Titolo Santucci, Antonio, Storia del pragmatismo

Titolo
Santucci, Antonio, Storia del pragmatismo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 252.
Autore della recensione
Irina Annamaria Di Vora
Data della recensione
30/10/06
Abstract
Antonio Santucci restituisce in questo saggio il senso del percorso difficile e accidentato
compiuto da quello che chiamiamo “pragmatismo” dalle sue origini fino agli anni Ottanta.
Una panoramica, quindi, di ampio respiro cronologico, nella quale però trovano spazio
anche le puntigliose disamine sul senso della parola “pragmatismo” ed un’attenta
contestualizzazione storico-filosofica.
Recensione
Questo testo, del 1992, porta a termine un percorso iniziato da Antonio Santucci diversi
anni prima. Nel 1963 infatti egli aveva dato alle stampe un testo che sarebbe diventato
negli anni seguenti fondamentale per gli studiosi del settore, ovvero Il pragmatismo in
Italia1. Nella Premessa a quel testo Santucci descriveva efficacemente la temperie
culturale entro la quale egli aveva lentamente cominciato ad elaborare l’idea di in testo
sul pragmatismo. Erano gli anni Cinquanta e Santucci, con Luigi Pedrazzi, frequentava
l’istituto Italiano di Studi Storici. Dei pragmatisti italiani in quegli anni si occupava
Pedrazzi, sotto l’influenza di Dewey, che tanto avrebbe contato per il mondo culturale
italiano di allora, impegnato a fare i conti con la perdurante influenza crociana.
L’uscita delle Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin avrebbero poi ulteriormente
stimolato l’interesse per il pragmatismo italiano, ma Santucci si sarebbe deciso a lavorare
sull’argomento solo dopo il 1959 (dopo esistenzialismo e filosofia italiana) per una duplice
urgenza: la prima inerente alla completezza del quadro storico del pensiero italiano di
inizio secolo e la seconda inerente alla convinzione che sarebbe stato utile ripensare alle
istanze del pragmatismo logico. Da qui prendevano quindi le mosse della ricostruzione di
Santucci dell’ambiente entro il quale aveva trovato accoglimento il “pragmatismo”
americano. Tale ambiente non era affatto, si scopriva con Santucci, omogeneo, ma anzi
fortemente differenziato al suo interno. Già Eugenio Garin aveva nelle Cronache di
filosofia italiana sostenuto con argomentazioni impeccabili la necessità di differenziare tra
loro i pochi pragmatisti che gravitavano attorno al Leonardo: la preparazione e l’onestà
intellettuale di Giovanni Vailati (o di Mario Calderoni) non erano nemmeno da paragonare
alle velleità letterarie o filosofiche di Papini o Prezzolini. Di quest’ultimo poi perfino
l’austero Garin non si tratteneva dal darne un ritratto che non è nulla definire poco
lusinghiero.
Ora Santucci riprendeva con ampio respiro l’esame di questo periodo e affrontava
analiticamente il pensiero di Ch.S. Peirce, di Giovanni Vailati, di Mario Calderoni, di
Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, restituiva il senso di una “querelle pragmatista” e
faceva i conti con l’”egemonia idealistica”: l’obiettivo era quello di ricostruire il segmento
di una vicenda che non poteva essere frettolosamente liquidata solo perché l’idealismo,
1
Santucci, A., Il pragmatismo in Italia, Il Mulino, Bologna 1963.
1
con innegabile finezza e rigore, ne aveva rilevato la pretestuosità “scientifica” e le
debolezze metodologiche. Indagare le singole proposte filosofico-culturali degli animatori
del Leonardo significava ripristinare una verità storica che raccontava fatti diversi persino
da quelli che lo stesso Prezzolini avrebbe negli anni seguenti divulgato. Il pragmatismo
logico che a Santucci interessava rileggere e, dove possibile, ricuperare, era
fondamentalmente diverso da quello magico prezzoliniano e papiniano, e contribuiva a
rendere più inquieto e mosso il clima culturale dell’Italia giolittiana.
Ma al di là dell’intento di Santucci di ritrovare e ricomporre la variegata composizione del
gruppo pragmatista italiano degli inizi del secolo, importa qui sottolineare come uno dei
punti di partenza per la riflessione di Santucci fosse stato Dewey, e non Peirce e non
James, il che ci racconta qualcosa che il testo stesso non dice ma ci rivela nella selezione
stessa del terminus a quo.
Questo si lega alle complesse vicende della ricezione e divulgazione del pragmatismo in
Italia e, come si vede, gli stessi studiosi del pragmatismo (Santucci incluso) lavorano a
partire da autori che le più diverse vicende storico-culturali ed esistenziali hanno passato
al setaccio per loro. Emblematico il caso di Ch.S. Peirce. Peirce fu per lungo tempo
sconosciuto tra gli studiosi italiani: “Il pragmatismo varcò […] le soglie delle universita’
americane per merito di James e di Dewey, che certo riconobbero i propri debiti nei
confronti di Peirce, ma ne interpretarono anche liberamente il pensiero, dando vita a due
filosofie che ben poco ritenevano dell’originale matrice peirceana.”2 Alle difficoltà di
intesa tra i vari pensatori tra loro, all’emergere di linee differenti nello stesso cuore del
pragmatismo, alle prese di distanza da parte dello stesso Peirce dal pragmatismo
jamesiano in favore di nuovo “pragmaticismo” si aggiunse anche la tarda pubblicazione
degli scritti peirciani: quando Peirce nel 1914 morì, con lui scomparve l’unico individuo
che avrebbe saputo procedere con speditezza nell’esame delle 80.000 pagine di
materiale ancora inedito. Hartshorne e Weiss, dopo circa dieci anni di lavoro, diedero
vita ai Collected Papers of Charles Sanders Peirce, editi tra il 1931 e il 1935. Nel 1958
uscirono, a cura di A. Burks, altri due volumi, che avrebbero dovuto completare l’opera.
Nel frattempo però il clima culturale italiano era cambiato e le fugaci apparizioni di
Peirce avvenivano a singhiozzo, o se si preferisce seguendo le complesse dinamiche di
un fenomeno carsico.
È quindi alla «scoperta» di Dewey che Santucci guarda nel momento in cui deve
tracciare la linea da cui ha preso le mosse il suo interesse per il pragmatismo e non si
può non pensare anche, a questo proposito, al lavoro che in quegli anni stavano
svolgendo Lamberto Borghi e Aldo Visalberghi per diffondere in Italia il pensiero del
filosofo americano.
Nel testo del 1992 l’importanza di Dewey ne esce pienamente confermata: ai doverosi
capitoli dedicati a Peirce e a James si affianca quello dedicato a Dewey. Tale capitolo
inizia significativamente così: “Non c’è traccia, nella Logic di Dewey del termine
«pragmatismo». Troppi filosofi se n’erano serviti dicendo cose diverse, generando
confusioni e accostamenti illeciti, perché se ne dovesse conservare l’uso col pericolo di
nuove polemiche” (p. 133)
Il che non impedisce certo a Santucci di ricostruire il lungo percorso di lavoro di Dewey e
di illuminare i momenti in cui il filosofo aveva precisato i termini del suo pragmatismo,
tra Peirce e James e le meditazioni sull’empirismo classico, sulla filosofia e sulla scienza.
Santucci riporta che secondo Dewey gli studiosi si erano troppo concentrati sulla parola
«logica», a detrimento della più significativa espressione «teoria dell’indagine»: “il primo
termine poteva suggerire un’idea di definitività che lo «strumentalismo» aveva respinto,
come ogni dualismo e gerarchia ontologica, sostenendo che la materia delle scienze
specializzate nasce dalla materia del vivere quotidiano e vi fa sempre ritorno; e del resto
proprio la loro lontananza e apparente astrattezza ne permetteva l’applicazione a
moltissimi oggetti dell’esperienza comune. Quel che allora importava era preservarne la
consistenza sperimentale e la qualità ipotetica, due caratteristiche saldamente collegate,
2
Fabbrichesi Leo, R., Introduzione a Peirce, Laterza Bari 1993, pg. 105.
2
se è vero che una teoria come ipotesi si sviluppa e si verifica usando i mezzi più idonei
per estendere i confini della nostra osservazione. Lo schema transazionale non voleva
infatti essere una verità sulla «realtà», ma un’interpretazione generalizzata delle
procedure e delle modalità dell’indagine” (p. 174-175). La preoccupazione di Dewey era
di delineare un’ipotesi “euristica che fosse sgombra da presupposti teologici o metafisici”
(p. 175). Questo il senso del suo pragmatismo.
Il testo si chiude con un interessante capitolo dedicato agli sviluppi recenti del
pragmatismo e con l’analisi del pensiero di filosofi come Clarence Irving Lewis, George
Herbert Mead, Charles Morris o ancora Richard Rorty. Santucci documenta in questa
ultima parte del testo un rinnovato interesse per il pragmatismo che ha le sue ragioni
nella ritrovata sensibilità per la storia del proprio paese coltivata dai filosofi americani, e
nel cambiamento di profilo degli interlocutori e dei testi che per lungo tempo avevano
accompagnato il dibattito sul pragmatismo. Ecco allora l’interesse per l’ultimo
Wittgenstein, per Heiddeger o Gadamer, o Foucault, da parte dell’America e quello di
Apel o di Habermas per Peirce da parte dell’Europa. Per un’apertura alla discussione sul
pragmatismo, scevra da pregiudizi sistematici che ne ostacolano le possibilità di
“accostamenti stimolanti”, come quelli ad esempio di Heiddeger e Dewey, è Rorty:
“Heiddeger dice che il Pensiero è dell’Essere, che l’Essere è sostanzialmente storico e
non ha atteso la sua filosofia; e Dewey, indicando nel sentimento religioso e nella poesia
i «fiori spontanei» della vita, non s’è opposto altrettanto nettamente alla storia
dell’ontologia occidentale? […] Ciò che importa veramente , al di là dei contrasti, è che
entrambi considerano disastrosi i tentativi compiuti da cartesiani, positivisti e
fenomenologi di rendere «scientifica» la filosofia” (p. 211).
Santucci chiude la sua rassegna proprio con Rorty, sotto il segno di una apertura che
vieta ogni irrigidimento a priori nei confronti delle posizioni filosofiche altrui: da buon
pragmatista, Rorty non fissa una volta per tutte il proprio albero genealogico, si rifiuta di
stabilire una gerarchia di problemi e resta disponibile, volta per volta, ad una
ridefinizione di ciò che si possa intendere con pragmatismo. Se Lovejoy aveva potuto
stabilire che vi erano ben tredici tipi di pragmatismo, allora la discussione non potrà che
attestarsi sul terreno di ciò che unisce e rende simili tali concezioni, in relazione a
situazioni che mutano rapidamente e che chiedono estrema flessibilità nell’analisi.
Dispiace un po’, però, che Santucci non si soffermi sui frutti che il pragmatismo aveva
maturato nell’ambito della cultura italiana e di fatto non discuta né dell’impostazione
teoretico-filosofica inaugurata da testo di Nynfa Bosco né dell’altra, prettamente
semiotica, che pare prendere il via dal saggio di Umberto Eco, La struttura assente, del
1968.
Indice
I.
Pragmatismo e pragmaticismo: Charles Sanders Peirce
II.
Psicologia, volontà di credere ed empirismo radicale in William James
III.
Pragmatismo e filosofia Europea
IV.
Jhon Dewey e la ricostruzione filosofica
V.
Behaviourismo sociale, teoria dei segni e sviluppi recenti del pragmatismo
Cronologia
Bibliografia
Indice dei nomi
Autore
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Nasce a Mira (Venezia) nel 1926. Prima docente e incaricato di Storia della filosofia
moderna presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna , poi ordinario di Storia della
filosofia nello stesso Ateneo, fa parte della direzione della «Rivista di filosofia» ed è
membro del comitato scientifico della Società di studi del XVIII secolo.
Bibliografia essenziale dell’autore
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Antonio Gramsci, (1891-1937), Sellerio di Giorgianni, Palermo 2005
Ricerche sul pragmatismo italiano tra ‘800 e ‘900, CLUEB, Bologna 2004
Introduzione a Hume, Laterza, Bari 2002
Senza comunismo: Labriola, Gramsci e Marx, Editori Riuniti, Roma 2001
Eredi del positivismo. Ricerche sulla filosofia italiana tra ‘800 e ‘900, Il Mulino,
Bologna 1986
Empirismo, pragmatismo e filosofia italiana, CLUEB, Bologna 1995
Storia del pragmatismo, Laterza, Bari 1992
Esistenzialismo e filosofia italiana, Il Mulino, Bologna 1967-
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