L`ortodossia classica: il punto di vista sulle dinamiche di crescita

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VINCOLO DELLA BILANCIA DEI PAGAMENTI PER SPIEGARE I DIFFERENZIALI DI CRESCITA TRA I PAESI Una prospettiva storica del rapporto tra bilancia dei pagamenti e crescita economica (tratto da Thirlwall A.P., 2001, “Modelli di crescita limitata dalla bilancia dei pagamenti: storia e panoramica”, in Moneta e credito, vol. 64, n. 255, con modifiche e aggiunte del docente) L’ortodossia classica: il punto di vista sulle dinamiche di crescita Da Ricardo in poi nella storia del pensiero economico l’ortodossia è stata che la bilancia dei pagamenti (d’ora in avanti BDP) e la crescita della domanda non contano nel lungo periodo per la crescita economica (diversamente la Legge di Verdoon-­‐Kaldor secondo cui esiste una relazione tra domanda e produttività, vedere slide del docente). L’offerta genera la sua domanda e la BDP si aggiusta da sola, in modo automatico. La crescita economica è trainata dall’offerta, con la crescita degli inputs e del progresso tecnologico (Modello di Solow, ricordate?) Ciò ha determinato una separazione tra la teoria della crescita e la teoria del commercio internazionale. Nel secondo caso, il commercio crea sempre maggiore benessere sociale. I presupposti della teoria sono i seguenti: a) vantaggio comparato b) specializzazione produttiva c) BDP si aggiusta da sola d) Pieno impiego delle risorse viene sempre mantenuto Una prima critica a questa impostazione è stata fornita dai teorici del “mercantilismo” (T. Mun e E. Misselden). Secondo questi economisti i surplus della BDP generano un afflusso di oro e metalli preziosi e valuta estera. L’affluire terrebbe basso il tasso di interesse e incoraggerebbe lo sviluppo degli investimenti. Il punto centrale quindi è che dalle dinamiche della BDP (in questo caso generando surplus) si possono cogliere effetti sulla crescita economica, attraverso l’impulso che il tasso di interesse basso determina sugli investimenti). Per questo secondo i mercantilisti, avanzi della BDP sono fonte di ricchezza e di crescita. Hume (1752) rappresenta il primo critico della tesi mercantilista. Esso sosteneva che l’afflusso di oro e valuta estera avrebbe generato solo un aumento dei prezzi, senza alcun effetto reale. Si tratta dell’origine della dottrina della teoria “quantitativa della moneta” (TQM), ovvero dell’idea della neutralità della moneta e della dicotomia classica tra aspetti monetari e reali. In particolare, il tasso di interesse sarebbe un fenomeno reale e non monetario, la BDP non avrebbe effetti sulla crescita, perché non avrebbe effetti sul tasso di interesse e quindi sugli investimenti. In breve possiamo rappresentare la distinzione teorica secondo questo schema: SCHEMA 1 Avanzo BDP Offerta moneta > domanda moneta Mercantilisti: “i” è un fenomeno monetario “i” si abbassa per riequilibrare il mercato monetario aumentano gli investimenti “I” Hume e i classici: “i” è un fenomeno reale vale la TQM i prezzi salgono e fanno tornare in equilibrio la BDP, cala l’export vale la legge di Say: se S>I, cioè offerta>domanda allora “i” scende portando equilibrio di piena occupazione Lo studio delle dinamiche tra commercio e crescita secondo il filone “classico” viene aggiornato con la teoria dei “Vantaggi comparati” di David Ricardo. • Si perfeziona il legame teorico tra crescita e commercio attraverso il principio del costo (vantaggio) comparato. • Il modello dimostra come differenze nelle caratteristiche dei paesi diano luogo al commercio int.le e come da esso derivino vantaggi reciproci. Ogni paesi esporta i beni che produce in modo relativamente efficiente e importa i beni nella produzione dove si è meno efficiente. Così la scelta dei beni che vengono scambiati è dipesa dai vantaggi comparati. • Il commercio int.le si presenta come una forma di produzione indiretta anziché produrre un bene per il proprio consumo, si produce un bene per scambiarlo con il bene desiderato. Alla base della spiegazione scientifica dei vantaggi del commercio int.le fornita dal principio dei costi comparati c’è il sistema di P.E. del libero scambio. Si suppongano i seguenti costi di produzione per due merci x e y nei due paesi A e B • x y • A 20 40 • B 10 30 I costi comparati sono (20/40) e (10/30). Costa di meno x in B. quindi il paese si specializza in B mentre A si specializza in y. Anche se in A i costi assoluti sono entrambi maggiori si può dimostrare che conviene specializzarsi in y e scambiare x con B. L’argomento della neutralità della moneta ignora comunque un punto importante: se non ci sono risorse pienamente utilizzate, l’impatto di un aumento nell’offerta di moneta sarà anzitutto sulla produzione, e non sui prezzi. Questa è la nota impostazione keynesiana, che vede nel tasso di interesse una variabile almeno parzialmente monetaria che può influenzare le variabili reali, attraverso il tasso di investimento (questo punto serve a Keynes per superare la dicotomia classica). Thirlwall evidenzia, tornando alla teoria dominante del commercio int.le, due principali limiti del modello di Ricardo. La prima critica è che la teoria ricardiana è una teoria “reale” che riguarda la riallocazione delle risorse reali tramite il commercio e ignora invece gli aspetti monetari degli scambi commerciali, e quindi gli effetti che la BDP può avere sulla crescita. La seconda critica è che si ipotizza piena occupazione, in quanto l’offerta genera la sua domanda tramite variazioni del tasso reale di interesse (s=I). In questo contesto, Keynes metteva in evidenza che la specializzazione produttiva può creare occupazione ma dal commercio si possono espellere lavoratori in altri comparti. Pertanto, i guadagni nel reddito reale dovuti alla specializzazione potrebbero essere compensati da perdite reali dovute alla disoccupazione. Pensiamo se dal processo di specializzazione int.le e dall’apertura degli scambi derivi un deficit della BDP. Immaginiamo che il tasso di interesse non sia salito nella misura tale da attirare capitali dall’estero e finanziare il deficit. Cosa succede? Per ridurre il deficit occorre ridurre le importazioni. In questo caso le conseguenze della BDP sull’economia sono chiare; i vantaggi potrebbero essere persi a causa del commercio. Questo allora solleva la domanda perché l’ortodossia ignori la BDP. A sostegno di quest’ultima ci sono diverse spiegazioni che conducono tutte all’idea che la BDP si riaggiusti in modo automatico e che i movimenti di capitale sia speculari a movimenti “reali” dei beni, senza determinare aggiustamenti sul versante del reddito. Questo accade nel sistema monetario internazionale del “Gold Standard” (sistema che è andato avanti fino alla prima guerra mondiale). In pratica le BDP si riaggiustavano in modo automatico secondo quanto previsto dalla TQM di Hume. I paesi in surplus accumulavano oro e quindi aumentava l’offerta di moneta che rendeva meno competitivi i prezzi dei beni nazionali. Le esportazioni scendono e la BDP torna in equilibrio. Viceversa, accadeva nei paesi in deficit; la fuoriuscita di oro determinava una discesa dei prezzi e un aumento della competitività delle esportazioni, nella misura necessaria per eliminare il deficit iniziale. Il sistema si basava su accordi di cambio praticamente fissi. Intorno agli anni trenta, il commercio internazionale viene regolato attraverso un nuovo sistema di cambi flessibili. Anche in questo caso la letteratura dimostra che con le variazioni del cambio e se vale la condizione di Marshall-­‐Lerner (secondo cui la somma delle elasticità della domanda alle esportazioni e importazioni è superiore a uno) la BDP torna in modo automatico in equilibrio. Ancora una volta non sono richiesti aggiustamenti sul fronte del reddito. Le critiche mosse nei confronti dell’ortodossia partono dall’osservazione della realtà. Diversi autori dimostrarono che i prezzi seguivano un andamento simile sia nei paesi in surplus che in quelli in deficit. Ciò testimonierebbe che i processi di riequilibrio delle BDP fossero il riflesso di aggiustamenti di reddito piuttosto che di prezzo. Un paese in deficit assiste a un aumento del tasso di interesse (necessario per finanziare il deficit con l’estero) che fa ridurre la domanda aggregata e quindi le importazioni. Di converso, nei paesi in surplus i tassi di interesse si riducevano stimolando la domanda. Harrod (1933) sviluppo in quegli anni un moltiplicatore “statico” del commercio int.le attraverso cui dimostra che se le ragioni di scambio (o il tasso di cambio reale) rimangono costanti, sono le variazioni del reddito ad allineare le esportazioni con le importazioni. Una prima evidenza a sostegno delle nuove teoria è che esiste una differenza sostanziale tra il tasso di cambio nominale e quello reale. Un paese può anche deprezzare la valuta nominale ma se non riesce ad abbassare i prezzi interni e possibile che la competitività “reale” non cresca. Inoltre, dalla condizione di Marshall-­‐Lerner nel breve periodo gli studi empirici evidenziano che le elasticità possono operare nel senso contrario rispetto a quanto atteso, soprattutto perché incide la diversa natura dei beni esportati e importati (un conto è esportare petrolio un altro è esportare carne argentina). Dopo il 1971, con la fine del sistema monetario di Bretton Woods (vedere tra gli altri, Mauro, 2013, Il Sistema monetario internazionale) l’evidenza empirica suggerisce che le variazioni del tasso di cambio nominale non sono un’arma efficiente nell’aggiustamento della BDP; le valute si apprezzano e si deprezzano ma permangono forti squilibri globali nelle BDP). Le teorie che hanno sfidato l’ortodossia classica Negli anni del dopoguerra, si sviluppano in letteratura due primi importanti contributi teorici in direzione di una radicale revisione dell’impostazione ortodossa dell’epoca. Le due principali sfide hanno riguardato: 1) il moltiplicatore statico del commercio estero di Harrod (1933); 2) il modello centro-­‐periferia di Prebisch (1950). HARROD: lo studioso indica in 1/m il moltiplicatore estero, dove “m” è la propensione marginale al consumo. Harrod ha derivato il suo moltiplicatore sulla base delle seguenti ipotesi: a) il reddito è generato dalla produzione di beni di consumo (C) e di esportazione (X), in modo che Y=C+X; b) tutto il reddito è speso in beni di consumo (C) o importazioni (M, in modo che Y=C+M); c) le ragioni di scambio sono costanti. Quindi X=M (equilibrio della BDP) Le importazioni possono essere così espresse: 𝑀 = 𝑀 + 𝑚𝑌, dove 𝑀 sono le importazioni autonome. (m lo conosciamo) quindi attraverso semplici passaggi, avremo: 𝑌 = 𝐶 + 𝑋 ; 𝑌 = 𝐶 + 𝑀 ; 𝑀 = 𝑀 + 𝑚𝑌 ; 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑒𝑛𝑑𝑜 𝐶 + 𝑋 = 𝐶 + (𝑀 + 𝑚𝑌) !
𝑌 = 𝑋 − 𝑀 ∗ ! e quindi !"
!
= ! !(!!!)
qualsiasi variazione in X o 𝑀 riporta sempre la Bilancia commerciale (BIC) in equilibrio, ma tramite variazioni del reddito anziché attraverso variazioni nei prezzi relativi. Se ad esempio, “m” è 0,5, un avanzo commerciale determina un aumento del reddito pari a 2. Se invece “m” è più alto, 1,2, il reddito aumenterà di 0,83. Gli effetti del reddito consentono poi di riportare la BIC in equilibrio (l’aumento del reddito determinerà un aumento delle importazioni). Thirlwall (2001) ha poi più ampiamente sviluppato il moltiplicatore di Harrod, mettendo in evidenza che la crescita del reddito di un paese è vincolata al rapporto tra la crescita delle esportazioni e la domanda alle importazioni. In effetti, (questi passaggi li riprendiamo più avanti) se la componente autonoma delle “M” è ragionevole ritenere esogena, perché non dipende dal volume del reddito, l’equazione sarà in termini differenziali data da: !
𝑦 = ! questa è la cosiddetta “legge di Thirlwall”. (dove con 𝜋 misura l’elasticità delle importazioni al reddito) Tuttavia, sono passati molti anni prima che Thirlwall collegasse il moltiplicatore di Harrod al tema della crescita economica. In effetti, Harrod si poneva solo l’interrogativo di dimostrare che la BIC può tornare in equilibrio solo sulla base delle variazioni del reddito, criticando in questo modo l’impostazione ortodossa che ipotizzava nei meccanismi dei prezzi relativi un processo automatico di aggiustamento. Prima di arrivare alla versione di Thirlwall altri studiosi sono intervenuti nel dibattito, cercando di specificare meglio il rapporto tra commercio estero e crescita economica. PREBISCH: l’autore, diversamente dai classici, concentra la sua attenzione sugli aspetti monetari della BDP. Egli riteneva che i guadagni ottenuti dalla specializzazione produttiva (secondo la ben nota legge dei vantaggi comparati di Ricardo) potessero essere compensati dalla sottoutilizzazione delle risorse, se gli scambi commerciali sono un vincolo alla produzione. Per dimostrare questa assunzione Prebisch confrontava le situazioni tipo di un paese industrializzato e un paese in via di sviluppo. Dall’esito degli scambi solo il secondo perderebbe perché tende a specializzarsi in attività dai rendimenti decrescenti, con una scarsa elasticità della domanda al reddito, come ad esempio i beni agricoli. A guadagnare sarebbero invece i primi perché si specializzano in beni manifatturieri a rendimenti crescenti per i quali la domanda al reddito è molto più elastica. Vediamo come attraverso un esempio si può illustrare la situazione: a) un paese in via di sviluppo (PVS) esporta solo beni agricoli, con un’elasticità media della domanda al reddito di 0,8 (εpvs=0,8); b) un paese sviluppato (PI) esporta solo beni manufatti con un’elasticità della domanda al reddito in media di 1,3 (εpi=1,3). Sappiamo che l’elasticità delle esportazioni del PVS è uguale all’elasticità delle importazioni del PI (πpi=0,8) e l’elasticità delle esportazioni del PI corrisponde all’elasticità delle importazioni di PVS (πpvs=1,3). Se entrambi i paesi crescono allo stesso tasso annuo, la situazione è chiaramente non sostenibile. Per esempio, ipotizziamo che i due paesi crescano del 5%: a) la crescita annua delle importazioni nel PVS sarà 5*1,3= 6,5%; b) la crescita annua delle esportazioni del PVS sarà 5*0,8=4%. Ne consegue che il PVS sarà sempre in deficit mentre il PI sarà in avanzo. L’equilibrio della BDP del PVS richiede che la crescita del prodotto sia limitata al punto massimo in cui le importazioni non crescono più velocemente delle esportazioni. Il tasso di crescita così limitato sarebbe pari a: !
𝑦 = ! !"#$
!"#$∗!"#$
!,!"∗!,!
𝑔𝑃𝑉𝑆 = !"#$ = !"#! = !,! = 3,1% (a) ovvero: le esportazioni crescono del 4% mentre la domanda alle importazioni è 1,3, quindi il tasso di crescita sarà (0.05*0.8)/(1.3)=3,1%. L’equilibrio della BDP in entrambi i paesi implica che il PVS cresca del 3,1% rispetto al tasso di crescita del 5% del PI. Il tasso di crescita relativo dei due paesi è ottenuto riarrangiando l’equazione (a) in questo modo: !"#$
!"#$
!,!
= !"#$ = !,! = 0,62 (b) !"#
sulla base di questa ipotesi, il PVS è limitato a crescere solo poco più del 60% della crescita del PI. Ad esempio: le importazioni crescerebbero (al 3,1% della crescita del reddito) =3,1*1,3= 4,03, cioè in linea con le esportazioni. Se il PVS cresce in misura maggiore la BDP va sempre in deficit. L’equazione di Prebisch (b) è la base del suo modello di centro-­‐periferia e si può mostrare che esse è il corrispondente dinamico del moltiplicatore statico del commercio di Harrod. In pratica, partendo da Harrod: Δ𝑌 =
!!
!
= Δ𝑋
!!
!!
Moltiplicando il termine a sinistra per X/Y e il termine a destra per M/Y (possibile dal momento che ipotizziamo X=M), otteniamo: Δ𝑌
!
!
=
!
!!
! !! !!
Possiamo scrivere: !!
!
!!
= !!/!
!
!!/!
e quindi avremo !
𝑦 = !
Inoltre, questa equazione è anche la base della regola “dei 45 gradi di Krugman”, ovvero che il tasso di crescita di un paese rispetto ad un altro sarà proporzionale al tasso delle sue elasticità al reddito della domanda delle esportazioni e delle importazioni, se il tasso di cambio è costante (Krugman, 1989). Il contributo di THIRLWALL (1979): partendo da queste considerazioni, Thirlwall completa lo schema analitico del vincolo della bilancia dei pagamenti sulla crescita attraverso una sistemazione teorica e la realizzazione di prime verifiche empiriche. L’assunto del modello è che nessun paese può crescere più velocemente del tasso compatibile con un equilibrio di partite correnti nella BDP, a meno che non possa finanziare dei deficit sempre crescenti, cosa che in generale non si può fare. Esiste un limite del rapporto tra deficit e pil e tra deficit verso l’estero e il pil oltre il quale i mercati finanziari diventano nervosi. La maniera migliore per modellare la crescita in un contesto di vincolo della BDP, quindi, è partire dalla condizione di equilibrio della BDP. I passi prevedono: a) equilibrio delle partire correnti (Bilancia commerciale BIC); b) definire le funzioni di domanda delle esportazioni (X) e importazioni (M); c) risolvere il modello per il tasso di crescita del reddito compatibile con l’equilibrio di pungo periodo della BDP. L’equilibrio della BIC è dato da: 𝑃! 𝑋 = 𝑃! 𝑀𝐸 (1) dove X sono le esportazioni, M le importazioni, Pd è il prezzo domestico delle esportazioni, Pf il presso estero delle importazioni, e E è il tasso di cambio nominale, misurato come prezzo domestico della valuta estera. Le funzioni di domanda delle esportazioni e delle improtazioni sono specificiata come moltiplicative, con elasticità costante: 𝑋=𝑎
𝑀=𝑏
!!
!! !
!
𝑍 ! 𝜂 < 0 ; 𝜀 > 0 (2) !! ! !
!"
𝑌 ! 𝜑 < 0 ; 𝜋 > 0 (3) dove 𝜂 è l’elasticità al prezzo della domanda di esportazioni; 𝜀 è l’elasticità al reddito della domanda di esportazioni; 𝜑 è l’elasticità al prezzo della domanda di importazioni; 𝜋 è l’elasticità al reddito della domanda di importazioni; Z è il reddito mondiale e Y è il reddito nazionale. Prendendo i logaritmi di (2) e (3), differenziando rispetto al tempo, sostituendo la crescita delle esportazioni e delle importazioni nell’equazione (1) della forma del tasso di crescita, e risolvendo per la crescita del reddito, si giunge a: 𝑦! =
!!!!! !! !!! !! ! ! !
!
(4) ora le lettere minuscole indicano i tassi di variazione delle variabili. L’equazione (4) esprimre una serie di proposizioni economiche familiari: 1) un miglioramento delle ragioni di scambio in termini reali, ovvero 𝑝! − 𝑝! − 𝑒 >0, aumenterà la crescita del reddito compatibile con l’equilibrio della BDP; 2) se la somma delle elasticità al prezzo della domanda per le esportazioni e le importazioni è maggiore di -­‐1, un miglioramento delle ragioni di scambio (o una perdita di competitività) 𝑝! − 𝑝! − 𝑒 >0, peggiorerà il tasso di crescita compatibile con l’equilibrio della BDP; 3) un deprezzamento del tasso di cambio, e>0, aumenterà il tasso di crescita se 𝜂 + 𝜑 >-­‐
1. Questa è la condizione di Marshall-­‐Lerner per il successo di una svalutazione. Si noti, comunque, che un deprezzamento una tantum non può porre il paese permanentemente su un sentiero di maggiore crescita; 4) il tasso di crescita di un paese dipende dai tassi di crescita degli altri paesi (z) ma quanto velocemente un paese cresce rispetto agli altri dipende in maniera cruciale dall’elasticità al reddito della domanda delle esportazioni, (𝜀) (si pensi al modello di Prebisch); 5) il tasso di crescita di un paese compatibile con l’equilibrio della BDP è inversamente correlato al suo desiderio di importare (𝜀) (modello di Prebisch). Thirlwall ritiene che se i prezzi relativi nel commercio estero, o il tasso di cambio reale, sono costanti, l’equazione (4) si riduce a: 𝑦!∗ = 𝜀(𝑧)/𝜋 (5) e sulla base della stessa ipotesi; 𝑦!∗∗ = 𝑥/𝜋 (6) siamo tornati alla versione dinamica del moltiplicatore del commercio estero di Harrod. Perraton (2003) ha definito l’equazione (5) come la versione “forte” della legge di Thirlwall, e l’equazione (6) come la versione “debole” perché se il parametro "𝜀" non è stato stimato allora la crescita delle esportazioni (x) deve includere anche l’effetto di variazioni dei prezzi relativi, così come l’effetto della crescita del reddito mondiale. Il modello è quindi meglio testato utilizzando la versione “forte”, se si vogliono ottenere stime robuste del parametro 𝜀 . Il modello può essere semplicemente rappresentato in forma grafica come in figura 1: La crescita delle esportazioni è autonoma (quindi la retta è orizzontale) mentre quella delle importazioni è funzione del reddito, che è definita in base all’elasticità al reddito della domanda per importazioni (𝜋). Il tasso di crescita del PIl è compatibile con l’equilibrio della BDP è definito dal punto dove le due rette di incontrano. Più alta sarà la curva delle esportazioni e più piatta la curva m, più alto sarà il tasso di crescita di equilibrio, e viceversa. La questione che ora viene posta da Thirlwall è se tale modello riesce a spiegare in modo adeguato i dati osservati. La tabella 1 mostra i dati originali (le prime due colonne) e i risultati ottenuti con le equazioni (5) e (6) (la colonna della stima dell’elasticità e la colonna CCBP). Interessante il confronto tra Italia e Giappone, il modello sembra spiegare abbastanza bene il differenziale di crescita del PIL tra le due economie (e tra Germania e Italia?). Un test parametrico sulla bontà del modello è stato presentato da McCombie (1989) che ha calcolato la teorica elasticità al reddito della domanda delle importazioni che condurrebbe a y= yb* o y= yb**, cosicchè se non ci sono differenze significative tra le elasticità della domanda per le importazioni e quella stimata saranno un buon predittore di y. Utilizzando il test per un campione di paesi il modello della crescita vincolata dalla BDP è accettato per la maggioranza dei paesi. Conclusioni Thirlwall sottolinea come gli squilibri globali nelle BDP sono un problema per l’economia mondiale. Producono grandi e volatili flussi di capitale speculativo; contribuiscono all’instabilità delle valute e al bisogno per i paesi di detenere grandi riserve di valuta estera, al fine di intervenire nei mercati valutari quando necessario. Inoltre, producono arbitrarie riallocazioni delle risorse tra paesi in deficit e paesi in surplus, spesso dai paesi poveri a quelli più ricchi. Diversi commentatori sostengono a ragione che non tutti i paesi possono avere una crescita fondata sulle esportazioni – perché alcuni paesi dovrebbero necessariamente importare – ma la crescita trainata dalle esportazioni dai paesi in deficit non è un gioco a somma zero, se i paesi in avanzo permettono ai loro surplus di ridursi. Il mondo nel suo complesso migliorerebbe le proprie condizioni. L’economia mondiale non sarebbe in questa situazione di sgravi squilibri globali se avesse istituito dei meccanismi istituzionali per penalizzare i paesi in surplus che sono riluttanti a, o per qualche ragione non sono in grado di, spendere di più o ridurre i loro surplus in qualche maniera. A tal fine, Thirlwall suggerisce che ad esempio una soluzione potrebbe essere fornita dal FMI che potrebbe dichiarare che non tollererà i surplus dei propri membri che eccedono una certa percentuale del PIL (es. 2% -­‐ che è un livello di deficit sostenibile per la maggior parte dei paesi). Sanzioni per i paesi in surplus sono degne di considerazione per un ordine economico internazionale più stabile e per ridurre il “bias” deflazionistico derivante dai vincoli della BDP sulla domanda e sulla crescita dei paesi in deficit perpetuo. L’Europa e l’euro: squilibri nelle politiche fiscali o nelle bilance dei pagamenti? Quali i sintomi e le cause della depressione dell’economia europea? Riprendendo un lavoro di Alessandrini et al (2014), dal titolo “External Imbalances nd Fiscal Fragility in the Euro Area”, in Open Economic Review, 3-­‐34, possiamo esaminare alcune questioni inerenti l’economia europea , associando il tema della mancata crescita con i problemi legati agli squilibri macroeconomici che caratterizzano l’area. Scrive uno degli autori (Presbitero, 2012, Europa una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti?, in Linkiesta), per uscire dalla crisi bisogna capire innanzitutto se si tratta di una crisi dovuta agli squilibri dei debiti pubblici o dei debiti delle bilance dei pagamenti. Nel primo caso, le riforme di rigore fiscale costituiscono lo strumento idoneo per la soluzione dei problemi; ma se la crisi trae origine dagli squilibri negli scambi commerciali, le politiche fiscali restrittive non solo non producono gli effetti desiderati ma rischiano di alimentare effetti controproducenti. In verità, prima della crisi del 2009, con la valuta comune i rendimenti dei titoli di stato dei paesi membri erano abbastanza allineati. Con l’esplodere del caso della Grecia i mercati finanziaria hanno iniziato ad alimentare un rischio paese, determinando un rialzo dei tassi di interesse nazionali dei paesi “sotto attacco” e quindi dello spread rispetto ai tassi del paese con il minor grado di rischio di solvibilità dell’Unione europea monetaria – la Germania . La crisi all’interno dell’eurozona ha attirato l’attenzione due grandi questioni: a) l’esistenza di persistenti squilibri tra le bilance commerciali dei paesi membri; b) l’aumento dei debiti pubblici. Il punto centrale da cui parte tutta una serie di riflessioni è legato al fatto che si è pensato che lo spread dei titoli di stato fosse legato agli aspetti di finanza pubblica. In questo modo, le attenzioni si sono riservate in maniera predominante sul secondo aspetto. Ma attenzione a non confondere i sintomi con le cause della malattia. Se si prende in considerazione il primo dei due ordini di problemi si può capire che l’ampliarsi degli spread tra i rendimenti dei titoli di stato europei rappresenta la febbre sintomatica della fragilità strutturale dell’eurozona e che limitarsi a curare le finanze pubbliche può abbassare la febbre, ma non ne cura le cause. Appare evidente che l’euro opera senza adeguati meccanismi di aggiustamento tra le due aree strutturalmente diverse: a) paesi periferici in deficit meno competitivi b) paesi al nord in surplus più competitivi. VISIONE “neoclassica-­‐tedesca”: cosa dovrebbero fare i paesi periferici? Questi paesi sono fiscalmente irresponsabili perché non hanno fatto le riforme dal lato dell’offerta per accrescere la competitività. Per questo, essi devono seguire politiche di rigore fiscale al fine di ristabilire la sostenibilità delle finanze pubbliche e attenuare il rischio che questi possano abbandonare l’euro. Appare evidente che questo meccanismo se da un lato è necessario per non alimentare ulteriori attacchi speculativi dall’altro non rappresenta il rimedio giusto, e risultare insufficiente e controproducente. Perché insufficiente? Insufficiente se al rigore non si accompagnano politiche di sviluppo che agiscano sia dal lato della domanda che dell’offerta; controproducente se viene favorita la depressione e la disoccupazione. In verità, il recente articolo di Alessandrini, Fratianni, Presbitero e Hughes Hallet mette in evidenza che gli squilibri macroeconomici sono in grado di creare una crisi di debito. Alcuni fatti stilizzati suggeriscono che sia la fragilità fiscale dei paesi periferici che gli squilibri esterni tra il Nord in surplus e il Sud in deficit di conto corrente contribuiscono alla crisi, sebbene con ruoli diversi. La tabella 1 sottolinea come i differenziali di rendimento siano un sintomo che la causa della malattia e che i fondamentali fiscali da soli non sono sufficienti a spiegare il rischio sovrano. Ci sono paesi che mostrano posizioni fiscali anche più solide della Germania. Il nord, e in modo particolare la Germania, ha beneficiato di una minore crescita del CLUP e per via di una politica monetaria comune di un deprezzamento del tasso di cambio reale rispetto al Sud (tabella 2). Questi dati sono coerenti con l’ipotesi che non sia stata l’irresponsabilità dei paesi periferici a causare la crisi, quanto piuttosto l’asimmetria degli squilibri esterni dell’eurozona. Questa asimmetria è dovuta a una serie di fattori, tra i quali in particolare i differenziali salariali e di produttività del lavoro, non compensati da aggiustamenti dei tassi di cambio reale. Sono stati gli squilibri esterni ad aver azionato ingenti flussi di prestiti bancari dal nord al sud; quando questi si sono arrestati i capitali privati sono stati sostituiti da quelli pubblici, generando incrementi del debito sul PIL. Le stime empiriche delle determinanti degli spread tra i rendimenti dei titoli di stato decennali dell’eurozona e di quelli tedeschi mettono in luce l’importanza della liquidità sui mercati (2007-­‐2012); tuttavia, se l’osservazione sulla crisi europea a partire dal 2010 il ruolo del debito pubblico diventa trascurabile mentre i differenziali di produttività emergono come il secondo fattore chiave insieme alla liquidità del mercato per spiegare l’ampliarsi degli spread. Pertanto, l’interpretazione della crisi europea come crisi delle bilance dei pagamenti si accompagna all’idea della fragilità fiscale dei paesi periferici. Pur riconoscendo l’importanza del risanamento fiscale nel lungo periodo occorrono procedure che impongano oneri di aggiustamento “simmetrici” tra tutti i membri dell’UME. Da un lavoro di Brancaccio (2008) si dimostra attraverso semplici esercizi econometrici che i differenziali dei tassi di interesse a dieci anni dei titoli di stato rispetto ai Bond tedeschi sono più sensibili alle variazioni delle bilance commerciali rispetto alle variazioni dei saldi pubblici. 
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