Itinera. Rivista di filosofia e di teoria delle Arti

annuncio pubblicitario
Per un illuminismo perenne
di Pietro Conte
In un famoso scritto del 1784 Kant definiva l’Illuminismo in termini di
uscita da uno «stato di minorità» imputabile a se stessi, cioè come conquista della capacità di servirsi autonomamente del proprio intelletto,
o per meglio dire: come conquista della capacità e del coraggio. Individuando espressamente nella pigrizia e nella viltà i nemici mortali
dell’Illuminismo, Kant si avvicinava a un autore da lui pur tanto diverso quale Herder, che nelle Idee caratterizzava la Humanität in termini
dinamici, come «ciò che può fare di se stessa, ciò che ha forza e voglia di
diventare», e decretava: «Noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno». Ed è in fondo questa, anche, la conclusione del
Candido volterriano: al protagonista, scampato alle mille vicissitudini
che gli hanno fatto scoprire, malgré lui, la vacuità e la pigrizia del sogno del “miglior mondo possibile”, non resta che svegliarsi da uno dei
tanti sonni dogmatici dormiti dall’uomo per fare, per agire, per coltivare un orto che, seppur non sarà il miglior orto possibile, resterà comunque un orto, un pezzo di terra ut operaretur eum, da lavorare e rendere
produttivo.
Per riprendere i termini kantiani, allora, l’Elogio dell’Illuminismo di
Elio Franzini è innanzitutto questo: un libro per maggiorenni, o – se si
preferisce – un libro critico. «Critica»: termine chiave che percorre
l’intero testo e va inteso in duplice senso, da un lato – pars destruens –
come polemica rivolta contro ogni forma di dogmatismo ideologico o fideistico e contro ogni riduzionismo atto a fare dell’Illuminismo
«un’epoca da sezionare, considerandola qualcosa di morto» (E. Franzini,
Elogio dell’illuminismo, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 1);
dall’altro – pars construens – come approfondimento analitico di un illuminismo che non si lascia circoscrivere al Settecento francese ma che,
Itinera, N. 1, 2011. Pagina 186
invece, prende le mosse da questo preciso periodo storico per trasformarsi in un illuminismo metodologico, «un illuminismo perenne» capace di parlare all’oggi e di dimostrarsi «programma da compiere, sfida
che si rinnova» (p. 1).
Così intesa, l’età dei Lumi viene presentata come «primo momento
dell’autocoscienza del pensiero europeo», espressione che rinvia, sin
dalle prime pagine, a un nome nient’affatto scontato in un testo dedicato all’Illuminismo: Hegel. L’autore della Fenomenologia dello spirito
«non fu nemico dell’Illuminismo, né contribuì a banalizzarne i contenuti» (p. 9); dal punto di vista del metodo, anzi, Hegel può essere considerato come un paladino dell’illuminismo, nel senso che l’impianto dialettico che ne struttura l’opera è innanzitutto un impianto dialogico che fa
della ragione un confronto, un’istanza in cammino, in viaggio. E «viaggio» è certo un altro termine chiave dell’Elogio, un termine che assurge
a metafora dell’Illuminismo stesso e che accomuna – solo per fare alcuni nomi – Diderot, Voltaire, Montesquieu, Sterne e Goethe. Il viaggio
come «nuova metafisica del Settecento» (p. 31) e l’Illuminismo come
«modo per riflettere sulla metafisica» (p. 25) – una metafisica, però, che
è quanto di più lontano dal dogmatismo si possa immaginare: «Una
metafisica illuminista non è una contraddizione: è una metafisica della
ragione, su cui opera un’indagine critica, con una precisa finalità, quella di mostrare, anche attraverso i corpi e le loro esperienze, il senso cognitivo ed epistemologico della metafisica» (p. 117).
È il «corpo» – terzo concetto fondamentale dell’Elogio – a fare del
Settecento, anche a prescindere dal battesimo baumgarteniano, il secolo di un’estetica intesa, ben prima che come teoria dell’arte, come analisi dei nessi fondativi e relazionali dell’esperienza. E qui l’illuminismo
si fa fenomenologia, e viceversa Husserl si rivela genuino spirito illuminista: «L’Illuminismo non è culto del particolare astratto, ma occasione di una battaglia per la ragione, che afferra il senso e il progetto
intrinseci nelle differenze e nella possibilità di connetterle costruendo
Itinera, N. 1, 2011. Pagina 187
interi» (p. 9). Risuona in queste parole l’eco delle Ricerche logiche e di
quella «problematica della mediatezza» di cui parlava Giovanni Piana e
che Elio Franzini individua come vera e propria cifra dell’illuminismo:
l’atteggiamento descrittivo della fenomenologia husserliana – in base
al quale «la conoscenza delle cose, e delle loro relazioni assiologiche,
non è il risultato di un puro processo razionale, ma deriva da
un’elaborazione che questo compie conoscendo i processi che si svolgono
nelle cose stesse, nei legami che formano gli interi» (pp. 39-40) – viene
riconosciuto in nuce nei modelli conoscitivi settecenteschi, molti dei
quali hanno in comune il fatto di basarsi su principi di associazione descrittiva. Dalla genesi dei modi conoscitivi della natura umana in Hume al gradualismo leibniziano, dall’interpretazione della natura di Diderot al trascendentalismo kantiano: pur nella consapevolezza delle insormontabili differenze, sempre si coglie la necessità di afferrare le sintesi cognitive «in quanto processi immanenti alle cose stesse così come
esse appaiono alla nostra esperienza» (p. 40). Saper cogliere la varietà è
ciò che avvicina la metafisica del viaggio settecentesca al metodo fenomenologico della variazione eidetica: in entrambi i casi si tratta, per
dirla con Diderot, di «moltiplicare sul terreno le fonti luminose», di girare intorno alle cose e, prima ancora, di essere disposti a farlo. Quello
illuminista, esattamente come quello fenomenologico, è un atteggiamento guidato non «dall’arroganza di una ragione certa di se stessa e
del proprio potere, bensì da una volontà di illuminazione razionale consapevole dell’oscuro, cioè dei confini dialogici che mettono in comunicazione sapere e non sapere» (p. 46). «Confine», quarto termine chiave che
fa dell’Illuminismo la consapevolezza teoretica del limite, cioè, per dirla
con Dino Formaggio, di quella «originaria e aggrovigliata unità di ragione e di non-ragione, o meglio, forse, di una ragione della ragione e
della non-ragione». Lo spirito dell’Illuminismo è l’esatto opposto dello
spirito dell’ideologia: non adorazione feticistica di una presunta ragione
Itinera, N. 1, 2011. Pagina 188
astratta onnipotente bensì, tutto all’opposto, consapevolezza dei limiti
della ragione e, al contempo, inesausto sforzo di superarli.
In questo quadro, quella che Elio Franzini definisce «l’eredità irrisolta del Settecento» (p. 81) verrà recuperata, a partire dal Novecento,
dalla fenomenologia trascendentale, cioè dalla ricerca delle condizioni
di possibilità di un atteggiamento scientifico: e a quest’espressione,
«fenomenologia trascendentale», si affiancano quelle di «psicologia trascendentale» (p. 75) e di «antropologia trascendentale» (p. 58), che alludono a un’indagine rivolta alla genesi conoscitiva della coscienza nei
suoi
atti
intenzionali.
Per
essere
realmente
trascendentale,
un’antropologia deve rivolgersi non alla «contingenza sincronica» (p.
58), ma alle costanti strutturali di ogni esperienza possibile, a partire
dalle modalità costitutive che legano le parti all’intero, il particolare
all’universale. E questo significa certo non l’abbandono della metafisica, ma la sua rinascita come «percorso di conoscenza che ha al suo centro un’intenzionalità soggettiva e intersoggettiva» (p. 75). Una metafisica esplicitamente definita «critica» (p. 75), che si esercita cioè nella
testimonianza (e qui è Valéry il nome ricorrente) dei limiti della conoscenza e nel costante impegno a oltrepassarli, afferrando la genesi di
senso dei processi conoscitivi che si sviluppano sempre, inevitabilmente, per gradi: «disvelamento di strati, nessi, relazioni, costituzioni di interi» (p. 78). L’Illuminismo, dunque, insegna a guardare, a variare lo
«sguardo» (ed è, questo, l’ultimo termine chiave che si vuole in questa
sede sottolineare); ma questa variazione – è bene rimarcarlo con forza
– non significa mai supina accettazione del relativismo e, più radicalmente, dello scetticismo: «Sarebbe errato dire che la verità si “relativizza”: amplia invece i suoi orizzonti e diviene “estetica”» (p. 122).
Elio Franzini, Elogio dell’illuminismo, Bruno Mondadori, Milano 2009,
pp. 160.
Itinera, N. 1, 2011. Pagina 189
Scarica