Aristotele per le comunicazioni di massa

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Aristotele per le comunicazioni di massa
- Carlo Franco, 12.04.2015
Filosofia antica. Rimeditare la «Retorica» col nuovo, ampio commento di Silvia Gastaldi per
Carocci
Seicento pagine sulla retorica? Sembra arduo vincere la diffidenza verso un libro che si presenta con
una mole così minacciosa, e con un contenuto impegnativo, fatto di un lungo testo greco di Aristotele,
della sua traduzione italiana, e di un esteso commento: Aristotele, Retorica, a cura di Silvia Gastaldi
(Carocci, pp. 637, <SC82,101> 34,00). Opportuno sarà forse un approccio indiretto. Lo fornisce
ottimamente uno smilzo libretto di Roland Barthes, La retorica antica (Bompiani, 1972¹), che
presenta con adeguati schemi strutturali «l’albero retorico», visualizzando i temi e i problemi
affrontati da Aristotele con dettagliata discussione. Barthes lavorava entro la rinascita di interesse
per la retorica seguita alla pubblicazione del Trattato dell’argomentazione di Perelman-Tyteca (1958,
trad. it. Einaudi, 1976), ma le sue riflessioni restano molto attuali. Egli evidenzia infatti ciò che oggi
pare rendere la lettura della Retorica specialmente utile: il fatto che questa téchne è essenziale a
comprendere i meccanismi comunicativi odierni, «dove regna il ‘verisimile’ aristotelico, cioè ‘quel
che il pubblico crede possibile’». Si comprende allora subito, contro vecchie svalutazioni, che in
Aristotele la retorica è vista non come inganno, o come orpello vuoto, bensì come scienza della
persuasione. Proprio in vista di questo scopo essa rinuncia a perseguire una astratta e difficile
«verità», orientandosi secondo le disposizioni reali del pubblico. In un paese come l’Italia, la cui
scena pubblica è, da un ventennio almeno, stabilmente dominata non certo da rigorosi «maestri di
verità», ma da truffaldini affabulatori dotati di varia piacioneria, non si potrebbe pensare a
strumento più utile: quasi un antidoto salutare.
Sivlia Gastaldi immette il lettore nella grande trattazione aristotelica, distesa su tre libri, per mezzo
di un’introduzione essenziale. Qui viene messa in evidenzia anche l’ambiguità insita nella ricerca del
filosofo: per metà manuale teorico «funzionale alla trasmissione di un sapere sul discorso», e quindi
aperto all’uso dell’insegnamento (di là provengono in fondo i materiali che compongono il trattato);
per metà anche metodo «per offrire ai cittadini la possibilità di comporre discorsi» razionali e
persuasivi. Proprio la compresenza di questi obiettivi conduce Aristotele (a differenza di quanto
accade in Barthes, ad esempio) a indagare con molto dettaglio non solo gli aspetti tecnici del
discorso, ma anche la «psicologia» dell’emittente e del destinatario, i «caratteri» (éthe) di chi parla,
e le «passioni» (páthe) di chi ascolta, e gli strumenti logici ed espressivi adatti a conseguire la
persuasione: numerosi sono perciò i punti di contatto fra le riflessioni svolte nella Retorica, nelle
grandi opere etiche, ma anche nella Poetica (sui tipi di linguaggio). Anche per questo, la Retorica
appare specialmente complessa. Da un lato vi è l’analisi degli «strumenti», sempre forniti di
puntualissime definizioni preliminari e di ampia casistica; dall’altro vi è anche la riflessione filosofica
e pragmatica sulla comunicazione. Lo si vede bene nella discussione a proposito dell’argomentazione:
essa muove dalla constatazione, di immediata comprensione a qualunque italiano, che «di fronte alle
masse, i parlanti incolti sono più persuasivi di quelli istruiti», e che in tale contesto «la precisione
sembra essere superflua e peggiorativa» (non così in tribunale).
Esiste poi un solido rapporto, che non è sovrapposizione, fra retorica e politica: da tutto il trattato
trapela la centralità della parola pubblica nella vita della polis, che al tempo di Aristotele non era più
l’Atene mitica (o mitizzata) della democrazia di Pericle, ma che continuava a essere luogo di dibattito
nelle assemblee deliberative come nei tribunali, e che costruiva la propria identità anche attraverso i
discorsi «d’apparato» (quelli celebrativi, ad esempio). Aristotele, pur criticando gli autori dei
manuali retorici per l’eccessivo rilievo da loro dato alle «passioni», supera però l’aristocratico
disprezzo platonico per le masse, e si mostra ben consapevole del fatto che il discorso, che ha come
unico scopo la persuasione, deve necessariamente essere adeguato ai livelli di comprensione dei
cittadini. Essi non costituiscono un pubblico «ideale», riflessivo e razionale, ma sono invece molto
condizionati dalla «persistenza, nella città, dell’antagonismo e dei valori competitivi». Chi parla può
e deve pertanto valutare l’effetto sull’uditorio della paura e della vergogna, dell’entusiasmo e dell’ira,
deve insomma dominare la «mozione degli affetti»: ma, osserva la Gastaldi, «la differenza tra il
metodo retorico e il puro e semplice ricorso all’elemento passionale dell’uditorio consiste nel fatto
che è il discorso stesso a suscitare o a placare le passioni». Le osservazioni di Aristotele in tema di
psicologia dell’uditorio (ad esempio sugli atteggiamenti dei giovani, degli anziani e degli uomini
maturi: pp. 206-13) aprono verso orizzonti che parrebbero propri della sociologia, se non
dell’antropologia. Sono idee talvolta generiche, attente al carattere «medio» e stereotipato, ma
proprio per questo particolarmente adatte a strutturare un discorso «mediamente» indirizzato a tali
gruppi. Vi si ritrovano notazioni atemporali, come quella sui giovani che «vivono per la maggior
parte del tempo nella speranza: la speranza riguarda il futuro, mentre il ricordo riguarda il passato,
e per i giovani il futuro è lungo, mentre il passato è breve»; e altre osservazioni, invece, che suonano
molto familiari per un lettore italiano: i ricchi «sono inclini all’oltraggio e arroganti, essendo in
qualche modo influenzati dall’acquisizione delle ricchezze, voluttuosi per la mollezza e per mostrare
la loro prosperità, pretenziosi e grossolani perché ritengono che gli altri agognino ciò che loro stessi
agognano», e per questo desiderosi del potere politico.
Il commento si estende per quasi trecento pagine: una dimensione notevole, che si spiega con la
scelta di corredare il testo di due percorsi differenti. Vi è, primario, l’impegno ad analizzare
discorsivamente le differenti sezioni del trattato, dipanando la trattazione densa di Aristotele con
ulteriori sviluppi e con riferimenti al dibattito più recente: le note che ne risultano sono ampie al
punto che ne sarebbe possibile anche una lettura autonoma. D’altra parte vi è la specificazione dei
dettagli, del tutto indispensabili al lettore odierno, in quanto molti sono i testi o gli eventi a cui
Aristotele accenna di sfuggita, e ciò richiede di individuare le citazioni di altri autori, spesso minori,
e di chiarire i riferimenti storici. La conciliazione di queste due linee non è sempre agevole, perché
esse implicano un «passo» differente: ma il risultato è di indubbio interesse, soprattutto se si
rimeditano le parole di Barthes: dato che Aristotele fornisce – nella Retorica e anche altrove – la
griglia analitica completa funzionale a comprendere le «comunicazioni di massa», «in regime
democratico, l’aristotelismo sarebbe la migliore delle sociologie culturali». Dunque la Retorica va
proprio meditata con cura.
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