione relativa al carattere definitivo o reversibile della riduzione o eliminazione del contributo economico dovuto per il mantenimento del coniuge separato o dell’ex coniuge divorziato che abbia dato vita ad una nuova famiglia. In questo caso, a differenza di quanto osservato con riferimento alle questioni che precedono, sembra opportuno adottare soluzioni differenziate a seconda che si verta nel contesto della separazione o in quello del divorzio. Con riferimento alla situazione dell’ex coniuge divorziato la soluzione accolta dalla giurisprudenza di legittimità e di merito sembra indicare il carattere reversibile delle limitazioni al dovere di mantenimento gravante sull’ex coniuge. Pronunce recenti, infatti, hanno chiarito che l’instaurazione di una 1051 Opinioni Doveri coniugali stabile convivenza da parte del beneficiario dell’assegno divorzile costituisce un limite agli obblighi imposti alla parte economicamente forte e pone detto assegno “in una fase di quiescenza”; il che comporta la possibilità che una parte economicamente debole riproponga l’istanza volta al conseguimento dell’assegno divorzile in caso di rottura della convivenza (25). Questa soluzione, soprattutto in ragione delle argomentazioni esposte in precedenza, sembra meritevole di una revisione. Infatti l’intervenuta instaurazione di una convivenza da parte dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno postmatrimoniale dopo la definitiva rottura del vincolo coniugale dovrebbe determinare l’effetto di limitare o escludere i doveri di mantenimento gravanti sull’altro in via definitiva ed irreversibile. La soluzione contraria – peraltro avallata da pronunce di legittimità recenti – appare in effetti espressione di una concezione dei rapporti tra ex coniugi non più in linea con il contesto normativo attuale e con la rilevanza che in esso viene attribuita alla formazione di una nuova famiglia nella quale siano presenti figli comuni dei partners. Infatti qualora si convenga circa il fatto che attraverso la creazione di una nuova famiglia si compie un atto di autoresponsabilità inconciliabile con il persistente godimento dei benefici economici derivanti da rapporto coniugale ormai terminato, si dovrebbe giungere a concludere che venir meno dell’assegno post-matrimoniale dovrebbe assumere, in linea di principio, un carattere definitivo e quindi non reversibile. Peraltro, quando si tratta di decidere riguardo alla posizione del coniuge separato il cui diritto al mantenimento venga limitato o escluso dalla sopravvenuta formazione di un nuovo nucleo familiare ove siano presenti figli, sembra opportuno formulare considerazioni in parte diverse rispetto a quelle che riguardano la situazione dell’ex coniuge divorziato. Nell’ambito della separazione, infatti, resta possibile l’eventualità di una riconciliazione tra i coniugi, che potrebbe condurre addirittura al ripristino dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c. e, in caso di una successiva crisi dei coniugi riconciliati, ad un obbligo di mantenimento ex art. 156 c.c. In altri termini l’instaurazione di una convi(25) Cass. 26 febbraio 2014, n. 4539, in Diritto & Giustizia online, 2014, in cui è stato stabilito che “la convivenza more uxorio del coniuge, destinatario dell’assegno, tale da aver dato vita ad una vera e propria famiglia di fatto, può rendere inoperante o comunque può produrre una sospensione dell’assegno divorzile”; in senso analogo Cass. 11 agosto 2011, n. 17195, cit. 1052 venza more uxorio da parte di un soggetto che, in quanto separato, conserva ancora un significativo legame con l’altro coniuge può sicuramente legittimare la limitazione o l’esclusione dei doveri di mantenimento scaturenti dall’art. 156 c.c. Al tempo stesso la persistenza del vincolo coniugale dovrebbe consentire di attribuire alla limitazione o all’esclusione dei doveri di mantenimento gravanti sul coniuge i caratteri della provvisorietà e reversibilità in ragione dei quali appare possibile ritenere che il diritto al mantenimento della parte economicamente debole venga eventualmente a trovarsi in una situazione di quiescenza. 4. Il mantenimento del coniuge debole nella prospettiva delle famiglie che si sovrappongono tra solidarietà post-coniugale e autoresponsabilità Le fattispecie prese in esame, nel loro insieme, testimoniano l’opportunità di una revisione degli orientamenti in materia di mantenimento del coniuge economicamente debole che tenga conto della diffusione di modelli familiari che rappresentano un elemento di novità rispetto al paradigma tradizionale della famiglia unita o di quella che, al più, poteva vivere in una dimensione “destrutturata” successivamente alla separazione o al divorzio dei coniugi. La rilevanza dei modelli familiari nei quali nuovi nuclei si sovrappongono a quello che si è diviso a seguito della separazione o del divorzio, del resto, è ormai emersa anche nelle recenti modifiche del sistema legislativo e negli orientamenti giurisprudenziali che ad essi hanno attribuito rilevanza. Così, l’enfatica enunciazione del diritto “diritto costituzionalmente fondato di ottenere la separazione personale” (26) e quella del diritto a dare vita ad una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare possono essere osservate come la presa d’atto di mutamenti sociali e demografici la cui diffusione ed espansione è costantemente confermata dagli studi statistici. Del resto, anche la conseguita consapevolezza del legislatore riguardo alla varietà di situazioni che possono caratterizzare la relazione tra i genitori, incidendo sulla sua solidità e sulla sua stabilità, ha condotto a valorizzare legami familiari (26) Cass. 9 ottobre 2007, n. 21099, in questa Rivista, 2008, 28, con nota di La Torre, Perdita dell’affectio coniugalis e diritto alla separazione, nella quale è stato enfaticamente evocato un “diritto costituzionalmente fondato di ottenere la separazione personale e interrompere la convivenza”, ove questa sia divenuta intollerabile. Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali che in precedenza non assumevano rilievo giuridico ed a creare intorno al fatto della generazione biologica un nucleo di diritti del figlio e di responsabilità dei genitori che, per la prima volta nel nostro ordinamento, prescindono dall’esistenza di un’unione stabile di questi ultimi e dalla circostanza che essa sia fondata sulla convivenza o sul matrimonio. Proprio l’elemento di novità costituito dalla rilevanza che oggi il nostro ordinamento attribuisce alla famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli sembra suggerire l’opportunità di una revisione degli orientamenti giurisprudenziali consolidati formatisi in materia di conseguenze economiche della crisi coniugale in funzione di paradigmi e di modelli familiari che, pur continuando a conservare assoluto rilievo nel contesto normativo attuale, risultano modificati o comunque, affiancati da modelli più articolati e complessi. In definitiva il problema del mantenimento del coniuge economicamente debole deve essere affrontato nel sistema giuridico attuale considerando, accanto al modello della famiglia che si disgrega a seguito della separazione e del divorzio, anche la prospettiva più complessa dei modelli di famiglia che scaturiscono dalla ricomposizione di nuovi nuclei familiari successivamente alla separazione ed al divorzio. Lo scenario della ricomposizione di nuovi nuclei familiari da parte del coniuge economicamente forte postula l’esigenza di rivedere e circostanziare, anzitutto, l’assunto secondo cui dopo la rottura del matrimonio deve essere perseguito l’obiettivo di garantire ai componenti del primo nucleo familiare il persistente godimento del tenore di vita della famiglia unita. A questa impostazione dovrebbe sostituirsi quella che mira a garantire un’equa ripartizione delle risorse economiche di cui dispone la parte più benestante e quindi la finalità di garantire un tenore di vita tendenzialmente analogo tra loro a tutti i soggetti economicamente deboli, appartenenti al primo e al secondo nucleo familiare e dipendenti dal medesimo soggetto. In quest’ottica sembra necessaria una parziale revisione degli orientamenti in materia di assegno post-matrimoniale, che, ove si ponga il problema della tutela del coniuge ancora in giovane età, reduce da un rapporto matrimoniale di breve durata e senza figli, (27) A questo proposito, riveste notevole interesse una recente pronuncia di illegittimità (Cass. 6 giugno 2014, n. 12781, cit.) concernente una fattispecie nella quale i coniugi avevano Famiglia e diritto 11/2014 dovrebbe assumere una funzione assistenziale-riabilitativa ed essere circoscritto entro ragionevoli limiti di tempo (27). Questa soluzione, del resto, risulterebbe coerente con quelle già adottate in alcuni paesi europei e nella maggior parte dei sistemi giuridici statunitensi. Per quanto concerne l’ipotesi della ricomposizione di un nuovo nucleo familiare da parte del coniuge economicamente debole, beneficiario del diritto al mantenimento nei confronti dell’altro, sembra auspicabile una revisione degli orientamenti consolidati che tenga conto della rilevanza giuridica attribuita dalla recente riforma alla famiglia non fondata sul matrimonio nella quale siano presenti figli. In altri termini le modificazioni legislative nell’attribuire rilevanza giuridica ai rapporti familiari non fondati sul matrimonio e nell’investire i genitori di nuove responsabilità, hanno conferito alla formazione sociale che un tempo veniva definita “famiglia di fatto” caratteri che, a ben vedere, non possono non essere presi in considerazione quando si tratta di definire le conseguenze economiche che scaturiscono da rapporti matrimoniali instaurati in precedenza ed ai quali la nuova formazione familiare si è sovrapposta. Adottando questa prospettiva, gli orientamenti giurisprudenziali concernenti la posizione del coniuge separato beneficiario del mantenimento e, in particolare, quella dell’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile appaiono meritevoli di una revisione che valorizzi il profilo della autoresponsabilità inevitabilmente connesso alla formazione di un nuovo nucleo familiare. 5. La limitazione delle perduranti posizioni di interdipendenza economica tra ex coniugi tra prospettive de iure condendo ed interpretazioni evolutive Le complesse questioni che si pongono nella definizione delle conseguenze economiche della rottura del matrimonio e della successiva ricomposizione dei familiari sono state affrontate in altri ordinamenti predisponendo efficaci strumenti funzionali ad eliminare persistenti posizioni di interdipendenza economica tra gli ex coniugi e, quindi a risolvere in radice molti dei problemi a cui si è fatto riferimento. In quest’ottica vengono in considerazione anzitutto l’introduzione di forme di mantenimento con funzione riabilitativa e soggette a rigorosi limiti temporali; quindi gli strumenti di deficonvenuto che la parte economicamente debole percepisce un assegno dall’altra per un arco di tempo limitato, in vista del conseguimento dell’indipendenza economica. 1053 Opinioni Doveri coniugali nizione una tantum delle conseguenze del divorzio che consentono di eliminare i problemi connessi alla sussistenza di obblighi di mantenimento periodici; infine la crescente attribuzione di rilievo alla formazione di nuclei familiari non fondati sul matrimonio come limite alla persistenza di obblighi di mantenimento scaturenti dalla dissoluzione di una precedente unione matrimoniale. Come si è osservato, in molti paesi dell’Unione europea si sta affermando il cosiddetto principio della autoresponsabilità (28), che conduce a prevedere una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da un matrimonio di breve durata, ancora in giovane età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli (29). Questa scelta del legislatore non di rado si accompagna a norme che impongono una definizione una tantum delle conseguenze economiche del divorzio. Nei sistemi di common law, ad esempio, l’adesione alla c.d. clean break theory (30) consente di risolvere il problema dei riflessi patrimoniali del divorzio mediante l’attribuzione di una somma una tantum (lump sum) o l’assegnazione al coniuge economicamente debole di uno o più beni appartenenti all’altro, limitando ad ipotesi residuali il pagamento di somme periodiche a titolo di mantenimento. Tale impostazione è indubbiamente funzionale all’esigenza di consentire ai coniugi di definire una volta per tutte i rapporti patrimoniali conseguenti al divorzio e lasciarsi alle spalle la passata esperienza per ricominciare una nuova vita (31). Del resto, anche in ordinamenti di civil law maggiormente affini al nostro, sono stati introdotti in tempi relativamente recenti strumenti idonei a conciliare l’esigenza di mantenimento del coniuge economicamente debole con quella di evitare il protrarsi di posizioni di interdipendenza economica successivamente al divorzio. Così, ad esempio, nell’ordinamento francese, la corresponsione della pension compensatoire deve essere effettuata, ove possibile, mediante l’attribuzione una tantum di una somma di denaro o di un bene immobile (art. 270 c.c.) (32) e, solo in caso di mancanza di risorse sufficienti in capo al coniuge economicamente forte, può essere assolta mediante pagamenti periodici (art. 275 c.c.) (33). Per quanto riguarda l’attribuzione di rilievo alle relazioni familiari non basate sul matrimonio riveste sicuro interesse la soluzione recepita nel nuovo art. 101 del codice civile spagnolo che, oltre al passaggio a nuove nozze, annovera tra le cause di estinzione del diritto a percepire l’assegno divorzile anche la formazione di una famiglia non fondata sul matrimonio (34). Anche nel nostro ordinamento, invero, la possibilità che dall’instaurazione di una nuova convivenza stabile possa derivare il venir meno di diritti che scaturiscono da un’esperienza matrimoniale precedente trova riscontro in un’espressa disposizione di legge. La disciplina della assegnazione della casa familiare introdotta dalla l. n. 54/2006 (art. 155 quater c.c.) e ora contenuta nell’art. 337 sexies c.c., infatti, prevede la possibilità che il coniuge titolare del provvedimento di assegnazione della casa familiare possa perdere il diritto al godimento della stessa nel caso in cui instauri una nuova convivenza more uxorio (35). (28) Sul punto cfr. retro nota 11. (29) Sul punto cfr. retro nota 12. (30) Blumberg, The Financial Incidents of Family Dissolution, cit., 393 ss.; Katz, Family Law in America, cit., 87. (31) In questo senso in più trattazioni si richiamano le incisive parole di Lord Scarman nella decisione Minton v Minton [1979] AC 593, 608: “An object of the modern law is to encourage [the parties] to put the past behind them and to begin a new life which is not overshadowed by the relationship which has broken down”. (32) Cfr. l’art. 270 c.c., modificato dalla Loi n. 2004-439 in vigore dal 1° gennaio 2005, in cui è disposto che “L’un des époux peut etre tenu de verser à l’autre une prestation destinée à compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la rupture du mariage crée dans les conditions de vie respectives. Cette prestation a un caractère forfaitaire. Elle prend la forme d’un capital dont le montant est fixé par le juge”. Il successivo art. 214, chiarisce che “Le juge décide des modalités selon lesquelles s’exécutera la prestation compensatoire en capital parmi les formes suivantes : 1° Versement d’une somme d’argent, le prononcé du divorce pouvant etre subordonné à la constitution des garanties prévues à l’article 277 ; 2° Attribution de biens en propriété ou d’un droit temporaire ou viager d’usage, d’habitation ou d’usufruit, le jugement opérant cession forcée en faveur du créancier. Toutefois, l’accord de l’époux débiteur est exigé pour l’attribution en propriété de biens qu’il a reçus par succession ou donation” (33) Cfr. l’art. 275 c.c., modificato dalla Loi n. 2004-439, in vigore dal 1 gennaio 2005, ai sensi del quale “Lorsque le débiteur n’est pas en mesure de verser le capital dans les conditions prévues par l’article 274, le juge fixe les modalités de paiement du capital, dans la limite de huit années, sous forme de versements périodiques indexés selon les règles applicables aux pensions alimentaires”. (34) L’artículo 101 codigo civil dispone: “El derecho a la pensión se extingue por el cese de la causa que lo motivó, por contraer el acreedor nuevo matrimonio o por vivir maritalmente con otra persona. El derecho a la pensión no se extingue por el solo hecho de la muerte del deudor. No obstante, los herederos de éste podrán solicitar del Juez la reducción o supresión de aquélla, si el caudal hereditario no pudiera satisfacer las necesidades de la deuda o afectara a sus derechos en la legítima”. (35) La norma contenuta nell’art. 155 quater c.c. è stata oggetto di una sentenza interpretativa del di rigetto della Corte costituzionale che chiarito la non automaticità della caducazione del provvedimento di assegnazione in ragione dell’accertamento della nuova convivenza instaurata dal coniuge assegnatario della casa familiare ed ha precisato che a tal fine è sempre necessario verificare quale sia l’interesse dei minori che 1054 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Doveri coniugali Questa disposizione, in effetti, testimonia che l’ordinamento attribuisce rilievo alla sopravvenuta instaurazione della convivenza more uxorio da parte del coniuge beneficiario della casa familiare e tende, in linea di principio, ad escludere la compatibilità tra essa ed il perdurante godimento della casa familiare (36). Indubbiamente - anche nella prospettiva dell’approvazione della riforma sul c.d. divorzio breve (37) e dell’introduzione delle recenti disposizioni del d.l. n. 132/2014, recanti Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione - sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che - allineandosi a soluzioni già praticate in altri ordinamenti - risulti funzionale ad adeguare la disciplina delle conseguenze economiche della rottura del matrimonio alle esigenze determinate dalla crescente diffusione di nuovi modelli familiari articolati e complessi determinati dalla sovrapposizione nel tempo di diversi nuclei familiari che fanno capo all’unico soggetto economicamente forte. Per quanto concerne l’introduzione di strumenti di definizione una tantum dei rapporti economici tra ex coniugi divorziati e la previsione di un mantenimento dell’ex coniuge circoscritto entro ragionevoli limiti temporali l’intervento del legislatore appare l’unica soluzione percorribile, stante l’assenza di elementi positivi sulla base dei quali operare una rilettura interpretativa del sistema. Diversamente, la possibilità di individuare nella autoresponsabilità del coniuge economicamente debole e, in particolare, nella scelta di quest’ultimo di dare vita ad nuova famiglia elementi capaci di eliminare posizioni di interdipendenza scaturenti dal precedente matrimonio costituisce un obiettivo che - oltre a poter essere attuato dal legislatore in una prospettiva de iure condendo - sembra possibile conseguire, allo stato attuale, anche in via interpretativa. nella casa familiare vivono ed in funzione del quale l’assegnazione è stata disposta (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 300, in questa Rivista, 2008, 1661, con nota di Quadri, Vicende dell’assegnazione della casa familiare e interesse dei figli e in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 411, con nota di C. Irti, La revoca dell’assegnazione della casa familiare: dalle critiche della dottrina al giudizio della Consulta). (36) Roma, L’assegnazione della casa familiare, in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di Sesta e Arceri, Torino, 2012, 177 (37) Cfr. Il testo unificato delle proposte di legge (C. 831892-1053-1288-1938-2200-A), intitolato Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi, approvato alla Camera il 29 maggio 2014 e, in particolare, la modifica dell’art. 3 l. n. 898/1970, che condiziona la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili al del matrimonio al protrarsi ininterrotto della separazione legale per “almeno dodici mesi dalla notificazione della domanda di separazione”, in caso di separazione giudiziale, e, in caso di separazione consensuale, “di sei mesi decorrenti dalla data di deposito del ricorso ovvero dalla data della notificazione del ricorso, qualora esso sia presentato da uno solo dei coniugi”. Famiglia e diritto 11/2014 1055 Opinioni Cittadinanza Acquisto di cittadinanza Disabilità e capacità di volere nelle procedure di acquisto della cittadinanza di Paolo Morozzo della Rocca L’Autore, esaminati gli orientamenti giurisprudenziali riguardo alle dichiarazioni di volontà in materia di cittadinanza, condivide l’opinione favorevole ad esonerare il soggetto incapace di intendere e di volere dal giuramento di cui all’art. 10 della legge n. 91 del 1992 e ritiene che delle dichiarazioni tese all’acquisizione dello status civitatis - diversamente da quelle dismissive o di rifiuto - possa essere autore anche il soggetto legalmente incapace, purché capace di intendere e di volere. In ogni caso la dichiarazione di volontà in materia di cittadinanza può essere validamente formulata dal rappresentante legale dell’incapace nell’interesse di quest’ultimo, occorrendo però l’autorizzazione del giudice tutelare quando si tratti di dichiarazione dismissiva. L’autore ritiene, infine, che i segnalati orientamenti in tema di cittadinanza possano contribuire alla più ampia riflessione degli interpreti in materia di “atti personalissimi”. Sull’eccessivo rilievo della volontà nell’attuale disciplina della cittadinanza Diverse sono le modalità del rilievo della volontà nei procedimenti di acquisto della cittadinanza. Un rilievo normativamente diffuso ma non sempre necessario: si pensi, ad esempio ai casi di “cittadinanza originaria” (espressione questa molto criticata ma ancora diffusa) nei quali si nasce cittadini e solo in casi particolari si ha la possibilità di rinunziarvi. La volontà svolge invece, quasi sempre, un ruolo determinante nei casi di acquisto successivo alla nascita. Qui la dichiarazione di volontà può assumere diverse collocazioni all’interno del procedimento: a) potrà costituirne un elemento necessario senza il quale il procedimento non può essere iniziato o non potrà essere concluso; b) potrà assumere un rilievo solo eventuale, riconoscendo al soggetto la possibilità di esprimere una volontà impeditiva dell’acquisto della cittadinanza, altrimenti attribuita ex lege; c) potrà aversi, infine, una dichiarazione di volontà dismissiva, volta a rinunciare alla cittadinanza precedentemente acquisita (1) È questa la critica già espressa alla previgente disciplina da R. Quadri, Cittadinanza, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1959, 330. (2) Non mi risultano statistiche relative al problema posto nel testo. Per farsi un’idea delle sue dimensioni sociali, seppur 1056 (specie se l’acquisto sia avvenuto senza il concorso della volontà dell’interessato). In termini ancora molto generali vanno denunciati i gravi inconvenienti derivanti dalla inopportuna scelta del legislatore (sia quello storico che l’attuale) di riversare eccessivamente sul singolo individuo la responsabilità di fattispecie acquisitive della cittadinanza che in realtà troverebbero già la loro ragion d’essere in elementi oggettivi di gran lunga più significativi della volontà individuale (1), ignorando, in particolare, le conseguenze che tale sopravvalutazione produce nei casi di fragilità psichica o mentale del soggetto chiamato a volere (2). Un primo suggerimento che dunque potrebbe essere dato al legislatore in sede di riforma potrebbe essere quello di rivedere - e dove opportuno ridimensionare - il ruolo della volontà individuale nelle singole fattispecie. Questo ridimensionamento a volte potrebbe sostanziarsi in una diversa collocazione funzionale della volontà individuale all’interno del procedimento. Ad esempio, là dove attualmente la legge richiede una dichiarazione di volontà positiva per il compiersi della fattispecie acquisitiva, potrebbe talvolta essere introdotta una mera limitatamente alle giovani generazioni, può essere tuttavia considerato che, secondo i dati del MIUR, nell’anno scolastico 2009/2010 vi erano nelle classi italiane 10.500 alunni immigrati con disabilità intellettiva. Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Cittadinanza facoltà di rifiuto della cittadinanza altrimenti attribuita ope legis. Potrebbe essere questo il caso dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei cittadini stranieri nati in Italia e residenti sul territorio nazionale sino al compimento del diciottesimo anno di età, i quali oggi divengono cittadini solo su loro richiesta, ai sensi dell’art. 4, comma 2 della legge n. 91/1992. Si tratta di una disposizione ripresa nella prima metà dell’ottocento dal codice napoleonico e ripetuta senza modifica alcuna nei pochi passaggi legislativi sopravvenuti, sino alla legge del 1992. In Francia - Paese da cui questa regola è stata importata - il legislatore vi ha invece messo mano, modificandola, in tre diverse occasioni (nel 1851, nel 1889 e nel 1927) al fine, principalmente, di poter coinvolgere i giovani di origine straniera nella difesa militare della Patria. Accadeva infatti che un certo numero di stranieri di seconda generazione, giovani francesi di fatto, ma non di diritto, rimanessero in città a studiare, lavorare o commerciare – ben guardandosi dal dichiarare la loro volontà di divenire francesi in tempo di guerra - mentre quelli con cui erano cresciuti sino al giorno prima partivano per il fronte. Mi chiedo se abbiamo necessariamente bisogno di una guerra per chiamare tutti i giovani cresciuti e formati nel nostro Paese a servire il bene comune; e se, finito il tempo dei conflitti armati territoriali, dobbiamo considerare esaurita anche l’esigenza di politiche di inclusione nella cittadinanza dei ragazzi che crescono nel nostro Paese, o se invece tale esigenza non sia addirittura accresciuta dalla nuova collocazione dell’Italia nel mondo ed in Europa, lontani dalle vecchie guerre territoriali ma esposti ad una competizione globale nella quale vince chi meglio sa insinuarsi in ogni luogo e cultura. Oggi in Francia lo straniero nato sul territorio nazionale può divenire cittadino già a 13 anni per volontà del rappresentante legale, salvo poi eventualmente rinunciare; in caso di inerzia del suo rappresentante legale potrà personalmente eleggere la cittadinanza francese al compimento dei sedici anni; ed infine, diverrà ope legis cittadino francese al compimento dei diciotto anni se non vi si opporrà rifiutandola (3). Questo modello ci mostra dunque la possibilità e forse la convenienza di ricollocare la volontà individuale da presupposto necessario ad eventuale fatto impeditivo dell’acquisto della cittadinanza di residenza. (3) In tal senso il combinato disposto tra l’art. 21-7 e l’art. 21-11 del code civil. (4) Cfr., per tutti, E. Pagano, Legge 13 giugno 1912, n.555, Famiglia e diritto 11/2014 In effetti i minori stranieri nati nel Paese di residenza sono esistenzialmente cittadini ben prima di diventarlo sotto il profilo giuridico, benché siano nati stranieri; e non è detto che sia saggio far dipendere l’ingresso nella cittadinanza del Paese di residenza da una loro dichiarazione di volontà; né che la volontà loro richiesta debba esprimersi in un atto negoziale; né che la dichiarazione di volontà eventualmente richiesta debba essere considerata come atto personalissimo. Una ben diversa prospettiva caratterizza invece i casi di ingresso nella cittadinanza di residenza degli stranieri che siano immigrati nel Paese già da adulti, per i quali la dichiarazione di volontà dovrebbe rimanere, nella normalità dei casi, il presupposto fondamentale e dunque necessario, almeno riguardo a coloro che siano in effetti capaci di intendere e di volere, avendo già essi una loro cittadinanza effettivamente vissuta. In tutti questi casi è infatti più che logico che si debba desiderare di divenire cittadini del paese di immigrazione ed ancor più necessario è che la nuova cittadinanza non sia loro imposta (come pure uno Stato non democratico potrebbe decidere di fare). Il requisito di capacità nelle dichiarazioni di volontà in tema di cittadinanza Dato il rilievo che nella maggior parte dei casi di attribuzione non originaria della cittadinanza è riconosciuto alla volontà individuale, diviene essenziale stabilire quale sia la capacità di volere richiesta al dichiarante. L’opinione tradizionale ritiene che per le dichiarazioni di volontà relative all’acquisto o alla rinunzia alla cittadinanza occorra la piena capacità legale di agire oltre, ovviamente, alla capacità naturale nel momento della dichiarazione stessa (4). A sorreggere questa idea v’è la considerazione per la particolare gravità dell’atto da compiere – col quale verrà dichiarata la volontà di ingresso o di fuoriuscita dallo status civitatis – alla quale dovrebbe dunque corrispondere un più esigente grado di capacità di volere e dunque l’indefettibilità della piena capacità legale di agire. Sul piano del diritto comune la norma di riferimento è l’art.2 del codice civile, ove è disposto che “con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita una età diversa”. Da queste parole del legislatore sulla cittadinanza italiana, in P. Perlingieri, La legislazione civile annotata con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli, 1985, 14 1057 Opinioni Cittadinanza potrebbe in effetti essere tratta la deduzione che gli atti leciti per il cui compimento non è richiesta la normale capacità legale di agire (nonché la maggiore età, che ne è il presupposto legale naturale) sono solo quelli espressamente previsti, tra i quali non figura alcuna ipotesi di dichiarazione di volontà in materia di acquisto o rinunzia alla cittadinanza. Dell’art. 2 del codice civile è stata però da altri proposta una diversa interpretazione costituzionalmente orientata e propensa, in particolare, a valorizzare nella sua lettura l’art. 2 della Costituzione, di modo che l’espressa previsione di legge per eccepire alla regola generale sulla capacità legale parrebbe necessaria solo nell’ambito degli atti negoziali, specie se a contenuto patrimoniale, rimanendone invece esenti gli atti di autodeterminazione della persona nell’ambito degli interessi non patrimoniali rilevanti ai sensi dell’art. 2 Cost., per i quali parrebbe invece necessaria e sufficiente la capacità di intendere e di volere, ovvero la consapevolezza dell’atto che viene compiuto dal portatore dell’interesse (5). Questa seconda linea interpretativa trae forza dall’idea che l’autodeterminazione non sia solo una modalità (talvolta oculata, altre volte malaccorta) di gestione degli interessi ma costituisca già in sé un diritto nel quale è specificata la dignità della persona (6). Sotto altro profilo, il favore di una parte degli interpreti per il solo requisito di capacità naturale si spiega con la presupposizione che le dichiarazioni di volontà in materia di cittadinanza siano atti personalissimi per i quali non sia possibile la sostituzione dell’interessato da parte di terzi che ne curino ordinariamente gli interessi. Il rischio sarebbe dunque quello di escludere dall’accesso alla cittadinanza persone interdette, beneficiarie dell’amministrazione di sostegno, sottoposte a tutela o ad altri uffici di protezione previsti dalla legge del Paese di origine (7), mentre per i minori, considerate le modalità previste dalla legge per l’acquisto della cittadinanza italiana, il problema si pone in termini decisamente diversi e forse opposti, dato che i casi nei quali si è posto effettivamente il quesito sulla rilevanza della dichiarazione di volontà del minore non riguardano ipotesi di acquisto ma di rinuncia. Sul punto l’opinione prevalente, fatta propria anche dall’Amministrazione dell’Interno, è nel senso che “per il nostro ordinamento non ha rilevanza la manifestazione di volontà del minore intesa a conseguire uno status civitatis straniero” (con la conseguenza, nei casi ivi considerati, della perdita della cittadinanza italiana) (8). Nello stesso senso, per orientamento ancor più risalente, è anche il Consiglio di Stato, secondo cui per acquistare spontaneamente la cittadinanza straniera e perdere di conseguenza quella italiana occorre avere la maggiore età (9). Dei due orientamenti sin qui riferiti quello poc’anzi definito come tradizionale è senza dubbio da preferire riguardo alle dichiarazioni rinunciative ed è avvalorato, limitatamente a tale ambito, dalle norme che disciplinano tali fattispecie. Ciò corrisponde, del resto, anche al migliore interesse del minore e dell’incapace, come a breve vedremo. Già sotto la previgente disciplina l’art. 7 della legge n. 555/1912 consentiva al cittadino italiano residente all’estero ed in possesso della cittadinanza di quel paese per nascita di rinunziare alla cittadinanza italiana solo se emancipato o se divenuto maggiorenne. Il successivo art. 8, comma 1, n. 1, imponeva invece, ope legis, la perdita della cittadinanza italiana per chi, stabilendosi all’estero, avesse spontaneamente acquisito una cittadinanza straniera. Ma la dottrina era ferma nel considerare come involontaria la cittadinanza straniera acquisita mediante dichiarazione di volontà del genitore del minorenne, di modo che quest’ultimo potesse mantenere doppia cittadinanza oppure rinunziarvi, ai sensi dell’art. 8, comma 1, n. 2, successivamente alla maggiore età (10). Nel suo breve periodo di vita, l’art. 5 della legge n. 123 del 1983, mentre consentiva la doppia cittadinanza durante la minore età, prevedeva invece che la rinunzia ad una delle due potesse avvenire solo tra il diciottesimo ed il diciannovesimo anno d’età. Non meno nette, al riguardo, paiono le indicazioni fornite da due disposizioni contenute nella legge (5) In tal senso, tra gli altri, M. Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato Rescigno, I, 2, 43 ss. (6) In termini generali è questa, ad esempio, la posizione assunta da S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 140 ss. (7) Sul problema dell’applicazione degli istituti dell’interdizione e dell’amministrazione di sostegno allo straniero, cfr. L. Lenti, Gli istituti di protezione e rappresentanza e il compito di assistenza sociale dell’ente locale, in (a cura di) P. Morozzo della Rocca, Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assisten- za, Napoli, 2013, 142; A. Belotti, Sulla possibilità di nominare un amministratore di sostegno in capo allo straniero infermo di mente, in Gli stranieri, 2011, 2, 177 ss. (8) È quanto affermato da Circolare 27.5.1991, n. K.31.9 riguardo all’art. 8, n. 1 della legge 555 del 1912. (9) Cons. Stato, Parere 24.10.1975, n. 1820. (10) Per riferimenti di dottrina e giurisprudenza cfr. R. Clerici, Cittadinanza, in Digesto, disc. Pubbl., 3, Torino, 1988, 131, nonché alle note 153 e 154. 1058 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Cittadinanza vigente: ai sensi dell’art. 3 della legge n. 91 del 1992, in caso di revoca dell’adozione per ragioni diverse dal fatto dell’adottato quest’ultimo può rinunciare, se vuole, alla cittadinanza italiana ma solo se la revoca sia intervenuta quando abbia già raggiunto la maggiore età; dispone inoltre l’art. 14 che coloro che abbiano acquistato ope legis la cittadinanza italiana, perché figli minori conviventi col genitore che abbia acquistato o riacquistato la cittadinanza italiana, possano rinunciarvi una volta divenuti maggiorenni. Il riferimento contenuto nelle due norme ora richiamate al requisito della maggiore età, in linea con la regola di diritto comune di cui all’art. 2 c.c., consente all’interprete di ritenere che esso valga anche per le disposizioni dove, pur non essendo espressamente indicato, deve essere dato per presupposto, come nel caso dell’art. art. 11, dove è disposto che il cittadino italiano residente all’estero che acquista o riacquista una cittadinanza straniera non perde la cittadinanza italiana ma può rinunziarvi se crede. Riguardo al requisito della capacità legale ai fini dell’esercizio della facoltà di rinunzia, la soluzione del suo mantenimento anche da parte del legislatore attuale, in continuità con i suoi predecessori, sembra da condividere perché consentire al minore di età la facoltà di dichiarare efficacemente la propria volontà riguardo allo status civitatis in base ad una sua propria e solitaria valutazione comporterebbe almeno i seguenti rischi: a) che la capacità di intendere e di volere trovi come valutatore l’ufficiale di stato civile, il quale non ha alcuna specifica preparazione professionale per valutarla; b) che l’apparente volontà del minore venga eccessivamente condizionata, quando non plagiata, dai suoi genitori o dal suo tutore o amministratore, senza però che tali soggetti se ne assumano formalmente la responsabilità; c) che gli atti rinunciativi siano oggettivamente pregiudizievoli al dichiarante. Diverso ragionamento potrebbe essere svolto riguardo alle dichiarazioni di volontà miranti all’acquisto, anziché alla dismissione, dello status civitatis. Richieste di cittadinanza da parte di minorenni stranieri, ai sensi della disciplina vigente, sono forse improbabili ma non impossibili, ad esempio a termini dell’art. 9, comma 1, lett. d), e) ed f): si pensi al caso di un minorenne che abbia maturato il requisito di residenza in Italia non accompagnato da genitori od i cui genitori non vogliano o non possano ottenere la cittadinanza prima che lui divenga maggiorenne. Nel silenzio della legge n. 91/1992 riguardo al requisito di capacità di volere l’interprete potrà percorrere due strade: la prima, come vedremo a breve, lo condurrà all’utilizzo dello strumento della rappresentanza legale, l’altra, invece, l’obbligherà ad una più attenta lettura dell’art. 2 c.c., muovendo da alcune fondamentali riflessioni della dottrina falzeiana sulla capacità. Senza contestare l’inequivocabile dato normativo, di cui all’art. 2, comma 2, c.c., dell’attribuzione della capacità legale di agire al compimento della maggiore età, l’illustre autore osservava infatti che ciò non implica affatto la preclusione al minorenne degli atti giuridici cui non sia stato espressamente abilitato dalla legge ma solo quelli che richiedano necessariamente la capacità di agire, coincidenti tendenzialmente con le dichiarazioni di volontà negoziali che generano responsabilità e dunque comportano rischi in senso giuridico. Non si tratta, quindi, di affermare l’idolo dell’autodeterminazione come bene giuridico in sé considerato, ma di affermare l’inutilità del requisito della capacità di agire per quegli atti che, invece, “mettono in gioco e realizzano unicamente l’interesse del soggetto agente (...) tali ad esempio in gran parte gli atti reali leciti, molte dichiarazioni di volontà non negoziali, e quelle dichiarazioni di giudizio e di desiderio che la legge frequentemente richiede (...)” (11). A me pare, dunque, che l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero costituisca oggi per quest’ultimo una indubbia posizione di vantaggio e che quindi egli possa considerarsi abilitato a richiederla anche in mancanza di una esplicita indicazione normativa, purché sia capace di intendere e di volere. Pare inoltre di poter considerare il minore sicuramente capace di prestare il giuramento prescritto all’art. 10, purché capace di intendere e di volere, tanto più che da tale atto (la cui ratio è sicuramente simbolico-pedagogica, mentre ne è controversa sia l’esatta classificazione che l’efficacia), non deriva un impegno giuridicamente vincolante al cui inadempimento possa conseguire una sanzione per l’incauto dichiarante. La medesima conclusione, per quanto di utilità, potrebbe valere anche riguardo al soggetto adulto incapacitato giudizial- (11) A. Falzea, Capacità, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 8 ss., ma qui tratta dalla raccolta di Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1978, 126. Famiglia e diritto 11/2014 1059 Opinioni Cittadinanza mente ma in grado di intendere il significato del giuramento e di volerlo compiere. Gli orientamenti giurisprudenziali sulla legittimazione del rappresentante legale in materia di cittadinanza È senza dubbio opportuno che nel caso in cui un soggetto non abbia capacità di agire rispetto ad un atto a lui favorevole, o non abbia capacità di intendere e di volere, la dichiarazione di volontà, per se stessa divenuta inammissibile, possa essere surrogata - in presenza dei requisiti oggettivi previsti dalla legge - dall’accertamento affidabile del suo personale interesse a divenire cittadino compiuto da un rappresentante necessario. Di questa affermazione, perché non rimanga apodittica, è possibile reperire argomenti e ragioni nel lavorio degli interpreti, dato che il legislatore purtroppo non si è occupato del problema (12). Tale disattenzione sembra comunque essere l’esito di una mera imprevisione e non certo di una volontà di esclusione che, del resto, se avesse davvero guidato il legislatore storico sarebbe oggi caduta per effetto delle norme del diritto internazionale che saranno richiamate a conclusione di questo breve contributo. Di tali norme nemmeno poteva tenere conto, per ragioni temporali, un risalente ma mai contraddetto parere reso dal Consiglio di Stato nel 1987 che alla disattenzione del legislatore ha posto un efficace, anche se non completo, rimedio (13). Il Supremo Collegio Amministrativo giunse in quell’occasione a due conclusioni molto nette, affermando in primo luogo la possibilità per il tutore (cui oggi occorre aggiungere la figura dell’amministratore di sostegno) di proporre istanza di naturalizzazione nell’interesse del tutelato. Nel motivare tale affermazione il Supremo Collegio osservava tra l’altro come la volontà individuale non potesse ritenersi un requisito sempre necessario ed indefettibile della naturalizzazione, portando ad esempio il caso – oggi considerato dall’art. 14 della legge n. 91/1992 - dell’attribuzione dello status civitatis al figlio convivente con il genitore che abbia acquistato o riacquistato la cittadinanza italiana. Se in quel caso l’acquisto automatico della cittadinanza dipende dalla volontà del genitore(12) Tale disattenzione non è un dato del tutto generalizzato tra i legislatori nazionali. Il code civil, ad esempio, prevede espressamente il caso dell’incapacità dell’interessato all’art. 17-3. (13) Cons. Stato, Parere della sez. I, 13.3.1987, n. 261/85. 1060 rappresentante legale ciò vuol dire che alla medesima volontà (del rappresentante legale) può essere riconosciuta, anche in altre situazioni, analoga capacità di determinare l’acquisto della cittadinanza in capo al rappresentato. Ma l’argomento forse più convincente che ha determinato e poi consolidato presso le corti del merito la posizione del Consiglio di Stato risiede nella constatazione che là dove vi sia un soggetto bisognoso di rappresentanza necessaria negare legittimazione al rappresentante significa affermare un’incapacità giuridica speciale in capo al rappresentato che come tale necessiterebbe, secondo il Supremo Collegio, di un espresso fondamento normativo che invece nel caso di specie manca. Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che costituisca espressione di un principio generale in materia di cittadinanza la regola di cui all’art. 13, R.D. 30.12.1920, n. 1890, per la quale, ai fini della opzione di cittadinanza nei territori acquisiti all’Italia con la I guerra mondiale, le persone “che per qualsiasi motivo sono incapaci od assenti, sono rappresentati in ogni atto relativo al presente decreto dalla tutela o dal curatore secondo le leggi locali”. Il Supremo Collegio, qualificato il giuramento di fedeltà alla Repubblica come atto personalissimo, ha inoltre ritenuto che l’interdizione costituisca un impedimento legittimo idoneo ad esonerarne il naturalizzando, consentendo così la trascrizione del decreto di cittadinanza anche in sua mancanza. Questo parere del Consiglio di Stato ha poi trovato costante conferma nella pur scarsa giurisprudenza di questi ultimi anni ed in particolare nella decisione presa dal Tribunale di Bologna nel 2009, che ha ribadito la legittimazione del rappresentante legale a proporre istanza per l’incapace includendovi la figura dell’amministratore di sostegno e esonerando dal giuramento il beneficiario dell’amministrazione (14). L’anno successivo il Tribunale di Mantova, adito probabilmente al fine di convincere la prefettura territorialmente competente a non dichiarare inammissibile la domanda di concessione della cittadinanza, interveniva disponendo, ipoteticamente, che “se l’istanza di naturalizzazione presentata dal tutore-genitore nell’interesse dell’interdetto verrà accolta non si dovrà procedere a giuramento” (15). (14) Trib. Bologna 9.1.2009, in Fam. pers. succ., L’osservatorio del merito, con scheda di commento a cura di A. Costanzo, 2009, 664. (15) Trib. Mantova 2.12.2010, in www.ilcaso.it. Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Cittadinanza La brevità delle motivazioni addotte per giungere alla soluzione, certamente condivisibile, dell’esonero dal giuramento può essere spiegata dalla difficoltà di esprimere nel ragionamento giuridico una percezione che è in primo luogo dettata dal buon senso. Tanto più che l’esonero consegue di necessità all’affermazione della sostituibilità dell’incapace nell’istanza di concessione o attribuzione della cittadinanza da parte del rappresentante legale. Lo storico del diritto ed il costituzionalista avrebbero forse maggiori parole da spendere al riguardo di un istituto dalle omonimie piuttosto insidiose. È palese infatti l’estraneità del giuramento di cui ci stiamo occupando al giuramento quale mezzo di prova, così come a quello utilizzato come asseverazione di dichiarazioni da rendere davanti ad un pubblico ufficiale. Ben diversa è anche la figura del giuramento richiesto invece a chi assuma un ufficio od una funzione, a meno che non si voglia intendere l’Italia come una repubblica di ufficiali, inclusi i cittadini totalmente incapaci di intendere e di volere. Anche nella prospettiva del privatista il giuramento permane, ad esempio, nell’assunzione dell’ufficio di tutore, a conferma solenne del “dovere morale altruistico che connota le origini dell’istituto” (16), ma alla violazione del giuramento reso al momento dell’assunzione di un ufficio o do una funzione corrisponde di necessità la sanzione giuridica della revoca o decadenza dell’ufficiale infedele mentre non così accade per le “infedeltà” del cittadino, al quale nessun giuramento è normalmente richiesto ed il quale comunque, quando gli sia richiesto, non decadrà dalla cittadinanza per l’infedeltà a quanto giurato. È probabile, dunque, che la più fondata ragione, in prospettiva storica, del giuramento richiesto allo straniero per l’acquisto della cittadinanza risieda nella “maggior cautela ispirata al tradizionale sospetto che l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione ha sempre suscitato” e trovi dunque la sua implicita premessa nella maggiore capacità di infedeltà di cui il cittadino di origine straniera è sospettabile (17). Pare allora che la conformità alla Costituzione del giuramento previsto dall’art. 10 della legge n. 91 del 1992 dipenda dal significato che l’interprete gli attribuisca e dal suo ambito soggettivo di applicazione, sembrando, ad un tempo, opportuno valorizzarlo come momento di consapevolezza del “patto di cittadinanza” che in quel momento trova compimento solenne, ma anche configurandolo come obbligo giuridico al compimento dell’atto per sua natura riferibile solo a chi sia in effetti capace di compierlo e non come condizione legale di efficacia che discrimini i soggetti incapaci, in violazione dunque del divieto di discriminazione ma anche, a questo punto – e secondo autorevole dottrina – dell’art. 54 Cost., dato che tale norma prevede per tutti i cittadini il dovere di fedeltà alla Repubblica, ma solo a quelli ai quali siano affidate funzioni pubbliche impone di giurare detta fedeltà; ed è evidente che il nuovo cittadino incapace non eserciterà alcuna funzione, nemmeno in senso lato, come potrebbero essere intese quella di elettorato attivo o quella referendaria (18). Pienamente condivisibile è dunque l’orientamento, ormai sufficientemente consolidatosi nel diritto vivente, che, collocando il giuramento di fedeltà alla Repubblica tra gli atti personalissimi, ne esonera dal compierlo i soggetti incapaci; come pure consolidato è ormai l’orientamento favorevole a consentire che la richiesta di diventare cittadino sia presentata dal rappresentante legale nell’interesse della persona sottoposta al suo ufficio, che agirà nel compimento di tale atto non già come nuncius ma come gestore dell’interesse altrui. Nel senso della più ampia legittimazione del rappresentante legale a proporre istanze in materia di cittadinanza quando non vi sia contrasto con l’interesse in senso oggettivo del rappresentato, si è di recente pronunciato anche il giudice amministrativo, ritenendo illegittima la dichiarazione di irricevibilità della domanda di cittadinanza ex art. 9 presentata dall’amministratore di sostegno di una giovane donna disabile (19). Giustamente il T.A.R del Lazio ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 18 della Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata dall’Italia con la l. 3 (16) Così F. Macioce, Ufficio (dir. priv.), in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 649. (17) Così P. Grossi, Giuramento (dir. cost.), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 154. (18) Così, P. Grossi, op. loc. cit. (19) Così T.A.R. Lazio 4.6.2013, il cui dispositivo è senza dubbio condivisibile. Suscita tuttavia perplessità il passaggio centrale posto a motivazione della sentenza, ove è affermato che l’amministrazione aveva l’onere, rimasto inadempiuto, di verificare l’effettiva volontà di cittadinanza, che avrebbe potuto anche darsi per presunta sulla base di indici biografici. A mio parere, infatti, la funzione da attribuire ai cosiddetti “indici biografici” non dovrebbe essere quella di far presumere la volontà di compiere un atto giuridico determinato bensì quella di orientare ulteriormente la valutazione dell’Amministrazione in ordine alla opportunità di concedere la cittadinanza su istanza del rappresentante legale (a meno che la persona tutelata non esprima un desiderio opposto che, per legge – si veda al riguardo l’art. 410 c.c. - costituisce l’unico limite all’efficace volere nel suo interesse del rappresentante legale). Famiglia e diritto 11/2014 1061 Opinioni Cittadinanza marzo 2009, n. 18, ove è previsto che “1. Gli Stati Parti riconoscono alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri (...) il diritto alla cittadinanza, anche assicurando che le persone con disabilità: (a) abbiano il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non siano private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità;”. La sentenza richiama inoltre il divieto di discriminazioni fondate sulla condizione di disabilità, di cui all’art. 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, completando riguardo alla questione oggetto del suo scrutinio la cornice sistematica di cui questa aveva bisogno. Il merito principale della decisione da ultimo richiamata sta dunque nell’avere consolidato le “antiche” conclusioni cui già era pervenuto il Consiglio di Stato fornendo loro il riferimento normativo superprimario che invece sino ad oggi era rimasto nell’ombra (20). Entrambe le questioni in campo (la possibilità di esercizio del potere di rappresentanza e l’esonero dal giuramento) non trovano più soluzione, dunque, solo su argomenti raffinati e condivisibili e tuttavia controvertibili, ma nel ricorso, divenuto ormai obbligato, all’interpretazione costituzionalmente orientata, mancando la quale la norma di legge risulterebbe inevitabilmente illegittima sia davanti al Giudice delle leggi che davanti ai Giudici Europei. Le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza in materia di acquisto della cittadinanza da parte dell’incapace mediante la dichiarazione di volontà del suo rappresentante legale dovrebbero essere considerate dall’interprete nel ridisegnare, in una prospettiva sistematica, confini e contenuto della controversa categoria degli atti personalissimi. Ci si potrebbe chiedere se di tale categoria sia davvero possibile individuare elementi morfologici costanti, in modo da tracciarne una definizione valida oltre i singoli casi previsti dalla legge, oppure se i confini della categoria siano destinati a rimanere frastagliati, secondo le convenienze operazionali proprie ad ogni singola disciplina. La risposta, in una prospettiva giuspositivista, è sicuramente nel senso che il carattere personalissimo o meno dell’atto è, in primo luogo, una qualità che il legislatore può dare o togliere; ed è bene che ciò faccia senza ambiguità o lacune. Poiché però que- ste ultime non mancano, all’interprete è richiesto comunque di comprendere in base a quali caratteristiche un atto si presta particolarmente ad essere qualificato come personalissimo, pur sempre considerando che la regola generale consiste invece nell’affermazione della possibilità di sostituzione della volontà del rappresentante legale per tutti quegli atti per i quali non sia possibile riferirsi alla volontà dell’interessato (rimangono perciò piuttosto contenute le possibilità di scoprire atti personalissimi nelle esili pieghe dell’art. 12 delle Preleggi). Le definizioni della dottrina si sono rivelate spesso generiche, facendo riferimento agli atti con cui si dispone delle situazioni familiari o di status personali (e dunque individuando aree nelle quali più frequentemente il legislatore prevede fattispecie di atti personalissimi), altre volte troppo evanescenti. È stato però autorevolmente affermato che il legislatore, assieme alla possibilità dell’atto, reso personalissimo dalla norma, intende negare alla persona incapace la possibilità di diventare soggetto del potere o del dovere che risulterebbe dall’atto se prodotto (21); e non sembra proprio che tale intenzione sia rintracciabile presso il legislatore della cittadinanza, dove la mancanza di una soluzione normativa alla questione della capacità giuridica pare piuttosto espressione, come già osservato, di dimenticanza, nel trapasso dalle discipline ottocentesche - dove alla disabilità non corrispondeva un diritto sociale e culturale di integrazione e alle condizioni di vita a quelle contemporanee. Forse, in rerum natura, la necessità che un atto giuridico venga considerato personalissimo si pone solo per quegli atti che non producono effetti oggettivamente valutabili come positivi o negativi da un terzo. In tali casi, infatti, la mancanza della capacità di compiere l’atto da parte del soggetto interessato esclude in radice che l’atto stesso possa svolgere la sua funzione e non avrebbe dunque alcun senso consentire ad altri – con o senza autorizzazione giudiziale - di compierlo. In tali casi si potrebbe forse osservare che non v’è alcun oggettivo pregiudizio che colpisca l’incapace a causa della mancata realizzazione degli interessi astrattamente serviti dall’atto reso inattuabile e dunque non v’è nemmeno un effetto discriminatorio da rimproverare alla norma di qualificazione dell’atto come personalissimo. Quando invece l’atto, pur coinvolgendo intimamente la sfera dei sentimenti della persona che ne (20) Coglie la questione L. Tria, Stranieri extracomunitari e apolidi, Milano, 2013, 721 s. (21) Così F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1985, 25. In quali casi un atto è personalissimo? 1062 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Cittadinanza è direttamente interessata, realizza un piano di interessi oggettivamente percepibile e dunque valutabile da terzi, può nuovamente trovare spazio l’istituto della rappresentanza degli interessi. Insomma: la personalità dell’atto, con la conseguente regola dell’insostituibilità della persona, presuppone a mio avviso la mancanza di interessi oggettivamente (o, se si preferisce, razionalmente) valutabili (22). Solo circoscrivendo il fenomeno degli atti personalissimi entro questi ristretti confini il legislatore darà pienezza al riconoscimento della soggettività giuridica agli incapaci, il quale “non è dato in vista della loro maturità futura o del ritorno alla normalità” ma in ragione di un principio di eguale dignità della loro condizione umana, per cui “la inidoneità degli incapaci, di determinare e soddisfare le più complesse esigenze, trova un compenso giuridico negli istituti che la legge predispone per la cura degli interessi” (23). Una pur breve ricognizione sugli atti che il legislatore italiano e la giurisprudenza (intervenuta talvolta a colmare le lacune legislative) hanno posto di qua e di là dei confini disciplinari della categoria sembrerebbe confermare, in linea di massima, tali ultime considerazioni, mostrando che a fronte di atti esclusivamente o presumibilmente vantaggiosi per l’incapace, oppure vantaggiosi per i terzi ma senza possibilità di un pregiudizio apprezzabile per l’incapace, il rappresentante legale è stato legittimato al loro compimento oppure è stata data all’incapace stesso la possibilità di compierlo nono- stante la sua incapacità. L’insostituibilità dell’interessato nel compimento dell’atto e l’indefettibilità della capacità di volerlo sono state invece affermate quando l’atto è parso invece potenzialmente pregiudizievole alla sua persona (24), oppure a terzi collocati in una posizione a lui prossima; o quando è stato ritenuto così determinante la sfera dei motivi dell’atto da farne la causa in concreto dell’atto stesso e rendere così impossibile ad altri di sostituirsi all’incapace, come pare essere, in particolare, per la donazione (25) (nonostante un’incauta e ad oggi isolata giurisprudenza (26)) e per il testamento (27). Vero è che si tratta, in tutti questi casi, di valutazioni appartenenti alla cultura del legislatore e dunque destinate a mutare nei tempi e luoghi dei diversi ordinamenti. Basti ricordare, al riguardo, l’esistenza nel diritto romano dell’istituzione di erede da parte del pater familias in sostituzione del figlio impubere o del discendente infermo di mente, nonché, anche riguardo a diverse consuetudini ancora attuali in altre culture, al matrimonio dei minori d’età o per decisione delle famiglie anziché dei promessi sposi (28). Di contro è vero, oggi molto più di ieri, che v’è una tensione fortissima degli interpreti (e su loro impulso dello stesso legislatore) ad attribuire effetti giuridici anche alla più fragile volontà dell’incapace nel compiere atti personalissimi mediante forme procedimentali di sostegno (29), nella cui carenza, proprio riguardo a donazioni e testamenti di cui sia autore il beneficiario dell’amministrazione di soste- (22) Nel medesimo senso: G. Lisella, Gli istituti di protezione dei maggiori di età, in G. Lisella e F. Parente, Persona fisica, Napoli, 2012, 321, il quale osserva che l’intervento del legale rappresentante è da ammettere “se l’atto, pur essendo di natura esistenziale, si presta ad essere valutato in termini oggettivi sotto il profilo della convenienza in relazione agli interessi del beneficiario”; nonché L. Bruscuglia, Interdizione per infermità di mente, Milano, 1983, 116 s., sebbene l’attenzione di questo autore sembri piuttosto rivolta ai cosiddetti atti di cura. (23) Così, ancora, A. Falzea, op. cit., 121. (24) Ciò appare con massima evidenza nel caso della scriminante data dal consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 c.p., ed ancor più nella grave ipotesi dell’omicidio del consenziente di cui all’art.579 c.p., ove pare improponibile l’attribuzione di effetti ad una volontà delegata o sostituita. In tal senso, tra molti, P. Pittaro, La tutela della vita e dell’incolumità, Milano, 2014, 142 s. Ma ugualmente è a dirsi per la confessione (da ultimo, Cass. pen. 10.12.2013, n. 10487). (25) È controversa la capacità di donare del beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Al riguardo va però rammentato che tale soggetto non è genericamente incapacitato e che dunque la sua incapacità potrebbe non ricomprendere il concreto tipo di donazione posto in essere (cfr, in tal senso, Trib. La Spezia 2.10.2010, con nota di G. Maniglio, La capacità di donare del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Riv. notariato, 2011, 1452). Sul punto, utile ricognizione degli orientamenti di dottrina e giurisprudenziali in G. Lisella, Questioni tendenzialmente definite e questioni ancora aperte in materia di amministrazione di sostegno, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, spec. 289 e 291 s. (26) Trib. La Spezia 2.10.2010, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 77 ss., con osservazioni di G. Donadio, La capacità di donare del beneficiario di amministrazione di sostegno. Il caso riguardava una donazione, al cui compimento è stato autorizzato il pro-amministratore, riguardo alla quale l’amministratore di sostegno aveva riferito al giudice che l’amministrata aveva espresso la sua intenzione negoziale prima che intervenisse il decadimento delle sue facoltà mentali. In senso critico, cfr., altresì, G. Lisella, op. cit., 294 s. (27) Sulla personalità del testamento e le attenuazioni di tale regola restano attuali le considerazioni di G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, (ristampa), Napoli, 2010, 118 ss. (28) Sul matrimonio come atto personalissimo, cfr. E. Giacobbe, Il matrimonio, I, L’atto e il rapporto, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 2011, 88 ss. (29) Il tema non riguarda la disabilità fisica, che può essere affrontata con il ricorso a forme testamentarie diverse dall’olografo, ma l’incapacità a sensi dell’art. 591 c.c. Lascia perplessi, al riguardo, Trib. Varese 12.3.2012, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 779 ss., con nota di S. Landini, Autonomia testamentaria dei soggetti beneficiari di amministrazione di sostegno e formalismo degli atti di ultima volontà. Su cui la garbata critica di A. Barba, Testamento olografo scritto di mano dal curatore del beneficiario di amministrazione di sostegno, in Fam. pers. succ., 2012, 440 s. Famiglia e diritto 11/2014 1063 Opinioni Cittadinanza gno, è stata da taluni individuata una delle lacune della legge 9 gennaio 2004, n. 6 (30). In particolare, è stata criticata l’attuale situazione di incapacità a testare dell’incapace, in considerazione delle motivazioni esistenziali e sentimentali dell’atto, i cui effetti patrimoniali, intervenendo dopo la morte del testatore, non potrebbero essergli considerati pregiudizievoli (31). Non sfugge peraltro il rischio di plagio che deriverebbe dalla capacità di testare dell’incapace; e ciò anche nell’ipotesi di una riforma legislativa che disciplini un procedimento di “testamento amministrato” (32) Continua d’altra parte ad essere oggetto di critiche - superate però in parte proprio dall’introduzione dell’amministratore di sostegno - l’incapacità matrimoniale dell’interdetto (33). Per capire gli attuali orientamenti culturali del legislatore è anche interessante esaminare la disciplina della legittimazione in materia di atti di disposizione del corpo. L’intervento biomedico, in caso di incapacità dell’interessato, sarà infatti autorizzato dal suo rappresentante legale oppure dall’autorità giudiziaria tutelare, ma questo ben si spiega con l’obbligatorietà dell’offerta delle cure e la conseguente necessità di ricevere il consenso alle stesse una volta che esse non siano più giustificate dall’urgenza. Sembra tuttavia essere stato inopportunamente sorpassato il limite di legittimazione del rappresentante legale riguardo al rifiuto delle cure salvavita e delle misure di sostegno vitale, motivato sulla base di una presunta quanto oscura volontà biografica del tutelato di non volere vivere in determinate condizioni (34). Sono certamente atti personalissimi quelli che dispongono in modo oblativo del corpo, come nel caso di donazione di organi e di prelievo di midollo osseo; e ciò si comprende bene in ragione della lesione dell’integrità fisica che essi comportano, da cui la definizione proposta in dottrina di tali atti come superetici (35). Ugualmente personalissimo, per ragioni diverse ma ugualmente rilevanti, è l’atto di volontà con cui si decida il mutamento di sesso, mentre è stato contestato, a mio parere inopinatamente, il carattere personalissimo del consenso all’inseminazione artificiale da parte dell’uomo, donatore del seme, dato in sostituzione del figlio giacente in uno stato di coma, dal padre (36). Non sono invece disciplinati come atti personalissimi, consentendo dunque la decisione sostitutiva del legale rappresentante, la donazione del sangue o di emocomponenti, il prelievo di cellule staminali emopoietiche periferiche e la donazione di tessuti e di cellule di cui al d.lgs. n. 191/2007 (37). Quanto all’affermazione, consueta in dottrina, del carattere personalissimo degli atti che incidono sullo status della persona, essa pare contraddetta da diverse norme e, in mancanza di queste, contestata efficacemente da alcuni orientamenti giurisprudenziali. Il legislatore non considera atti personalissimi, ad esempio, il disconoscimento della paternità (art. 245 c.c.); l’impugnazione del riconoscimento da parte del riconosciuto interdetto (art. 264 c.c.); e l’impugnazione del riconoscimento da parte dell’autore divenuto poi incapace (art. 266 c.c.). Particolarmente significativa pare essere la legittimazione attribuita al rappresentante legale dell’incapace o del minore a proporre l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (art. 273), dato che con essa si ammette l’acquisto di uno status personale a prescindere dalla volontà dell’inte- (30) In tal senso: P. Cendon, Un altro diritto per i soggetti deboli, l’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in G. Ferrando (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, Giuffrè, Milano, 2005, 38, che pure della legge è stato promotore. Nel medesimo senso: L. Balestra, Gli atti personalissimi del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Familia, 2005, 659. (31) In tal senso già G. Bonilini, Il testamento dell’infermo di mente, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, a cura di P. Cendon, Napoli, 1988, 511 ss., spec. 517.; M. Gorgoni, Autonomia del beneficiario e amministrazione di sostegno, Padova, 2012, 159; L. Balestra, op. cit., 663; G. Lisella, op. cit., 292 s. (32) In tal senso, S. Delle Monache, sub art. 404, in L. Balestra, Della famiglia, 3, Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Torino, 2009, 184 s. (33) Cfr., al riguardo, E. Carbone, Libertà matrimoniale e nuovo statuto dell’infermo di mente, in Familia, 2004, 1032 ss. (34) Per considerazioni critiche riguardo all’orientamento riferito nel testo: L. Nivarra, Autonomia (bio)giuridica e tutela della persona, in Europa e diritto privato, 2009, 3, 727 s.; A. Nicolussi, Testamento biologico e problemi del fine-vita: verso un bi- lanciamento di valori o un nuovo dogma della volontà?, in Europa e diritto privato, 2013, 2, 469. (35) Così A. Palazzo, in A. Palazzo, S. Mazzarese, I contratti gratuiti, Torino, 2008, 16 ss.; Id., Atti gratuiti e donazioni, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 2000, 273 ss. G.B. Ferri, Dall’intento liberale al cosiddetto impegno etico e superetico: ovvero l’economia della bontà. Dall’economia della bontà all’economia del dolore. Due saggi di diritto civile, Padova, 2005, 130 s. (36) Trib. Vigevano 28.5.2009, in Dir. fam. pers., 2009, 1847, con nota di G. Gaimo, Il consenso inespresso ad essere genitore. Riflessioni comparatistiche, ivi, 855 ss. A logiche ed esigenze diverse obbediscono, determinandone, pare, la fuoriuscita dall’alveo degli atti personalissimi, la richiesta di interruzione della gravidanza, che può invero essere fatta sia dall’interdetta che dal tutore o dal marito non tutore (ma con l’assenso dell’interdetta) ai sensi dell’art. 13 l. n. 194/1978, nonché la richiesta di cremazione del cadavere (art. 3, lett. b, l. n. 130/2001). (37) Per un approfondimento cfr. M.C. Venuti, Corpo (atti di disposizione del), in S. Martuccelli e V. Pescatore, Diritto civile, Milano, 2011, 500 ss. 1064 Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Cittadinanza ressato ma nel suo interesse, il cui ulteriore effetto è, spesso, l’acquisto automatico della cittadinanza italiana in capo al minore riconosciuto non spontaneamente dal genitore italiano. Quanto alla giurisprudenza, forzando un poco il dato normativo, è stata ammessa la legittimazione del curatore dell’interdetto e dell’amministratore di sostegno dell’incapace all’atto a richiedere la separazione personale (38) ed il divorzio (39), atti certamente personali, se non personalissimi (40). Non sembra convincente, tuttavia, almeno riguardo allo scioglimento del matrimonio, l’argomento a volte utilizzato, secondo cui l’incapace aveva espresso l’intenzione di divorziare prima di cadere in una situazione di fragilità psichica (41). Occorrerebbe piuttosto, a mio parere, valutare i profili di oggettivo interesse dell’incapace-sostituito in relazione anche alla situazione patrimoniale ed al comportamento dell’altro coniuge, fermo restando l’illiceità di una eventuale richiesta di separazione o di scioglimento del matrimonio nell’interesse ed in nome dell’incapace nel caso in cui questi sia di contrario avviso. All’esito della breve ricognizione sin qui svolta – pur certamente non esaustiva – sarebbe difficile sostenere l’esistenza di una categoria ben riconoscibile di atti naturalmente personalissimi cui il legislatore potrebbe fare eccezione ma non l’interprete. Sembra invece di poter affermare che oggi la categoria degli atti personalissimi costituisca piuttosto un agglutinato eterogeneo di eccezioni alla regola – questa sì davvero generale - della legittimazione del rappresentante legale a curare gli interessi del rappresentato. Si potrebbe poi sostenere che la regola generale sia stata ribadita dall’art. 357 c.c., ove è disposto che il tutore rappresenti il minore o l’interdetto “in tutti gli atti civili”, da intendere come categoria generalissima e dunque più ampia dei soli atti a contenuto patrimoniale (42), senza escludere espressamente quelli relativi a diritti che non siano espressamente considerati personalissimi dal legislatore. In questa prospettiva, l’area degli atti personalissimi in senso stretto viene ovviamente di molto ridotta, ampliando invece i casi in cui, salvaguardato in linea di massima il principio del rispetto della volontà residua dell’incapace (specie nell’ambito della cosiddetta sfera esistenziale), il rappresentante necessario è chiamato a compiere tutti gli atti che realizzino il migliore interesse del tutelato e comunque la protezione dei suoi diritti fondamentali (tra questi ultimi: il diritto all’identità personale e quello ad una cittadinanza effettiva). Si dovrà però porre attenzione agli atti del rappresentante necessario che fuoriescano dall’ordinaria amministrazione ed a quelli che non coincidano con le concrete aspirazioni dell’incapace legale, per i quali è necessario che il rappresentante richieda l’autorizzazione al giudice tutelare (43). Se questo pare essere il caso dell’atto di dismissione della cittadinanza già posseduta dal soggetto incapace, non pare invece scontato per i casi di acquisto della cittadinanza previsti dalla legge italiana l’inquadramento della relativa istanza da parte del tutore tra gli atti di straordinaria amministrazione, da cui discenderebbe l’obbligo di richiedere preventiva autorizzazione al giudice tutelare, il quale non avrebbe mai, in concreto, ragioni per rifiutarla (se non in caso di rischio di perdita della cittadinanza di origine per effetto di un divieto di doppia cittadinanza). (38) In dottrina è stata espressa contrarietà riguardo alla possibilità per il rappresentante legale di negoziare l’accordo di separazione, il quale se concordato dall’interdetto sarebbe annullabile, mentre se concordato dal tutore sarebbe radicalmente inefficace perché esulante dal suo potere rappresentativo. Così C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1., La famiglia, 2014, 256 s. (39) Così Cass. 21.7.2000, n. 9582, in Giust. civ., 2001, 2751, con nota critica di G. Cicchitelli, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, ove si ritiene, in analogia con quanto disposto dall’art.4, comma 5, l. n. 898/1970, che l’azione debba essere proposta dal curatore speciale. L’attore divenuto incapace aveva precedentemente ottenuto la separazione giudiziale desiderando sin da allora di poter sciogliere il matrimonio. (40) Già ipotizzata dalla dottrina (vedi G. Lisella, I poteri del- l’amministratore di sostegno, in G. Ferrando, L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, Milano, 2005, 116 ss.) la legittimazione dell’amministrazione di sostegno è stata poi affermata in giurisprudenza. Così Trib. Roma 10.3.2009, in Fam. pers. succ., 2009, 368. (41) In senso diverso, cfr. A. Cordiano, L’esercizio delle situazioni esistenziali del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, in Dir. fam. pers., 2011, 1937 ss. (42) Parte della dottrina ritiene tuttavia che il connotato patrimoniale implicitamente caratterizzerebbe l’art. 357 c.c. Così, ad esempio, L. Bruscuglia, op. cit., 111. (43) In tal senso, proprio con riferimento ad una richiesta di elezione della cittadinanza, ex art. 4, comma 2, da parte di neomaggiorenne incapace per disabilità psichica al 100%, è la risposta dell’esperto al Quesito n. 293984 de Lo stato civile italiano, in www.sepel.it Famiglia e diritto 11/2014 1065 Opinioni Mass media Deontologia professionale Se i mass media travisano la Cassazione: una questione di professionalità del cronista di “giudiziaria” di Paolo Pittaro Avviene con una certa frequenza che i mass media riportino in modo del tutto erroneo una pronuncia della Cassazione, criticando ed enfatizzando quanto questa avrebbe affermato e suscitando, di conseguenza, la vivace reazione dell’opinione pubblica. È avvenuto anche di recente, quando non solo nei giornali, ma perfino in una trasmissione televisiva di largo seguito, si è stigmatizzato una sentenza della Suprema Corte che avrebbe disposto una minore pena se lo stupratore fosse stato ubriaco al momento del fatto. L’Autore ne trae lo spunto per formulare un richiamo alla responsabilità etica e professionale del cronista della c.d. “giudiziaria”. Lo stupro ed il marito ubriaco Non è la prima volta che i mezzi di comunicazione riportano una decisione della Cassazione a titoli di scatola, esprimendo riprovazione e suscitando una forte eco negativa nella pubblica opinione. È successo anche di recente, in riferimento ad una sentenza della Suprema Corte (1), che avrebbe – sempre nella visione dei mass media – concesso un’attenuante allo stupro del marito effettuato nei confronti della moglie, in quanto ubriaco al momento del fatto. Perfino in una trasmissione televisiva di grande audience della domenica sera (2), dopo l’intervento del Presidente del Consiglio, ospite del conduttore, una nota attrice ha concluso la sua consueta performance, ironica sulle notizie correnti, in modo estremamente serio, riferendosi alla citata sentenza, ed affermando che mai una situazione del genere dovrebbe costituire un’attenuante per lo stupro, esecrabile sempre e richiamando le donne ad una costante attenzione e denuncia. Tutto da condividere in assoluto, se non ci fosse un “ma”... La sentenza della Cassazione Il punto è che la Cassazione non ha affatto sostenuto quello che i media le attribuiscono. (1) Trattasi di Cass. pen., sez. III, 1° luglio – 25 settembre 2014, n. 39445. (2) Alludiamo alla trasmissione Che tempo che fa, del 28 1066 L’imputato era stato condannato per il reato di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e chiedeva l’attenuante ivi prevista (pena diminuita fino ai due terzi “nei casi di minore gravità”), affermando di essere stato ubriaco nel momento dal fatto. Ebbene, la Corte d’Appello non è entrata nel merito di tale richiesta, ma ha sostenuto, in via preliminare, che essendosi trattato di un rapporto sessuale completo non può raffigurarsi nessun caso di “minore gravità”, reputando, pertanto, che solo nell’ipotesi di un rapporto sessuale incompleto possa in astratto ammettersi una violenza sessuale meno grave. La Cassazione censura – e correttamente – tale ragionamento, riconducibile alla disciplina originaria del codice Rocco, quando si faceva distinzione fra violenza carnale (con penetrazione) ed atti di libidine violenti (senza penetrazione), ove la seconda ipotesi era considerata meno grave della prima. Un quadro profondamente mutato dalla successiva legislazione ora vigente, ove il delitto di violenza sessuale è raffigurabile sempre e comunque, indipendentemente dall’atto sessuale più o meno completo, in quanto viene a violare in ogni caso la libertà sessuale della donna. Se, pertanto, è quest’ultima il bene giuridico tutelato, la circostanza attenuante prevista della minore gravità “deve ritenersi applisettembre 2014, condotta da Fabio Fazio, ed all’intervento dell’attrice Luciana Littizzetto. Famiglia e diritto 11/2014 Opinioni Mass media cabile in tutte quelle fattispecie in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. La Corte d’Appello, facendo la distinzione fra rapporto sessuale completo (con attenuante non configurabile) ed atto sessuale non completo (con possibile attenuante) ha dunque errato. Ora, posto che la Cassazione è giudice del diritto e non del fatto, non poteva valutare il fatto concreto in esame: ne deriva l’annullamento della sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello affinché, applicando tale principio, verifichi se l’attenuante (astrattamente concedibile) possa configurarsi nel fatto raffigurato dalla difesa, ossia nell’ubriachezza del reo. Il che difficilmente potrà avvenire, in quanto l’attenuante deve basarsi, come stabilito dalla Suprema Corte, sulla entità della compressione della libertà sessuale della vittima: il che nulla ha a che vedere con il fatto che il reo fosse ubriaco o meno. La Cassazione, pertanto, non ha affatto enunciato quello che i mass media le hanno attribuito, e che ha suscitato la levata di scudi da parte dei mezzi di informazione (3). Un precedente: niente carcere per lo stupro di gruppo Invero, non è prima volta che i mezzi di comunicazione di massa riportino in tono allarmistico o polemico sentenze di organi giurisdizionali, le quali, tuttavia, approfondendo il tema, si rivelano di ben altro tenore. Potremmo ricordare, ad esempio, la nota sentenza che avrebbe ritenuto non configurabile la violenza sessuale se la vittima indossasse i jeans, ovvero quella sentenza della Cassazione che, sempre secondo i media, avrebbe sancito che i colpevoli di stupro di gruppo non debbano andare in carcere (4). Anche in questo caso affatto inutile sottolineare le reazioni polemiche da parte della pubblica opinione (5): lettere ai giornali, e-mail, perfino una lista di “indignati” su Facebook. Invero, in tale caso ci si riferiva non alla pena da scontare dopo una sentenza definitiva di condanna, bensì ad una misura cautelare stabilita in attesa del processo. Ebbene, i media riferivano che la Cassazione aveva (3) Tale erronea diffusione del decisum della Corte è stata immediatamente segnalata (cfr., volendo, Pittaro, Quando i mass media travisano la Cassazione, in www.personaedanno.it, 29 settembre 2014) anche da Macrì, Violenza sessuale: l'attenuante della minore gravità non è esclusa nei casi di rapporto sessuale completo, in www.quotidianogiuridico.it, 3 ottobre 2014. (4) Ci riferiamo a Cass. pen., sez. III, 20 gennaio 2012 – 1° febbraio 2012, n. 4377. Famiglia e diritto 11/2014 sancito che gli autori dello stupro di gruppo non potevano essere ristretti in carcere e che, quindi, potevano scorazzare a piede libero, ovvero ancora, come riferito da una illustre penna, che lo stupratore singolo ora va in carcere mentre quello di gruppo no, per cui - paradossalmente - sarebbe conveniente effettuare una violenza sessuale in compagnia e mai da soli. Ben diverse e più complesse le scansioni giuridiche della questione. La custodia cautelare, come è noto, non è rigida ed unica (la carcerazione in carcere), ma flessibile, nel senso che, a seconda delle esigenze poste dal caso singolo, il giudice può scegliere fra una rosa graduata di misure (ad esempio: gli arresti domiciliari) quella più aderente alle necessità concrete. A tale proposito l’art. 275, comma 3, c.p.p. (6), dopo aver disposto che la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata, stabilisce che, in ordine ad alcuni gravi reati ivi indicati (fra i quali l’omicidio, i reati sessuali nonché quelli relativi alla pedo-pornografia), “è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”. Come dire, che, in tali ipotesi, o la carcerazione preventiva o niente: una disposizione di particolare rigore. Ebbene, la Corte costituzionale, con la sentenza 7 luglio 2010, n. 265, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La Consulta, in altri termini, con una sentenza “additiva” aveva sancito che, in riferimento ai reati oggetto della rimessione, la norma doveva intendersi incostituzionale nella parte in cui non ammetteva l’ordinaria flessibilità fra le varie misure cautelari, disponendo solo l’ipotesi della carcerazione preventiva (o il carcere o niente). Pertanto, a seguito di tale in(5) Su tale situazione ci permettiamo rinviare a Pittaro, Stupro di gruppo e mass media, in www.personaedanno.it, 6 febbraio 2012. (6) Come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. 1067 Opinioni Mass media tervento, e sempre in relazione alle cennate fattispecie criminose, era possibile che giudice scegliesse la misura cautelare ritenuta più idonea al caso concreto. Ebbene, fra i reati cui la Corte costituzionale faceva riferimento figuravano i delitti di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater), ma non l’art. 609-octies (violenza sessuale di gruppo). Ora, nella citata sentenza, la Corte di Cassazione aveva ritenuto il dictum della Consulta totalmente applicabile anche alla fattispecie della violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies), posto che tale reato presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale aveva individuato per i reati sessuali (art. 609-bis e art. 609quater c.p.) sottoposti al suo giudizio. Gli ermellini avevano così affermato che “deve, dunque, concludersi che nel caso in esame l’unica interpretazione compatibile coi principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010, citata, è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609-octies c.p.” (7). Donde l’annullo con rinvio, spettando al giudice di merito, in applicazione di tale principio, esaminare il caso concreto e decidere, sulla base della sua discrezionalità, se a tale fattispecie dovesse applicarsi la misura cautelare del carcere ovvero altra misura cautelare che, inizialmente, sembrava a tale ipotesi inibita. Pertanto, le cose stavano in maniera ben diversa rispetto a quanto i media avevano evidenziato, suscitando le indignate reazioni degli utenti: 1) trattavasi di una misura cautelare e non di una pena da scontare: pacifica la disposizione che per i partecipanti di una violenza sessuale di gruppo è prevista la reclusione da sei a dodici anni (art. 609-octies c.p.); 2) non è vero che all’autore di una violenza sessuale di gruppo non è applicabile la misura cautelare della detenzione in carcere; 3) spetta al giudice di merito vagliare quale misura cautelare disporre al caso concreto, scegliendola nella rosa di quelle previste. I mass media ed il legislatore: il caso della legittima difesa Peraltro, deve segnalarsi, e con altrettanta preoccupazione, come tale travisamento giuridico da parte (7) Ora la questione risolta dalla Cassazione è superata, in quanto la Corte costituzionale, con la sentenza 23 luglio 2013, n. 213, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 3, terzo periodo, dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale, è appli- 1068 dei media sia avvenuto non solo in riferimento a sentenze, specie della Cassazione, ma anche nei confronti del legislatore. Ricordiamo, ad esempio, fra gli altri casi, perfino l’erronea lettura di una norma del codice penale. Ci riferiamo alla novellazione della legittima difesa, quando la legge 12 febbraio 2006, n. 59 introdusse due ulteriori commi all’art. 52 c.p. Ebbene, i media (anche televisivi) davano fiato alle trombe, denunciando il ritorno alla legge del Far West, posto che la norma così integrata avrebbe previsto la possibilità di sparare a vista verso chi si fosse introdotto nella propria abitazione: un’affermazione del tutto erronea, in quanto la norma prevede, per ritenere proporzionata la reazione con l’uso delle armi, anche il pericolo di aggressione e la difesa della propria incolumità. Con il risultato che, qualche giorno dopo, un soggetto, scorgendo dalla finestra che un estraneo si era furtivamente introdotto nel suo giardino, prendeva il fucile e gli sparava uccidendolo sul colpo. Arrestato e contestatogli il delitto di omicidio, si stupiva affermando che giornali e televisione avevano detto che ora si poteva reagire in tal modo e che lui si era comportato di conseguenza. Conclusione A questo punto la conclusione è scontata: le sentenze (come le disposizioni di legge) prima di essere divulgate e commentate devono essere lette e comprese nella loro completezza, non fidandosi del resoconto altrui, e controllandone l’originale. Il che sta a significare non solo il rifiuto di ogni notizia lanciata per scoop o per aumento dell’audience, ma anche la necessità di una preparazione giuridica per il giornalista della c.d. “giudiziaria”, la cui responsabilità presenta risvolti di grande rilievo: il lettore o l’ascoltatore comune non può essere indotto a ritenere che Cassazione o legislatore, abbiano stabilito, per esempio, che conviene effettuare lo stupro da ubriachi o in gruppo, ovvero che si possa impunemente sparare a chi si introduce nell’abitazione o nelle sue pertinenze. Una questione, insomma, non solo etica, ma anche di deontologia professionale. cata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Famiglia e diritto 11/2014 Indici Famiglia e diritto INDICE DEGLI AUTORI Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord. .. Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811 .......... Enrico Al Mureden Cassazione, sez. VI, 1 settembre 2014, n. 18468 ... Il ‘‘diritto a formare una seconda famiglia’’ tra doveri di solidarietà post-coniugale e principio di ‘‘autoresponsabilità’’ ............................................... Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869 ..... 1043 1036 1037 1038 1035 Corte di Cassazione penale Cassazione penale, sez. V, 19 maggio - 13 giugno 2014, n. 25443 ............................................. 1041 Ilaria Bresciani Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio - 1 luglio 2014, n. 28212 ............................................. 1039 Il lavoro prestato a favore del convivente more uxorio ............................................................ Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo - 15 luglio 2014, n. 31123 ............................................. 1039 Cassazione penale, sez. I, 23 maggio - 17 luglio 2014, n. 31622 ............................................. 1040 Antonella Batà Osservatorio di giurisprudenza civile ................... 1035 996 Vincenzo Carbone L’adottato alla ricerca della madre biologica .......... 1003 Remo Danovi La deontologia nel diritto di famiglia tra principi e prospettive .................................................. 988 Federica Ferrara Allontanamento volontario e allontanamento forzato dalla casa familiare ........................................ Tribunali Tribunale di Milano, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord. .... 1028 Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord. ........................................................... Tribunale di Roma 18 aprile 2014 ....................... 1022 1013 Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014, ord. ........................................................... 1003 Mariacarla Giorgetti Corti d’appello Il provvedimento di assegnazione della casa familiare come titolo esecutivo per il rilascio in via coattiva Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n. 62 . 1023 Paolo Morozzo della Rocca Disabilità e capacità di volere nelle procedure di acquisto della cittadinanza .................................. 1027 994 INDICE ANALITICO 1056 Adozione Paolo Pittaro Osservatorio di giurisprudenza penale ................. 1039 Se i mass media travisano la Cassazione: una questione di professionalità del cronista di ‘‘giudiziaria’’ 1066 L’adottato alla ricerca della madre biologica (Tribunale dei Minorenni di Firenze 7 maggio 2014) di Vincenzo Carbone ............................................. Antonio Scalera Atti persecutori Il ‘‘caso Stamina’’ all’attenzione della Corte di Strasburgo ....................................................... Il rispetto del principio di determinatezza-tassatività (Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172) Osservatorio di giurisprudenza penale ........................ 981 1003 1040 Michele Sesta Prescrizione dell’azione di regresso per il mantenimento del figlio e dell’azione di risarcimento del danno da mancato riconoscimento ......................... Casa familiare 1018 Angelo Spirito Osservatorio di giurisprudenza civile ................... 1035 INDICE CRONOLOGICO 1027 Il provvedimento di assegnazione della casa familiare come titolo esecutivo per il rilascio in via coattiva (Tribunale di Milano, sez. IX civ., 11 ottobre 2013, ord.) di Mariacarla Giorgetti .............................. 1022 Cittadinanza Giurisprudenza Disabilità e capacità di volere nelle procedure di acquisto della cittadinanza di Paolo Morozzo della Rocca ............................................................. Corte europea dei diritti dell’uomo Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio 2014, ricorso n. 62804/13 ........................................ Allontanamento volontario e allontanamento forzato dalla casa familiare (Tribunale di Milano, sez. IX, 8 ottobre 2013, ord.) di Federica Ferrara ................. 1056 977 Codice deontologico Corte Costituzionale Corte Costituzionale 11 giugno 2014, n. 172 ......... 1040 La deontologia nel diritto di famiglia tra principi e prospettive (Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057) di Remo Danovi .................................... 987 Corte di Cassazione civile Cassazione, sez. unite, 7 aprile 2014, n. 8057 ........ Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649 .......... Famiglia e diritto 11/2014 987 1035 Diritto del lavoro Il lavoro prestato a favore del convivente more uxo- 1069 Indici Famiglia e diritto rio (Corte d’appello di Bologna 21 gennaio 2014, n. 62) di Ilaria Bresciani ...................................... Violazione degli obblighi di assistenza familiare 994 Divorzio Assegno (Cassazione, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18869) Osservatorio di giurisprudenza civile .......... 1035 Sentenza non definitiva (Cassazione, sez. VI, 1 agosto 2014, n. 17567, ord.) Osservatorio di giurisprudenza civile ................................................. 1036 Il genitore malato e senza lavoro deve mantenere il figlio minore (Cassazione penale, sez. VI, 29 maggio - 1 luglio 2014, n. 28212) Osservatorio di giurisprudenza penale ............................................... 1039 Doveri coniugali Il ‘‘diritto a formare una seconda famiglia’’ tra doveri di solidarietà post-coniugale e principio di ‘‘autoresponsabilità’’ di Enrico Al Mureden ..................... 1043 Fondo patrimoniale Scioglimento (Cassazione, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17811) Osservatorio di giurisprudenza civile .......... 1037 Maltrattamenti contro familiari e conviventi Attualità della relazione familiare (Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo - 15 luglio 2014, n. 31123) Osservatorio di giurisprudenza penale ..................... 1039 Molestia o disturbo alle persone Reato eventualmente abituale (Cassazione penale, sez. I, 23 maggio - 17 luglio 2014, n. 31622) Osservatorio di giurisprudenza penale ......................... 1040 Mass media Se i mass media travisano la cassazione: una questione di professionalità del cronista di ‘‘giudiziaria’’ di Paolo Pittaro ............................................. 1066 Prescrizione Prescrizione dell’azione di regresso per il mantenimento del figlio e dell’azione di risarcimento del danno da mancato riconoscimento (Tribunale di Roma 18 aprile 2014) di Michele Sesta ........................ 1013 Separazione personale dei coniugi Assegno e casa familiare (Cassazione, sez. I, 22 luglio 2014, n. 16649) Osservatorio di giurisprudenza civile ......................................................... 1035 Somministrazione di bevande alcooliche a minori o a infermi di mente Anche il dipendente risponde del reato (Cassazione penale, sez. V, 19 maggio - 13 giugno 2014, n. 25443) Osservatorio di giurisprudenza penale ........ 1041 Successioni Esecutore testamentario: esonero (Cassazione, sez. VI, 1 settembre 2014, n. 18468) Osservatorio di giurisprudenza civile .......................................... 1038 Trattamenti sanitari Il ‘‘caso Stamina’’ all’attenzione della Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo 6 maggio 2014, ricorso n. 62804/13) di Antonio Scalera ........ 1070 977 Famiglia e diritto 11/2014 RINNOVA IL MEGLIO! UN IMMENSO PATRIMONIO BIBLIOGRAFICO SUBITO A TUA DISPOSIZIONE. DIGITUASLO Solo Wolters Kluwer ti permette di consultare i numeri delle tue riviste dove e quando vuoi, dal tuo PC, Tablet o Smartphone con la possibilità aggiuntiva di archiviare, rileggere e condividere gli articoli di tuo interesse. 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IPSOA - Gruppo Wolters Kluwer In ufficio: il fascicolo carta da SFOGLIARE sulla tua scrivania. Prescrizione del regresso e del danno da mancato riconoscimento La deontologia nel diritto di famiglia: principi e prospettive Il diritto a formare una seconda famiglia tra doveri di solidarietà post-coniugale e principio di “autoresponsabilità” DIREZIONE SCIENTIFICA Piero Schlesinger Famiglia Michele Sesta Enrico Al Mureden Vincenzo Carbone Massimo Dogliotti Mario Trimarchi 5 000001 486969 La raccolta periodica dei lavori approvati dalle Commissioni Studi del Consiglio Nazionale del Notariato suddivisi per materie di competenza (civilistici, di impresa, tributari, esecuzioni immobiliari, informatica giuridica, comunitari e internazionali), nonché gli approfondimenti e le interpretazioni operative del Consiglio Nazionale. La sezione Materiali pubblica lavori che, pur senza costituire studi approvati dal Consiglio Nazionale, presentano comunque profili di particolare interesse. In questa sezione sono pubblicati anche studi e ricerche sulla storia del notariato. Una sezione contiene le risposte che l’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale formula a specifici quesiti di interesse generale. 00148696 TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46 ART. 1, COMMA 1, DCB MILANO www.edicolaprofessionale.com/famdir Procedimento Ferruccio Tommaseo Filippo Danovi Successioni Giovanni Bonilini 15/10/14 10:20