TELEVISIONE: ASPETTI COMUNICATIVI Linguaggi, forme, strategie

TELEVISIONE: ASPETTI COMUNICATIVI
Linguaggi, forme, strategie editoriali
Unità didattica
Giovanni Ganino
1. La televisione italiana in regime di monopolio
Il 3 gennaio del 1954 in ritardo rispetto ad altri Paesi prendono avvio in Italia le trasmissioni
televisive regolari, alle 11 del mattino dalla sede RAI di Milano Fulvia Colombo annuncia i primi
programmi: discorsi uf ficiali fino alle 14.30, la trasmissione Arrivi e partenze in cui Mike
Bongiorno presenta personaggi in transito per Roma, il programma musicale L'orchestra delle
quindici, lo sport con Pomeriggio sportivo, un film di Mario Soldati (Le miserie del signor Travet,
1946), trasmissioni culturali su arte (L'avventura dell'arte) e prosa (L'osteria della posta di Carlo
Goldoni). La giornata si conclude con La domenica sportiva. In realtà la storia della
radiotelevisione italiana inizia il 30 giugno del 1910 con l'approvazione della legge n.395 che
riservava al Governo il controllo degli impianti radiotelegra fici e radiotelefonici e, in generale, tutti
quelli per i quali nello Stato e nelle colonie dipendenti si impiegava energia allo scopo di ottenere
effetti a distanza, senza l'uso di conduttori (Cfr. Morcellini, p. 10). Tra queste due date una serie di
avvenimenti centrali per la nascita della televisione: il 27 agosto 1924 nasce, grazie
all'interessamento di Costanzo Ciano, ministro delle Comunicazioni, l'URI (Unione Radiofonica
Italiana), la prima società concessionaria della radiodiffusione; il 28 febbraio 1929 iniziano a Roma
e Milano esperimenti di trasmissione delle immagini utilizzando il disco di Nipkow; l'8 ottobre
1933 sempre a Milano, alla V Mostra Nazionale della Radio, vengono presentati i primi esperimenti
di televisione; nel 1939 la stessa cosa avviene a Roma con tecnologie più evolute; il 26 ottobre 1944
a seguito della caduta del fascismo, la denominazione dell'Ente Italiano Audizioni Radiofoniche
(EIAR) viene mutato in Radio Audizioni Italia (RAI); il 10 aprile 1947 i delegati di 60 paesi
presenti alla Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni di Atlantic City decidono di chiamare
"televisione", e in sigla TV, la trasmissione a distanza delle immagini in movimento; a partire dal
1949 vengono installati i primi trasmettitori televisivi; l'11 settembre 1949, in occasione della I
Esposizione Internazionale della Televisione di Milano hanno inizio le trasmissioni sperimentali da
Torino e da Milano; il 19 novembre 1953 si stabilisce la disciplina dei canoni di abbonamento per la
televisione.
La programmazione delle origini. La rete televisiva serve, nel momento in cui si comincia a
trasmettere in modo regolare, un'area occupata da circa il 43% della popolazione (area
settentrionale); nel corso dei due anni successivi la rete viene estesa a quasi tutto il territorio
nazionale. Il numero degli abbonamenti televisivi è esiguo, sono 88.118 nel 1954, 1.096.185 nel
1958, poco superiori ai 4 milioni nel 19631.
La Radiotelevisione Italiana (RAI) ai suoi esordi trasmette per circa 4 ore al giorno, gli abbonati
sono appena 24.000 e soltanto lo 0,7% della popolazione può permettersi l'acquisto di un
apparecchio televisivo visto il costo proibitivo (circa 250.000 lire). Il canone di abbonamento
costava, nel 1954, 12.500 lire.
In Italia la televisione nasce come servizio pubblico e opera in condizioni di monopolio fino
1Fonte: RAI, Annuario, ad annum, in Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., p. 292.
all'avvento delle televisioni commerciali avvenuto a metà degli anni Settanta. Nei giorni feriali le
trasmissioni iniziavano alle 17.30 con la "Tv dei ragazzi" che durava circa un'ora e mezza, si
riprendeva alle 20.45 con il Telegiornale, si proseguiva con "Ribalta accesa", i programmi della
serata dedicati ad un pubblico adulto, alle 23.00 la replica del telegiornale chiudeva le trasmissioni.
Domenica si iniziava alle 11.00 con programmi di natura religiosa e si proseguiva gran parte del
pomeriggio, la sera veniva sospeso il telegiornale. Nel 1957 viene inaugurata la fascia dei
programmi pre-serali, denominata "Ritorno a casa" che si apre con la prima edizione del
Telegiornale e prosegue con programmi divulgativi, informativi, di musica classica e più raramente
di film e tele film. La crescita di ore di trasmissione aumenta costantemente fino ad arrivare nel
1962, anno in cui nasce il Secondo Canale, a circa 12 ore. "Da quel momento in poi il
potenziamento delle ore di trasmissione procederà molto lentamente: per superare le 13 ore al
giorno bisognerà aspettare il 1968".2 Considerato l'enorme seguito che la televisione comincia ad
avere, aumenta l'interesse nei confronti del mezzo televisivo da parte dei partiti politici: è così che,
secondo F. Chiarenza, "la Democrazia Cristiana, spinta dal mondo cattolico, si impadroniva delle
leve di comando della società concessionaria per avviare con decisione una programmazione
televisiva secondo un modello integralista".3
Fruizione collettiva. Nei primi anni di vita della televisione, nonostante il numero limitato di
abbonati, il pubblico televisivo è numerosissimo, coloro i quali non posseggono ancora il televisore
affollano le case dei loro vicini più fortunati oppure i ritrovi pubblici: nel 1960 il 21% degli
spettatori televisivi guarda la TV in casa di amici, il 33% nei locali pubblici. La fruizione televisiva
in Italia diviene così una fruizione collettiva. “In Italia il possesso di un apparecchio televisivo
esorbita dai con fini di una sola famiglia; è proprietà e uso estendibile non tanto ai parenti e agli
amici quanto agli inquilini del piano di sopra e di sotto fino a coinvolgere l'intero caseggiato; nelle
sere estive in quei grandi palazzoni multiformi di periferia che allevano balconcini e terrazze in
ordinata monotonia è facile accorgersi dell'importanza sociale che viene ad assumere il possesso di
un televisore. Per così dire le famiglie fortunate tengono corte bandita; le loro terrazze, i loro
balconi formicolano di gente, bambini, vecchi, adulti, ragazzi assiepati dinanzi al piccolo schermo
che lampeggia gaio e tentatore per i meschini che spiano da lontano nell'oscurità notturna. Sopra e
sotto invece i balconi e le terrazze rimangono deserti. Ma è nei bar, nei caffè dove si misura in tutta
la sua intensità il potere fascinatore della televisione. Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne
accorgono. Famiglie intere che prima erano solite trascorrere le serate in casa ora escono all'aperto:
si stipano nei bar, nei caffè all'angolo delle strade che possiedono il televisore. I locali si
trasformano in piccoli cinema, in teatrini di varietà di prosa con le sedie disposte alla buona intorno
all'apparecchio e i tavoli per le consumazioni, necessarie come il biglietto d'ingresso, relegati a lato”
(Dallamano in Sorice, pp. 45-46). La televisione risistema in questo modo spazi pubblici e privati e
ride finisce nuovi percorsi di socializzazione all'interno di un'unica grande comunità che si ritrova
difronte alle immagini e ai suoni proposti dal terminale video.
Funzione educativa e pedagogica della televisione. Nella guida del suo primo direttore, Filiberto
Guala, era già chiara la concezione pedagogica che ne determinerà la linea editoriale: l’intento era
creare una televisione che avesse la funzione di educatore morale, in linea con i principi di un Paese
ancora provinciale e distante da una società del benessere (Monteleone, 1999, pp. 287-290). Lo
sviluppo della televisione è anche condizionato dalla situazione economica e culturale italiana:
l'Italia di allora vive sostanzialmente di agricoltura, le industrie sono concentrate nelle regioni del
nord-ovest, il reddito pro capite è molto basso, soltanto il 25% della popolazione parla in modo
corretto l'italiano e la percentuale degli analfabeti è altissima. 4 In questo contesto una delle funzioni
2Mario Morcellini, La televisione in Italia, cit. , 1995, p. 32.
3F. Chiarenza, Il cavallo morente, Milano, Bompiani, 1978, p.68.
4
Situazione scolastica italiana. "Nel 1960, gli analfabeti in Italia erano ancora oltre due milioni, il 4% circa
della popolazione; una piaga che, seppure ridotta di circa due terzi rispetto a dieci anni prima, rimaneva comunque
grave soprattutto nelle regioni del Sud. Un contributo significativo alla lotta contro l’analfabetismo c’era stato a partire
dal 1947 con l’approvazione della legge che istituiva le scuole popolari, dove giovani e adulti avevano la possibilità di
frequentare corsi sia per la prima alfabetizzazione che per il secondo ciclo della scuola elementare. Organizzati nelle
fabbriche, nelle caserme, negli edifici scolastici in orari serali, questi corsi della scuola popolare furono la prima
risposta dello Stato per fronteggiare l’emergenza analfabetismo negli anni della ricostruzione post-bellica. Molti
insegnanti erano stati mobilitati per condurre un lavoro tutt’altro che semplice teso a individuare i soggetti analfabeti e
a coinvolgerli in un percorso di istruzione niente affatto scontato, soprattutto perché si trattava di adulti che non si
mostravano disponibili a “tornare a scuola”. Una figura di primo piano nell'impegno progettuale per la lotta
all’analfabetismo fu quella di Nazareno Padellaro, allora direttore generale del Servizio per l’Istruzione Popolare del
principali della Rai, come afferma Mario Morcellini (1995, p. 13), è quella di creare un linguaggio
comune: “Nell'impresa in cui - per ragioni storiche, geografiche e culturali - non erano riuscite
stampa e radio, ma soprattutto in cui aveva sostanzialmente fallito la scuola, si cimenta ora la
televisione”.
Tullio De Mauro de finisce sconvolgenti gli effetti della televisione sulla struttura linguistica della
lingua italiana, dalla fonetica alla pronuncia, al lessico, alla sintassi. A Roma la comunicazione
dialettale viene rapidamente sostituita da un italiano standard romaneggiante (De Mauro, 1968). Di
certo non è stata la sola televisione ad insegnare l'italiano, nello stesso periodo le infrastrutture
scolastiche aumentano considerevolmente, si costituisce la scuola media unica, viene elevato
l'obbligo scolastico, ma il suo contributo è stato importante nell'aiutare gli italiani ad acquisire
familiarità con la lingua comune. Del resto dopo cent'anni di scuole elementari del Regno e della
Repubblica i dialetti erano la forma linguistica prevalente in tutta la penisola e l'italiano rimaneva
una lingua letteraria.
In appena dieci anni, dal 1955 al 1965, il nuovo mezzo di comunicazione di massa opera senza alcuno sforzo
l'uni ficazione linguistica dell'Italia. L'italiano basic diviene la lingua di scambio in tutto il paese e si afferma nelle
scuole attraverso la mediazione dello schermo televisivo, il cavallo di Troia che ha portato in ogni casa questa forma
espressiva prima non utilizzata e ha costretto tutti i membri della famiglia a qualche ora al giorno di attenzione ad essa
(Valzania, 2007, p. 17).
Alla televisione di Stato viene quindi attribuita una funzione educativa sul modello del paradigma
informare, educare, intrattenere che John Reith aveva elaborato come mission della BBC inglese: i
programmi trasmessi dalla paleo-televisione venivano ideati in chiave pedagogica al fine di
unificare e rendere omogenea la diversità di pubblici per cultura, lingua e provenienza sociale
(Livolsi, 1998). La programmazione televisiva per tutti gli anni Cinquanta ha enfatizzato la
componente educativa a scapito dell'informazione e dell'intrattenimento anche se il telespettatore
preferiva le trasmissioni più leggere (Sorice, 2002, p. 41). Come risulta dalla ricerca svolta nel
1959 da Lidia De Rita (1964) sui rapporti tra televisione e contadini, questi guardavano più
volentieri i programmi di intrattenimento, giudicati anche istruttivi.
Un genere molto in voga nella prima televisione è il Quiz: “Il quiz risponde perfettamente alla
necessità ideologica che sta dietro il progetto culturale di televisione che i dirigenti Rai di quegli
anni hanno elaborato: il quiz, cioè, risponde in maniera spettacolare e “divertente” a una funzione
sociale, quale era l'acculturazione di massa o, almeno, la presa di coscienza collettiva della sua
necessità storica. Il quiz, detto in altri termini, non contribuì (non solo) direttamente alla crescita
“culturale” del paese attraverso i suoi contenuti (spesso, già allora, decisamente inidonei o troppo
nozionistici) ma fornì all’immaginario collettivo una sorta di agenda: l’istruzione, agli occhi degli
italiani, divenne importante, una conquista sociale che tutti dovevano raggiungere” (Sorice, pp. 4041).
Nel 1956 Marcello Rodinò di Miglione subentra a Filiberto Guala alla guida dell’amministrazione
Rai e conferisce un carattere innovativo alla programmazione: sono gli anni della nascita della
pubblicità, de La tv dei ragazzi e delle prime sperimentazioni di didattica a distanza funzionali a
dimostrare l'utilità sociale della televisione.
Nel suo ruolo di divulgazione culturale la TV italiana (nel periodo in cui opera in regime di
monopolio, fino cioè al 1976 anno in cui la Corte Costituzionale apre la strada all'emittenza privata)
instaura un rapporto paternalistico e pedagogico con lo spettatore attraverso la suddivisione in
generi dei programmi che compongono il palinsesto televisivo. I programmi della televisione
Ministero della Pubblica Istruzione; egli aveva capito che quei due milioni di analfabeti costituivano una sorta di blocco
“analfabeto-resistente”, come li definì, nei confronti dei quali ogni iniziativa di riportarli a scuola, nel senso
tradizionale del termine, era destinata a fallire. Padellaro fece la proposta di usare la televisione, convinto che
l’interesse che si andava diffondendo per il nuovo mezzo e la realizzazione di un programma specifico per adulti
analfabeti potesse rappresentare una sorta di “cavallo di Troia” della didattica per portare molti di questi soggetti a
vincere le loro ultime resistenze verso una prima istruzione di base" (Farné, 2003, pp. 38-39).
pubblica (anche in considerazione del fatto che si avvale di un finanziamento attraverso un canone
di abbonamento pagato dai possessori di televisori) devono rivolgersi all'intera popolazione,
rispettando le minoranze linguistiche, politiche e religiose. “La “dimensione morale” è una delle
preoccupazioni dominanti nei dirigenti della Rai e nei politici che si occupano della tv. Una
preoccupazione, si badi, non solo degli uomini della Democrazia Cristiana – che a vario titolo
controllano di fatto l'ente radiotelevisivo pubblico - ma condivisa, per altre ragioni, anche dai
dirigenti del Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti. Gli anni Cinquanta, infatti, sono quelli
in cui si sviluppa anche in Italia una moderna “cultura del consumo”. In realtà in quegli anni
l'ammontare dei consumi alimentari ed extra-alimentari della famiglia media italiana non si discosta
molto dal livello di pura sussistenza; nel corso della ricostruzione i consumi, che pure si sviluppano
notevolmente rispetto agli anni immediatamente precedenti, restano ancorati ai livelli di
un'economia essenzialmente agricola orientata verso l'”autoconsumo”, lo “spirito di sacrificio” e
l'”etica del risparmio” (Ragone 1985; Codeluppi 1992). Quest'ultimo aspetto, in particolare, è tipico
di un paese in cui, come rilevava Giampaolo Fabris, le due subculture dominanti, quella marxista e
quella cattolica, spingevano per un way of life essenziale. La limitatezza dei consumi dipendeva
non solo dal basso livello di reddito degli italiani ma anche dall’assenza di modelli di riferimento
capaci di liberare il comportamento di consumo dai suoi vincoli tradizionali. La televisione giunge a
spezzare tali vincoli, anche se non in maniera immediatamente dirompente come si può oggi
immaginare” (Sorice, p. 30-31).
Rapporto tra televisione e altri media. La televisione delle origini, prima di sviluppare un suo
linguaggio autonomo, intrattiene relazioni con forme di comunicazioni più mature: il rapporto tra i
primi programmi TV con il teatro, la radio, il cinema è evidente; da un punto di vista tecnologico
aziendale la tv nasce all'interno degli apparati industriali (di produzione e distribuzione) propri della
radio.
I programmi musicali televisivi risultano adattamenti di formule sviluppate dalla radio. Il Festival
di Sanremo ad esempio, trasmesso per la prima volta alla radio a gennaio del 1951, approda nel 55
in televisione (in eurovisione) e diventa subito un evento mediatico di grande importanza sociale
(Cfr. Sorice, p. 38); lo stesso accade con Canzonissima, trasmesso in radio nel 56, nel 57 approda in
Tv (Cfr. Sorice, p. 39). Esempio di contaminazione evidente è quello della soap opera nata in radio
negli USA alla fine degli anni ‘30: il genere ha continuato a proporre le sue storie e i suoi
personaggi in tv dimostrando la permeabilità dei due mezzi (vedi il caso di The Guiding Light,
intitolata in Italia Sentieri in onda su canale 5 dal 1982).
Ancora più significativo è il caso del telegiornale che riprende alcuni schemi di derivazione
radiofonica (il giornale radiofonico), cinematografica (il cinegiornale Luce) e della carta stampata
(il quotidiano). Il 10 settembre 1952 alle ore 21.00 debutta il primo telegiornale sperimentale
italiano, diretto da Vittorio Veltroni. Riccardo Paladini, bella voce e dizione perfetta, è il primo
lettore del Telegiornale. Non un giornalista agli inizi, ma uno speaker scelto per l’ottima dizione.
Agli inizi le notizie erano lette in un ambiente che doveva ricordare uno studiolo di casa, scrivania,
telefono, sullo sfondo una libreria, in seguito appare alle spalle del conduttore la cartina geografica
del mondo. Il conduttorespeaker è pura essenza di voce. Nessuna inflessioni dialettale, nessun filo
di retorica o di ironia nelle sue parole.
Lo speaker viene inquadrato in modo che il tronco sia tagliato ad altezza torace … questa inquadratura non
consente alcuna inserzione dell’immagine che sia estranea alla pura lettura … se accade un incidente tecnico lui
resta impassibile come la stessa immagine … legge un testo redatto parola per parola lanciando solo per pochi
istanti lo sguardo verso ipotetici telespettatori … non gli sono consentite espressioni facciali che possano andare al
di là di un fugace sorriso … non può tossire o starnutire … insomma non può commettere errori (Sergio Saviane,
1972, L’espresso).
Gli speaker seguivano anni di corsi di dizione e fonetica presso le sedi Rai di Bologna. Ne risultava
un soggetto più attore che giornalista, che spesso proveniva dal settore del doppiaggio. Un po’ come
avveniva ascoltando i radiogiornali del periodo fascista, dove lo speaker veniva scelto solo per il
suo timbro di voce virile e severo, l’emittente mantiene la scelta per il timbro che dovrà essere
questa volta non più virile ma, sicuro, oggettivo, asettico, rassicurante. Queste diverranno tutte le
caratteristiche primarie richieste al primo mezzobusto. Lo scrittore Achille Campanile definisce
Paladini come “l’antisorriso, l’unico uomo che non ha mai sorriso in Rai”.
I servizi giornalistici sono realizzati in pellicola fino alla nascita del montaggio elettronico, pertanto
tra il momento della ripresa e la messa in onda poteva trascorrere un arco temporale di diversi
giorni. Poteva accadere che le notizie trasmesse erano già vecchie oppure che erano avvenuti dei
cambiamenti che costringevano il conduttore a commentare in maniera estremamente generica i
filmati. Tutte queste difficoltà rendono i notiziari dell’epoca vecchi proprio come i cinegiornali
distribuiti nelle sale cinematografiche.
L'assenza di servizi realmente televisivi e la centralità del commento parlato avvicina il telegiornale
alle modalità comunicative utilizzate dalla carta stampata. Ancora oggi molti giornalisti televisivi
provengono dal giornalismo scritto e non sfruttano in pieno il linguaggio delle immagini nei loro
servizi.
Un altro media con il quale la televisione si è dovuta confrontare è stato il cinema, con il quale
condivide il linguaggio espressivo, cioè il mix di immagini e suoni. Oltre ad ospitare pellicole
cinematografiche, la tv italiana degli anni ‘50 inizia a elaborare delle forme di racconto (gli
embrioni di quella che sarebbe chiamata fiction) prendendo a prestito alcuni elementi del linguaggio
cinematografico, ma ponendoli al servizio di testi teatrali o letterari.
Il teatro è una delle forme di spettacolo che più ha influenzato la televisione italiana delle origini: da
quello di prosa, che fin dall’inizio della programmazione della RAI viene ripreso e diffuso
direttamente dai teatri o dagli studi tv, a quello di varietà e avanspettacolo, che invece influenzerà
pesantemente lo sviluppo dell’intrattenimento tv in termini di modelli spettacolari.
La comparsa della pubblicità televisiva. Nel 1957, alle 20.50 del 2 febbraio, viene introdotta la
pubblicità televisiva con Carosello. Ogni telecomunicato (ne vengono trasmessi 4 ogni sera fino al
1960 anno in cui vengono aumentati a 5) durava circa 135 secondi, un tempo immenso paragonato
alla durata degli spot di oggi, ed era strutturato in due parti: la prima (circa 105") era composta da
una breve scena durante la quale non veniva citato il prodotto, la seconda (codino da 30") era
dedicata al messaggio pubblicitario vero e proprio. Nel 1973 i caroselli durano 125 secondi con 30"
dedicati al messaggio pubblicitario, nel 1974 la durata si abbassa a 100" e il codino rimane
invariato.
Gli short pubblicitari erano divisi tra loro da sipari rappresentanti alcuni tra i monumenti più
importanti d'Italia realizzati dalla matita di Artioli. I Caroselli che saranno trasmessi fino al 1°
gennaio del '77 hanno dato origine a personaggi inventati (l'ippopotamo della Lines, Caballero e
Carmencita della Lavazza, Calimero della Lanza detersivi ecc.) diventati ben presto famosissimi tra
il pubblico giovane e meno giovane. I cortometraggi presentati all'interno di Carosello erano a tutti
gli effetti dei piccoli film, non a caso Carosello, come ricorda Franco Monteleone, "deve essere
ricordato come compendio di storia dello spettacolo e del cinema italiano". Il programma
pubblicitario coinvolge le firme di sceneggiatori e registi famosi e l'interpretazione di attori noti al
pubblico delle sale cinematografiche: "L'ispettore Rock, la cui infallibilità professionale era
stroncata dall'ammissione 'anch'io ho commesso un errore, non ho mai usato la brillantina Linetti',
era stato inventato dalla penna di Furio Scarpelli e di Luigi Magni. Citto Maselli, regista impegnato,
girò la prima serie di 'Chiamami Peroni, sarò la tua birra', i fratelli Taviani si sperimentarono con la
Plasmon, la Gancia, lo Chatillon. C'era anche Totò che reclamizzava la Star, Eduardo de Filippo la
Icarion, Paolo Villaggio, Nino Manfredi, Corrado ecc. La pubblicità arrivava alla fine, come la
firma del regista. Il prodotto e l'azienda che lo realizzava potevano piacere non tanto per le loro
qualità intrinseche, che spesso non venivano dimostrate, quanto per 'l'intelligenza' di aver saputo
scegliere quel personaggio, quella storia, quella battuta".5 Omar Calabrese (1979) ha notato che
Carosello ricalcava il modello della fiaba seriale e attraverso una scansione ritmata degli episodi,
raccontava ministorie organizzate strutturalmente sulla ripetizione generale dei personaggi e delle
5Walter Veltroni, I programmi che hanno cambiato l'Italia, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 48.
situazioni tipo” (Sorice pp. 36-37).
Considerato il ruolo educativo-pedagogico attribuito alla Tv italiana diventa "naturale" il controllo,
da parte della RAI, sulla sceneggiatura dei comunicati pubblicitari. Come afferma F. Monteleone: "I
controlli sulle sceneggiature erano attenti e severi. Molte non venivano ritenute adatte alla
realizzazione e ogni regista ricorda piccoli e grandi problemi di censura. C'erano regole fisse per le
durate dei messaggi pubblicitari e per il loro inserimento, che obbligavano a scelte precise di
struttura nelle storie; ma c'erano anche indicazioni rigorose per tutto quanto riguardava ciò che non
poteva essere mostrato in TV: sesso, adulterio, lusso eccessivo, oggetti superflui. A Carosello non
comparivano mai ambienti che fossero troppo lontani da quelli conosciuti da una piccola borghesia
impiegatizia. La pubblicità non doveva creare troppi desideri né suscitare odio di classe".6
“La pubblicità viene accolta in televisione con ritrosia, quasi con un pizzico di vergogna, come se
essa andasse a deturpare con i suoi prodotti “volgari” la programmazione, sempre pedagogica anche
nell’intrattenimento, del nuovo mezzo. Carosello risponde efficacemente al bisogno di mediare fra
diversi modelli di società che si contrappongono e si affiancano nella dirigenza della Rai” (Sorice,
p. 35). “Carosello fu un grande contenitore mediatico e, al tempo stesso, divenne luogo di scambio
simbolico e di mediazione tra l’immaginario e il mercato” (Sorice pp. 36-37).
Gli anni Sessanta. “La televisione vede negli anni Sessanta l'affermazione della sua centralità nel
sistema nazionale dei media, grazie alla diffusione sempre più capillare nelle case degli italiani
degli apparecchi di ricezione e allo sviluppo di tecnologie e innovazioni che influenzano in modo
determinante anche il linguaggio e il sistema dei generi. Tra le nuove possibilità tecnologiche
annoveriamo le trasmissioni via satellite, che permettono la diffusione in contemporanea mondiale
di grandi eventi di cronaca e di sport: si creano così le condizioni per trasformare il mezzo
televisivo da veicolo di contenuti già codificati in altri ambiti comunicativi (teatro, cinema, radio,
stampa) a medium radicalmente nuovo, capace di produrre un senso inedito della realtà,
avvicinando nello spazio e nel tempo le popolazioni di tutto il mondo. Nasce così la possibilità di
creare quelli che i teorici dei media chiameranno media events, come i campionati mondiali di
calcio, le olimpiadi, le incoronazioni di reali, lo sbarco del primo uomo sulla luna, in cui il ruolo
della tv diventa sempre più determinante, al punto, in alcuni casi, da vincolare lo svolgimento stesso
dell’evento (ricordiamo ad esempio l'adeguamento dell'inizio degli eventi sportivi alla possibilità di
essere trasmessi negli orari di maggiore ascolto nei paesi più importanti dal punto di vista del
ritorno economico). Un'altra rilevante innovazione tecnica dal forte impatto sul linguaggio
televisivo è l'introduzione dei sistemi di registrazione videomagnetica (Ampex), che consentono
non solo di registrare ma anche di montare le immagini riprese dalle telecamere. Le ricadute di
questa innovazione sul linguaggio televisivo sono evidenti: diventa possibile lavorare sul materiale
audiovisivo con modalità simili a quelle del cinema, amplificando le possibilità di intervento date
da un montaggio non più da realizzare in diretta. Dal punto di vista dei generi il mezzo televisivo
attraverso queste due innovazioni tecnologiche acquisisce sempre maggiore consapevolezza di una
sua centralità nel panorama mediatico e inizia a passare da una semplice riproposizione aggiornata
di modelli presi altrove alla messa a punto di codici espressivi autonomi” (Grignaffini, pp. 31-32).
Rappresentativo di questa tendenza è il varietà Studio Uno in onda nel 1961 sul Canale Nazionale.
Studio uno deve il suo successo ai tratti innovativi del linguaggio impiegato. “Abbandonate le
scenografie sfarzose o realistiche – che la televisione aveva ereditato dal vaudeville – il regista
Antonello Falqui opta per una soluzione apparentemente minimalista ma che, in realtà, esalta le
potenzialità della telecamera. Una scenografia fatta di fondali bianchi con gli apparecchi tecnici a
vista: il testo televisivo vive della sua autoreferenzialità. I corpi dei protagonisti sulla scena sono
esaltati dal contrasto con il bianco dei fondali (la tv, peraltro, trasmette ancora in bianco e nero) e il
filo dell’enunciazione è tenuto dal conduttore, che non ha ancora assunto il ruolo che poi avrà nella
neotelevisione: simulacro perfetto del broadcaster, luogo di incontro simbolico con il pubblico è
Mina. Accanto a lei le gemelle Kessler, il cui jingle – il celebre Dadaunpa – funziona da eccellente
marca connotativa del programma, al punto che diverrà negli anni un vero elegante tormentone
6Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit. p. 319.
televisivo” (Sorice, p. 59).
“Anche la fiction televisiva lentamente, ma inesorabilmente, si svincola dal modello teatrale e pur
partendo il più delle volte da testi letterari inizia a proporre storie e personaggi originali,
agganciandosi ai modelli della serialità televisiva americana”(Grignaffini, p. 32).
“Se nei primi anni l'obiettivo della Rai era quello di allargare al massimo la base di utenti, nel
decennio successivo, che sancisce il grande successo del nuovo mezzo, si cercherà di differenziare
le proposte indirizzandole a segmenti di pubblico più specifici. Nascono così verso la fine degli
anni Sessanta, in concomitanza con un clima sociale radicalmente mutato, programmi per i giovani,
in cui all'intento puramente pedagogico che caratterizzava la TV dei ragazzi si sostituisce la volontà
di avvicinarsi realmente ai gusti e allo stile di vita dei giovani, attraverso una maggiore attenzione
alle tematiche a loro vicine, in particolare la musica” (Grignaffini, pp. 32-33).
Fra il 58 e il 59 i giovani diventano una vera categoria sociologica: il mercato li tematizza come
gruppo identitario di spesa, il sistema dell’informazione li studia e ne analizza i comportamenti, le
istituzioni li individuano come interlocutori, a volte solo come nemici. Il rock and roll, le camicie a
quadri e i jeans segnalano appartenenze simboliche, connotando anche l’adesione a un sistema
valoriale che non è più sovrapponibile a quello dei padri. L’avvento dei giovani nel mercato
culturale è segnalato da diversi elementi: dal 1958, infatti, l’industria fonografica inizia un periodo
di ascesa, passando dai 18 milioni di dischi venduti di quell’anno agli oltre 30 milioni del 1964.
Nello stesso periodo i juke-box installati passano da 4.000 a circa 40.000 e si avvia in maniera
decisa quel processo di “americanizzazione” dei consumi che molti intellettuali italiani di quegli
anni – sia cattolici che comunisti – giudicano pericoloso quanto non addirittura immorale. (Sorice,
pp. 51-52)
Il Secondo Programma. Il 4 novembre del 1961 iniziano le trasmissioni regolari del secondo canale
televisivo – denominato Secondo Programma 7 - con circa due ore di programmazione quotidiana
(dalle 21,05 alle 23,15). “Voluta soprattutto da Ettore Bernabei (diventato direttore generale della
RAI nel 1961) e varata con l'intenzione ufficiale di sperimentare nuove formule televisive e
soddisfare le esigenze di un pubblico che andava diversificandosi, l'istituzione del secondo
programma fu all'epoca circondata dal sospetto che la motivazione reale risiedesse nella volontà di
"liberare" il Programma Nazionale dalle notizie e dai temi più scottanti e sgraditi, per relegarli in un
canale dall'ascolto limitato. Il palinsenso prevedeva trasmissioni di intrattenimento (il primo varietà
fu Caccia al numero, condotto da Mike Bongiorno), programmi culturali e divulgativi (il numero
degli spettacoli di prosa e sceneggiati prodotti o trasmessi dalla RAI crebbe in maniera
esponenziale), informazione (inizialmente il Tg2 andava in onda dopo il Tg1, in seguito si
stabilizzò alle 21,00, quasi a voler sottolineare la propria volontà di porsi in concorrenza con il Tg1,
ma la sua autonomia ebbe breve durata poiché nel 1963 Bernabei unificò i servizi del Nazionale e
del Secondo), oltre a una propria rubrica pubblicitaria, Intermezzo (1962). Accanto a un
programmazione sostanzialmente tradizionale, il secondo canale, ispirato, sia pur timidamente, a
criteri di innovazione e modernizzazione, produsse alcune novità, come, ad esempio, il varietà Alta
pressione (1962) di Enzo Trapani, che diede espressione ai fermenti giovanili (lanciando due
giovani talenti come Rita Pavone e Gianni Morandi e sostituendo al pubblico presente in studio un
gruppo di ragazzi seduti per terra, in cerchio)”8.
“Il secondo canale diventa uno spazio spesso dedicato alla sperimentazione di linguaggi e
grammatiche del video, capace di intercettare la domanda culturale di un pubblico che cominciava a
frammentarsi proporzionalmente alla crescita culturale, a quella economica e a quella delle stesse
competenze di fruizione televisiva” (Sorice, p. 61).
La luna in tutte le case. L'inizio degli anni Settanta si apre sotto il segno del predominio
tecnologico: la missione lunare, nel luglio del 1969 marcava uno dei più straordinari successi del
7Con la riorganizzazione aziendale determinata dalla Riforma della RAI del 1975 il Secondo Programma assunse nel
1976 la denominazione di Rete 2 e nel 1982 quella di Rai 2.
8 A. Grasso (a cura di), Enciclopedia della televisione, cit., p. 665.
ventesimo secolo in campo tecnologico. Il fatto che la televisione abbia permesso al mondo intero
di partecipare a distanza allo sbarco del primo uomo sulla luna, costituiva una premessa ottimale
allo sviluppo scientifico. Mai la televisione ha avuto un effetto più eclatante della trasmissione
dell'atterraggio sulla Luna: quel giorno, tra il 20 e il 21 luglio, il mondo si fermò per qualche ora,
più di 500 milioni di persone restarono incollate davanti alla televisione per assistere allo sbarco
sulla luna degli americani.
2. Neotelevisione (duopolio e televisione commerciale)
Verso la riforma e l'apertura al mercato privato
Nel 1975 viene promulgata il 14 aprile la legge n. 103, conosciuta come legge di riforma RAI, in
gran parte ispirata ai criteri indicati dalle due sentenze della Corte Costituzionale del 1974. In primo
luogo la legge, dopo aver ribadito la riserva a favore dello stato delle trasmissioni radio televisive
"su scala nazionale", afferma senza possibilità di equivoco il principio per cui tale funzione deve
essere esplicata con mezzi che garantiscano "indipendenza, obiettività, e apertura alle diverse
tendenze politiche, sociali e culturali". A tale scopo la legge attribuisce la gestione dell'ente
concessionario (con il quale la convenzione avrà durata di sei anni e che potrà avvalersi, a
integrazione del canone d'abbonamento, dei proventi da pubblicità non superiore al 5% della durata
delle trasmissioni) a un Consiglio di amministrazione composto da sedici membri, sei dei quali
eletti dall'assemblea dei soci (IRI e SIAE) e 10 dalla nuova Commissione parlamentare per
l'indirizzo generale e la vigilanza del servizi radiotelevisivi, organo i cui componenti sono
"designati pariteticamente dai presidenti delle due Camere del parlamento, tra i rappresentanti di
tutti i gruppi parlamentari". A tale Commissione sono di fatto af fidati tutti i più importanti compiti
di programmazione e di controllo della neo riformata RAI. Sotto questo primo pro filo, dunque, è da
segnalare la fondamentale innovazione rappresentata dal trasferimento del controllo del sistema
radiotelevisivo dal potere esecutivo (il Governo, per disposizione risalente a Mussolini) al potere
legislativo (il Parlamento), la cui composizione elettiva sembra offrire maggiori garanzie di rispetto
dei criteri pluralistici indicati dalla Corte Costituzionale. In secondo luogo la legge, a tutela delle
istanze locali di decentramento, contiene la duplice previsione dell'istituzione di una terza rete
pubblica e della autorizzazione per l'esercizio da concedersi a emittenti private via cavo il cui
bacino di utenza non superi i 150.000 abitanti (e con assoluto divieto di interconnessione per
trasmissione contemporanea con altre reti). Da ultimo, la legge sancisce uf ficialmente, previa
autorizzazione ministeriale, il diritto alla diffusione nel nostro paese di programmi televisivi
irradiati da organismi esteri. Non può sfuggire la circostanza che il quadro legislativo, appena
ridelineato, risulta di fatto già superato dalla realtà dei fatti: le televisioni via cavo appena
legalizzate, infatti, sono già state soppiantate dalle emittenti via etere che operano numerose nel
paese, pur essendo perseguite, in modo diseguale e disordinato, da un ordinamento che di li a poco
muterà di nuovo scenario. Di seguito i punti quali ficanti della nuova legge:
1. Trasferimento del controllo del sistema radiotelevisivo dal potere esecutivo (governo) al
potere legislativo (parlamento), con la conseguente istituzione del comitato parlamentare di
vigilanza;
2. L’organizzazione dell’azienda subisce profonde trasformazioni, fra cui la divisione tre reti e
testate;
3. Favorire il decentramento con l'istituzione di una terza rete a carattere regionale e di
emittenti private via cavo con bacino d’utenza entro i 150.000 ab. (e impossibilità di fare
rete);
4. Apertura alle diverse tendenze politiche, sociali, culturali attraverso i cosiddetti programmi
dell’accesso, che permettevano a gruppi, associazioni e movimenti (anche molto piccoli) di
produrre in proprio trasmissioni o usufruire di uno spazio di informazione nel palinsesto
televisivo;
5. Mantenimento del monopolio Rai per le trasmissioni su scala nazionale.
Il cambiamento risulta evidente nel settore dell'informazione: “Il 15 marzo 1976 vanno in onda, per
la prima volta nella storia del sistema radiotelevisivo italiano, due testate giornalistiche concorrenti
che appartengono alla stessa azienda: Tg1 e Tg2. Li conducono rispettivamente Massimo Valentini
e Piero Angela. I due Tg sono nuovi e diversi anche nel formato. Il Tg1, per esempio, inaugura la
formula dell’approfondimento: viene previsto uno spazio (Dentro la notizia) alla fine del
telegiornale in cui un tema viene approfondito, magari con la presenza di protagonisti o personaggi
da intervistare. Il Tg2, invece, lascia il telefono aperto alle telefonate degli ascoltatori e persino la
sua testata (Tg 2 Studio aperto) connota chiaramente una scelta culturale fondata sull’interazione
col pubblico” (Sorice, 113).
Nel luglio del 1976 (sentenza n. 202) si autorizza le televisioni locali a trasmettere via etere e non
più soltanto via cavo: da quel momento le iniziative proliferano, nascono e muoiono emittenti di
ogni tipo. La sentenza legittima l'esistenza delle Tv private e disegna un sistema misto e
antioligopolistico basato su un servizio pubblico nazionale e su tante piccole emittenti locali. Da
questo momento cominciano ad operare i primi elementi di concorrenza fra le reti: fra le reti
pubbliche inizialmente, poi fra queste e le reti private che fanno di tutto per imporsi ad un pubblico
abituato alla programmazione della RAI. Il servizio pubblico comincia a convivere e a confrontarsi
con la tv commerciale che, di anno in anno, vede crescere la propria importanza. Signi ficativo da
un punto di vista mediatico è il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro il 9 maggio del 1978: “Le
immagini di Moro senza vita, infatti, vengono girate da una piccola ma battagliera tv commerciale
romana, Gbr. La Rai si trova immediatamente catapultata nel mondo della concorrenza, costretta
persino a confrontarsi con una piccola emittente e a trovare forme di accordo” (Sorice, p. 115).
L'emittenza privata si moltiplica. In particolare l'editore Silvio Berlusconi sfrutta le possibilità che
si aprono nel settore della televisione commerciale e crea in breve tempo un polo alternativo a
quello pubblico attraverso una programmazione popolare di sicura presa. “Altri principali editori
italiani si gettano nell’impresa, costituendo tra il 1979 e il 1980 network nazionali: Rizzoli (Pin,
Prima rete indipendente), Rusconi (Italia 1), Mondadori (Retequattro), mentre Silvio Berlusconi
(Fininvest) acquista frequenze in tutta Italia per ripetere il segnale della sua emittente Canale 5.
L’operazione di Berlusconi si rivela più efficiente; Rizzoli viene travolto dallo scandalo della loggia
massonica P2, Rusconi e Mondadori vendono le loro reti a Berlusconi, che nel 1984 ha tre reti
nazionali e una raccolta pubblicitaria superiore a quella Rai, con ascolti del 40%. Nel 1984 l’azione
della magistratura, che considera illegittima la ripetizione dei segnali in contemporanea e la blocca,
si capovolge in un successo di Berlusconi perché il governo Craxi, dopo una tortuosa battaglia
parlamentare, riesce a far approvare la seconda versione di un suo decreto (L. 10/85), con una piena
legittimazione delle reti Fininvest, offrendo agli altri partiti contropartite nel servizio pubblico. La
televisione italiana è ormai un duopolio fra la Rai e la Fininvest. Nel 1990 si arriva a una modesta
soluzione legislativa (L. 223/90, “legge Mammì”) che legittima il duopolio, introducendo la figura
del Garante per la Radiodiffusione e blande misure antitrust” (Menduni, 2004, pp. 97-98).
Nei primi anni Ottanta quando la Fininvest, con tre reti nazionali, acquista una dimensione di
impresa paragonabile a quella della Rai, il sistema televisivo italiano è costituito da sei reti
televisive nazionali, tre per ciascuno dei due gruppi. Rai e Fininvest si spartiscono tranquillamente
il 90% delle risorse e il 90% dell'ascolto; ai margini del mercato televisivo italiano, una miriade
(circa 700) di televisioni locali che si contendono il restante 10% e quindi sopravvivono in
condizioni precarie. La strada intrapresa in Italia si discosta dalla logica attuata in altri paesi
europei. Germania e Inghilterra tentarono di differenziare per quanto possibile il servizio pubblico
radiotelevisivo dall’emittenza privata; una strada intrapresa anche dalla Francia. Si cercò di
indirizzare i privati verso le tecnologie del cavo e del satellite tenendoli al massimo lontani dalla
tradizionale tecnologia via etere, riservata a una televisione “generalista” e tendenzialmente
gratuita.
La televisione via cavo è stata indirizzata verso un modello a pagamento e un intrattenimento
specializzato, tematico. (…) Si attenuava così la competizione fra i servizi pubblici e i nuovi venuti,
evitando che si contendessero lo stesso mercato delle risorse. (…) In Italia invece non si riuscì nel
tentativo di aggiungere alla televisione via etere altre modalità di trasmissione. Televisione privata e
televisione pubblica si divisero a metà l’ascolto, investendo soltanto nell’acquistare programmi
dall’estero e nel contendersi divi e personaggi, a costi che la competizione fra loro rendeva sempre
più alti (Menduni, 2004, pp. 91-92).
Altro elemento importante del periodo è la nascita del telecomando che cambia la modalità di
fruizione dei programmi televisivi e attribuisce al pubblico maggiore autonomia e scelta
decisionale. “Da un tipo di consumo subordinato a una struttura organica del palinsesto secondo un
progetto fortemente pedagogizzante e a quella dei singoli testi/programmi destinati ad essere
consumati passivamente e nella loro integrità testuale, si è passati alla possibilità di scegliere fra
proposte diverse, talvolta persino af fiancandole in una vorticosa danza di immagini. (...)
All'attenuazione di un modello di fruizione pedagogizzante si af fianca un telespettatore dotato di un
suo spazio di autonomia, per quanto parziale. Il nuovo protagonismo del pubblico produce, come è
ovvio, un cambiamento strutturale anche nella programmazione: gli operatori, infatti, sono costretti
a tenere conto dei gusti e delle scelte dei destinatari, sempre meno utenti e sempre più stakeholder.
Non è un caso che, proprio in questi anni, si avverta l'esigenza di monitorare il consumo televisivo e
valutare in maniera scienti fica i gusti del pubblico. Cambiano i termini del gioco: se la televisione
pedagogica dava al pubblico, parafrasando Reith, quello di cui aveva bisogno e non ciò che voleva,
la tv col telecomando deve fornire risposte ai giudizi del pubblico che, ormai, cominciano ad
esprimersi non solo in pratiche quotidiane ma anche attraverso gli indici d'ascolto” (Sorice, pp. 117118).
Alla fine degli anni Settanta la paleotelevisione fondata su una logica pedagogica lascia il posto ad
un modo nuovo di fare televisione: “C’era una volta la paleotelevisione, fatta a Roma o a Milano,
per tutti gli spettatori, parlava delle inaugurazioni dei ministri e controllava che il pubblico
apprendesse solo cose innocenti, anche a costo di dire bugie. Ora, con la moltiplicazione dei canali,
con la privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche, viviamo nell’epoca della
neotelevisione”9. L’accezione di Umberto Eco di neotelevisione fa perno, principalmente, su due
aspetti: la concorrenza e l’innovazione tecnologica. Un’accezione più ampia di neotelevisione –
comprendente anche la nascita dei nuovi generi e dei nuovi linguaggi – è quella proposta da
Francesco Casetti (1988).
Con la veloce affermazione della televisione commerciale cambiano le modalità espressive
utilizzate. Il punto di riferimento diventano i programmi e le strategie comunicative impiegate dalla
televisione americana: inseriamo per questa ragione due paragra fi, uno speci fico sulla grammatica
televisiva americana, l’altro, sull’adattamento italiano delle collaudate formule americane.
La grammatica televisiva o strategie della comunicazione televisiva10
Agli inizi degli anni Ottanta gli americani hanno raggiunto il massimo del tempo dedicato alla
televisione: circa sette ore al giorno per famiglia, nel 1982. Non c'è dubbio che molti fattori
incidono su questo fenomeno: aumento del tempo libero, noia, desiderio di qualche piccolo
diversivo, l'abitudine verso tutto ciò che è di natura visiva, e l'attrazione e lo stimolo che suscitano
certi argomenti. Per comprendere il labirinto della cultura televisiva, bisogna determinare i
signi ficati che gli individui attribuiscono alla loro esperienza visiva alla TV e comparare questi
signi ficati con le strategie messe in atto dalla TV stessa. (...)Tanto per cominciare, cosa signi fica
de finire la televisione come medium della cultura di massa eccellenza? La TV è un vero medium di
massa per il fatto che rappresenta i valori e le norme comunemente condivisi dalla società
americana. I programmi in prime-time, delle ore di punta, si rivolgono a famiglie di classe media
con gusti medi, e con orientamenti politici e religiosi tipici dell'uomo medio. Gli ideali del duro
lavoro, del buon senso, della disponibilità personale, del fair-play e del buonumore abbondano nei
programmi di maggior seguito. Negli ultimi trent'anni, stelle televisive hanno rappresentato sempre
l'onestà, la forza d'animo, la bontà, l'equanimità, e la sensibilità del carattere americano ideale. Con
queste immagini la televisione segue una strategia dello status-quo radicata nella tradizione
americana, ed è proprio questa strategia che consente alla TV di attrarre un'audience di massa. Non
è che il successo di pubblico sia ottenuto ricorrendo ad un comune denominatore basso e quindi alla
portata di tutti; si tratta piuttosto di confezionare programmi basati su ideali che non trovano
resistenza da parte dell'audience, anzi. (...) Per comprendere il comportamento strategico del
pubblico televisivo, dobbiamo tornare ad esaminare la grammatica (sintassi, in flessione e
vocabolario) e le prospettive della televisione. (...) A molte persone è senz'altro familiare la
grammatica televisiva, anche se guardare la TV è diventata un'attività così naturale che molti
spettatori certe volte non credono che esistano speci fici metodi adottati dalla TV per presentare
notizie, spettacoli o sport. Oltre ad alcuni ovvi fattori tecnici, come inquadrature, dissolvenze,
replay, rallentatore e simili, gli spettatori ritengono che vedere qualcosa alla TV sia pressoché lo
stesso che guardare la realtà quotidiana. Questi spettatori non riescono a capire che la televisione
impiega un linguaggio unico, che ha una logica tutta sua. (...) Ogni linguaggio ha una struttura che
deve essere compresa, come precondizione per giungere ai signi ficati. Quindi, la prima cosa da fare
9Casetti F., Tv: la trasparenza perduta, in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, p. 163.
10Il seguente paragrafo è tratto da, Robert P. Snow, La cultura dei mass media, cap. "La televisione. Il grande fiume
della cultura", Torino, ERI.
per comprendere la comunicazione televisiva è esaminare il suo particolare linguaggio.
Sintassi. La sintassi della grammatica dei media riguarda l'organizzazione del contenuto del
messaggio. La strategia della sintassi televisiva segue due fasi cicliche distinte del comportamento
visivo: le abitudini nella fruizione del mezzo e le attività di lavoro e di riposo. Poiché i programmi
televisivi sono veicoli pubblicitari, una strategia consiste nello stimolare le persone a seguire la
pubblicità soprattutto nei periodi dell'anno in cui si fanno i maggiori acquisti. Le abitudini
d'acquisto degli americani seguono cicli stagionali con un massimo che coincide con le vacanze
natalizie; dopo un certo calo invernale, il consumo dei prodotti aumenta di nuovo a primavera per
declinare alla fine di maggio. La programmazione televisiva segue questo ciclo del consumo
stagionale; infatti mette in onda programmi nuovi alla fine dell'anno, cui fa seguito una seconda
ondata verso la fine di febbraio. L'estate invece è il periodo delle repliche e dei programmi
sperimentali. Ne deriva che gli spettatori diventano bersagli di un fuoco concentrato di pubblicità,
soprattutto quando, essendo costretti a stare più spesso in casa, sono più disposti a seguire
programmi nuovi.
Un altro ciclo è quello che segue i ritmi del giorno e della settimana. (...) I programmisti dei
network televisivi sanno quando una famiglia guarda la TV tutta insieme, quando il pubblico è
formato quasi esclusivamente da giovani, e via dicendo. Ad esempio, poiché la domenica sera è un
momento di riposo e tutti i membri della famiglia in genere sono a casa, i programmi sono rivolti
all'intera famiglia; i pomeriggi del week-end sono invece dedicati allo sport e ai programmi
ricreativi che piacciono soprattutto ai maschi adulti; i piccoli che non hanno altro da fare da sabato
mattina, guardano i cartoni animati; nel periodo più intenso della settimana lavorativa, un film o uno
sceneggiato in prima serata offrono un momento di relax per tutti.
Gli interessi degli spettatori variano anche durante la giornata; i programmi del mattino, nei giorni
feriali, sono dedicati ai notiziari, ai problemi dell'educazione e di varia umanità; gli spettacoli in
diretta, con giochi a premio, vanno in onda nelle ore delle faccende domestiche; tele film sono
trasmessi durante il riposo pomeridiano; vecchie repliche, cartoni animati e burattini intrattengono i
bambini dopo la scuola; i notiziari precedono o seguono le ore dei pasti a cui sono collegati i
programmi più importanti; ed in fine i nottambuli sono accontentati con talk-shows e vecchi cicli di
film classici.
Così la sintassi della programmazione televisiva segue i ritmi di vita degli spettatori, sia stagionali,
sia settimanali, sia giornalieri. Entro tali cicli, grandi network nazionali e piccole emittenti locali
tentano di accaparrarsi il massimo dell'audience possibile.
In tal senso ci sono strategie particolari, come i programmi no-stop usati per creare una sorta di
"pacchetto" in grado di catturare l'interesse degli spettatori in modo continuativo, per tre o quattro
ore di seguito. Intanto, poiché i notiziari in genere precedono i programmi più importanti, è
fondamentale creare un pubblico ampio e fedele per i notiziari; si può quindi supporre che gli
stipendi pagati ai conduttori di tali notiziari siano adeguati più alla loro capacità di attrarre il
pubblico che alla semplice abilità professionale in campo giornalistico anche se queste due cose non
si escludono necessariamente a vicenda. (...) Questo schema di programmazione ha avuto finora un
certo successo, ma con la videoregistrazione e la TV via cavo gli spettatori stanno diventando molto
più esigenti nella scelta di cosa e di quando vedere. Sarà interessante osservare l'impatto che la
crescente capacità selettiva dello spettatore avrà sugli aspetti finanziari e sulla programmazione
televisiva. C'è chi prevede che tale selettività e flessibilità nelle abitudini degli spettatori spingerà i
network fra le cose del passato.
La sintassi implica anche l'organizzazione del contenuto dei particolari programmi. Tali regole
sintattiche, molte delle quali noi diamo per scontate, sono condizioni prioritarie per poter
interpretare il contenuto dei programmi. Per esempio, con l'eccezione delle soap-operas, degli
sceneggiati a puntate, ogni programma ha un inizio, una parte centrale, e una fine ben distinguibili e
posti in tale ordine. (...) Il fatto che i programmi televisivi inizino sempre con un problema di
qualche genere che deve essere risolto e finiscano con la sua soluzione, consente un alto grado di
prevedibilità. Gli spettatori possono seguire un programma che avrà un inizio, senza parti
dispersive, e si concluderà con un finale che non lascerà adito a dubbi. Raramente un lavoro
televisivo marcia a ritroso, come è il caso di alcuni film, e raramente c'è qualche dif ficoltà a stabilire
la cronologia delle scene. La sequenza lineare dei programmi televisivi segue quindi una logica di
causa ed effetto comprensibile a tutti gli spettatori. (...)
Uno degli esempi più interessanti di sintassi si applica ai notiziari televisivi, specie a quelli delle
edizioni serali. In tanti anni di trasmissioni televisive gli spettatori si sono ormai abituati ad un
preciso ordine degli eventi visivi e uditivi. La trasmissione si apre con una visione generale della
persona che legge al tavolo di uno studio; lentamente la telecamera zooma su un primo piano della
persona, che passa ad introdurre la prima notizia. Per ciascuna notizia, la sintassi consiste in una
introduzione del conduttore del programma (detto anche anchor-person), seguita dal rapporto di un
corrispondente che opera in genere sul posto, e da filmati, schemi o gra fici. I gra fici di tipo statistico
economico sono generalmente presentati a metà programma, mentre in chiusura viene trattata
qualche notizia meno impegnativa; dopodiché, si vede l'immagine finale del conduttore che in
dissolvenza lascia il posto ad una familiare sigla. L'importanza di questa sintassi non sta solo nella
sua familiarità, ma anche nella rilevanza assegnata alla figura della persona che apre e chiude la
trasmissione e introduce i vari servizi. Con questo sistema l'anchor-persondiventa colui che
conferisce credibilità ai servizi, stabilendo in de finitiva ciò che va considerato meritevole di
citazione.
In flessione. Oltre a coinvolgere vista e udito, la sintassi televisiva si arricchisce di una gran varietà
di tecniche di in flessione, che per i nostri scopi possiamo dividere in accenti, o tecniche di
enfatizzazione, e aspetti del ritmo e del tempo.
Prendiamo le tecniche di accentazione: ad esempio, la sigla iniziale di un programma televisivo è
una mini-esposizione, della durata di un minuto, su ciò che ci attende per forma e contenuto
dell'intero programma. I temi musicali, la gra fica dei titoli, gli effetti ottici stabiliscono il genere di
spettacolo e funzionano come simboli di identi ficazione per il programma stesso. Nell'istante in cui
un titolo compare sul teleschermo, un tema musicale sottolinea l'identità del programma: ascoltando
il tema si può visualizzare il titolo e viceversa. Come un jingle , molti spettatori ricordano il tema
distintivo del loro programma preferito anche molto tempo dopo che questo è stato tolto dalla
programmazione. E come cartelli indicatori veri e propri, queste tecniche ricordano ai telespettatori
un nugolo di sensazioni associate al programma.
Vocabolario. L'ultima componente della grammatica televisiva è rappresentata dal vocabolario
usato in TV. Dal momento che occorre compiacere un pubblico di massa, non sorprende che la
televisione richieda un vocabolario comprensibile dal più ampio numero di persone possibile;
comunque, la scelta delle parole non è regolata su un livello di comprensione troppo basso. Il
vocabolario televisivo deve muoversi in un raggio accettabile alla classe media, poiché le norme e i
valori della classe media rappresentano l'idealizzazione della società americana. In altri termini il
vocabolario deve essere compreso facilmente, ma non deve offendere il livello culturale
dell'americano medio. D'altra parte il vocabolario non deve neanche essere troppo so fisticato,
perché diventerebbe una criticabile manifestazione di vanità (...).Se esaminiamo il vocabolario di
molti programmi televisivi, risulta evidente che a livello di termini usati, esistono scarse variazioni
se si tratta di notiziari, avvenimenti sportivi o spettacoli in "prime time". Nel descrivere i caratteri
linguistici del linguaggio radiofonico, Erving Goffman (1981) notava che gli ascoltatori si
attendono un modo di parlare fresco e spontaneo; ed è ragionevole supporre che tali criteri valgano
anche per la televisione. La freschezza e la spontaneità si ottengono in TV emulando la
conversazione tipica, precisa e lineare, della classe media. In questo caso l'intento di chi parla è
quello di essere chiari, con fidenziali ed egualitari, evitando di risultare contorti, formali o di avere
un tono di superiorità.
Nella conversazione quotidiana e in quella televisiva le parole devono scorrere facilmente, offrire
subito il senso della frase, e non devono creare complessi di inferiorità in chi ascolta. Inoltre, è
regola generale di buon senso, nella scelta del vocabolario televisivo, evitare di distrarre in qualche
modo l'attenzione delle persone dalle immagini dello schermo. Gli spettatori devono vedere
soprattutto "azione" e devono essere capaci di interpretarla in un attimo, senza l'intoppo del dialogo.
Quindi il vocabolario televisivo è descrittivo e attivo, ma senza per questo imporsi ai telespettatori.
La televisione cerca di ritrarre in modo accurato le varie subculture, i caratteri regionali e il modo di
parlare corrente, ma poi si orienta comunque sul telespettatore di ceto medio, piuttosto che sui
membri di quelle subculture o di quelle zone di cui si narra nella storia. Di conseguenza, la parlata
popolare o dialettale può essere usata entro certi limiti, cioè finché i termini restano comprensibili e
accettabili all'interno di una conversazione di un certo livello. Il "dialetto televisivo" è forse uno
degli aspetti più interessanti del potere di questo medium, e ha un notevole effetto sulla
standardizzazione dello stile colloquiale della cultura americana. Annunciatori, cronisti sportivi,
giornalisti e quasi tutti coloro che non presentano una pronuncia dialettale, parlano esattamente allo
stesso modo. Probabilmente i newyorkesi veraci, i neri del ghetto, i meridionali e chi ha qualche
dialetto regionale prendono tutti come punto di riferimento la parlata del Midwest. Riguardo alla
"cultura dei media" va notato che i mezzi di comunicazione di massa hanno stabilito gli standard
della qualità della voce, della dizione e del modo di parlare senza in flessioni dialettali evidenti. Dan
Rather che cura i notiziari della CBS viene dal Texas, ma non lo capireste mai ascoltandolo in TV;
anche lo showman Bryant Gumbel, della NBC, pur essendo nero manca di qualsiasi in flessione
dialettale tipica del ghetto del sud.
Non è che qui si vogliano difendere gli stereotipi razziali, regionali o subculturali, ma si vuole
illustrare il fatto che la grammatica televisiva ha creato una omogeneità idealizzata ed arti ficiale.
Strategie della neo-TV11
Per far vincere i propri canali i programmatori hanno applicato, soprattutto agli inizi della
neotelevisione, alcune vecchie regole piuttosto collaudate, adattate dall’America. Ecco le principali.
1. Giocare sul sicuro. È una televisione che rischia poco, che ha bisogno di molti stereotipi
culturali, perché lo stereotipo consente una più facile identificazione da parte del pubblico:
esso rimanda ad esperienze comuni, condivise, e dunque facilita il consumo. Piuttosto che
inventare una nuova trasmissione, meglio comprare qualcosa che ha già avuto successo in
altri paesi: una serie di telefilm, oppure un “format”, uno schema vuoto di trasmissione da
adattare alla nostra realtà. Può anche non andare bene, ma il rischio di sbagliare è minore.
2. Fare spettacolo. Questo significa che il programma deve intrattenere, nel senso proprio: deve
“trattenere” il pubblico, dirgli “resta con noi”, deve tenersi stretto lo spettatore allontanando
la sua noia, vincendo il desiderio di cambiare canale o di spegnere l’apparecchio. Lo
spettatore deve poter vedere nella TV un naturale prolungamento della propria esperienza
familiare e affettiva. L’intrattenimento, non la cultura o l’informazione, diventa il tono, la
colorazione dominante della televisione; anche la cultura e l’informazione devono assumere
le tonalità dell’intrattenimento. Intrattenimento significa spesso divertimento, ma non
sempre. Può essere anche dramma, eccezionalità, tragedia, ma questi non saranno mai i toni
dominanti.
3. Riflettere i valori medi della società. Un’emittente deve esprimere nel complesso della
sua programmazione questi valori, anche se può talvolta allontanarsi da loro. Deve
minimizzare le possibili obiezioni (del pubblico, non dei critici televisivi) anche quando
presenta situazioni scabrose, o violente. Se il pubblico non sente come condivisibile la
programmazione, si può spezzare la familiarità su cui è costruita la complicità tra
programma e telespettatori. E il principio del LOP (“Least objectionable program”, il
programma che suscita minori obiezioni): cercare di realizzare trasmissioni in cui la
miscela dei buoni sentimenti sia sempre prevalente, considerando le saltuarie
trasgressioni un rischio calcolato, e confinare tutto ciò che e contrario al comune sentire
in spazi e orari meno frequentati, circondandolo comunque di cautele, avvertenze,
attestazioni di eccezionalità.
4. Riconoscibilità. Un’emittente deve essere sempre identificabile, riconoscibile, composta
difatti (immagini e suoni) e di persone (volti, sorrisi, parole) conosciuti dal pubblico,
familiari. Lo spettatore deve poter riconoscere subito una situazione, la scenografia di una
trasmissione, o meglio ancora un volto noto: il protagonista di una serie, il conduttore di un
programma, il giornalista del telegiornale. I programmi più difficili vanno agganciati a
programmi più forti (traino). Meglio se un personaggio noto annuncia il programma che ci
sarà fra poco: un testimone noto e affidabile che garantisca con la sua popolarità e il suo
successo che l’investimento di tempo che lo spettatore farà sia ricompensato. Ciascuno di
questi volti conosciuti deve essere contemporaneamente “uno di noi” e il portatore di
“qualcosa in più”. Mentre il divismo cinematografico è fatto di eroi e di bellissime,
irraggiungibili sul grande schermo, in televisione incontriamo decine di personaggi che
potrebbero essere l’amministratore del nostro condominio o il direttore della scuola
elementare, una vicina di casa o l’istruttrice della palestra.
5. Giocare sugli errori degli altri. Non si corre da soli, ma in competizione con le altre
emittenti. Bisogna sfruttare i loro punti deboli, contrapporre ai loro programmi forti prodotti
11 Il paragrafo è tratto da E. Menduni, I linguaggi della radio e della televisione, Bari, Laterza, 2002.
che possano sottrarre pubblico e abbassare il risultato altrui. Anche gli orari sono
importanti: possibilmente bisogna cominciare qualche minuto prima di un altro programma
concorrente. Il complesso di queste strategie di attacco e contrattacco (fondate sull’attento
studio dei palinsesti altrui) si chiama, significativamente, controprogrammazione.
6. Tutelare il prime time. Il prime time è la fascia oraria dalle 20,30 alle 22,30, la più pregiata,
non solo in termini di pubblico e di pubblicità, ma di immagine complessiva dell’emittente e
di fidelizzazione. Qui non ci si può permettere assolutamente di sbagliare, di compiere
scelte azzardate, di lesinare gli investi- menti, di compiere cambiamenti bruschi. Conviene
concentrare su questa fascia il massimo di attenzione, di risorse e di sforzo realizzativo,
collocando in altre fasce minori programmi controversi, difficili, diretti a nicchie di
spettatori. In queste fasce meno pregiate possono trovar posto anche “programmi civetta”;
costruiti non tanto per i loro risultati di ascolto, ma perché siano graditi ad alcune categorie
di leader d’opinione di cui l’emittente ha bisogno: i politici, i giornalisti della carta
stampata, gli intellettuali tradi- zionali. Realizzare un programma sui libri in seconda serata,
per esempio, significa essere graditi al mondo della cultura letteraria e saggistica (almeno
alle case editrici e agli autori recensiti) e togliere un argomento a quei politici e giornalisti
che continuano a sostenere che “la TV non fa quello che dovrebbe fare per la diffusione
della cultura”. Insomma un’operazione di pubbliche relazioni.
Queste strategie sono state proprie anche delle emittenti pubbliche. Molti dei loro dirigenti
temevano che, se l’ascolto fosse sceso sotto un livello di guardia, la gente si sarebbe chiesta perché
mai dovesse pagare un canone di abbonamento, o una tassa, per usufruire di un servizio che altri
svolgevano gratuitamente. Ciò vale a maggior ragione per l’Italia, in cui la pubblicità incide in
misura crescente sul bilancio RAI (nel 2000 le entrate pubblicitarie hanno raggiunto il 50% dei
ricavi). Sarebbe stato però un errore anche allinearsi in tutto alla televisione commerciale, perché la
gente si sarebbe allora domandata che differenza ci fosse tra il servizio pubblico e la TV privata. Le
televisioni di servizio pubblico cercarono allora un percorso intermedio tra la perdita del pubblico
di massa e l’omologazione alle televisioni commerciali. Di qui la costante ricerca di un registro
culturalmente più elevato e di uno stile più composto, il maggior spazio a trasmissioni italiane e
autoprodotte, l’insistenza nel distinguere (non sempre in modo persuasivo) la televisione pubblica
per natura e qualità. Insomma la TV pubblica non può perdere i propri tratti distintivi per fare
ascolto, ma ha comunque bisogno di buoni risultati.
Tre ondate. Questa forma di televisione ha ormai venticinque anni e quindi ha avuto, al suo interno,
una profonda evoluzione. Noi distingueremo tre ondate successive, o meglio una progressiva
stratificazione di tipologie di programmi, che parzialmente sostituiscono le precedenti ma
soprattutto li riposizionano.
1. Nella prima fase la neotelevisione è fortemente consociativa, forse anche in coincidenza con la
situazione culturale e politica del tempo segnata dai governi di “unità nazionale” e dal miraggio,
mai realizzato, del “compromesso storico”. Si cercano trasmissioni concepite per interessare quasi
tutti e non dispiacere a nessuno e il primo metagenere che questa ricerca assume è il “contenitore”
come dice la parola, una scatola, un involucro duttile che può durare molto a lungo (un intero
pomeriggio) che si presta a farsi riempire con frammenti dei più vari generi mediati e organizzati da
un conduttore. L’antesignano dei contenitori è considerato Domenica in della RAI (1976). Il talk
show è invece una forma di intrattenimento parlato, un salotto televisivo popolato di ospiti di
estrazione e tonalità variabile, animato da un condut-tore e fondato sulla conversazione intorno a
vari argomenti, sia pubblici che privati, generalmente mescolati insieme. Spesso siedono l’uno
accanto all’altro divi e gente comune. Il capostipite è Bontà loro, di e con Maurizio Costanzo,
sempre nel 1976 sulla RAI. In questa prima fase comincia la penetrazione della fiction seriale USA
e latinoamericana per i suoi bassi costi e per la grande abbondanza dell’offerta. Soprattutto nelle
pìccole TV, l’aspetto commerciale della neotelevisione si rivela con chiarezza, producendo
un’ampia gamma di aste televisive, televendite, telepromozioni e facendo emergere personaggi del
tutto nuovi come imbonitori, maghi, donne fatali, venditrici di creme e unguenti, battitori d’asta.
2. Una successiva fase si colloca negli anni Ottanta. La neotelevisione ha ormai stabilito un
rapporto diretto con il pubblico, costruito su due elementi: da un lato c’è il successo popolare dei
conduttori di talk show e contenitori; dall’altro l’offerta larghissima di fiction gratuita, quasi
esclusivamente importata, fatta non solo di prodotti seriali ma di una grande quantità di film pensati
per il grande schermo e dunque contraddistinti da forme e intenzioni comunicative molto diverse da
quelle televisive. La TV saccheggia i magazzini del cinema non soltanto per la loro ampiez-za e
disponibilità, ma per accreditarsi e incorporarne la funzione sociale. Nel 1989 si contano in media
100 passaggi televisivi di film al giorno; tra il 1980 e il 1992 il cinema perde in Italia il 65% dei
biglietti e il 58% delle sale. L’intrattenimento ha ormai una piena legittimità televisiva, e la TV si
afferma come la principale raccontatrice di storie (storyteller) del tempo. I generi televisivi hanno
ormai ammorbidito i loro reciproci confini, e tutti si lasciano contaminare dall’in- trattenimento. Lo
spettacolo tende ad essere la forma attraverso cui passano tutte le altre rappresentazioni, senza la
quale non c’è apprezzabile significazione. Nascono così lo sportainment, l’intrattenimento
sportivo, e l’edutainment (education + entertainment), la forma aggiornata delle rubriche culturali;
ma il genere più rilevante è l’infotainment, l’informazione spettacolarizzata, con una forte
connotazione politica. I conduttori sono mediatori fra una piazza elettronica e un mondo politico
che si affida ad una dimensione spettacolare della sua presenza.
3. La terza fase inizia alla fine degli anni Ottanta quando vanno in corto circuito le ultime
distinzioni tra fiction e non fiction. Si cercano tinte forti e contenuti più pepati perché una certa
usura ha logorato la conversazione del talk show e del contenitore. La televisione ora è ansiosa di
mettere in scena la verità, o la realtà, anche con scivolate nel melodramma, applicando le stesse
modalità narrative che ha applicato alla fiction. Naturalmente l’occhio della telecamera e il
montaggio sono sempre soggettivi, e quindi né la “verità” né più modestamente la “realtà” sono
accessibili alle telecamere, tuttavia la TV si dedica intensamente a mandare in onda aule giudiziarie,
ospedali, casi umani, liti e risse, tradimenti, incidenti stradali e
disastri vari (il reality show). Quando ormai tutto è stato visto e consumato, si cercano sensazioni
sempre più forti rappresentando eventi sempre più strani,
drammatici, sgradevoli; oppure si mette in scena la vita intima di persone qualunque, assimilabili
agli spettatori stessi, n coincidenza con quanto avviene in
Internet attraverso le webcam. Forse questa è già una quarta fase. La televisione oggi si presenta
come sovrapposizione e intreccio di questi tre modelli di neotelevisione e dei loro ibridi e
replicanti, ed è sempre più aperta a strategie individuali di fruizione. Gli stessi formati dei
programmi ci dimostrano come il rapporto del pubblico con la TV si sia modificato. Se il salotto del
talk show appariva come un prolungamento naturale della stanza in cui vedevamo la televisione,
adesso è il nostro salotto ad essere annesso alla casa del grande fratello.
La tv della realtà. Caratteristica fondante della televisione alla fine degli anni Ottanta diventa la
messa in scena dell'esperienza privata che confluisce in quel genere definito TV realtà o TV verità.
In pratica si spettacolarizzano i momenti di vita vissuta, lo spazio privato diventa attraverso la
televisione di pubblico dominio. Le formule sono le più diverse: il dating show (M'ama non m'ama,
in onda su Rete4 dal 1983 oppure Il gioco delle coppie, trasmesso su Italia1 dal 1985) in cui si cerca
di creare legami sentimentali tra i concorrenti; programmi che mettono in scena la ricerca
dell'anima gemella (Agenzia matrimoniale, Canale5 da 1989), le liti matrimoniali (C'eravamo tanto
amati, su Rete4 dal 1989) ecc. Questo modo di intendere la televisione diventa la cifra stilistica
dominante di Raitre sotto la direzione di Angelo Guglielmi: delitti irrisolti, drammi delle persone
comuni, problemi di varia natura Io confesso, Telefono Giallo, Un giorno in pretura, Chi l'ha
visto?, I racconti del 113, Mi manda Lubrano. Questo tipo di televisione nonostante sia definita
real TV applica a questi momenti di vita quotidiana i meccanismi comunicativi e narrativi impiegati
di norma nei programmi di intrattenimento e nella fiction televisiva. Nella parole di Menduni (p.
170)
“L'impatto della TV verità sul modo di fare televisione è stato comunque profondo e ha generato un
complesso di programmi investigativo-drammatici, di testimonianze, processi e confessioni su tutte
le reti televisive, spesso perdendo di vista l'equilibrio e sconfinando in una TV dell'eccesso,
esagerata e barocca, fondata sulla strumentalizzazione di situazioni dolorose e conflittuali, su litigi e
risse, sull'esibizione di situazioni limite e di immagini choc (il tossico che si droga in diretta, il
filmato dell'esecuzione capitale) a cui è stato dato il nome di TV-spazzatura (trash TV). Giuliano
Ferrara, allora conduttore televisivo (Linea rovente, Il testimone, Radio Londra), si fa fotografare
da un settimanale in abiti da scena in mezzo a sacchi di spazzatura di una discarica (vogliamo
sperare simulata), testimoniando con la consueta franchezza quello che Marta Marzotto (1986)
chiamò «il successo dell'eccesso».