TELEVISIONE: ASPETTI COMUNICATIVI Linguaggi, forme, strategie editoriali Unità didattica Giovanni Ganino 1. La televisione italiana in regime di monopolio Il 3 gennaio del 1954 in ritardo rispetto ad altri Paesi prendono avvio in Italia le trasmissioni televisive regolari, alle 11 del mattino dalla sede RAI di Milano Fulvia Colombo annuncia i primi programmi: discorsi uf ficiali fino alle 14.30, la trasmissione Arrivi e partenze in cui Mike Bongiorno presenta personaggi in transito per Roma, il programma musicale L'orchestra delle quindici, lo sport con Pomeriggio sportivo, un film di Mario Soldati (Le miserie del signor Travet, 1946), trasmissioni culturali su arte (L'avventura dell'arte) e prosa (L'osteria della posta di Carlo Goldoni). La giornata si conclude con La domenica sportiva. In realtà la storia della radiotelevisione italiana inizia il 30 giugno del 1910 con l'approvazione della legge n.395 che riservava al Governo il controllo degli impianti radiotelegra fici e radiotelefonici e, in generale, tutti quelli per i quali nello Stato e nelle colonie dipendenti si impiegava energia allo scopo di ottenere effetti a distanza, senza l'uso di conduttori (Cfr. Morcellini, p. 10). Tra queste due date una serie di avvenimenti centrali per la nascita della televisione: il 27 agosto 1924 nasce, grazie all'interessamento di Costanzo Ciano, ministro delle Comunicazioni, l'URI (Unione Radiofonica Italiana), la prima società concessionaria della radiodiffusione; il 28 febbraio 1929 iniziano a Roma e Milano esperimenti di trasmissione delle immagini utilizzando il disco di Nipkow; l'8 ottobre 1933 sempre a Milano, alla V Mostra Nazionale della Radio, vengono presentati i primi esperimenti di televisione; nel 1939 la stessa cosa avviene a Roma con tecnologie più evolute; il 26 ottobre 1944 a seguito della caduta del fascismo, la denominazione dell'Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR) viene mutato in Radio Audizioni Italia (RAI); il 10 aprile 1947 i delegati di 60 paesi presenti alla Conferenza mondiale delle radiocomunicazioni di Atlantic City decidono di chiamare "televisione", e in sigla TV, la trasmissione a distanza delle immagini in movimento; a partire dal 1949 vengono installati i primi trasmettitori televisivi; l'11 settembre 1949, in occasione della I Esposizione Internazionale della Televisione di Milano hanno inizio le trasmissioni sperimentali da Torino e da Milano; il 19 novembre 1953 si stabilisce la disciplina dei canoni di abbonamento per la televisione. La programmazione delle origini. La rete televisiva serve, nel momento in cui si comincia a trasmettere in modo regolare, un'area occupata da circa il 43% della popolazione (area settentrionale); nel corso dei due anni successivi la rete viene estesa a quasi tutto il territorio nazionale. Il numero degli abbonamenti televisivi è esiguo, sono 88.118 nel 1954, 1.096.185 nel 1958, poco superiori ai 4 milioni nel 19631. La Radiotelevisione Italiana (RAI) ai suoi esordi trasmette per circa 4 ore al giorno, gli abbonati sono appena 24.000 e soltanto lo 0,7% della popolazione può permettersi l'acquisto di un apparecchio televisivo visto il costo proibitivo (circa 250.000 lire). Il canone di abbonamento costava, nel 1954, 12.500 lire. In Italia la televisione nasce come servizio pubblico e opera in condizioni di monopolio fino 1Fonte: RAI, Annuario, ad annum, in Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., p. 292. all'avvento delle televisioni commerciali avvenuto a metà degli anni Settanta. Nei giorni feriali le trasmissioni iniziavano alle 17.30 con la "Tv dei ragazzi" che durava circa un'ora e mezza, si riprendeva alle 20.45 con il Telegiornale, si proseguiva con "Ribalta accesa", i programmi della serata dedicati ad un pubblico adulto, alle 23.00 la replica del telegiornale chiudeva le trasmissioni. Domenica si iniziava alle 11.00 con programmi di natura religiosa e si proseguiva gran parte del pomeriggio, la sera veniva sospeso il telegiornale. Nel 1957 viene inaugurata la fascia dei programmi pre-serali, denominata "Ritorno a casa" che si apre con la prima edizione del Telegiornale e prosegue con programmi divulgativi, informativi, di musica classica e più raramente di film e tele film. La crescita di ore di trasmissione aumenta costantemente fino ad arrivare nel 1962, anno in cui nasce il Secondo Canale, a circa 12 ore. "Da quel momento in poi il potenziamento delle ore di trasmissione procederà molto lentamente: per superare le 13 ore al giorno bisognerà aspettare il 1968".2 Considerato l'enorme seguito che la televisione comincia ad avere, aumenta l'interesse nei confronti del mezzo televisivo da parte dei partiti politici: è così che, secondo F. Chiarenza, "la Democrazia Cristiana, spinta dal mondo cattolico, si impadroniva delle leve di comando della società concessionaria per avviare con decisione una programmazione televisiva secondo un modello integralista".3 Fruizione collettiva. Nei primi anni di vita della televisione, nonostante il numero limitato di abbonati, il pubblico televisivo è numerosissimo, coloro i quali non posseggono ancora il televisore affollano le case dei loro vicini più fortunati oppure i ritrovi pubblici: nel 1960 il 21% degli spettatori televisivi guarda la TV in casa di amici, il 33% nei locali pubblici. La fruizione televisiva in Italia diviene così una fruizione collettiva. “In Italia il possesso di un apparecchio televisivo esorbita dai con fini di una sola famiglia; è proprietà e uso estendibile non tanto ai parenti e agli amici quanto agli inquilini del piano di sopra e di sotto fino a coinvolgere l'intero caseggiato; nelle sere estive in quei grandi palazzoni multiformi di periferia che allevano balconcini e terrazze in ordinata monotonia è facile accorgersi dell'importanza sociale che viene ad assumere il possesso di un televisore. Per così dire le famiglie fortunate tengono corte bandita; le loro terrazze, i loro balconi formicolano di gente, bambini, vecchi, adulti, ragazzi assiepati dinanzi al piccolo schermo che lampeggia gaio e tentatore per i meschini che spiano da lontano nell'oscurità notturna. Sopra e sotto invece i balconi e le terrazze rimangono deserti. Ma è nei bar, nei caffè dove si misura in tutta la sua intensità il potere fascinatore della televisione. Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne accorgono. Famiglie intere che prima erano solite trascorrere le serate in casa ora escono all'aperto: si stipano nei bar, nei caffè all'angolo delle strade che possiedono il televisore. I locali si trasformano in piccoli cinema, in teatrini di varietà di prosa con le sedie disposte alla buona intorno all'apparecchio e i tavoli per le consumazioni, necessarie come il biglietto d'ingresso, relegati a lato” (Dallamano in Sorice, pp. 45-46). La televisione risistema in questo modo spazi pubblici e privati e ride finisce nuovi percorsi di socializzazione all'interno di un'unica grande comunità che si ritrova difronte alle immagini e ai suoni proposti dal terminale video. Funzione educativa e pedagogica della televisione. Nella guida del suo primo direttore, Filiberto Guala, era già chiara la concezione pedagogica che ne determinerà la linea editoriale: l’intento era creare una televisione che avesse la funzione di educatore morale, in linea con i principi di un Paese ancora provinciale e distante da una società del benessere (Monteleone, 1999, pp. 287-290). Lo sviluppo della televisione è anche condizionato dalla situazione economica e culturale italiana: l'Italia di allora vive sostanzialmente di agricoltura, le industrie sono concentrate nelle regioni del nord-ovest, il reddito pro capite è molto basso, soltanto il 25% della popolazione parla in modo corretto l'italiano e la percentuale degli analfabeti è altissima. 4 In questo contesto una delle funzioni 2Mario Morcellini, La televisione in Italia, cit. , 1995, p. 32. 3F. Chiarenza, Il cavallo morente, Milano, Bompiani, 1978, p.68. 4 Situazione scolastica italiana. "Nel 1960, gli analfabeti in Italia erano ancora oltre due milioni, il 4% circa della popolazione; una piaga che, seppure ridotta di circa due terzi rispetto a dieci anni prima, rimaneva comunque grave soprattutto nelle regioni del Sud. Un contributo significativo alla lotta contro l’analfabetismo c’era stato a partire dal 1947 con l’approvazione della legge che istituiva le scuole popolari, dove giovani e adulti avevano la possibilità di frequentare corsi sia per la prima alfabetizzazione che per il secondo ciclo della scuola elementare. Organizzati nelle fabbriche, nelle caserme, negli edifici scolastici in orari serali, questi corsi della scuola popolare furono la prima risposta dello Stato per fronteggiare l’emergenza analfabetismo negli anni della ricostruzione post-bellica. Molti insegnanti erano stati mobilitati per condurre un lavoro tutt’altro che semplice teso a individuare i soggetti analfabeti e a coinvolgerli in un percorso di istruzione niente affatto scontato, soprattutto perché si trattava di adulti che non si mostravano disponibili a “tornare a scuola”. Una figura di primo piano nell'impegno progettuale per la lotta all’analfabetismo fu quella di Nazareno Padellaro, allora direttore generale del Servizio per l’Istruzione Popolare del principali della Rai, come afferma Mario Morcellini (1995, p. 13), è quella di creare un linguaggio comune: “Nell'impresa in cui - per ragioni storiche, geografiche e culturali - non erano riuscite stampa e radio, ma soprattutto in cui aveva sostanzialmente fallito la scuola, si cimenta ora la televisione”. Tullio De Mauro de finisce sconvolgenti gli effetti della televisione sulla struttura linguistica della lingua italiana, dalla fonetica alla pronuncia, al lessico, alla sintassi. A Roma la comunicazione dialettale viene rapidamente sostituita da un italiano standard romaneggiante (De Mauro, 1968). Di certo non è stata la sola televisione ad insegnare l'italiano, nello stesso periodo le infrastrutture scolastiche aumentano considerevolmente, si costituisce la scuola media unica, viene elevato l'obbligo scolastico, ma il suo contributo è stato importante nell'aiutare gli italiani ad acquisire familiarità con la lingua comune. Del resto dopo cent'anni di scuole elementari del Regno e della Repubblica i dialetti erano la forma linguistica prevalente in tutta la penisola e l'italiano rimaneva una lingua letteraria. In appena dieci anni, dal 1955 al 1965, il nuovo mezzo di comunicazione di massa opera senza alcuno sforzo l'uni ficazione linguistica dell'Italia. L'italiano basic diviene la lingua di scambio in tutto il paese e si afferma nelle scuole attraverso la mediazione dello schermo televisivo, il cavallo di Troia che ha portato in ogni casa questa forma espressiva prima non utilizzata e ha costretto tutti i membri della famiglia a qualche ora al giorno di attenzione ad essa (Valzania, 2007, p. 17). Alla televisione di Stato viene quindi attribuita una funzione educativa sul modello del paradigma informare, educare, intrattenere che John Reith aveva elaborato come mission della BBC inglese: i programmi trasmessi dalla paleo-televisione venivano ideati in chiave pedagogica al fine di unificare e rendere omogenea la diversità di pubblici per cultura, lingua e provenienza sociale (Livolsi, 1998). La programmazione televisiva per tutti gli anni Cinquanta ha enfatizzato la componente educativa a scapito dell'informazione e dell'intrattenimento anche se il telespettatore preferiva le trasmissioni più leggere (Sorice, 2002, p. 41). Come risulta dalla ricerca svolta nel 1959 da Lidia De Rita (1964) sui rapporti tra televisione e contadini, questi guardavano più volentieri i programmi di intrattenimento, giudicati anche istruttivi. Un genere molto in voga nella prima televisione è il Quiz: “Il quiz risponde perfettamente alla necessità ideologica che sta dietro il progetto culturale di televisione che i dirigenti Rai di quegli anni hanno elaborato: il quiz, cioè, risponde in maniera spettacolare e “divertente” a una funzione sociale, quale era l'acculturazione di massa o, almeno, la presa di coscienza collettiva della sua necessità storica. Il quiz, detto in altri termini, non contribuì (non solo) direttamente alla crescita “culturale” del paese attraverso i suoi contenuti (spesso, già allora, decisamente inidonei o troppo nozionistici) ma fornì all’immaginario collettivo una sorta di agenda: l’istruzione, agli occhi degli italiani, divenne importante, una conquista sociale che tutti dovevano raggiungere” (Sorice, pp. 4041). Nel 1956 Marcello Rodinò di Miglione subentra a Filiberto Guala alla guida dell’amministrazione Rai e conferisce un carattere innovativo alla programmazione: sono gli anni della nascita della pubblicità, de La tv dei ragazzi e delle prime sperimentazioni di didattica a distanza funzionali a dimostrare l'utilità sociale della televisione. Nel suo ruolo di divulgazione culturale la TV italiana (nel periodo in cui opera in regime di monopolio, fino cioè al 1976 anno in cui la Corte Costituzionale apre la strada all'emittenza privata) instaura un rapporto paternalistico e pedagogico con lo spettatore attraverso la suddivisione in generi dei programmi che compongono il palinsesto televisivo. I programmi della televisione Ministero della Pubblica Istruzione; egli aveva capito che quei due milioni di analfabeti costituivano una sorta di blocco “analfabeto-resistente”, come li definì, nei confronti dei quali ogni iniziativa di riportarli a scuola, nel senso tradizionale del termine, era destinata a fallire. Padellaro fece la proposta di usare la televisione, convinto che l’interesse che si andava diffondendo per il nuovo mezzo e la realizzazione di un programma specifico per adulti analfabeti potesse rappresentare una sorta di “cavallo di Troia” della didattica per portare molti di questi soggetti a vincere le loro ultime resistenze verso una prima istruzione di base" (Farné, 2003, pp. 38-39). pubblica (anche in considerazione del fatto che si avvale di un finanziamento attraverso un canone di abbonamento pagato dai possessori di televisori) devono rivolgersi all'intera popolazione, rispettando le minoranze linguistiche, politiche e religiose. “La “dimensione morale” è una delle preoccupazioni dominanti nei dirigenti della Rai e nei politici che si occupano della tv. Una preoccupazione, si badi, non solo degli uomini della Democrazia Cristiana – che a vario titolo controllano di fatto l'ente radiotelevisivo pubblico - ma condivisa, per altre ragioni, anche dai dirigenti del Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti. Gli anni Cinquanta, infatti, sono quelli in cui si sviluppa anche in Italia una moderna “cultura del consumo”. In realtà in quegli anni l'ammontare dei consumi alimentari ed extra-alimentari della famiglia media italiana non si discosta molto dal livello di pura sussistenza; nel corso della ricostruzione i consumi, che pure si sviluppano notevolmente rispetto agli anni immediatamente precedenti, restano ancorati ai livelli di un'economia essenzialmente agricola orientata verso l'”autoconsumo”, lo “spirito di sacrificio” e l'”etica del risparmio” (Ragone 1985; Codeluppi 1992). Quest'ultimo aspetto, in particolare, è tipico di un paese in cui, come rilevava Giampaolo Fabris, le due subculture dominanti, quella marxista e quella cattolica, spingevano per un way of life essenziale. La limitatezza dei consumi dipendeva non solo dal basso livello di reddito degli italiani ma anche dall’assenza di modelli di riferimento capaci di liberare il comportamento di consumo dai suoi vincoli tradizionali. La televisione giunge a spezzare tali vincoli, anche se non in maniera immediatamente dirompente come si può oggi immaginare” (Sorice, p. 30-31). Rapporto tra televisione e altri media. La televisione delle origini, prima di sviluppare un suo linguaggio autonomo, intrattiene relazioni con forme di comunicazioni più mature: il rapporto tra i primi programmi TV con il teatro, la radio, il cinema è evidente; da un punto di vista tecnologico aziendale la tv nasce all'interno degli apparati industriali (di produzione e distribuzione) propri della radio. I programmi musicali televisivi risultano adattamenti di formule sviluppate dalla radio. Il Festival di Sanremo ad esempio, trasmesso per la prima volta alla radio a gennaio del 1951, approda nel 55 in televisione (in eurovisione) e diventa subito un evento mediatico di grande importanza sociale (Cfr. Sorice, p. 38); lo stesso accade con Canzonissima, trasmesso in radio nel 56, nel 57 approda in Tv (Cfr. Sorice, p. 39). Esempio di contaminazione evidente è quello della soap opera nata in radio negli USA alla fine degli anni ‘30: il genere ha continuato a proporre le sue storie e i suoi personaggi in tv dimostrando la permeabilità dei due mezzi (vedi il caso di The Guiding Light, intitolata in Italia Sentieri in onda su canale 5 dal 1982). Ancora più significativo è il caso del telegiornale che riprende alcuni schemi di derivazione radiofonica (il giornale radiofonico), cinematografica (il cinegiornale Luce) e della carta stampata (il quotidiano). Il 10 settembre 1952 alle ore 21.00 debutta il primo telegiornale sperimentale italiano, diretto da Vittorio Veltroni. Riccardo Paladini, bella voce e dizione perfetta, è il primo lettore del Telegiornale. Non un giornalista agli inizi, ma uno speaker scelto per l’ottima dizione. Agli inizi le notizie erano lette in un ambiente che doveva ricordare uno studiolo di casa, scrivania, telefono, sullo sfondo una libreria, in seguito appare alle spalle del conduttore la cartina geografica del mondo. Il conduttorespeaker è pura essenza di voce. Nessuna inflessioni dialettale, nessun filo di retorica o di ironia nelle sue parole. Lo speaker viene inquadrato in modo che il tronco sia tagliato ad altezza torace … questa inquadratura non consente alcuna inserzione dell’immagine che sia estranea alla pura lettura … se accade un incidente tecnico lui resta impassibile come la stessa immagine … legge un testo redatto parola per parola lanciando solo per pochi istanti lo sguardo verso ipotetici telespettatori … non gli sono consentite espressioni facciali che possano andare al di là di un fugace sorriso … non può tossire o starnutire … insomma non può commettere errori (Sergio Saviane, 1972, L’espresso). Gli speaker seguivano anni di corsi di dizione e fonetica presso le sedi Rai di Bologna. Ne risultava un soggetto più attore che giornalista, che spesso proveniva dal settore del doppiaggio. Un po’ come avveniva ascoltando i radiogiornali del periodo fascista, dove lo speaker veniva scelto solo per il suo timbro di voce virile e severo, l’emittente mantiene la scelta per il timbro che dovrà essere questa volta non più virile ma, sicuro, oggettivo, asettico, rassicurante. Queste diverranno tutte le caratteristiche primarie richieste al primo mezzobusto. Lo scrittore Achille Campanile definisce Paladini come “l’antisorriso, l’unico uomo che non ha mai sorriso in Rai”. I servizi giornalistici sono realizzati in pellicola fino alla nascita del montaggio elettronico, pertanto tra il momento della ripresa e la messa in onda poteva trascorrere un arco temporale di diversi giorni. Poteva accadere che le notizie trasmesse erano già vecchie oppure che erano avvenuti dei cambiamenti che costringevano il conduttore a commentare in maniera estremamente generica i filmati. Tutte queste difficoltà rendono i notiziari dell’epoca vecchi proprio come i cinegiornali distribuiti nelle sale cinematografiche. L'assenza di servizi realmente televisivi e la centralità del commento parlato avvicina il telegiornale alle modalità comunicative utilizzate dalla carta stampata. Ancora oggi molti giornalisti televisivi provengono dal giornalismo scritto e non sfruttano in pieno il linguaggio delle immagini nei loro servizi. Un altro media con il quale la televisione si è dovuta confrontare è stato il cinema, con il quale condivide il linguaggio espressivo, cioè il mix di immagini e suoni. Oltre ad ospitare pellicole cinematografiche, la tv italiana degli anni ‘50 inizia a elaborare delle forme di racconto (gli embrioni di quella che sarebbe chiamata fiction) prendendo a prestito alcuni elementi del linguaggio cinematografico, ma ponendoli al servizio di testi teatrali o letterari. Il teatro è una delle forme di spettacolo che più ha influenzato la televisione italiana delle origini: da quello di prosa, che fin dall’inizio della programmazione della RAI viene ripreso e diffuso direttamente dai teatri o dagli studi tv, a quello di varietà e avanspettacolo, che invece influenzerà pesantemente lo sviluppo dell’intrattenimento tv in termini di modelli spettacolari. La comparsa della pubblicità televisiva. Nel 1957, alle 20.50 del 2 febbraio, viene introdotta la pubblicità televisiva con Carosello. Ogni telecomunicato (ne vengono trasmessi 4 ogni sera fino al 1960 anno in cui vengono aumentati a 5) durava circa 135 secondi, un tempo immenso paragonato alla durata degli spot di oggi, ed era strutturato in due parti: la prima (circa 105") era composta da una breve scena durante la quale non veniva citato il prodotto, la seconda (codino da 30") era dedicata al messaggio pubblicitario vero e proprio. Nel 1973 i caroselli durano 125 secondi con 30" dedicati al messaggio pubblicitario, nel 1974 la durata si abbassa a 100" e il codino rimane invariato. Gli short pubblicitari erano divisi tra loro da sipari rappresentanti alcuni tra i monumenti più importanti d'Italia realizzati dalla matita di Artioli. I Caroselli che saranno trasmessi fino al 1° gennaio del '77 hanno dato origine a personaggi inventati (l'ippopotamo della Lines, Caballero e Carmencita della Lavazza, Calimero della Lanza detersivi ecc.) diventati ben presto famosissimi tra il pubblico giovane e meno giovane. I cortometraggi presentati all'interno di Carosello erano a tutti gli effetti dei piccoli film, non a caso Carosello, come ricorda Franco Monteleone, "deve essere ricordato come compendio di storia dello spettacolo e del cinema italiano". Il programma pubblicitario coinvolge le firme di sceneggiatori e registi famosi e l'interpretazione di attori noti al pubblico delle sale cinematografiche: "L'ispettore Rock, la cui infallibilità professionale era stroncata dall'ammissione 'anch'io ho commesso un errore, non ho mai usato la brillantina Linetti', era stato inventato dalla penna di Furio Scarpelli e di Luigi Magni. Citto Maselli, regista impegnato, girò la prima serie di 'Chiamami Peroni, sarò la tua birra', i fratelli Taviani si sperimentarono con la Plasmon, la Gancia, lo Chatillon. C'era anche Totò che reclamizzava la Star, Eduardo de Filippo la Icarion, Paolo Villaggio, Nino Manfredi, Corrado ecc. La pubblicità arrivava alla fine, come la firma del regista. Il prodotto e l'azienda che lo realizzava potevano piacere non tanto per le loro qualità intrinseche, che spesso non venivano dimostrate, quanto per 'l'intelligenza' di aver saputo scegliere quel personaggio, quella storia, quella battuta".5 Omar Calabrese (1979) ha notato che Carosello ricalcava il modello della fiaba seriale e attraverso una scansione ritmata degli episodi, raccontava ministorie organizzate strutturalmente sulla ripetizione generale dei personaggi e delle 5Walter Veltroni, I programmi che hanno cambiato l'Italia, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 48. situazioni tipo” (Sorice pp. 36-37). Considerato il ruolo educativo-pedagogico attribuito alla Tv italiana diventa "naturale" il controllo, da parte della RAI, sulla sceneggiatura dei comunicati pubblicitari. Come afferma F. Monteleone: "I controlli sulle sceneggiature erano attenti e severi. Molte non venivano ritenute adatte alla realizzazione e ogni regista ricorda piccoli e grandi problemi di censura. C'erano regole fisse per le durate dei messaggi pubblicitari e per il loro inserimento, che obbligavano a scelte precise di struttura nelle storie; ma c'erano anche indicazioni rigorose per tutto quanto riguardava ciò che non poteva essere mostrato in TV: sesso, adulterio, lusso eccessivo, oggetti superflui. A Carosello non comparivano mai ambienti che fossero troppo lontani da quelli conosciuti da una piccola borghesia impiegatizia. La pubblicità non doveva creare troppi desideri né suscitare odio di classe".6 “La pubblicità viene accolta in televisione con ritrosia, quasi con un pizzico di vergogna, come se essa andasse a deturpare con i suoi prodotti “volgari” la programmazione, sempre pedagogica anche nell’intrattenimento, del nuovo mezzo. Carosello risponde efficacemente al bisogno di mediare fra diversi modelli di società che si contrappongono e si affiancano nella dirigenza della Rai” (Sorice, p. 35). “Carosello fu un grande contenitore mediatico e, al tempo stesso, divenne luogo di scambio simbolico e di mediazione tra l’immaginario e il mercato” (Sorice pp. 36-37). Gli anni Sessanta. “La televisione vede negli anni Sessanta l'affermazione della sua centralità nel sistema nazionale dei media, grazie alla diffusione sempre più capillare nelle case degli italiani degli apparecchi di ricezione e allo sviluppo di tecnologie e innovazioni che influenzano in modo determinante anche il linguaggio e il sistema dei generi. Tra le nuove possibilità tecnologiche annoveriamo le trasmissioni via satellite, che permettono la diffusione in contemporanea mondiale di grandi eventi di cronaca e di sport: si creano così le condizioni per trasformare il mezzo televisivo da veicolo di contenuti già codificati in altri ambiti comunicativi (teatro, cinema, radio, stampa) a medium radicalmente nuovo, capace di produrre un senso inedito della realtà, avvicinando nello spazio e nel tempo le popolazioni di tutto il mondo. Nasce così la possibilità di creare quelli che i teorici dei media chiameranno media events, come i campionati mondiali di calcio, le olimpiadi, le incoronazioni di reali, lo sbarco del primo uomo sulla luna, in cui il ruolo della tv diventa sempre più determinante, al punto, in alcuni casi, da vincolare lo svolgimento stesso dell’evento (ricordiamo ad esempio l'adeguamento dell'inizio degli eventi sportivi alla possibilità di essere trasmessi negli orari di maggiore ascolto nei paesi più importanti dal punto di vista del ritorno economico). Un'altra rilevante innovazione tecnica dal forte impatto sul linguaggio televisivo è l'introduzione dei sistemi di registrazione videomagnetica (Ampex), che consentono non solo di registrare ma anche di montare le immagini riprese dalle telecamere. Le ricadute di questa innovazione sul linguaggio televisivo sono evidenti: diventa possibile lavorare sul materiale audiovisivo con modalità simili a quelle del cinema, amplificando le possibilità di intervento date da un montaggio non più da realizzare in diretta. Dal punto di vista dei generi il mezzo televisivo attraverso queste due innovazioni tecnologiche acquisisce sempre maggiore consapevolezza di una sua centralità nel panorama mediatico e inizia a passare da una semplice riproposizione aggiornata di modelli presi altrove alla messa a punto di codici espressivi autonomi” (Grignaffini, pp. 31-32). Rappresentativo di questa tendenza è il varietà Studio Uno in onda nel 1961 sul Canale Nazionale. Studio uno deve il suo successo ai tratti innovativi del linguaggio impiegato. “Abbandonate le scenografie sfarzose o realistiche – che la televisione aveva ereditato dal vaudeville – il regista Antonello Falqui opta per una soluzione apparentemente minimalista ma che, in realtà, esalta le potenzialità della telecamera. Una scenografia fatta di fondali bianchi con gli apparecchi tecnici a vista: il testo televisivo vive della sua autoreferenzialità. I corpi dei protagonisti sulla scena sono esaltati dal contrasto con il bianco dei fondali (la tv, peraltro, trasmette ancora in bianco e nero) e il filo dell’enunciazione è tenuto dal conduttore, che non ha ancora assunto il ruolo che poi avrà nella neotelevisione: simulacro perfetto del broadcaster, luogo di incontro simbolico con il pubblico è Mina. Accanto a lei le gemelle Kessler, il cui jingle – il celebre Dadaunpa – funziona da eccellente marca connotativa del programma, al punto che diverrà negli anni un vero elegante tormentone 6Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit. p. 319. televisivo” (Sorice, p. 59). “Anche la fiction televisiva lentamente, ma inesorabilmente, si svincola dal modello teatrale e pur partendo il più delle volte da testi letterari inizia a proporre storie e personaggi originali, agganciandosi ai modelli della serialità televisiva americana”(Grignaffini, p. 32). “Se nei primi anni l'obiettivo della Rai era quello di allargare al massimo la base di utenti, nel decennio successivo, che sancisce il grande successo del nuovo mezzo, si cercherà di differenziare le proposte indirizzandole a segmenti di pubblico più specifici. Nascono così verso la fine degli anni Sessanta, in concomitanza con un clima sociale radicalmente mutato, programmi per i giovani, in cui all'intento puramente pedagogico che caratterizzava la TV dei ragazzi si sostituisce la volontà di avvicinarsi realmente ai gusti e allo stile di vita dei giovani, attraverso una maggiore attenzione alle tematiche a loro vicine, in particolare la musica” (Grignaffini, pp. 32-33). Fra il 58 e il 59 i giovani diventano una vera categoria sociologica: il mercato li tematizza come gruppo identitario di spesa, il sistema dell’informazione li studia e ne analizza i comportamenti, le istituzioni li individuano come interlocutori, a volte solo come nemici. Il rock and roll, le camicie a quadri e i jeans segnalano appartenenze simboliche, connotando anche l’adesione a un sistema valoriale che non è più sovrapponibile a quello dei padri. L’avvento dei giovani nel mercato culturale è segnalato da diversi elementi: dal 1958, infatti, l’industria fonografica inizia un periodo di ascesa, passando dai 18 milioni di dischi venduti di quell’anno agli oltre 30 milioni del 1964. Nello stesso periodo i juke-box installati passano da 4.000 a circa 40.000 e si avvia in maniera decisa quel processo di “americanizzazione” dei consumi che molti intellettuali italiani di quegli anni – sia cattolici che comunisti – giudicano pericoloso quanto non addirittura immorale. (Sorice, pp. 51-52) Il Secondo Programma. Il 4 novembre del 1961 iniziano le trasmissioni regolari del secondo canale televisivo – denominato Secondo Programma 7 - con circa due ore di programmazione quotidiana (dalle 21,05 alle 23,15). “Voluta soprattutto da Ettore Bernabei (diventato direttore generale della RAI nel 1961) e varata con l'intenzione ufficiale di sperimentare nuove formule televisive e soddisfare le esigenze di un pubblico che andava diversificandosi, l'istituzione del secondo programma fu all'epoca circondata dal sospetto che la motivazione reale risiedesse nella volontà di "liberare" il Programma Nazionale dalle notizie e dai temi più scottanti e sgraditi, per relegarli in un canale dall'ascolto limitato. Il palinsenso prevedeva trasmissioni di intrattenimento (il primo varietà fu Caccia al numero, condotto da Mike Bongiorno), programmi culturali e divulgativi (il numero degli spettacoli di prosa e sceneggiati prodotti o trasmessi dalla RAI crebbe in maniera esponenziale), informazione (inizialmente il Tg2 andava in onda dopo il Tg1, in seguito si stabilizzò alle 21,00, quasi a voler sottolineare la propria volontà di porsi in concorrenza con il Tg1, ma la sua autonomia ebbe breve durata poiché nel 1963 Bernabei unificò i servizi del Nazionale e del Secondo), oltre a una propria rubrica pubblicitaria, Intermezzo (1962). Accanto a un programmazione sostanzialmente tradizionale, il secondo canale, ispirato, sia pur timidamente, a criteri di innovazione e modernizzazione, produsse alcune novità, come, ad esempio, il varietà Alta pressione (1962) di Enzo Trapani, che diede espressione ai fermenti giovanili (lanciando due giovani talenti come Rita Pavone e Gianni Morandi e sostituendo al pubblico presente in studio un gruppo di ragazzi seduti per terra, in cerchio)”8. “Il secondo canale diventa uno spazio spesso dedicato alla sperimentazione di linguaggi e grammatiche del video, capace di intercettare la domanda culturale di un pubblico che cominciava a frammentarsi proporzionalmente alla crescita culturale, a quella economica e a quella delle stesse competenze di fruizione televisiva” (Sorice, p. 61). La luna in tutte le case. L'inizio degli anni Settanta si apre sotto il segno del predominio tecnologico: la missione lunare, nel luglio del 1969 marcava uno dei più straordinari successi del 7Con la riorganizzazione aziendale determinata dalla Riforma della RAI del 1975 il Secondo Programma assunse nel 1976 la denominazione di Rete 2 e nel 1982 quella di Rai 2. 8 A. Grasso (a cura di), Enciclopedia della televisione, cit., p. 665. ventesimo secolo in campo tecnologico. Il fatto che la televisione abbia permesso al mondo intero di partecipare a distanza allo sbarco del primo uomo sulla luna, costituiva una premessa ottimale allo sviluppo scientifico. Mai la televisione ha avuto un effetto più eclatante della trasmissione dell'atterraggio sulla Luna: quel giorno, tra il 20 e il 21 luglio, il mondo si fermò per qualche ora, più di 500 milioni di persone restarono incollate davanti alla televisione per assistere allo sbarco sulla luna degli americani. 2. Neotelevisione (duopolio e televisione commerciale) Verso la riforma e l'apertura al mercato privato Nel 1975 viene promulgata il 14 aprile la legge n. 103, conosciuta come legge di riforma RAI, in gran parte ispirata ai criteri indicati dalle due sentenze della Corte Costituzionale del 1974. In primo luogo la legge, dopo aver ribadito la riserva a favore dello stato delle trasmissioni radio televisive "su scala nazionale", afferma senza possibilità di equivoco il principio per cui tale funzione deve essere esplicata con mezzi che garantiscano "indipendenza, obiettività, e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali". A tale scopo la legge attribuisce la gestione dell'ente concessionario (con il quale la convenzione avrà durata di sei anni e che potrà avvalersi, a integrazione del canone d'abbonamento, dei proventi da pubblicità non superiore al 5% della durata delle trasmissioni) a un Consiglio di amministrazione composto da sedici membri, sei dei quali eletti dall'assemblea dei soci (IRI e SIAE) e 10 dalla nuova Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza del servizi radiotelevisivi, organo i cui componenti sono "designati pariteticamente dai presidenti delle due Camere del parlamento, tra i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari". A tale Commissione sono di fatto af fidati tutti i più importanti compiti di programmazione e di controllo della neo riformata RAI. Sotto questo primo pro filo, dunque, è da segnalare la fondamentale innovazione rappresentata dal trasferimento del controllo del sistema radiotelevisivo dal potere esecutivo (il Governo, per disposizione risalente a Mussolini) al potere legislativo (il Parlamento), la cui composizione elettiva sembra offrire maggiori garanzie di rispetto dei criteri pluralistici indicati dalla Corte Costituzionale. In secondo luogo la legge, a tutela delle istanze locali di decentramento, contiene la duplice previsione dell'istituzione di una terza rete pubblica e della autorizzazione per l'esercizio da concedersi a emittenti private via cavo il cui bacino di utenza non superi i 150.000 abitanti (e con assoluto divieto di interconnessione per trasmissione contemporanea con altre reti). Da ultimo, la legge sancisce uf ficialmente, previa autorizzazione ministeriale, il diritto alla diffusione nel nostro paese di programmi televisivi irradiati da organismi esteri. Non può sfuggire la circostanza che il quadro legislativo, appena ridelineato, risulta di fatto già superato dalla realtà dei fatti: le televisioni via cavo appena legalizzate, infatti, sono già state soppiantate dalle emittenti via etere che operano numerose nel paese, pur essendo perseguite, in modo diseguale e disordinato, da un ordinamento che di li a poco muterà di nuovo scenario. Di seguito i punti quali ficanti della nuova legge: 1. Trasferimento del controllo del sistema radiotelevisivo dal potere esecutivo (governo) al potere legislativo (parlamento), con la conseguente istituzione del comitato parlamentare di vigilanza; 2. L’organizzazione dell’azienda subisce profonde trasformazioni, fra cui la divisione tre reti e testate; 3. Favorire il decentramento con l'istituzione di una terza rete a carattere regionale e di emittenti private via cavo con bacino d’utenza entro i 150.000 ab. (e impossibilità di fare rete); 4. Apertura alle diverse tendenze politiche, sociali, culturali attraverso i cosiddetti programmi dell’accesso, che permettevano a gruppi, associazioni e movimenti (anche molto piccoli) di produrre in proprio trasmissioni o usufruire di uno spazio di informazione nel palinsesto televisivo; 5. Mantenimento del monopolio Rai per le trasmissioni su scala nazionale. Il cambiamento risulta evidente nel settore dell'informazione: “Il 15 marzo 1976 vanno in onda, per la prima volta nella storia del sistema radiotelevisivo italiano, due testate giornalistiche concorrenti che appartengono alla stessa azienda: Tg1 e Tg2. Li conducono rispettivamente Massimo Valentini e Piero Angela. I due Tg sono nuovi e diversi anche nel formato. Il Tg1, per esempio, inaugura la formula dell’approfondimento: viene previsto uno spazio (Dentro la notizia) alla fine del telegiornale in cui un tema viene approfondito, magari con la presenza di protagonisti o personaggi da intervistare. Il Tg2, invece, lascia il telefono aperto alle telefonate degli ascoltatori e persino la sua testata (Tg 2 Studio aperto) connota chiaramente una scelta culturale fondata sull’interazione col pubblico” (Sorice, 113). Nel luglio del 1976 (sentenza n. 202) si autorizza le televisioni locali a trasmettere via etere e non più soltanto via cavo: da quel momento le iniziative proliferano, nascono e muoiono emittenti di ogni tipo. La sentenza legittima l'esistenza delle Tv private e disegna un sistema misto e antioligopolistico basato su un servizio pubblico nazionale e su tante piccole emittenti locali. Da questo momento cominciano ad operare i primi elementi di concorrenza fra le reti: fra le reti pubbliche inizialmente, poi fra queste e le reti private che fanno di tutto per imporsi ad un pubblico abituato alla programmazione della RAI. Il servizio pubblico comincia a convivere e a confrontarsi con la tv commerciale che, di anno in anno, vede crescere la propria importanza. Signi ficativo da un punto di vista mediatico è il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro il 9 maggio del 1978: “Le immagini di Moro senza vita, infatti, vengono girate da una piccola ma battagliera tv commerciale romana, Gbr. La Rai si trova immediatamente catapultata nel mondo della concorrenza, costretta persino a confrontarsi con una piccola emittente e a trovare forme di accordo” (Sorice, p. 115). L'emittenza privata si moltiplica. In particolare l'editore Silvio Berlusconi sfrutta le possibilità che si aprono nel settore della televisione commerciale e crea in breve tempo un polo alternativo a quello pubblico attraverso una programmazione popolare di sicura presa. “Altri principali editori italiani si gettano nell’impresa, costituendo tra il 1979 e il 1980 network nazionali: Rizzoli (Pin, Prima rete indipendente), Rusconi (Italia 1), Mondadori (Retequattro), mentre Silvio Berlusconi (Fininvest) acquista frequenze in tutta Italia per ripetere il segnale della sua emittente Canale 5. L’operazione di Berlusconi si rivela più efficiente; Rizzoli viene travolto dallo scandalo della loggia massonica P2, Rusconi e Mondadori vendono le loro reti a Berlusconi, che nel 1984 ha tre reti nazionali e una raccolta pubblicitaria superiore a quella Rai, con ascolti del 40%. Nel 1984 l’azione della magistratura, che considera illegittima la ripetizione dei segnali in contemporanea e la blocca, si capovolge in un successo di Berlusconi perché il governo Craxi, dopo una tortuosa battaglia parlamentare, riesce a far approvare la seconda versione di un suo decreto (L. 10/85), con una piena legittimazione delle reti Fininvest, offrendo agli altri partiti contropartite nel servizio pubblico. La televisione italiana è ormai un duopolio fra la Rai e la Fininvest. Nel 1990 si arriva a una modesta soluzione legislativa (L. 223/90, “legge Mammì”) che legittima il duopolio, introducendo la figura del Garante per la Radiodiffusione e blande misure antitrust” (Menduni, 2004, pp. 97-98). Nei primi anni Ottanta quando la Fininvest, con tre reti nazionali, acquista una dimensione di impresa paragonabile a quella della Rai, il sistema televisivo italiano è costituito da sei reti televisive nazionali, tre per ciascuno dei due gruppi. Rai e Fininvest si spartiscono tranquillamente il 90% delle risorse e il 90% dell'ascolto; ai margini del mercato televisivo italiano, una miriade (circa 700) di televisioni locali che si contendono il restante 10% e quindi sopravvivono in condizioni precarie. La strada intrapresa in Italia si discosta dalla logica attuata in altri paesi europei. Germania e Inghilterra tentarono di differenziare per quanto possibile il servizio pubblico radiotelevisivo dall’emittenza privata; una strada intrapresa anche dalla Francia. Si cercò di indirizzare i privati verso le tecnologie del cavo e del satellite tenendoli al massimo lontani dalla tradizionale tecnologia via etere, riservata a una televisione “generalista” e tendenzialmente gratuita. La televisione via cavo è stata indirizzata verso un modello a pagamento e un intrattenimento specializzato, tematico. (…) Si attenuava così la competizione fra i servizi pubblici e i nuovi venuti, evitando che si contendessero lo stesso mercato delle risorse. (…) In Italia invece non si riuscì nel tentativo di aggiungere alla televisione via etere altre modalità di trasmissione. Televisione privata e televisione pubblica si divisero a metà l’ascolto, investendo soltanto nell’acquistare programmi dall’estero e nel contendersi divi e personaggi, a costi che la competizione fra loro rendeva sempre più alti (Menduni, 2004, pp. 91-92). Altro elemento importante del periodo è la nascita del telecomando che cambia la modalità di fruizione dei programmi televisivi e attribuisce al pubblico maggiore autonomia e scelta decisionale. “Da un tipo di consumo subordinato a una struttura organica del palinsesto secondo un progetto fortemente pedagogizzante e a quella dei singoli testi/programmi destinati ad essere consumati passivamente e nella loro integrità testuale, si è passati alla possibilità di scegliere fra proposte diverse, talvolta persino af fiancandole in una vorticosa danza di immagini. (...) All'attenuazione di un modello di fruizione pedagogizzante si af fianca un telespettatore dotato di un suo spazio di autonomia, per quanto parziale. Il nuovo protagonismo del pubblico produce, come è ovvio, un cambiamento strutturale anche nella programmazione: gli operatori, infatti, sono costretti a tenere conto dei gusti e delle scelte dei destinatari, sempre meno utenti e sempre più stakeholder. Non è un caso che, proprio in questi anni, si avverta l'esigenza di monitorare il consumo televisivo e valutare in maniera scienti fica i gusti del pubblico. Cambiano i termini del gioco: se la televisione pedagogica dava al pubblico, parafrasando Reith, quello di cui aveva bisogno e non ciò che voleva, la tv col telecomando deve fornire risposte ai giudizi del pubblico che, ormai, cominciano ad esprimersi non solo in pratiche quotidiane ma anche attraverso gli indici d'ascolto” (Sorice, pp. 117118). Alla fine degli anni Settanta la paleotelevisione fondata su una logica pedagogica lascia il posto ad un modo nuovo di fare televisione: “C’era una volta la paleotelevisione, fatta a Roma o a Milano, per tutti gli spettatori, parlava delle inaugurazioni dei ministri e controllava che il pubblico apprendesse solo cose innocenti, anche a costo di dire bugie. Ora, con la moltiplicazione dei canali, con la privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche, viviamo nell’epoca della neotelevisione”9. L’accezione di Umberto Eco di neotelevisione fa perno, principalmente, su due aspetti: la concorrenza e l’innovazione tecnologica. Un’accezione più ampia di neotelevisione – comprendente anche la nascita dei nuovi generi e dei nuovi linguaggi – è quella proposta da Francesco Casetti (1988). Con la veloce affermazione della televisione commerciale cambiano le modalità espressive utilizzate. Il punto di riferimento diventano i programmi e le strategie comunicative impiegate dalla televisione americana: inseriamo per questa ragione due paragra fi, uno speci fico sulla grammatica televisiva americana, l’altro, sull’adattamento italiano delle collaudate formule americane. La grammatica televisiva o strategie della comunicazione televisiva10 Agli inizi degli anni Ottanta gli americani hanno raggiunto il massimo del tempo dedicato alla televisione: circa sette ore al giorno per famiglia, nel 1982. Non c'è dubbio che molti fattori incidono su questo fenomeno: aumento del tempo libero, noia, desiderio di qualche piccolo diversivo, l'abitudine verso tutto ciò che è di natura visiva, e l'attrazione e lo stimolo che suscitano certi argomenti. Per comprendere il labirinto della cultura televisiva, bisogna determinare i signi ficati che gli individui attribuiscono alla loro esperienza visiva alla TV e comparare questi signi ficati con le strategie messe in atto dalla TV stessa. (...)Tanto per cominciare, cosa signi fica de finire la televisione come medium della cultura di massa eccellenza? La TV è un vero medium di massa per il fatto che rappresenta i valori e le norme comunemente condivisi dalla società americana. I programmi in prime-time, delle ore di punta, si rivolgono a famiglie di classe media con gusti medi, e con orientamenti politici e religiosi tipici dell'uomo medio. Gli ideali del duro lavoro, del buon senso, della disponibilità personale, del fair-play e del buonumore abbondano nei programmi di maggior seguito. Negli ultimi trent'anni, stelle televisive hanno rappresentato sempre l'onestà, la forza d'animo, la bontà, l'equanimità, e la sensibilità del carattere americano ideale. Con queste immagini la televisione segue una strategia dello status-quo radicata nella tradizione americana, ed è proprio questa strategia che consente alla TV di attrarre un'audience di massa. Non è che il successo di pubblico sia ottenuto ricorrendo ad un comune denominatore basso e quindi alla portata di tutti; si tratta piuttosto di confezionare programmi basati su ideali che non trovano resistenza da parte dell'audience, anzi. (...) Per comprendere il comportamento strategico del pubblico televisivo, dobbiamo tornare ad esaminare la grammatica (sintassi, in flessione e vocabolario) e le prospettive della televisione. (...) A molte persone è senz'altro familiare la grammatica televisiva, anche se guardare la TV è diventata un'attività così naturale che molti spettatori certe volte non credono che esistano speci fici metodi adottati dalla TV per presentare notizie, spettacoli o sport. Oltre ad alcuni ovvi fattori tecnici, come inquadrature, dissolvenze, replay, rallentatore e simili, gli spettatori ritengono che vedere qualcosa alla TV sia pressoché lo stesso che guardare la realtà quotidiana. Questi spettatori non riescono a capire che la televisione impiega un linguaggio unico, che ha una logica tutta sua. (...) Ogni linguaggio ha una struttura che deve essere compresa, come precondizione per giungere ai signi ficati. Quindi, la prima cosa da fare 9Casetti F., Tv: la trasparenza perduta, in Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1983, p. 163. 10Il seguente paragrafo è tratto da, Robert P. Snow, La cultura dei mass media, cap. "La televisione. Il grande fiume della cultura", Torino, ERI. per comprendere la comunicazione televisiva è esaminare il suo particolare linguaggio. Sintassi. La sintassi della grammatica dei media riguarda l'organizzazione del contenuto del messaggio. La strategia della sintassi televisiva segue due fasi cicliche distinte del comportamento visivo: le abitudini nella fruizione del mezzo e le attività di lavoro e di riposo. Poiché i programmi televisivi sono veicoli pubblicitari, una strategia consiste nello stimolare le persone a seguire la pubblicità soprattutto nei periodi dell'anno in cui si fanno i maggiori acquisti. Le abitudini d'acquisto degli americani seguono cicli stagionali con un massimo che coincide con le vacanze natalizie; dopo un certo calo invernale, il consumo dei prodotti aumenta di nuovo a primavera per declinare alla fine di maggio. La programmazione televisiva segue questo ciclo del consumo stagionale; infatti mette in onda programmi nuovi alla fine dell'anno, cui fa seguito una seconda ondata verso la fine di febbraio. L'estate invece è il periodo delle repliche e dei programmi sperimentali. Ne deriva che gli spettatori diventano bersagli di un fuoco concentrato di pubblicità, soprattutto quando, essendo costretti a stare più spesso in casa, sono più disposti a seguire programmi nuovi. Un altro ciclo è quello che segue i ritmi del giorno e della settimana. (...) I programmisti dei network televisivi sanno quando una famiglia guarda la TV tutta insieme, quando il pubblico è formato quasi esclusivamente da giovani, e via dicendo. Ad esempio, poiché la domenica sera è un momento di riposo e tutti i membri della famiglia in genere sono a casa, i programmi sono rivolti all'intera famiglia; i pomeriggi del week-end sono invece dedicati allo sport e ai programmi ricreativi che piacciono soprattutto ai maschi adulti; i piccoli che non hanno altro da fare da sabato mattina, guardano i cartoni animati; nel periodo più intenso della settimana lavorativa, un film o uno sceneggiato in prima serata offrono un momento di relax per tutti. Gli interessi degli spettatori variano anche durante la giornata; i programmi del mattino, nei giorni feriali, sono dedicati ai notiziari, ai problemi dell'educazione e di varia umanità; gli spettacoli in diretta, con giochi a premio, vanno in onda nelle ore delle faccende domestiche; tele film sono trasmessi durante il riposo pomeridiano; vecchie repliche, cartoni animati e burattini intrattengono i bambini dopo la scuola; i notiziari precedono o seguono le ore dei pasti a cui sono collegati i programmi più importanti; ed in fine i nottambuli sono accontentati con talk-shows e vecchi cicli di film classici. Così la sintassi della programmazione televisiva segue i ritmi di vita degli spettatori, sia stagionali, sia settimanali, sia giornalieri. Entro tali cicli, grandi network nazionali e piccole emittenti locali tentano di accaparrarsi il massimo dell'audience possibile. In tal senso ci sono strategie particolari, come i programmi no-stop usati per creare una sorta di "pacchetto" in grado di catturare l'interesse degli spettatori in modo continuativo, per tre o quattro ore di seguito. Intanto, poiché i notiziari in genere precedono i programmi più importanti, è fondamentale creare un pubblico ampio e fedele per i notiziari; si può quindi supporre che gli stipendi pagati ai conduttori di tali notiziari siano adeguati più alla loro capacità di attrarre il pubblico che alla semplice abilità professionale in campo giornalistico anche se queste due cose non si escludono necessariamente a vicenda. (...) Questo schema di programmazione ha avuto finora un certo successo, ma con la videoregistrazione e la TV via cavo gli spettatori stanno diventando molto più esigenti nella scelta di cosa e di quando vedere. Sarà interessante osservare l'impatto che la crescente capacità selettiva dello spettatore avrà sugli aspetti finanziari e sulla programmazione televisiva. C'è chi prevede che tale selettività e flessibilità nelle abitudini degli spettatori spingerà i network fra le cose del passato. La sintassi implica anche l'organizzazione del contenuto dei particolari programmi. Tali regole sintattiche, molte delle quali noi diamo per scontate, sono condizioni prioritarie per poter interpretare il contenuto dei programmi. Per esempio, con l'eccezione delle soap-operas, degli sceneggiati a puntate, ogni programma ha un inizio, una parte centrale, e una fine ben distinguibili e posti in tale ordine. (...) Il fatto che i programmi televisivi inizino sempre con un problema di qualche genere che deve essere risolto e finiscano con la sua soluzione, consente un alto grado di prevedibilità. Gli spettatori possono seguire un programma che avrà un inizio, senza parti dispersive, e si concluderà con un finale che non lascerà adito a dubbi. Raramente un lavoro televisivo marcia a ritroso, come è il caso di alcuni film, e raramente c'è qualche dif ficoltà a stabilire la cronologia delle scene. La sequenza lineare dei programmi televisivi segue quindi una logica di causa ed effetto comprensibile a tutti gli spettatori. (...) Uno degli esempi più interessanti di sintassi si applica ai notiziari televisivi, specie a quelli delle edizioni serali. In tanti anni di trasmissioni televisive gli spettatori si sono ormai abituati ad un preciso ordine degli eventi visivi e uditivi. La trasmissione si apre con una visione generale della persona che legge al tavolo di uno studio; lentamente la telecamera zooma su un primo piano della persona, che passa ad introdurre la prima notizia. Per ciascuna notizia, la sintassi consiste in una introduzione del conduttore del programma (detto anche anchor-person), seguita dal rapporto di un corrispondente che opera in genere sul posto, e da filmati, schemi o gra fici. I gra fici di tipo statistico economico sono generalmente presentati a metà programma, mentre in chiusura viene trattata qualche notizia meno impegnativa; dopodiché, si vede l'immagine finale del conduttore che in dissolvenza lascia il posto ad una familiare sigla. L'importanza di questa sintassi non sta solo nella sua familiarità, ma anche nella rilevanza assegnata alla figura della persona che apre e chiude la trasmissione e introduce i vari servizi. Con questo sistema l'anchor-persondiventa colui che conferisce credibilità ai servizi, stabilendo in de finitiva ciò che va considerato meritevole di citazione. In flessione. Oltre a coinvolgere vista e udito, la sintassi televisiva si arricchisce di una gran varietà di tecniche di in flessione, che per i nostri scopi possiamo dividere in accenti, o tecniche di enfatizzazione, e aspetti del ritmo e del tempo. Prendiamo le tecniche di accentazione: ad esempio, la sigla iniziale di un programma televisivo è una mini-esposizione, della durata di un minuto, su ciò che ci attende per forma e contenuto dell'intero programma. I temi musicali, la gra fica dei titoli, gli effetti ottici stabiliscono il genere di spettacolo e funzionano come simboli di identi ficazione per il programma stesso. Nell'istante in cui un titolo compare sul teleschermo, un tema musicale sottolinea l'identità del programma: ascoltando il tema si può visualizzare il titolo e viceversa. Come un jingle , molti spettatori ricordano il tema distintivo del loro programma preferito anche molto tempo dopo che questo è stato tolto dalla programmazione. E come cartelli indicatori veri e propri, queste tecniche ricordano ai telespettatori un nugolo di sensazioni associate al programma. Vocabolario. L'ultima componente della grammatica televisiva è rappresentata dal vocabolario usato in TV. Dal momento che occorre compiacere un pubblico di massa, non sorprende che la televisione richieda un vocabolario comprensibile dal più ampio numero di persone possibile; comunque, la scelta delle parole non è regolata su un livello di comprensione troppo basso. Il vocabolario televisivo deve muoversi in un raggio accettabile alla classe media, poiché le norme e i valori della classe media rappresentano l'idealizzazione della società americana. In altri termini il vocabolario deve essere compreso facilmente, ma non deve offendere il livello culturale dell'americano medio. D'altra parte il vocabolario non deve neanche essere troppo so fisticato, perché diventerebbe una criticabile manifestazione di vanità (...).Se esaminiamo il vocabolario di molti programmi televisivi, risulta evidente che a livello di termini usati, esistono scarse variazioni se si tratta di notiziari, avvenimenti sportivi o spettacoli in "prime time". Nel descrivere i caratteri linguistici del linguaggio radiofonico, Erving Goffman (1981) notava che gli ascoltatori si attendono un modo di parlare fresco e spontaneo; ed è ragionevole supporre che tali criteri valgano anche per la televisione. La freschezza e la spontaneità si ottengono in TV emulando la conversazione tipica, precisa e lineare, della classe media. In questo caso l'intento di chi parla è quello di essere chiari, con fidenziali ed egualitari, evitando di risultare contorti, formali o di avere un tono di superiorità. Nella conversazione quotidiana e in quella televisiva le parole devono scorrere facilmente, offrire subito il senso della frase, e non devono creare complessi di inferiorità in chi ascolta. Inoltre, è regola generale di buon senso, nella scelta del vocabolario televisivo, evitare di distrarre in qualche modo l'attenzione delle persone dalle immagini dello schermo. Gli spettatori devono vedere soprattutto "azione" e devono essere capaci di interpretarla in un attimo, senza l'intoppo del dialogo. Quindi il vocabolario televisivo è descrittivo e attivo, ma senza per questo imporsi ai telespettatori. La televisione cerca di ritrarre in modo accurato le varie subculture, i caratteri regionali e il modo di parlare corrente, ma poi si orienta comunque sul telespettatore di ceto medio, piuttosto che sui membri di quelle subculture o di quelle zone di cui si narra nella storia. Di conseguenza, la parlata popolare o dialettale può essere usata entro certi limiti, cioè finché i termini restano comprensibili e accettabili all'interno di una conversazione di un certo livello. Il "dialetto televisivo" è forse uno degli aspetti più interessanti del potere di questo medium, e ha un notevole effetto sulla standardizzazione dello stile colloquiale della cultura americana. Annunciatori, cronisti sportivi, giornalisti e quasi tutti coloro che non presentano una pronuncia dialettale, parlano esattamente allo stesso modo. Probabilmente i newyorkesi veraci, i neri del ghetto, i meridionali e chi ha qualche dialetto regionale prendono tutti come punto di riferimento la parlata del Midwest. Riguardo alla "cultura dei media" va notato che i mezzi di comunicazione di massa hanno stabilito gli standard della qualità della voce, della dizione e del modo di parlare senza in flessioni dialettali evidenti. Dan Rather che cura i notiziari della CBS viene dal Texas, ma non lo capireste mai ascoltandolo in TV; anche lo showman Bryant Gumbel, della NBC, pur essendo nero manca di qualsiasi in flessione dialettale tipica del ghetto del sud. Non è che qui si vogliano difendere gli stereotipi razziali, regionali o subculturali, ma si vuole illustrare il fatto che la grammatica televisiva ha creato una omogeneità idealizzata ed arti ficiale. Strategie della neo-TV11 Per far vincere i propri canali i programmatori hanno applicato, soprattutto agli inizi della neotelevisione, alcune vecchie regole piuttosto collaudate, adattate dall’America. Ecco le principali. 1. Giocare sul sicuro. È una televisione che rischia poco, che ha bisogno di molti stereotipi culturali, perché lo stereotipo consente una più facile identificazione da parte del pubblico: esso rimanda ad esperienze comuni, condivise, e dunque facilita il consumo. Piuttosto che inventare una nuova trasmissione, meglio comprare qualcosa che ha già avuto successo in altri paesi: una serie di telefilm, oppure un “format”, uno schema vuoto di trasmissione da adattare alla nostra realtà. Può anche non andare bene, ma il rischio di sbagliare è minore. 2. Fare spettacolo. Questo significa che il programma deve intrattenere, nel senso proprio: deve “trattenere” il pubblico, dirgli “resta con noi”, deve tenersi stretto lo spettatore allontanando la sua noia, vincendo il desiderio di cambiare canale o di spegnere l’apparecchio. Lo spettatore deve poter vedere nella TV un naturale prolungamento della propria esperienza familiare e affettiva. L’intrattenimento, non la cultura o l’informazione, diventa il tono, la colorazione dominante della televisione; anche la cultura e l’informazione devono assumere le tonalità dell’intrattenimento. Intrattenimento significa spesso divertimento, ma non sempre. Può essere anche dramma, eccezionalità, tragedia, ma questi non saranno mai i toni dominanti. 3. Riflettere i valori medi della società. Un’emittente deve esprimere nel complesso della sua programmazione questi valori, anche se può talvolta allontanarsi da loro. Deve minimizzare le possibili obiezioni (del pubblico, non dei critici televisivi) anche quando presenta situazioni scabrose, o violente. Se il pubblico non sente come condivisibile la programmazione, si può spezzare la familiarità su cui è costruita la complicità tra programma e telespettatori. E il principio del LOP (“Least objectionable program”, il programma che suscita minori obiezioni): cercare di realizzare trasmissioni in cui la miscela dei buoni sentimenti sia sempre prevalente, considerando le saltuarie trasgressioni un rischio calcolato, e confinare tutto ciò che e contrario al comune sentire in spazi e orari meno frequentati, circondandolo comunque di cautele, avvertenze, attestazioni di eccezionalità. 4. Riconoscibilità. Un’emittente deve essere sempre identificabile, riconoscibile, composta difatti (immagini e suoni) e di persone (volti, sorrisi, parole) conosciuti dal pubblico, familiari. Lo spettatore deve poter riconoscere subito una situazione, la scenografia di una trasmissione, o meglio ancora un volto noto: il protagonista di una serie, il conduttore di un programma, il giornalista del telegiornale. I programmi più difficili vanno agganciati a programmi più forti (traino). Meglio se un personaggio noto annuncia il programma che ci sarà fra poco: un testimone noto e affidabile che garantisca con la sua popolarità e il suo successo che l’investimento di tempo che lo spettatore farà sia ricompensato. Ciascuno di questi volti conosciuti deve essere contemporaneamente “uno di noi” e il portatore di “qualcosa in più”. Mentre il divismo cinematografico è fatto di eroi e di bellissime, irraggiungibili sul grande schermo, in televisione incontriamo decine di personaggi che potrebbero essere l’amministratore del nostro condominio o il direttore della scuola elementare, una vicina di casa o l’istruttrice della palestra. 5. Giocare sugli errori degli altri. Non si corre da soli, ma in competizione con le altre emittenti. Bisogna sfruttare i loro punti deboli, contrapporre ai loro programmi forti prodotti 11 Il paragrafo è tratto da E. Menduni, I linguaggi della radio e della televisione, Bari, Laterza, 2002. che possano sottrarre pubblico e abbassare il risultato altrui. Anche gli orari sono importanti: possibilmente bisogna cominciare qualche minuto prima di un altro programma concorrente. Il complesso di queste strategie di attacco e contrattacco (fondate sull’attento studio dei palinsesti altrui) si chiama, significativamente, controprogrammazione. 6. Tutelare il prime time. Il prime time è la fascia oraria dalle 20,30 alle 22,30, la più pregiata, non solo in termini di pubblico e di pubblicità, ma di immagine complessiva dell’emittente e di fidelizzazione. Qui non ci si può permettere assolutamente di sbagliare, di compiere scelte azzardate, di lesinare gli investi- menti, di compiere cambiamenti bruschi. Conviene concentrare su questa fascia il massimo di attenzione, di risorse e di sforzo realizzativo, collocando in altre fasce minori programmi controversi, difficili, diretti a nicchie di spettatori. In queste fasce meno pregiate possono trovar posto anche “programmi civetta”; costruiti non tanto per i loro risultati di ascolto, ma perché siano graditi ad alcune categorie di leader d’opinione di cui l’emittente ha bisogno: i politici, i giornalisti della carta stampata, gli intellettuali tradi- zionali. Realizzare un programma sui libri in seconda serata, per esempio, significa essere graditi al mondo della cultura letteraria e saggistica (almeno alle case editrici e agli autori recensiti) e togliere un argomento a quei politici e giornalisti che continuano a sostenere che “la TV non fa quello che dovrebbe fare per la diffusione della cultura”. Insomma un’operazione di pubbliche relazioni. Queste strategie sono state proprie anche delle emittenti pubbliche. Molti dei loro dirigenti temevano che, se l’ascolto fosse sceso sotto un livello di guardia, la gente si sarebbe chiesta perché mai dovesse pagare un canone di abbonamento, o una tassa, per usufruire di un servizio che altri svolgevano gratuitamente. Ciò vale a maggior ragione per l’Italia, in cui la pubblicità incide in misura crescente sul bilancio RAI (nel 2000 le entrate pubblicitarie hanno raggiunto il 50% dei ricavi). Sarebbe stato però un errore anche allinearsi in tutto alla televisione commerciale, perché la gente si sarebbe allora domandata che differenza ci fosse tra il servizio pubblico e la TV privata. Le televisioni di servizio pubblico cercarono allora un percorso intermedio tra la perdita del pubblico di massa e l’omologazione alle televisioni commerciali. Di qui la costante ricerca di un registro culturalmente più elevato e di uno stile più composto, il maggior spazio a trasmissioni italiane e autoprodotte, l’insistenza nel distinguere (non sempre in modo persuasivo) la televisione pubblica per natura e qualità. Insomma la TV pubblica non può perdere i propri tratti distintivi per fare ascolto, ma ha comunque bisogno di buoni risultati. Tre ondate. Questa forma di televisione ha ormai venticinque anni e quindi ha avuto, al suo interno, una profonda evoluzione. Noi distingueremo tre ondate successive, o meglio una progressiva stratificazione di tipologie di programmi, che parzialmente sostituiscono le precedenti ma soprattutto li riposizionano. 1. Nella prima fase la neotelevisione è fortemente consociativa, forse anche in coincidenza con la situazione culturale e politica del tempo segnata dai governi di “unità nazionale” e dal miraggio, mai realizzato, del “compromesso storico”. Si cercano trasmissioni concepite per interessare quasi tutti e non dispiacere a nessuno e il primo metagenere che questa ricerca assume è il “contenitore” come dice la parola, una scatola, un involucro duttile che può durare molto a lungo (un intero pomeriggio) che si presta a farsi riempire con frammenti dei più vari generi mediati e organizzati da un conduttore. L’antesignano dei contenitori è considerato Domenica in della RAI (1976). Il talk show è invece una forma di intrattenimento parlato, un salotto televisivo popolato di ospiti di estrazione e tonalità variabile, animato da un condut-tore e fondato sulla conversazione intorno a vari argomenti, sia pubblici che privati, generalmente mescolati insieme. Spesso siedono l’uno accanto all’altro divi e gente comune. Il capostipite è Bontà loro, di e con Maurizio Costanzo, sempre nel 1976 sulla RAI. In questa prima fase comincia la penetrazione della fiction seriale USA e latinoamericana per i suoi bassi costi e per la grande abbondanza dell’offerta. Soprattutto nelle pìccole TV, l’aspetto commerciale della neotelevisione si rivela con chiarezza, producendo un’ampia gamma di aste televisive, televendite, telepromozioni e facendo emergere personaggi del tutto nuovi come imbonitori, maghi, donne fatali, venditrici di creme e unguenti, battitori d’asta. 2. Una successiva fase si colloca negli anni Ottanta. La neotelevisione ha ormai stabilito un rapporto diretto con il pubblico, costruito su due elementi: da un lato c’è il successo popolare dei conduttori di talk show e contenitori; dall’altro l’offerta larghissima di fiction gratuita, quasi esclusivamente importata, fatta non solo di prodotti seriali ma di una grande quantità di film pensati per il grande schermo e dunque contraddistinti da forme e intenzioni comunicative molto diverse da quelle televisive. La TV saccheggia i magazzini del cinema non soltanto per la loro ampiez-za e disponibilità, ma per accreditarsi e incorporarne la funzione sociale. Nel 1989 si contano in media 100 passaggi televisivi di film al giorno; tra il 1980 e il 1992 il cinema perde in Italia il 65% dei biglietti e il 58% delle sale. L’intrattenimento ha ormai una piena legittimità televisiva, e la TV si afferma come la principale raccontatrice di storie (storyteller) del tempo. I generi televisivi hanno ormai ammorbidito i loro reciproci confini, e tutti si lasciano contaminare dall’in- trattenimento. Lo spettacolo tende ad essere la forma attraverso cui passano tutte le altre rappresentazioni, senza la quale non c’è apprezzabile significazione. Nascono così lo sportainment, l’intrattenimento sportivo, e l’edutainment (education + entertainment), la forma aggiornata delle rubriche culturali; ma il genere più rilevante è l’infotainment, l’informazione spettacolarizzata, con una forte connotazione politica. I conduttori sono mediatori fra una piazza elettronica e un mondo politico che si affida ad una dimensione spettacolare della sua presenza. 3. La terza fase inizia alla fine degli anni Ottanta quando vanno in corto circuito le ultime distinzioni tra fiction e non fiction. Si cercano tinte forti e contenuti più pepati perché una certa usura ha logorato la conversazione del talk show e del contenitore. La televisione ora è ansiosa di mettere in scena la verità, o la realtà, anche con scivolate nel melodramma, applicando le stesse modalità narrative che ha applicato alla fiction. Naturalmente l’occhio della telecamera e il montaggio sono sempre soggettivi, e quindi né la “verità” né più modestamente la “realtà” sono accessibili alle telecamere, tuttavia la TV si dedica intensamente a mandare in onda aule giudiziarie, ospedali, casi umani, liti e risse, tradimenti, incidenti stradali e disastri vari (il reality show). Quando ormai tutto è stato visto e consumato, si cercano sensazioni sempre più forti rappresentando eventi sempre più strani, drammatici, sgradevoli; oppure si mette in scena la vita intima di persone qualunque, assimilabili agli spettatori stessi, n coincidenza con quanto avviene in Internet attraverso le webcam. Forse questa è già una quarta fase. La televisione oggi si presenta come sovrapposizione e intreccio di questi tre modelli di neotelevisione e dei loro ibridi e replicanti, ed è sempre più aperta a strategie individuali di fruizione. Gli stessi formati dei programmi ci dimostrano come il rapporto del pubblico con la TV si sia modificato. Se il salotto del talk show appariva come un prolungamento naturale della stanza in cui vedevamo la televisione, adesso è il nostro salotto ad essere annesso alla casa del grande fratello. La tv della realtà. Caratteristica fondante della televisione alla fine degli anni Ottanta diventa la messa in scena dell'esperienza privata che confluisce in quel genere definito TV realtà o TV verità. In pratica si spettacolarizzano i momenti di vita vissuta, lo spazio privato diventa attraverso la televisione di pubblico dominio. Le formule sono le più diverse: il dating show (M'ama non m'ama, in onda su Rete4 dal 1983 oppure Il gioco delle coppie, trasmesso su Italia1 dal 1985) in cui si cerca di creare legami sentimentali tra i concorrenti; programmi che mettono in scena la ricerca dell'anima gemella (Agenzia matrimoniale, Canale5 da 1989), le liti matrimoniali (C'eravamo tanto amati, su Rete4 dal 1989) ecc. Questo modo di intendere la televisione diventa la cifra stilistica dominante di Raitre sotto la direzione di Angelo Guglielmi: delitti irrisolti, drammi delle persone comuni, problemi di varia natura Io confesso, Telefono Giallo, Un giorno in pretura, Chi l'ha visto?, I racconti del 113, Mi manda Lubrano. Questo tipo di televisione nonostante sia definita real TV applica a questi momenti di vita quotidiana i meccanismi comunicativi e narrativi impiegati di norma nei programmi di intrattenimento e nella fiction televisiva. Nella parole di Menduni (p. 170) “L'impatto della TV verità sul modo di fare televisione è stato comunque profondo e ha generato un complesso di programmi investigativo-drammatici, di testimonianze, processi e confessioni su tutte le reti televisive, spesso perdendo di vista l'equilibrio e sconfinando in una TV dell'eccesso, esagerata e barocca, fondata sulla strumentalizzazione di situazioni dolorose e conflittuali, su litigi e risse, sull'esibizione di situazioni limite e di immagini choc (il tossico che si droga in diretta, il filmato dell'esecuzione capitale) a cui è stato dato il nome di TV-spazzatura (trash TV). Giuliano Ferrara, allora conduttore televisivo (Linea rovente, Il testimone, Radio Londra), si fa fotografare da un settimanale in abiti da scena in mezzo a sacchi di spazzatura di una discarica (vogliamo sperare simulata), testimoniando con la consueta franchezza quello che Marta Marzotto (1986) chiamò «il successo dell'eccesso».