Samuel un codice per decifrare l'amore DOPO IL GRANDE SUCCESSO RADIOFONICO DE 'LA RISPOSTA', SEGUITO DAI SINGOLI 'RABBIA' E 'VEDRAI', ENTRAMBI SEMPRE IN VETTA ALLE CLASSIFICHE, IL 24 FEBBRAIO È USCITO IL SUO PRIMO DISCO DA SOLISTA. IN QUESTE PAGINE, UN VIAGGIO NELLA MUSICA E... NELLA BELLEZZA di ALESSIA BELLI foto VANESSA CUDA, CHIARA MIRELLI, UFFICIO STAMPA GOIGEST, AGI e ANSA PER UFFICIO STAMPA RAI C on un inno ai chiaroscuri delle relazioni umane, tra le consonanze e le dissonanze che animano ogni storia d'amore, Samuel Romano dischiude le ali della sua musica. E lo fa con ‘Il codice della bellezza’, il suo primo progetto solista: «Un'avventura in solitaria che avevo l'esigenza di affrontare già da un po'», racconta, e che racchiude in 12 canzoni – 14 nell’edizione deluxe e nel vinile – la sua personale ricerca musicale tra le emozioni e i sentimenti. Ritmiche e sonorità più esotiche, come accade nei brani ‘Più di tutto’ e ‘La statua della mia libertà’, si alternano a melodie incalzanti come per ‘Passaggio ad un’amica’ e ‘Voleva un’anima’, fino a ballad più intime che colpiscono per le atmosfere che la sua voce, unita alle strumentazioni elettroniche, riesce a creare. Succede, ad esempio, in ‘La luna piena’ e, in particolare, nella title track dell’album. Composto in giro per l’Italia e prodotto negli Stati Uniti, è stato anticipato a settembre dal singolo ‘La risposta’– «la canzone che maggiormente dipinge questi ultimi anni della mia vita musicale» – seguito da ‘Rabbia’ e dal brano presentato al 67° Festival di Sanremo, ‘Vedrai’: «Ci tenevo molto a presentare questo pezzo su quel palco, perché la musica italiana passa anche da qui». È iniziata così una nuova fase nella carriera di Samuel, una momentanea parentesi dai Subsonica – condivisa anche da Boosta, che ha recentemente presentato il suo album ‘La stanza intelligente’, e dal duo Demonology HiFi composto da Max e Ninja – con i quali calca da oltre vent’anni i maggiori palchi italiani. Ma non solo: con loro, e anche insieme ad altri gruppi nati sulla scena dell’underground torinese, ha saputo raccontare le atmosfere, i colori, i sogni e gli incubi di questa città, definendone il sound. Così come ha dimostrato al concerto di Capodanno in piazza San Carlo, in veste di direttore artistico e protagonista dell'evento. E, oggi, continua a ‘decifrare’ la sua Torino... ©Vanessa Cuda remo Durante il Festival di San “ Se metti Lorenzo in una stanza buia, te l'accende [...] E quando due artisti che si scrivono parlando di musica si ritrovano uno di fronte all'altro, è quasi naturale che affiori la voglia di fare qualcosa insieme giusta in quel momento per realizzare quello che avevo in mente. Tutti mi hanno parlato di Michele Canova, uno dei migliori produttori italiani. Ho deciso quindi di incontrarlo e ci siamo trovati bene subito. È una persona con un carattere molto forte, quasi prorompente; il rischio, quando lavori con un produttore così, è che trascini tutto verso di sé, che il disco esca più con il suo suono che con il tuo. Ma io volevo cimentarmi proprio in una specie di tiro alla fune con lui, perché credo sia esattamente questo il meccanismo migliore per spostarsi in una zona 'non confortevole', che è generalmente quell'area rarefatta in cui avvengono i migliori lampi creativi». Come avete trovato un equilibrio? «Lavorando. Nel momento in cui abbiamo iniziato a collaborare, mi sono reso conto che era davvero la persona giusta. Canova ha un meccanismo molto rapido di costruzione, io invece sono più lento: ho bisogno di tempo, di far maturare le cose e di vederle crescere, di sbagliarle per poi aggiustarle. Proprio per questo abbiamo dovuto trovare una via di mezzo, cercando ognuno di uscire dal proprio solito 'canovaccio', per realizzare qualcosa di nuovo. Ritengo che questo sia un disco che non suona né come un mio album né come uno di Michele Canova, ma come una cosa nuova, che abbiamo generato insieme». Nel disco si avvertono una notevole cura del suono e l'uso di diversi strumenti, anche elettronici... «In studio avevamo a disposizione un'enorme quantità di sintetizzatori e di strumenti acustici, dal pianoforte alle chitarre, che sono stati suonati per la maggior parte da noi. Una delle cose belle della musica elettronica è che puoi permetterti di imprimere il tuo colore a uno strumento per poi aggiustarlo in un momento successivo, anche se non sei un grande strumentista. Naturalmente, abbiamo ospitato anche alcuni musicisti, come ad esempio Alessandro Alessandroni Jr, bravissimo pianista e tastierista italiano trasferitosi a Los Angeles, e Reggie Hamilton, bassista tra i più in gamba del momento. Qualche piccola collaborazione, quindi, l'abbiamo avuta, però direi che la quasi totalità della parte musicale, della partitura e della realizzazione l'abbiamo messa a punto io e Michele. E poi, naturalmente, l'incontro con Jovanotti...». Cosa ti ha lasciato la collaborazione con lui? «Se metti Lorenzo in una stanza buia, te l'accende. Come ha sentito la musica che stavo creando con Michele, che è anche il suo produttore, mi ha subito contattato per manifestarmi il suo entusiasmo. È stato capace di trasmettermi una grande energia. All'inizio del mio percorso in solitaria, sentivo la necessità di avere al mio fianco una sorta di fratello maggiore, che mi consigliasse, mi mostrasse le insidie che si nascondono in questa selva oscura che è la musica. Ho iniziato a porgli mille domande, cercando di carpire tutte le informazioni possibili per poter affrontare al meglio questa nuova avventura. Lui si è dimostrato molto disponibile, mi ha letteralmente avvolto con i suoi suggerimenti, soprattutto nell'interazione con Michele. Abbiamo iniziato un rapporto epistolare molto bello, d'amicizia. E Al concerto di Capodanno in piazza San Carlo quando due artisti che si scrivono parlando di musica si ritrovano uno di fronte all'altro, è quasi naturale che affiori la voglia di fare qualcosa insieme». Lorenzo ha infatti firmato con te cinque pezzi dell'album, tra cui c'è anche un duetto... «Il suo contributo è stato molto importante. Sono andato a trovarlo a New York e ci siamo chiusi in studio. In soli tre giorni abbiamo scritto cinque pezzi. Un risultato incredibile. Ciò che ci ha colpiti di più, e che ci ha resi più felici, è stato proprio l'esserci incontrati emotivamente: sentire di avere dall'altra parte una persona che ti sta a cuore, e poi osservare che quest’affinità si concretizza nella musica, credo sia il regalo più bello che esista per due musicisti». Poni sempre molta attenzione all'uso della lingua nei tuoi testi. In cosa si differenzia questo disco, rispetto ai brani composti con i Subsonica, per quanto riguarda la ricerca delle parole? «Quando fai parte di un gruppo, come nel caso dei Subsonica, è inevitabile lavorare insieme alla scrittura dei pezzi. Si vengono così a creare dei 'cassetti nascosti' in cui puoi andare a ritrovare immagini anche dopo tante volte che hai ascoltato lo stesso brano. Questo modo di comporre rappresenta un po' la nostra cifra: abbiamo sempre utilizzato, come marchio di fabbrica, la stratificazione del linguaggio e la creazione di neologismi e di immagini a volte anche complesse. A mio parere, però, negli ultimi anni si è diffuso un fenomeno molto paragonabile al punk degli anni '70, ma rivolto alla lingua italiana: è arrivato il rap. Questo nuovo modo di comporre ha obbligato tutti quelli che scrivevano parole per le canzoni ad analizzare se stessi, fino a capire che era arrivato il momento di semplificare il linguaggio, di tornare un po' indietro e deludere un po' tutte quelle immagini colorate, molto dense, che prima si usava scrivere. E io, nel mio disco, ho cercato di fare proprio questo: semplificare il più possibile, andando direttamente al concetto della canzone». Al Festival di Sanremo LE DATE DEL TOUR: 11 e 12 maggio Torino - Hiroshima Mon Amour 18 maggio Milano - Alcatraz 27 giugno Roma - Postepay Sound Rock in Roma www.samuelromano.it © Agi per ufficio stampa Rai a Rai © Agi per ufficio stamp ” Da cosa è nata l'idea di dedicarti a un disco tutto tuo? «Era da un po' che ci stavo ragionando, perché arriva sempre il momento in cui hai voglia di creare qualcosa di solo tuo. Quando lavori in gruppo, è possibile che la creatività sia maggiormente 'stimolata', perché sei continuamente portato al confronto con gli altri membri; d’altra parte, però, per far quadrare un pezzo ognuno deve togliere inevitabilmente qualcosa di sé. È per questo che sentivo così forte la necessità di mettermi alla prova e di assumermi la completa responsabilità di un percorso da solista. Sono contento che anche per gli altri sia stato lo stesso, perché credo che questo possa essere un modo anche per far crescere la band, dandole la possibilità di maturare: allontanarsi per ritrovarsi». Per la produzione hai scelto Michele Canova. Com’è nata questa collaborazione? «Finora ho sempre lavorato con produttori che arrivavano più dalla musica indie che dal pop nostrano. Io sono un amante della canzone italiana, mi piace l'idea di avere tra le mani una canzone vera e propria, con strofe e ritornello. E quando ho deciso di realizzare il disco da solo, mi sono guardato intorno chiedendo a tutti chi fosse la persona © Vanessa Cuda “ Mi affascinava l'idea di raccontare la bellezza come un'arma che gli esseri umani utilizzano per farsi amare. Mi piace intenderla come una specie di codice interiore, un puzzle gigantesco Nel disco parli d’amore, tra difficoltà e aspirazioni. Puoi svelarci qual è il tuo 'codice della bellezza'? «D'amore si è parlato tantissimo. Così, nel momento in cui ho deciso di esprimere questo sentimento tanto noto e popolare, ho cercato di farlo partendo dalle crepe, da angolazioni diverse rispetto a quelle che, secondo me, erano già state ampiamente analizzate. Quando inizi a fare una ricerca di questo tipo, ti trovi davanti ai molteplici meccanismi dell'amore: non c'è solo lo stare insieme ma anche la noia, l'abitudine, il lasciarsi e il perdersi. Tutte cose che noi umani facciamo abitualmente, a volte quasi senza rendercene conto. Ed è proprio questo che ho cercato di raccontare nel mio disco, partendo da quello che ho vissuto e dalla mia personale esperienza. Mi affascinava l'idea di raccontare la bellezza come un'arma che gli esseri umani utilizzano per farsi amare. Mi piace intenderla come una specie di codice interiore, un puzzle gigantesco: solo quando tutti i pezzi sono al posto giusto, hai modo di vedere una bella immagine e di scoprire così la parte più bella di una persona». “ Torino è la mia città e sarà sempre nella mia musica. Qui ho imparato a vivere, e tutto quello che i miei occhi decifrano lo fanno con questi colori ” Hai composto il disco tra Torino, Roma e Palermo e lo hai prodotto tra New York e Los Angeles. Quanto ti hanno ispirato queste città? «In realtà, lo considero un disco completamente italiano. E non potrebbe essere altrimenti, perché la scintilla emotiva che mi ha spinto a fare questo passo è nata proprio qui. Torino, in particolare, è la mia città e sarà sempre nella mia musica. Qui ho imparato a vivere, e tutto quello che i miei occhi decifrano lo fanno con questi colori. Ma ne 'Il codice della bellezza' c'è anche tanta Roma, una città che mi ha dato coraggio: è un luogo che ti invoglia a buttarti, diversamente da Torino che forse ti sprona maggiormente a pensarci bene prima di farlo. Roma ti trasmette l'energia per provarci, ti spinge da dietro. È stata fondamentale per questo disco. Devo molto anche a Palermo, un luogo incredibilmente bello, denso di cultura, di vita, emotività e umanità. Girando questi tre centri, che vanno da nord a sud, sono riuscito a raccontare quella che, ai miei occhi, è l'Italia in questo momento». Qual è la canzone a cui ti senti più legato? «Come un genitore, sono legato a tutti i pezzi del disco. Forse, però, 'Il codice della bellezza' è quello che sento più mio. Tengo particolarmente anche a 'Passaggio ad un'amica'». Dopo l'esperienza sanremese, è Samuel stesso a presentare l'uscita ufficiale de 'Il codice della bellezza' attraverso un video che ripercorre il processo creativo del suo progetto solista. Il lavoro in studio, sguardi e sorrisi rubati, emozioni catturate da un obiettivo curioso. Attimi e situazioni che lo hanno ispirato e accompagnato in questo percorso, condensati in circa dieci minuti di girato. Ed è proprio con questo 'corto' che Samuel decide di aprire l’incontro con il pubblico alla Feltrinelli di Torino Porta Nuova: «Racconta il disco più di qualsiasi altra cosa», confida alla platea. L'album va letteralmente a ruba. Sono già sold out anche le due date all'Hiroshima, dove a maggio terrà i primi live accompagnato sul placo da Tozzo dei Linea 77 e da strumentazioni elettroniche. «Ho in mente di proporre anche una versione di 'Momenti di noia' e 'Alba a quattro corsie' dei Subsonica, oltre a qualcosa dei Motel Connection», anticipa ai presenti in libreria, circondato dai suoi fan, abbracciato dalla sua città. E proprio un riferimento al suo profondo legame con Torino non poteva mancare nella nostra intervista. Oggi c'è di nuovo molto fermento nel panorama musicale torinese, soprattutto tra i giovani che esplorano altre sonorità. Si svolgono qui Club To Club e tante altre manifestazioni musicali di rilevanza internazionale... «Credo che Torino sia sempre stata molto attiva culturalmente. Qui la cultura è intesa quasi come un piacere personale: da questo punto di vista, la città è sempre stata all’avanguardia nella ricerca. Il fatto che da Torino siano passate tutte le scintille creative che poi si sono affermate a livello nazionale ha permesso un'analisi molto approfondita, e soprattutto molto fresca, di tutto quello che accadeva nel mondo. Inoltre, ha dato modo alla città di dire delle cose, di costruirsi un suo linguaggio musicale e culturale e di esprimersi con esso. Anche i Subsonica hanno fatto parte di quel flusso, tra le tantissime realtà che hanno aiutato questa città a formarsi un suo carattere, una sua musica. Ed è sempre in questo tipo di mentalità che dobbiamo ricercare il futuro». Citando un pezzo dei Subsonica, com'è cambiato 'il cielo su Torino'? «Torino è una città che, da un certo punto di vista, deve rimanere 'sotterranea', che deve continuare a scavare a fondo per vedere cosa c'è sotto. Non potrà mai essere come Milano, o Roma, che invece hanno una vitalità più sfacciata, più da palcoscenico. Torino è inevitabilmente più underground e questo, credo, è anche un suo pregio. È la fortuna di questa città». Quali sono i luoghi che hai nel cuore? «La mia Torino è quella di qualche anno fa, quando protagonisti erano luoghi come via Po, piazza Vittorio e i Murazzi, perché all'epoca c'erano solo quelli. Iniziava a rinascere il Quadrilatero, certo, ma non c'erano ancora né via Santa Giulia né San Salvario. I miei ricordi sono legati a quelle zone lì, con piazza Vittorio come fulcro». E oggi? «Devo dire che ho riscoperto con piacere alcuni quartieri che prima non frequentavo. Torino è bella perché puoi girarla tutta a piedi: partire da via Po e andare in via Santa Giulia per me è come avventurarmi in una 'foresta amazzonica', perché a distanza di pochi metri c'è un altro mondo che è nato, vive e rappresenta a sua volta Torino. Questa mobilità, questa necessità assoluta di reinventarsi, di fare cose nuove, è parte integrante della nostra città. E noi torinesi, pur essendo un po' abitudinari, dovremmo cercare sempre di combattere la consuetudine e, anzi, di tornare ad avventurarci». wwI