AlbaNacinovich lamusica èmagia la Voce del popolo spettacoli www.edit.hr/lavoce Anno 1 • n. 5 martedì, 24 novembre 2015 ANNIVERSARI CINEMA Celebriamo il grande Jean Sibelius L’influsso dell’opera di Edgar Allan Poe Ricorre quest’anno il 150.esimo della nascita del compositore finlandese 2 IL PERSONAGGIO 3 Il padre del racconto horror ha ispirato numerosi adattamenti cinematografici RECENSIONE Un ritratto del regista Orson Welles Il film «La teoria del tutto» Cent’anni fa nasceva uno dei maggiori geni della cinematografia americana Una versione idealizzata dello straordinario percorso di vita di Stephen Hawking 6|7 8 2 martedì, 24 novembre 2015 ANNIVERSARI spettacoli a cura di Patrizia Venucci Merđo || Una vecchia banconota finlandese con il volto di Sibelius la Voce del popolo SI CELEBRANO QUEST’ANNO I 150 ANNI DELLA NASCITA DI JEAN SIBELIUS, IL MASSIMO COMPOSITORE FINLANDESE LO SPIRITO FINLANDESE IN RAFFINATE MELODIE I n occasione dei centocinquant’anni della nascita di Johan Julius Christian Sibelius (Hämeenlinna, 8 dicembre 1865 - Jävenpää, 20 settembre 1957.) il Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume ha reso omaggio a questo compositore, massimo musico finlandese e il più importante sinfonista scandinavo, eseguendo in una serata sinfonica il Concerto in re minore per violino e orchestra e la sua Seconda sinfonia. Una serata di successo, diretta da Ville Matvejeff, con Marco Graziani in veste di solista, che è stata l’imput per indagare, a vantaggio dei nostri lettori, la vasta produzione di Sibelius imperniata principalmente sullo spirito e la cultura del suo paese natio, riletti e trasfigurati tuttavia attraverso il suo personale modo di sentire e la propria immaginazione. Figlio di svedesi - il padre era medico - nacque nel Granducato di Finlandia, all’epoca sotto il dominio russo e la sua lingua madre fu il svedese. La sua famiglia però decise consapevolmente di mandare Jean in una scuola di lingua finlandese. Si aggregò al movimento dei fennomani, un’espressione del nazionalismo romantico che sarebbe diventata una parte cruciale della produzione artistica e delle idee politiche di Sibelius. Abbandonati gli studi di giurisprudenza, studiò musica a Berlino e a Vienna. La sua opera, sebbene di non facile collocazione stilistica, subì dapprima l’influenza di Wagner, sebbene Ferruccio Busoni e Čajkovskij abbiano segnato la sua personalità musicale in maniera più importante. Autore di poemi sinfonici ispirati al poema nazionale “Kalevala”, scrisse sette sinfonie, oltre cento Lieder per voce e pianoforte, musiche di scena per 13 drammi, un’opera (Jungfrun i tornet), musica da camera tra cui un quartetto d’archi, musica per pianoforte, musica corale e musica rituale massonica. In questa sede ci limiteremo a passare in rassegna alcune delle composizioni più significative di Sibelius onde cercare di approfondire le loro caratteristiche di base. Le sette sinfonie Nella lunghissima vita di Sibelius le sette Sinfonie coprono un arco di tempo di appena venticinque anni: eccetto la Prima, esse nacquero tutte nel primo quarto del secolo scorso, il Novecento. Ciononostante si continua a considerarle nel loro complesso rappresentative del tardo Ottocento, nell’alveo delle scuole nazionali, come il loro autore: una sorta di Čajkovskij finnico. Per quanto Sibelius appartenesse alla generazione di Strauss, Mahler, Debussy e Busoni (tutti nati a cavallo del 1865, l’anno di nascita di Sibelius), risulta storicamente arduo inquadrarlo a pieno titolo in una delle tendenze della crisi o del cambiamento da cui sarebbe nata la musica moderna: nella cui genealogia si stenta infatti a collocarlo. Se da un lato la stessa definizione di lui come esponente del nazionalismo romantico ottocentesco si rivela inadeguata, non foss’altro per motivi cronologici, dall’altro lato l’incidenza della musica popolare finlandese in queste opere, per quanto chiara, non giunse mai a essere determinante nel senso in cui lo fu per esempio per Bartók quella ungherese, Society ed eseguito per la prima volta il 26 dicembre dello stesso anno sotto la direzione di Walter Damrosch, “Tapiola” è l’ultimo poema sinfonico scritto da Jean Sibelius. Al pari di altri, si ispira al “Kalevala”, il poema epico nazionale finlandese caro al compositore; Tapio, nella mitologia finnica, è il dio delle foreste e Tapiola è la sua dimora, celata tra un fitto e cupo intrico di alberi e vegetazione. Il poema si basa sulla forma della variazione, con una ripartizione in introduzione, tema con sette variazioni e coda; allo stesso tempo, tuttavia, la composizione mostra una forma quadripartita che porta a ritenere l’esistenza di una correlazione con la strofa di quattro versi apposta da Sibelius sulla partitura: “Là si stendono ampiamente le cupe foreste del Nord/, antichissime, misteriose, meditando i loro sogni selvaggi:/ abita in esse il grande Dio delle Foreste/ e gli spiriti silvani tessono magici segreti nell’oscurità”. Il carattere descrittivo e programmatico del poema sinfonico riesce particolarmente congeniale al compositore finlandese, giacché Sibelius si dimostra in quest’opera come un sommo maestro della variazione; tutti i temi e i motivi, per quanto possano differire nei rispettivi caratteri, nascono da un’unica cellula germinale. I moventi leggendari e mitici vengono esaltati da una fluida invenzione melodica e da una smagliante e sempre cangiante orchestrazione. Il concerto per violino || La prima pagina del Concerto per violino ossia quale spinta alla rifondazione del linguaggio su basi strutturali avanzate: essa rimase vagheggiamento ed evocazione di atmosfere suggerite dall’anima della natura, poeticamente trasfigurate da un sottofondo inconscio, nostalgico o programmaticamente affermativo, assai personale. Vecchi pregiudizi e associazioni automatiche Con tutto ciò, viene il sospetto che Sibelius sia ancora vittima di una visione d’insieme ancorata a vecchi pregiudizi, ad associazioni automatiche. Il percorso compiuto nelle Sette Sinfonie non va tanto nel senso di un’evoluzione rettilinea quanto di una risposta sempre nuova a interrogativi formali e linguistici radicati nel presente: solo marginalmente cullati dall’eco di nordiche magie crepuscolari e tutt’altro che disimpegnati. Anche la tendenza a una certa introspezione psicologicamente inquieta, non esibita ma prettamente moderna, si riflette sul piano compositivo per addentrarsi in pieghe sottilmente ambigue: di un’ambiguità latente e risolta problematicamente. La caratteristica proliferazione delle cellule tematiche sviluppata fino a produrre, senza apparenti cesure, l’organismo intero della costruzione sinfonica (un modo di procedere tutt’altro che tradizionale, schematico o epigonale), l’identificazione completa del pensiero sinfonico nell’idea formale che lo regge (e che muta in modo rilevante da una Sinfonia all’altra), la conseguente ricerca di una espressione orchestrale che non sia rivestimento esteriore ma incarnazione || Un ritratto giovanile di Sibelius dell’idea e dello stato d’animo in timbri e suoni assoluti: questi elementi configurano una personalissima valorizzazione delle risorse compositive, tutt’altro che riducibile, se non in superficie, a intenti descrittivi, nazionalistici o comunque programmatici. «Finlandia» Il celebre poema sinfonico “Finlandia”, op.26 n.7, fu scritto per festeggiare l’indipendenza del Granducato di Finlandia dalla Russia, nel 1899. L’indipendenza della Finlandia dalla Russia è stato un tema molto sentito soprattutto alla fine del XIX secolo, tanto che il poema sinfonico Finlandia è stato usato molte volte come simbolo di tale volontà di irredentismo. Si compone di un unico movimento suddiviso in diverse sezioni; quella iniziale è particolarmente impetuosa e dai toni cupi, ne segue una più ritmica e solenne, mentre verso la fine compare una melodia lenta in seguito divenuta molto famosa e ribattezzata “Finlandia-hymni”. Per questa melodia sono state scritte delle parole per opera dello scrittore Veikko Antero Koskenniemi nel 1941. Per la bellezza e la popolarità acquisita da tale inno, nel 2001 il parlamento finlandese ha presentato una mozione per trasformarlo in inno nazionale (che attualmente è “Maamme”), anche se la richiesta è stata poi respinta. «Tapiola» Un altro significativo brano sinfonico nella produzione di Sibelius è il poema sinfonico “Tapiola”. Composto nel 1926 su commissione della New York Symphony Uno dei grandi concerti per violino e orchestra nella letteratura musicale è rappresentato appunto dal Concerto per violino e orchestra in re minore di Sibelius. Egli lo compose fra il 1903 e il 1904, sforzandosi di sintetizzarvi tutto quanto sapeva in fatto di tecnica violinistica e costellando la partitura di effetti mirabolanti. La sfida fu raccolta dal giovane violinista boemo Victor Novàcek, che tenne a battesimo il lavoro sotto la direzione dell’autore a Helsinki l’8 febbraio 1904; ma vuoi per l’inesperienza dell’interprete, vuoi per gli squilibri del lavoro, l’accoglienza fu così fredda da spingere Sibelius a ritirare la partitura e a sottoporla a una drastica revisione. Al massiccio sfoltimento delle insidie tecniche riservate al solista, che peraltro rimasero notevoli anche nella stesura definitiva, si accompagnò lo sforzo di snellire il primo tempo e di potenziare la vena lirica e sentimentale, che nella versione originaria era rimasta soverchiata dall’esibizione di virtuosismo. In questa nuova forma alleggerita e addolcita il Concerto in re minore poté finalmente ottenere il successo sperato, anche grazie agli interpreti che si incaricarono di presentarlo in prima esecuzione a Berlino nel 1905, il violinista Karl Halir e sul podio niente meno che Richard Strauss. Da allora al Concerto non sarebbero più mancati il favore del pubblico e l’attenzione dei maggiori violinisti, nonostante le ricorrenti riserve sollevate in sede critica sulla debolezza della sua struttura, sulla sua eccessiva inclinazione sentimentale, sull’anacronismo linguistico di una partitura ostinatamente e un po’ nostalgicamente rivolta al passato. Una partitura rivolta al passato Il Concerto di Sibelius guarda dunque soprattutto ai grandi modelli ottocenteschi, a Mendelssohn, Brahms e Bruch per l’accentuata inclinazione lirica, a Dvoràk e a Čajkovskij per il carattere rapsodico dell’invenzione e per il virtuosismo della parte solistica. In questo senso si è soliti inscriverlo nella fase giovanile della carriera di Sibelius, quella dei Poemi sinfonici e delle due prime Sinfonie, fase ancora condizionata dal romanticismo tedesco e anteriore alla svolta classicheggiante inaugurata nel 1907 dalla Terza Sinfonia. Nonostante il riferimento alle tradizionali strutture classiche (una forma-sonata con due temi per l’Allegro iniziale, una forma tripartita di canzone per il tenero Adagio centrale, un rondò per l’Allegro finale), il fascino del lavoro, fa notare Sergio Sablich “va dunque ricercato principalmente nel languore appassionato di un melodizzare tipicamente nordico e negli effetti suggeriti dalla elaboratissima scrittura violinistica, specialmente quando vi sia impegnato un interprete di grandi risorse tecniche, in grado di sfruttarne tutti gli inviti spettacolari”. la Voce del popolo cinema CINEMA martedì, 24 novembre 2015 3 di Dragan Rubeša LA STRAORDINARIA OPERA DI EDGAR ALLAN POE HA ISPIRATO NUMEROSI ADATTAMENTI CINEMATOGRAFICI “D urante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato da solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher.” Questo incipit de “La caduta della casa degli Usher” viene letto dalla voce narrante di Stellan Skarsgård in una delle scene più significative di Nymphomaniac di Lars Von Trier. Ma il pazzo danese è soltanto uno dei numerosi cineasti che amano citare il grande Edgar Allan Poe. Sembra che non ci sia un’opera di questo scrittore, soprattutto di quelle più celebri, che non abbia avuto un adattamento cinematografico in qualsiasi variante. Le leggende metropolitane narrano che Sylvester Stallon giunse a suo tempo all’idea di realizzare un film biografico su Poe. Però, il suo colloquio con il produttore Avi Lerner non portò all’esito sperato. “Poe porta una pistola?”, gli avrebbe chiesto il produttore. “Non, non ha una pistola”, avrebbe risposto Stallone. “Ma può lanciare un coltello?”, fa ancora il produttore. “No, lui scrive poesie!” è la risposta di Stallone. Il progetto non venne mai realizzato. || The Raven IL PADRE DELL’HORROR CONTINUAADAFFASCINARE Dall’ottica queer al film animato «The Raven» di McTeigue Il problema venne risolto da James McTeigue nel film biografico The Raven (Il corvo), girato a Budapest e Belgrado, città che “impersonavano” Baltimore. Il regista ha qui davvero ficcato una pistola in mano al celebre scrittore (interpretato da John Cusack). La vita di Poe era troppo complessa, per cui McTeigue non ha potuto illustrarla in maniera radicale. Poe è stato ritratto invece come un alcolizzato che adora il suo procione. In una delle scene introduttive del film, Cusack offre un drink a chi completa un verso dal suo “Corvo” (…Mai più!...), nonostante il pubblico, al quale McTeigue si rivolge, abituato ai blockbuster – e che di regola evita le letture d’obbligo -, non sarebbe capace di completare nemmeno un verso, dove poi l’intera poesia. Invece di immergersi nella coscienza di Poe, presa dal buio e dal marciume, l’autore introduce un “copycat” serial killer (omicida seriale per imitazione) ispirato dalle sue descrizioni di orribili crimini e incita la mente geniale di Poe al gioco, dandogli l’opportunità di salvare l’amata Emily. “Se avessi saputo che le mie opere avrebbero avuto un effetto simile, mi sarei dedicato di più all’erotismo”, è ironico Poe nel film di McTeigue. “La gente aspetterà in fila per vedere quello che vediamo noi”, dice l’assassino nel Corvo. E davvero, i sette sequel della serie di film Saw, di cui il quinto fa riferimento a “Il pozzo e il pendolo”, conferma che il maniaco aveva ragione. I film dell’orrore L’opus di Poe ha ispirato la corrente gotica nel cinema, più che il torture porn. Ne è la conferma l’ultimo film di Guillermo del Toro (Crimson Peak) che si richiama a Poe, || The Raven di McTeigue Hitchcock, Mario Bava, Conan Doyle e ai vecchi horror della produzione Hammer. Come il viso e il mantello di Vincent Price ne La maschera della morte rossa di Roger Corman, così anche del Toro ama le tonalità rosse (l’abito della diabolica Jessica Chastain, i pavimenti di Allerdale Hall, i ritratti di inquietanti signore che sembrano una via di mezzo tra gli zombie della serie Walking Dead e le sculture di Bernini), l’innocenza e il sangue. Ma la vera minaccia nel film di del Toro non sono i morti bensì i vivi. Tuttavia, per goderci fino in fondo gli adattamenti di Poe dovremmo ritornare negli anni Cinquanta e Sessanta con il geniale Roger Corman che all’epoca girò ben otto film tratti dalle opere di Poe. In questi mette spesso in evidenza i loro aspetti decadenti e sessuali, aggiungendo una nota umoristica anche laddove non ce l’aspettiamo, come ad esempio nella parodia Il corvo con l’indimenticabile trio del quale facevano parte Vincent Price, Boris Karloff e Peter Lorre nel ruolo di illusionisti in conflitto, più l’allora giovane Jack Nicholson nel ruolo del figlio di Lorre. || The Mask of the Red death “Il corvo” è stato letto anche nell’ottica queer, grazie a David DeCoteau, il quale ha adattato in un contesto simile pure “Il pozzo e il pendolo”. Qui la suspense è sacrificata sull’altare dell’omoerotismo e vi si trova più carne che sangue. Lou Reed ha dedicato a questa poesia l’eccellente album concettuale “The Raven” (2003). Karloff e Bela Lugosi diedero il via ai loro scontri sadistici nel lontano 1934, quando Edgar G. Ulmer li ingaggiò per l’adattamento del racconto “Il gatto nero” di Poe, nonostante la sua fantasia sovversiva si rifaccia alla tradizione dell’espressionismo tedesco, in quanto il regista lasciò la Germania per motivi politici, insediandosi ad Hollywood. L’opus letterario di Poe ha lasciato traccia anche nel film animato, da Jan Švankmajer (La caduta della casa degli Usher) a Raul Garcia, il quale firma l’omnibus Extraordinary Tales composto da cinque brevi adattamenti animati dei classici di Poe, ciascuno realizzato con una tecnica d’animazione diversa e nei quali le voci sono state prestate da Christopher Lee (La caduta della casa degli Usher), Bela Lugosi (Il cuore rivelatore), Julian Sands (La verità sul caso di Mr. Valdemar), Roger Corman (La maschera della morte rossa) e Guillermo del Toro (Il pozzo e il pendolo). Poe incarnato in un corvo Alcuni, come Lugosi e Corman, erano venuti a contatto con l’opus di Poe già prima. Ne Il cuore rivelatore è stata utilizzata la registrazione di Lugosi, risalente al 1940, in cui egli legge Poe. La narrazione di Lee nella versione animata de La caduta della casa degli Usher è stato invece il suo ultimo ruolo cinematografico. Un sommario filo rosso che collega le storie di Garcia è il colloquio tra una statua di cimitero che simboleggia la Morte e Poe, incarnato in un corvo. Certo che Poe potrebbe richiedere i diritti d’autore per tutto ciò che concerne il genere horror, nonostante avesse dato vita al giallo investigativo e al genere thriller con il racconto “I delitti della Rue Morgue”. È interessante il fatto che la sua opera “Le avventure di Arthur Gordon Pym”, la quale gioca magistralmente sul confine tra la realtà e l’immaginazione, sembra ideale per un adattamento cinematografico, anche se questo non è stato ancora realizzato. Mai dire mai. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 24 novembre 2015 INTERVISTA L’ di Ivana Precetti || Alba si è esibita con Leo al concerto di Renzo Arbore nell’Arena di Pola lo scorso settembre ultima volta che l’abbiamo vista esibirsi è stato al Jazz Time Festival di Fiume ed è stata, come sempre, un’esperienza magica. È così quando hai davanti un talento vero, un’artista a 360 gradi che senza troppa difficoltà riesce a emozionarti, coinvolgerti e trasportarti in mondi lontani. Quando poi torni da questi “viaggi”, per un po’ di tempo fai fatica a ritornare alla realtà. Soltanto l’arte, in questo caso la musica, ha il potere di scombussolarti in questo modo, di lasciarti stordito, di farti provare brividi incredibili lungo tutto il corpo. Per un attimo stenti a capire cosa stia accadendo e ti lasci pervadere soltanto da queste bellissime sensazioni. Alba Nacinovich, connazionale figlia d’arte (il papà Bruno e mamma Elvia sono entrambi attori del Dramma Italiano di Fiume. Bruno è pure musicista), è una di quelle rare persone che, una volta sul palco, hanno il potere di colpirti provocando in te un terremoto di emozioni. Anche se giovanissima (è classe 1986), ha già un curriculum invidiabile, costellato da esibizioni e concerti di successo, collaborazioni importanti, premi e ottime critiche. Dietro a tutto questo, però, sta un grandissimo lavoro e una forte tenacia, tipica soltanto per chi ama profondamente ciò che fa. L’abbiamo incontrata per un’intervista, reduci dalla sua ottima esibizione con i Correspondances,un quartetto molto particolare del quale fa parte da circa un anno e mezzo e con il quale ha cantato per la prima volta a Fiume, appunto nell’ambito del Jazz Time Festival. Correspondances “Ci esibiamo per lo più in Italia – ha esordito – e questa è stata la nostra prima performance nella mia città. Un’esperienza pazzesca. I Correspondances nascono da un progetto di Francesco De Luisa, un amico che ho conosciuto al Conservatorio Tartini di Trieste, dove studiavamo entrambi, su poesie di poeti stilisticamente, geograficamente e per epoche diversi come Pascoli, Sanguineti, Borges, Hemingway, Baudelaire (dal quale abbiamo preso spunto per il nome del gruppo), le cui poesie non vengono recitate con accompagnamento musicale bensì diventano canzoni vere e proprie, musica nel vero senso della parola. Oltre a me in qualità di cantante, del quartetto fanno parte appunto Francesco che compone i brani e suona il pianoforte, Simone Serafini al contrabbasso e Alessandro Mansutti alla batteria”. I Correspondances sono stati ospiti di Alba al Festival “Trieste Loves Jazz”, edizione 2014, nell’ambito del quale lei è stata insignita del Premio “Franco Russo” che sostiene i giovani musicisti che per talento e impegno si stanno distinguendo nel jazz regionale e nazionale. In questo talentuoso quartetto, Alba ha modo di esprimersi anche nella recitazione, un altro campo artistico in cui si sente… a casa, poiché alcuni passi dei brani vengono recitati. Il duo Alba&Leo Prima di unirsi a questo nuovo progetto musicale, la nostra interlocutrice ne ha fatta di gavetta. In tanti la conoscono come parte del duo “Alba & Leo”. “È nato nel 2008, per puro caso. All’epoca Leo (Škec, nda) ed io suonavamo in un gruppo che si chiamava Love Runners e che è ancora attivo, ma con una nuova formazione. In un’occasione ci era stato proposto di sostituire Lela e Joe Kaplowitz a un festival, ma come duo. Da quel giorno abbiamo continuato a esibirci così, noi due da soli. L’idea che aveva Leo era di trasferire su chitarra gli arrangiamenti dei vari brani che gli piacevano e che ascoltava in genere e che non appartengono soltanto al jazz ma anche al rock e al pop, sviluppando una tecnica tutta sua, che unisce sia il fingerstyle che una maniera percussiva di suonare lo strumento. È uno stile che ci ha permesso sin dall’inizio di esibirci in coppia, una forma che mi piace tantissimo perché ti dà libertà e possibilità infinite. È una formazione impegnativa perché si sente ogni singola nota, ogni minimo sussurro e questo a volte risulta rischioso. Il rischio, però, è talmente piacevole e coinvolgente che vale la pena viverlo. Da un lato è molto intimistico ma può diventare molto potente, anche perché a volte utilizziamo la tecnica del live looping che consiste nella sovraincisione dal vivo, nel senso che durante un’esibizione si incidono più voci e più strati di suoni allo scopo di ampliare le possibilità di sperimentazione e improvvisazione”. Il jazz, un approccio verso la musica Una domanda che ci viene spontanea di fare ad Alba è perché proprio il jazz? “Per me il jazz non è una scelta di genere, bensì di approccio verso la musica. Per quanto riguarda il canto, come studio al Conservatorio si può scegliere o il canto lirico o il jazz. Oltre al Tartini, parte degli studi li ho fatti a Oporto, in Portogallo, nell’ambito del progetto Erasmus. Del jazz mi piace la libertà e il modo di giocare con i suoni. Ho avuto da sempre il pallino dell’improvvisazione e della composizione. Infatti, la composizione nasce dall’improvvisazione, in questo senso guidata. Perché proprio il jazz? Non lo so. L’ho scoperto alle medie (Alba ha frequentato l’ex Liceo di Fiume, nda), ascoltando un album di Thelonious Monk, che mi ha colpito in modo particolare. C’erano tutti i presupposti perché il jazz diventasse una parte di me. Devo dire, però, che non mi sono mai definita una cantante jazz, semplicemente perché non mi rappresenta fino in fondo. E poi, apprezzo questo genere così tanto che non voglio nemmeno definirmi una jazzista. È un mondo particolare in cui, ancora sempre, non ci si aspetta che i cantanti abbiano la preparazione degli strumentisti e questa è una cosa che non riesco ad accettare. La voce non è vista a tutti gli effetti come uno strumento e si crede che pertanto i cantanti jazz possano in qualche modo… passarla liscia. Secondo me, però, il livello dei cantanti è oggi alla pari di quello che gli strumentisti jazz hanno da decenni. D’altra parte, in tanti si definiscono con troppa facilità cantanti jazz, anche se magari sono lontani anni luce dal genere. Non basta eseguire canzoni del repertorio per diventare un interprete jazz. Per fare un esempio, Frank Sinatra era un cantante pazzesco, molto rispettato nell’ambiente jazz, anche se il genere non lo rappresentava a tutti gli effetti. La cosa vale anche un po’ per me, perché mi piace fare anche altre cose. Diversi progetti musicali Non amo venir etichettata come jazzista appunto perché sono attiva anche nel duo con Leo che mischia pop, jazz e rock. Negli ultimi due anni mi dedico inoltre alla musica elettronica e con il pianista Marco Germini, un altro mio amico di studi, abbiamo formato un duo che si chiama The Hunting Dogs. Siamo appena tornati dal Karlovačko RockOff Festival di Zagabria nell’ambito del quale ci è stato conferito il premio come gruppo più innovativo. Abbiamo partecipato anche all’Arezzo Wave Festival, uno dei più grandi festival per gruppi emergenti in Italia. Nei The Hunting Dogs mi diletto a suonare le tastiere, la chitarra e varie percussioni e anche qui usiamo la tecnica della sovraincisione. Con l’ausilio, poi, dei sintetizzatori modulari, in due riusciamo a creare uno spazio sonoro abbastanza potente e ricco con risonanze fortemente elettroniche. I pezzi sono nostri, alcuni dei quali sono racchiusi nel nostro primo vinile Out To Hunt, uscito nel giugno scorso. Nell’ambito di un concorso, uno dei nostri brani è stato scelto come colonna sonora per uno spot pubblicitario di Sky Italia”. Collaborazioni importanti Oltre a cantare, Alba lavora come programmatore musicale a Radio Fiume e insegna musica in scuole private a Codroipo e Gorizia. Vanta, inoltre, collaborazioni con nomi importanti del jazz come Elvis Stanić e Zvjezdan Ružić, al cui ultimo album “The Knightingale Cabaret” ha anche collaborato. È presente pure, assieme a Leo, in quello del noto chitarrista Damir Halilić Hal, uscito nei la Voce spettacoli del popolo martedì, 24 novembre 2015 «FACCIO MUSICA PER SPERIMENTARE E COMUNICARE CON IL PUBBLICO» 5 A COLLOQUIO CON LA GIOVANE CANTANTE CONNAZIONALE ALBA NACINOVICH, UN’ARTISTA A 360 GRADI festival a rischio di chiusura. In Croazia il pubblico jazz è una piccola realtà e questo mi rende triste”. Dove viene invece festeggiato? “La mecca è indubbiamente New York. Però ci sono Paesi, come ad esempio la Polonia, in cui il genere si sta sviluppando velocemente e in cui c’è una grande concentrazione sia di musicisti che di pubblico. Il jazz è un genere musicale che quando fatto bene riesce a trasmetterti un’energia incredibile e a conquistare anche quelli che prima forse non lo capivano. Non capisco quando qualcuno dice: ‘A me il jazz non piace’. È come dire che non ti piace il pop, ma in esso ci sono sia Severina che Sting, tanto per rendere l’idea. Il jazz è un genere immenso, un campo talmente vasto in cui ognuno può trovare qualcosa di suo gradimento. Ce n’è veramente per tutti”. Figlia d’arte giorni scorsi. Tra le altre collaborazioni, va sottolineata quella con il violinista zagabrese Marko First e nuovamente con Francesco De Luisa con il quale forma il progetto jazz “Questioning answers”. Ma dove lo trova il tempo necessario? “Ahimé, quello è un tasto dolente. Il tempo è sempre un problema e sarebbe bello se la giornata avesse qualche ora in più. Preferisco avere progetti fissi, a differenza di quello a cui ci spinge il mercato in cui i musicisti si beccano a malapena per una prova prima del concerto. I bei progetti, soprattutto in Croazia, si estinguono dopo due o tre appuntamenti e non riescono a mantenere una crescita costante a discapito sia dei musicisti che del pubblico. Tutte le mie collaborazioni sono nate spontaneamente, perché si sente a pelle con chi potresti farla. Quindi, senza calcolare troppo, ti ritrovi sul palco con il musicista con il quale hai un certo feeling”. «C’è sempre da imparare» La voce è uno strumento che va curato. Come si comporta Alba? “È uno studio continuo e ogni progetto offre nuove sfide. Certo che il timbro cambia nel tempo. Me ne rendo conto riascoltando registrazioni passate in cui usavo la voce in una maniera che ora mi sembra improponibile, quasi inascoltabile. Questo, però, è un buon segno. Ogni tanto chiedo anche qualche consiglio nelle scuole in cui insegno e mi confronto con qualche cantante lirico, partecipo ai vari workshop di canto. C’è sempre da imparare e mi piace prendere spunto da qualsiasi possibilità mi si offra. Un’ottima cosa sono i concerti degli altri, per i quali purtroppo trovo sempre poco tempo”. Che musica ascolti? “Io dico sempre che la mia Santa Trinità è rappresentata da Bach, Thelonious Monk e Freddy Mercury, per i quali ho un’adorazione assoluta. Freddy, poi, come cantante è inarrivabile. Delle pietre miliari mi piacciono ancora Björk, che secondo me è un’artista che ha cambiato il nostro tempo, e i Radiohead”. Che artisti ammiri? “Troppi, non vorrei fare un torto a qualcuno non nominandolo, nominerò pertanto quelli scoperti di recente: St. Vincent, Laura Mvula, Julian Lage. Non posso poi dimenticare Amy Winehouse, una benedizione durata troppo poco. Amy ad esempio aveva uno spirito jazz. Ammiro pure Cyrille Aimée, Fay Claassen, Maria João che ho avuto il piacere di conoscere e l’onore di fare una jam ad Abbazia. Dei musicisti croati aspetto con curiosità il nuovo disco dei Jinx che credo siano particolarissimi, e dei nuovi mi piacciono i Detour”. Fiume messa male con il jazz Come vedi la scena jazz a Fiume? “In città ci sono tantissimi validi giovani musicisti che purtroppo si sono dovuti trasferire a Zagabria perché il capoluogo quarnerino col jazz è messo veramente male. Un esempio lampante ne è il Jazz Festival che rischia di scomparire dopo 24 anni di illustre tradizione. Forse perché si punta su altri generi, non lo so. La cultura in generale sta combattendo per sopravvivere. Anche a Zagabria ci sono Quanto ti ha segnato il fatto di essere figlia d’arte? “Tantissimo. I miei genitori sono stati fondamentali. Mio papà, che oltre a essere attore è anche musicista, mi ha trasmesso entrambe le passioni. Come pure la mamma. Per un cantante il teatro è parte sostanziale di un’esibizione. I miei mi hanno insegnato sin da piccola a cogliere le sfumature della parola, della comunicazione e di trasferirle in musica. Un consiglio fondamentale che mio padre mi ha dato è stato quando avevo cinque o sei anni, dopo avermi iscritta ai Minicantanti con il mitico Zio Severino. Ricordo che prima di salire sul palco per la prima volta, mio papà mi ha detto: ‘Sorridi e divertiti’. È una consiglio che seguo sempre, anche adesso. È fondamentale soprattutto di questi tempi in cui i giovani iniziano a fare musica con grande entusiasmo e poi in questo percorso vengono assaliti da mille fobie e paranoie che quasi dimenticano il piacere che la musica offre. Non è importante avere una tecnica perfetta, un vibrato pazzesco o che ne so cosa. L’obiettivo è comunicare. A me interessa l’emozione che un artista riesce a trasmetterti. È per questo che andiamo ai concerti, no? Credo che in questo mondo ci siamo un po’ impigriti emotivamente e che siamo talmente abituati agli effetti speciali, senza sostanza, che dimentichiamo cosa sia l’arte vera. Oggi è tutto sensazionalismo. Mia madre dice sempre che è molto più semplice mettersi a nudo fisicamente che emotivamente. Sono d’accordo con lei”. «...è come se uscissi da questo mondo» Come si sente Alba sul palco? “Se sento che il pubblico mi segue, è come se uscissi da questo mondo. A volte sento i brividi lungo la schiena quando mi collego alla platea. Il bello della musica è che non devi neanche saper parlare la lingua del cantante, non devi sapere cosa canta di preciso per emozionarti. Le emozioni che ci accomunano sono sempre le stesse e l’arte in generale ha il potere di trasformarle in una sostanza magica e quindi trasferibile. Non importa se io, che ne so, sto cantando di Giovanni mentre quello che mi ascolta ama Stefania. Ci capiamo lo stesso. Questa è la magia della musica. Quando mi esibisco, entro in questa dimensione di emozione liquida che prende forme diverse e si trasferisce da persona a persona. È estremamente intenso e io mi sento benedetta per il fatto di poterlo sperimentare”. Ma Alba sta già vivendo il suo sogno? “Già il fatto di fare quello che amo mi sembra una fortuna e io ho sempre nuovi obiettivi. Una cosa di questo mondo che mi riesce difficile fare è essere manager di me stessa. Non sono tanto brava in questo. Dalle nostre parti manca una figura professionale che si occupi di questo aspetto ovvero di tutto quello che sta intorno alla musica e promuoverla. Io faccio musica per sperimentare, per comunicare con il pubblico, per improvvisare. Finora ho avuto veramente tante belle soddisfazioni in quanto a premi, critiche, concerti e collaborazioni. Sono concentrata sulla musica d’autore e quindi vorrei poter portare più spesso a un pubblico più vasto le mie composizioni. La parte organizzativa è quella che curo meno. Forse perché finora ho vissuto nell’innocente pensiero che bastino i risultati e che essi parlino da soli. Invece non è così e purtroppo bisogna sempre combattere. A volte ha più visibilità chi parla senza risultati piuttosto che l’inverso”. «Sfruttare le mille opportunità che la musica offre» Cosa insegni ai tuoi studenti? “Di godere in quello che fanno e di rispettare la tradizione senza diventarne schiavo. Sapete come si dice: togli a un musicista classico lo spartito e smette di suonare e metti lo spartito davanti a un musicista jazz e succede lo stesso. Secondo me bisognerebbe unire i generi e sfruttare le mille opportunità che la musica offre”. L’ultima domanda è d’obbligo: quali sono i tuoi prossimi piani? “Ho in programma diverse date con Alba & Leo, con cui stiamo registrando alcuni singoli che usciranno l’anno prossimo per una major croata, e i The Hunting Dogs, con i quali saremo a dicembre in concerto a Fiume e in tutta l’Istria. L’anno prossimo collaborerò con Glauco Venier, uno dei grandi musicisti jazz in Italia, nominato al Grammy, che è stato mio professore e che mi ha invitata a unirmi a lui a un progetto di poesie friulane. Avrò inoltre una collaborazione con il Cantus Ensemble di Zagabria. Non vedo l’ora”. 6 spettacoli martedì, 24 novembre 2015 IL PERSONAGGIO di Sandro Damiani la Voce del popolo RICORRONO QUEST’ANNO IL CENTESIMO ANNIVERSARIO M otivazione per l’Oscar alla carriera: “Per la superlativa capacità artistica e la versatilità dimostrata nella creazione di opere cinematografiche”. Non c’è campo in cui non si abusi del termine “genio” e la sua variante “geniale”; più in generale, viviamo in un’epoca di superlativi assoluti. A farne maggiormente le spese, se così si può dire, è il vasto e articolato mondo dell’arte. E al suo interno, il cinema, nel quale pare vi stazionino solo “mostri sacri”. A farne le spese – essendo che di notte tutte le vacche sono bigie – sono quei pochi veri e, diciamo così, “provati” geni. Uno di questi è George Orson Welles (Kenosha, 6 maggio 1915 – Los Angeles, 10 ottobre 1985), il quale, “genio”, venne proclamato a poco più che vent’anni, nel 1938, precisamente all’indomani della più grande beffa inscenata ai danni di milioni di radioascoltatori. Stiamo ovviamente parlando della sua famosa trasmissione radiofonica in presa diretta, del 30 ottobre del ‘38, in cui fece credere che la Terra stesse subendo un’invasione di alieni su temibili astronavi. Dirà, Welles, in seguito: “Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood“. Infatti, affascinati dalla follia, pardon, dalla “genialità” dell’idea e di come Welles condusse tutta l’operazione, i capataz della potente major hollywoodiana RKO gli offrirono un contratto per la realizzazione di tre pellicole. Si badi bene che fino a quel momento, Orson George Welles aveva girato un solo film, l’anno prima, un mediometraggio (Too Much Johnson), che francamente non si sa chi abbia visto... Inciso: quella che sembrava essere rimasta l’unica copia della pellicola, di proprietà dell’Autore, finì in cenere nel ‘70 nella villa madrilena di Welles, che prese fuoco. Sembrava... perché qualche anno fa ne è stata ritrovata un’altra, a Pordenone (?) e rimessa a nuovo dalla Cineteca del Friuli. In precedenza, il giovane Orson aveva girato un cortometraggio dal quale traspare – scrivono i suoi esegeti - la sua precoce intelligenza nel sapere coniugare a amalgamare Espressionismo e Surrealismo, Buñuel, von Stroheim e Murnau... ORSO UNUOMOF Una personalità unica Pazzerelloni, dunque, i produttori della Radio-Keith Orpheum Pictures? Manco per niente. Del giovane neoregista sapevano tutto. E tutto diceva loro che ci si trovava al cospetto di una personalità unica. Alle spalle, infatti, aveva robuste esperienze teatrali, negli USA e, precedentemente, in Inghilterra; come attore, come regista, come autore, con una preparazione culturale, classica e moderna di prim’ordine. Orson Welles nasce ricco, da padre industriale, ma non di quelli che inseguono solo il danaro; anzi, costui aveva il pallino dell’invenzione, mentre la madre era un’artista dilettante, ex suffragetta impegnata nel sociale (purtroppo per lui, la perderà giovanissimo). Insomma, il bimbo cresce in un ambiente che gli offre interessanti e stimolanti opportunità, sicché sin da piccolo calca le scene, studia pianoforte e pittura. Sogna, ragazzo, di fare il musicista, poi il pittore. Finisce per diventare attore, ma non autodidatta: studia. E, il passo successivo, regista. Dicevamo dei primi passi alla RKO. Il contratto che va a firmare, non solo è favoloso sotto il profilo economico (avendo sposato a vent’anni una benestante, questo aspetto più di tanto non gli fa né caldo né freddo), ma anche per la durata e il numero di progetti, tre, per i quali gli viene data carta bianca, quanto a tempi e mezzi di realizzazione. Il primo film in cantiere è l’adattamento di “Cuore di tenebra” (Heart of Darkness) di Joseph Conrad. Ma non verrà mai realizzato: troppo complessa la lavorazione, troppo ardite le novità tecniche e di ripresa che Welles vuole apportare. E troppo astrusa la materia per il pubblico americano. Stessa fine farà il secondo progetto, il poliziesco “Smiler with a Knife”. È trascorso un anno dalla firma in pompa magna del rapporto RKO-Welles e ancora non s’è visto nulla. Peggio: si sono avuti due aborti. L’ambiente comincia a dubitare della “genialità” del cineasta del Visconsin. Che sia un bluff? È la volta del terzo progetto. || Orson Welles all’epoca della trasmissione choc Quarto potere Il soggetto è originale, niente testo drammatico o novella come base dell’opera. È la storia di un ricco e potente capitalista, proprietario anche di un quotidiano, sulla cui vita un giornalista indaga dopo che, morendo, il magnate – Charles Foster Kane – si pronuncia in modo talmente strano che immediatamente si pensa a un qualche mistero legato alla sua esistenza. Quarto potere – è il titolo italiano; nell’originale è Citizen Kane. “Vi si racconta la storia – scrive Welles dell’inchiesta fatta da un giornalista di nome Thompson per scoprire il senso delle ultime parole di Charles Foster Kane. Poiché il suo parere è che le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. Forse è vero. Lui non capirà mai cosa Kane volesse dire, ma il pubblico, invece, lo capisce. La sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane, che lo amavano e lo odiavano. Gli raccontano cinque storie diverse, ognuna delle quali molto parziale, in modo che la verità su Kane possa essere dedotta soltanto - come d’altronde ogni verità su un individuo - dalla somma di tutto quello che è stato detto su di lui. Secondo alcuni Kane amava soltanto sua madre, secondo altri amava solo il suo giornale, solo la sua seconda moglie, solo sè stesso. Forse amava tutte queste cose, forse non ne amava nessuna. Il pubblico è l’unico giudice. Kane era insieme egoista e disinteressato, contemporaneamente un idealista e un imbroglione, un uomo grandissimo e un uomo mediocre. Tutto dipende da chi ne parla. Non viene mai visto attraverso l’occhio obiettivo di un autore. Lo scopo del film risiede, d’altra parte, nel proporre un problema piuttosto che risolverlo”. Il film inizialmente non ottiene il successo di pubblico sperato (che arriverà in seguito), ma nell’ambiente il parere è ben diverso, talché il Nostro viene ufficialmente incoronato “genio”. Per François Truffaut, che prima di divenire regista era un apprezzatissimo critico cinematografico, siamo in presenza del “film dei film“, l’opera che influenzerà numerosi giovani cineasti. Il «film dei film» La mancata risposta positiva del grosso pubblico non deriva tanto da supposte difficoltà a capire la pellicola, benché le novità (tecniche di ripresa, narrazione, piani sequenza, flash back, citazioni, rimandi, simbolismo, ecc.) non siano poche ma semplicemente perché il magnate della carta stampata Hearst, al quale in effetti inizialmente Welles si ispirò, si riconosce nel protagonista e avvia una campagna avversa al film di tale portata da non invogliare la gente ad andare a vederlo. Non solo, ma riesce pure a condizionare i proprietari delle sale e dei circuiti di distribuzione. Ma, ripeto, la critica la pensa diversamente. Come pure reputa straordinario l’attore Welles. Questi dirà che il merito maggiore andava al truccatore, che riuscì a “ritrarre” Kane da ventenne a quasi ottantenne. Ricorda Orson: “Riuscivo appena a muovermi, per via del corsetto e del cerone sul viso. Norman Mailer, una volta, ha scritto che quando ero giovane ero il più bell’uomo che mai si fosse visto. Grazie tante! Era tutto merito del trucco di Quarto potere“. Dopo Citizen Kane, due anni dopo, nel 1942, arriva L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons). Qui Welles non recita, è solo “voce narrante”. È la saga di una famiglia borghese americana. Regista e produttori sperarono in una immediata forte risposta del pubblico, che al contrario, non arrivò. L’Autore ha sempre parlato di questo film come migliore del primo, ma i suoi ammiratori non sono mai stati d’accordo, non trovandovi la compattezza del primo, nel quale peraltro Orson era impegnato 24 ore su 24. Qui, invece, in più occasioni egli lascia il set; una volta per girare un documentario in Brasile, commissionato nientemeno che dal Governo, una seconda volta per recitare in un’altra pellicola, su cui comunque riesce a mettere le mani. Insomma, fa capolino l’Orson Welles di prima di Quarto potere, che sarà poi il Welles futuro, quello, cioè, impegnato contemporaneamente su più fronti: un vulcano di idee che non riesce a non... eruttare a tambur battente. Flop de «L’orgoglio degli Amberson» L’esito poco soddisfacente della saga, il flop del progetto successivo e l’avvicendamento ai vertici della RKO, comportano il licenziamento in tronco. Siamo in piena guerra, il Paese, non a torto pensano i produttori, ha bisogno di ben altre “storie” rispetto a quelle che Welles può e vuole raccontare, oltre tutto costosissime. E così, Orson torna alla radiofonia, ma con trasmissioni, pur se fatte con tutti i crismi dell’approccio culturale, di mera propaganda politica. E il suo lavoro è talmente apprezzato che addirittura il presidente Roosevelt gli chiederà di scrivergli dei discorsi politici. spettacoli la Voce del popolo martedì, 24 novembre 2015 7 DELLA NASCITA E IL TRENTESIMO DELLA MORTE DI UNO DEI GRANDI DELLA STORIA DEL CINEMA || Orson Welles, Rita Hayworth e Joseph Cotten || Oja Kodar e Orson Welles || Una scena di “Othello” ONWELLES FUORIDAGLISCHEMI Sul fronte privato, Welles ha divorziato dalla prima moglie nel 1939. E dopo una relazione con la star Dolores Del Rio, sposa Rita Hayworth, da cui avrà una figlia, Rebecca. Nel ‘44 torna sullo schermo, attore. Alla grande: per David O. Selznick, recita accanto a Joan Fontaine. Segue una pellicola meno impegnativa, in cui ha per partner Marlene Dietrich, ed una accanto a Claudette Colbert. Finalmente, nel 1946 gli viene affidata una regia in cui recita pure. È Lo straniero, con Loretta Young ed Edward G. Robinson. Quindi, torna al teatro. Vi investe del proprio. Critici entusiasti, pubblico zero! Si tratta dell’adattamento musicale di “Il giro del mondo in ottanta giorni”. Flop e tasche vuote. Torna a Hollywood, la Columbia gli propone La signora di Shanghai: davanti alla macchina da presa ci sono lui e sua moglie Rita. Ma siccome il produttore non crede nella pellicola, l’uscita viene rimandata. Uscirà, neanche a farlo apposta, quando Orson e la “scandalosa Gilda” stanno divorziando... A lei piacque molto il film, più in generale non smise mai di ritenere l’ex marito un “genio”. «Macbeth» sul grande schermo A questo punto, Welles comincia ad avere le tasche piene di un ambiente che crede a corrente alternata alle sue capacità e medita la fuga in Europa: “Hollywood – dice - è un quartiere dorato adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri ed ai cinematografi soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò“. Prima di andarsene, si toglie lo sfizio di portare sul grande schermo “Macbeth” (regista e interprete), nonostante i soldi siano men che pochi. Il film viene girato in un mese, in un unico teatro di posa, con scenari abborracciati e i tecnici a fare da comparse. A lui non dispiace. Comincia a pensare ad un secondo Shakespeare, ma da fare senza la palla al piede delle major hollywoodiane. Pensa a “Otello” (era rimasto colpito dall’interpretazione broadwayana di Paul Robeson del ‘43). Per prima cosa, bisogna fare soldi, sicché “si sda”, come attore, in tre mediocri filmacci in costume; americani, ma fatti in Europa: Cagliostro, Il principe delle volpi e La rosa nera, in cui primeggia la sua espressione tra l’ironico e il divertito, sebbene interpreti ruoli, inquietanti più sì che no... Siamo tra il 1947 e il 1950. Pochi minuti in «Il terzo uomo» Prima dell’ultimo, ha modo di farsi ammirare in tutta la sua grandezza attoriale nel ruolo del “luciferino” (così lo definisce) Harry Lime in Il terzo uomo, diretto da Carol Reed, sceneggiato da un grande scrittore, Graham Greene. Welles appare per pochi minuti, ma di questo capolavoro ci si ricorda più di lui che non di Alida Valli, Trevor Howard e Joseph Cotten (suo compagno di strada in Quarto potere), anche perché di lui, cioé di Harry Lime, non si fa che parlare per tutta la durata del film. Ed eccoci all’Otello. Che esce nel 1952 dopo una lunga e travagliata lavorazione, dovuta anche ai suoi impegni nei succitati film. Si tratta della prima regia europea, sin da subito segnata da problemi finanziari, con il fallimento del produttore italiano (la Scalera Film). Ne troverà uno in Marocco, dove in parte gira. Verrà ripagato con la Palma d’Oro a Cannes. L’Italia gli piace: forse c’è troppa improvvisazione, ma è sempre meglio della logica dei “golfisti” di Hollywood. Sicché non si tira indietro neppure di fronte a offerte, come definirle? Buffe? Mi riferisco al pirandelliano L’uomo, la bestia e la virtù, di Steno, a fianco di Totò. La BBC lo chiama per affidargli la regia televisiva di “Re Lear”. Siamo nel 1955 quando gira Rapporto confidenziale, storia assai vicina a quella del cittadino Kane. Alla critica piace, il pubblico gradisce. L’anno dopo rieccolo a teatro, per “Moby Dick“, a Londra. Orson è Ackab, naturalmente. Ma non lo è successivamente nel film di John Huston, dove riveste il ruolo di Padre Mapple. Ritorno a Hollywood Riacquisita, in America, la fama degli inizi, Orson Welles fa ritorno a Hollywood. Da segnalare il ritratto del rude e volgare Will Varner ne La lunga estate calda, in cui in sostanza “ruba” la scena a Paul Newman e Joanne Woodward. L’anno dopo, nel 1958, gli viene affidata la regia del primo film americano dopo oltre dieci anni. Lo fa la Universal. Welles, autore della sceneggiatura, si cuce addosso un personaggio mostruoso, il poliziotto del titolo L’infernale Quinlan. “Quinlan – scrive il critico Joseph McBride - è un personaggio degno di Shakespeare, ed è la summa di molti ‘cattivi’ interpretati || Una scena di “Quarto potere” da Welles: il dittatoriale Kane, il sarcastico Rochester, l’amorale Macbeth, il brutale Renchler“. Con Orson ci sono Charlton Heston, rivelatosi attore-monumento grazie al Mosé di tre anni prima, ma qui divenuto piccino piccino al cospetto dell’uomomontagna Welles-Quinlan; e Janeth Leigh. I tre anni americani a Orson Welles sembrano trenta, ergo – ritorno in Europa. Con tante idee, ma scarse possibilità di trovare produttori... generosi. E allora, rieccolo in film improbabili o quantomeno lontani anni luce dal suo modo di intendere vedere fare proporre cinema: David e Golia, I tartari, Le meravigliose avventure di Marco Polo. Ovviamente, gli riesce anche di lavorare con registi di caratura, come Abel Gance (Napoleone ad Austerlitz). «Il Processo». Riprese anche nell’ex Jugoslavia Inattesa, nel 1960 gli arriva l’offerta di girare “Il Processo” da Kafka. Il produttore è Alexander Salkind (noto nell’ambiente, ma il mondo lo conoscerà appena negli anni Ottanta, dopo i tre Superman). Welles si mette al lavoro. Scrive la sceneggiatura. Protagonista, Anthony Perkins già ammirato, con paura, in Psycho; Jeanne Moreau, Romy Schneider ed Elsa Martinelli. Si gira in Italia, Francia, Jugoslavia. Per Orson, è il suo migliore film. Ed eccoci alla realizzazione del grande sogno: “Falstaff”, già diretto e interpretato a teatro. “Più studiavo la parte – scriverà Orson meno mi sembrava allegra. Questo problema mi ha preoccupato per tutto il tempo delle riprese... Non mi piacciono molto le scene in cui sono soltanto divertente. Mi sembra che Falstaff sia più un uomo di spirito che un pagliaccio... È il personaggio cui credo di più, è l’uomo più buono di tutto il dramma. Le sue colpe sono colpe da poco, e lui se ne fa beffe. È buono come il pane, come il vino. Per questo ho trascurato un po’ il lato comico del personaggio: ogni volta che l’ho interpretato mi sono persuaso sempre di più del fatto che rappresenta la bontà e la purezza“. La sceneggiatura prende in considerazione varie opere di Shakespeare: “Enrico IV“, “Enrico V“, “Le allegre comari di Windsor“ e “Riccardo II“. Con lui ci sono John Gielgud, la Moreau, la Rutherford, la Vlady, Walter Chiari, Alan Webb... In Europa piace, negli USA no. Girerà ancora alcuni film, metà dei quali resteranno incompiuti, ma oramai il cinema pare affascinarlo sempre meno. Ha capito che, onori e premi a parte – non ve n’è uno, di quelli che “contano” che non l’abbia ricevuto – è un “incompreso”. Termine che nella prassi cinematografica significa, nel concreto, l’impossibilità di trovare produttori disposti a mettersi a sua disposizione. Perciò decide, pur continuando a lavorare, a dedicare il tempo a sé e alla sua ultima compagna, la performer e attrice jugoslava Olga Palinkaš (in arte Oja Kodar), conosciuta quando girava Il Processo. Non divorzia dalla terza moglie, Paola Mori, sposata nel 1955, con cui ha una figlia, Beatrice, ma si accompagna anche professionalmente con Oja, donna intelligente e sensibile, la quale oltre a recitare in alcuni suoi film, quali The Other Side of the Wind, The Deep e The Dreamers, collabora anche come sceneggiatrice (determinante la sua duplice presenza in F, come Falso). Il Raffaello dei nostri giorni Insieme, sullo schermo, li vedremo nel Segreto di Nikola Tesla di Krsto Papić, nel 1980. Insieme, lontano dallo schermo, invece, li si vedrà ogni estate a Primošten in Dalmazia. A proposito di Jugoslavia, come non ricordarlo nel ruolo del politico e militare cetnico nel film di Veljko Bulajić, La battaglia della Neretva. Dell’attore e del regista Orson Welles parlano i suoi film. E qualche milione di pagine firmate da cineasti, critici e storici del cinema di tutto il mondo. Dell’uomo, che, chi lo ha conosciuto, non ha potuto non amarlo e rimanerne affascinato, voglio qui annotare alcune considerazioni. Andy Warhol: “Orson Welles era veramente grande. Non i suoi film. Lui”. Carmelo Bene: “Lo ricordo soprattutto come un attore eccezionale, sublime... Sono convinto che Welles avesse in testa un meraviglioso brusio, grazie anche al suo stupendo alcol, e che fosse un genio, ma non mi va di rinchiuderlo in una definizione: era troppo avventuriero, troppo fuori dagli schemi, troppo imprevedibile, perché noi oggi si possa fare un’operazione del genere... A me Welles ricorda Raffaello. Raffaello che cammina per le strade di Roma nel Cinquecento e che a ogni passo si deve fermare perché la gente gli bacia le mani, le vesti”. Marlene Dietrich: “Quando lo vedo e gli parlo, mi sento come una pianta dopo che l’hanno annaffiata”. 8 spettacoli martedì, 24 novembre 2015 D urante la visione del film britannico La teoria del tutto (The Theory of Everything, 2014) di James Marsh, uno non riesce a far diversamente che meravigliarsi della Vita, lo straordinario fenomeno che troppo spesso prendiamo per scontato. A farci riflettere sull’esistenza umana nel film non sono soltanto le vittorie e le riflessioni scientifiche di una delle più brillanti menti del nostro secolo, del fisico e cosmologo Stephen Hawking, ma piuttosto le sue sfortune personali, consapevolmente trasformate in una grande vittoria. Sono piuttosto rari gli scienziati del calibro di Hawking, che possono vantare un numero talmente grande di premi, riconoscimenti e onorificenze scientifiche. Il film ci fa riflettere sulle magnifiche capacità umane, un aspetto che la vita del fisico rispecchia perfettamente. Lo scienziato affetto da paralisi traccia uno straordinario percorso sia personale che scientifico, contribuendo al continuo divenire in un mondo di persone fisicamente abili che paradossalmente vivono paralizzate nel presente della propria esistenza, incapaci di rompere il cerchio chiuso delle proprie illusioni, della disperazione e dell’autodistruzione. È l’aspetto che il film di Marsh presenta con raffinatezza e sensibilità raccontando la figura di Hawking. “Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare. Guardate le stelle invece dei vostri piedi“, sono le parole di Hawking. Vivere nel presente Le leggi della natura di cui facciamo parte e che poco saggiamente trascuriamo ci offrono immense possibilità di espansione. L’Universo, invece, comprende la natura stessa e le leggi scientifiche, per cui se l’uomo non si adegua a queste regole infrange le leggi dell’esistenza. Al di sopra della conoscenza, della consapevolezza e dei limiti sul piano fisico ci sono dimensioni più potenti e se camminiamo al loro fianco, rispettando le leggi che tendono all’equilibrio, all’ordine, abbiamo la possibilità di espandere la nostra coscienza e vivere nel presente, ovvero accettare la vita per ciò che è: l’arte della realizzazione del nostro Essere. È un discorso che riflette il pensiero di Henry Miller, ma la figura di Hawking suscita diverse domande. “Viviamo in un mondo che ci disorienta con la sua complessità. Vogliamo comprendere ciò che vediamo attorno a noi e chiederci: Qual è la natura dell’universo? Qual è il nostro posto in esso? Da che cosa ha avuto origine l’universo e da dove veniamo noi? [...] quand’anche ci fosse una sola teoria unificata possibile, essa sarebbe solo un insieme di regole e di equazioni. Che cos’è che infonde vita nelle equazioni e che costruisce un universo che possa essere descritto da esse?”, si chiede lo scienziato. la Voce del popolo Anno 1 / n. 5 / martedì, 24 novembre 2015 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] SPETTACOLI Edizione Caporedattore responsabile f.f. Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Vanja Dubravčić Collaboratori Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Ana Varšava, Patrizia Venucci Merđo Foto Željko Jerneić, Creative Commons e archivio RECENSIONE la Voce del popolo di Ana Varšava VI PRESENTIAMO IL FILM «LA TEORIA DEL TUTTO» DI JAMES MARSH CHE NARRA LA STRAORDINARIA VITA DEL GRANDE SCIENZIATO INGLESE STEPHEN HAWKING «GUARDATE LESTELLEINVECE DEIVOSTRIPIEDI» Una dolce storia d’amore Nonostante gli importanti quesiti che si pone, La teoria del tutto è un film incentrato principalmente sulla dolce storia d’amore tra Stephen Hawking e la sua prima moglie, Jane Hawking. Siamo a Cambridge, nel 1963. Nella prima scena, Stephen e Jane si incontrano a una festa studentesca. La fase iniziale della loro storia viene raccontata brevemente con qualche cenno al genio di Stephen. Il giovane, all’epoca ventunenne, avrà un collasso, al che gli verrà diagnosticata una malattia degenerativa del motoneurone. Questa provocherà un progressivo declino fisico e l’atrofia muscolare al punto da non consentirgli più di parlare e tramandare oralmente i suoi brillanti pensieri. Gli verranno pronosticati al massimo due anni di vita, ma questa condizione non impedirà a Stephen e Jane di superare ogni ostacolo nella vita. Fortunatamente, la prognosi dei medici si è rivelata sbagliata, anzi, l’astrofisico ha festeggiato lo scorso gennaio il suo 73.esimo compleanno. La dimensione umana Il film non lo inquadra tanto in veste di scienziato e illustre professore universitario quanto si concentra sulla sua dimensione umana di marito e padre di tre figli avuti da Jane. Le scene consistono spesso in sguardi di Stephen, pieni di emozioni, che raccontano la sua difficile condizione. Allo scopo di comunicare, Stephen verrà aiutato dal sintetizzatore vocale che genera artificialmente ill suono di ciò che egli scrive sul computer, un sistema che successivamente verrà perfezionato permettendogli di esprimersi più velocemente. Particolarmente ben elaborata è una scena che riguarda direttamente la sua condizione fisica. Mentre nelle scene iniziali seguiamo Stephen ancora inconsapevole della sua malattia, che cammina e parla normalmente, egli è ancora indeciso sull’argomento della tesi di dottorato. Ma non appena gli viene diagnosticata la malattia che gli prevede soltanto due anni di vita, Stephen entra nella stanza del professore con passo deciso a riferirgli il tema della sua tesi: il tempo, l’unica cosa che in quel momento gli sfugge di mano. Tra gli argomenti più rilevanti che trattò in ambito scientifico sono la cosiddetta “radiazione di Hawking“, la termodinamica dei buchi neri, ovvero la teoria secondo la quale i buchi neri emanano radiazioni, e la teoria cosmologica dell’universo senza confini nello spaziotempo. Ha collaborato con numerosi scienziati ed è un grande promotore dell’idea che ci siano molti mondi all’interno della meccanica quantistica. Ipotizza, infatti, l’esistenza di universi paralleli. Versione idealizzata della vita di Hawking Il suo bestseller “Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo“, pubblicato nel 1988, è stato venduto in più di 10 milioni di copie in tutto il mondo. È pure il punto cruciale del film dal lato personale: la fama che gli portò il libro inasprì le tensioni nel matrimonio. Si separò da Jane dopo trent’anni di vita comune e sposò Elaine Mason, la sua infermiera, ma i due divorziarono nel 2006. Jane e Stephen sono ancora oggi buoni amici e collaboratori. Il film è una versione romanticizzata e idealizzata della vita di Stephen e Jane, dal momento che il regista non si sofferma più di tanto sulle sofferenze dello scienziato. Ritengo che ci sia una ragione per questo: l’ottimismo con cui Hawking affronta la vita sembra davvero un miracolo. Le sue pubblicazioni sulle frecce del tempo termodinamiche legate all’ipotesi dell’universo senza confini pongono una domanda chiave: “Che cosa accadrebbe se l’universo cessasse di espandersi e cominciasse a contrarsi?“. Il gioco del tempo raggiunge l’apice nella scena finale, in cui viene sintetizzata la sua teoria secondo la quale nel caso in cui l’universo smettesse di espandersi il tempo inizierebbe a scorrere all’indietro e noi avremmo la possibilità di vedere il futuro al posto del passato. Il passato lo vediamo soltanto perchè le frecce del tempo si muovono in avanti. Le frecce del tempo Nell’ultima scena ci troviamo in un bellissimo giardino. Stephen, accompagnato da Jane, è stato appena ricevuto dalla regina per essere insignito del titolo di cavaliere dell’ordine britannico (che ha, però, rifiutato). Mentre osserva i figli correre spensierati, il tempo comincia a scorrere all’idietro fino alla scena iniziale, il momento in cui Stephen scorge Jane alla lontana festa studentesca. Invece noi, ora nel passato, abbiamo effettivamente visto il futuro e tutti i successi che questo futuro ha portato a Stephen. L’ultima scena è una splendida rappresentazione simbolica della sua teoria sulle frecce del tempo e le speculazioni sulle loro direzioni. “Ospite: Professor Hawking, lei ha detto di non credere in Dio... Ha una filosofia di vita che la aiuta? Stephen: È chiaro che noi siamo solo una razza evoluta di primati su un pianeta minore, che orbita intorno ad una stella di medie dimensioni nell’estrema periferia di una fra cento miliardi di galassie... Ma... Fin dall’alba della civiltà, l’uomo si è sempre sforzato di arrivare alla comprensione dell’ordine che regola il mondo. Dovrebbe esserci qualcosa di molto speciale nelle condizioni ai confini dell’universo. E cosa può essere più speciale dell’assenza di confini? Non dovrebbero esserci confini agli sforzi umani. Noi siamo tutti diversi, per quanto brutta possa sembrarci la vita, c’è sempre qualcosa che uno può fare e con successo. Perché finché c’è vita... c’è speranza!“ Il film ha ottenuto dieci nomination al British Academy Film Awards, mentre l’attore principale Eddie Redmayne è stato insignito dell’Oscar per la sua straordinaria interpretazione del noto scienziato inglese.