La città morta di Giovanni Pozza in «Corriere della Sera», 21

La città morta
di Giovanni Pozza
in «Corriere della Sera», 21-22 marzo 1901
Il teatro era pieno zeppo. La sala aveva un aspetto imponente e
bellissimo. V’era raccolta una folla di signore, tutta la Milano elegante e
letteraria. Le prime scene furono turbate dal continuo sopraggiungere
degli spettatori meno solleciti. Ed anche una parte del dialogo non giunse
distinta agli orecchi dell’uditorio per la lontananza degli attori e il tono
della recitazione non alto quanto era necessario.
Il primo atto piacque. La descrizione della scoperta delle tombe fatta da
Ermete Zacconi senza varietà di colorito e con soverchia agitazione non
ottenne l’effetto preveduto da chi conosceva la tragedia. Parvero invece
disegnate con arte squisita le poetiche figure di Anna e di Bianca Maria.
Calato il sipario gli esecutori furono chiamati quattro volte al proscenio
con applausi fragorosissimi.
L’atto secondo, che si svolge fra gli splendori dell’oro trovato nei
sepolcri regali, fu seguito con intensa attenzione. La scena in cui
Alessandro rivela il suo amore a Bianca Maria parve piena di impeti lirici
e di passione irrompente. La confessione di Leonardo commosse ed
atterri. Qui veramente la tragedia ebbe il suo giusto accento. L’attore fu
interrotto dagli applausi. e l’atto si chiuse fra le grida del pubblico che
chiamava a nome il poeta. Gli esecutori si presentarono due volte al
proscenio. quindi tre volte Gabriele D’Annunzio, in abito da sera, il
panciotto bianco e i guanti intatti nella mano destra.
Durante il terzo atto, che pur racchiude la bella scena fra Anna e
Leonardo, s’udirono i primi segni d’impazienza. Il dialogo di Anna e
Bianca Maria è assai lungo e lo rallenta la lettura, che non sembra
necessaria, di alcuni brani dell’Antigone. Ciò non ostante nuovi applausi
scoppiano allo scendere del sipario e gli esecutori si presen- tano ancora
al proscenio due volte.
Il quarto atto non è ascoltato con attenzione costante. Tratto tratto la
folla si agita con un lungo bisbiglio. La folla è stanca. Vorrebbe che
l’azione oramai precipitasse alla catastrofe, che il dialogo, anziché
spandersi e divagare in descrizioni, si facesse più rapido ed appassionato.
Ma l’atto finisce applaudito. L’ultimo grido di Anna ha scosso il
pubblico.
Siamo all’ultimo atto. Il cadavere di Bianca Maria giace nel mezzo
della scena. Leonardo che l’uccise per sottrarla al suo amore incestuoso,
grida: «Chi avrebbe fatto per lei quello che io ho fatto? ». E
improvvisamente a queste parole risponde un urlo della folla. Dall’ultima
galleria si grida all’attore: Assassino! E cento voci impongono. Basta!
Basta! La recita è interrotta. Gli attori non sanno che fare. Coloro fra gli
spettatori che vorrebbero imporre silenzio, fanno un baccano indiavolato.
Finalmente dopo un lungo applauso, non si sa a chi diretto, la folla si
acqueta, la recita è ripresa e continuata. Ma per poco. Scoppia un nuovo
tumulto, che continua fino all’apparire della Duse nel fondo della scena.
E il sipario è calato per l’ultima volta fra i segni manifesti di
disapprovazione.
[…]
La tragedia dannunziana fu ieri giudicata nei suoi elementi drammatici
che appartengono alla vita comune. Il pubblico vi cercò la sua logica e la
sua morale. E il pubblico aveva il diritto di giudicarla così. Il teatro è
fatto per lui. Egli vuole sentire e comprendere. E finché della Città morta
sentì la passione profonda e comprese la bellezza poetica, applaudì
spontaneamente, con impeti di ammirazione, con scoppi d’entusiasmo.
Certo non vi trovò le forme sceniche consuete. La Città morta, piuttosto
che una tragedia, è un poema dialogato. La sua struttura non risponde alle
leggi ordinarie che governano l’architettura drammatica. Non ha né
giuste proporzioni, né giusti sviluppi. Pel D’Annunzio, l’azione non è
mai nel suo momento attuale. I personaggi della Città morta, come quelli
della Gioconda, o narrano cose avvenute o parlano di cose future. Da ciò
un dialogo ingombro di descrizioni, annebbiato da frasi ambigue, da
accenni misteriosi. Le passioni non vengono mai a contrasto di parole fra
loro; tutte raccolte in sé stesse, si ascoltano, si analizzano, si raccontano.
Il paesaggio esterno domina le scene; ogni gesto è legato da un vincolo
ideale, a un colore, a un profumo, al canto di un uccello, a una folata di
vento. Così l’azione progredisce or troppo lenta, or troppo rapida, non
mai davanti agli occhi dello spettatore; e troppo spesso le situazioni
drammatiche non porgono al poeta che l’occasione di mettere in bocca ad
un interlocutore un bel discorso.
Ma, d’altra parte, quale studio delicato e profondo della passione! Quali
impareggiabili squisitezze d’analisi psicologica! Nella Città morta sono
dette cose che nessun altro saprebbe ridire. La figura di Anna è di
bellezza meravigliosa. Ella ha veramente « i piedi nell’ombra e la fronte
nell’eterna verità ». Nel suo primo colloquio con Bianca Maria e nel
seguente colla nutrice, come risplende la sua anima semplice e dolorosa!
A me parve scorgere ieri sera in questo personaggio l’impronta di un
ingegno chiamato a scrivere grandi e nobili cose pel teatro italiano. Il
D’Annunzio in questi suoi primi saggi drammatici è indubbiamente
troppo lirico. Dal suo tirannico soggettivismo, i suoi personaggi ricevono
tutti una eguale fisionomia e le esigenze drammatiche sono sottomesse a
quelle esclusivamente letterarie dello stile e del ritmo del periodo. Ma, se
ben prevedo, il giorno non è lontano in cui il poeta saprà riunire tutte le
sue più nobili forze creatrici in un dramma che ci rivelerà nuove forme di
bellezza scenica.
L’esecuzione non fu quale la promettevano i grandi nomi di Eleonora
Duse e di Ermete Zacconi. Eleonora Duse fu Anna; e la rappresentò con
tanta soavità da renderne la figura quasi ideale. Ma non in tutta la
tragedia. Come si udirono i primi mormorii nella sala, parve che
nell’attrice a un tratto cadesse ogni forza di volontà, ogni tensione di
spirito.
E non fu la sola che i segni della tempesta imminente turbassero.
Anche Ermete Zacconi ne sentì i tristi effetti. Egli aveva detto la sua
confessione nel secondo atto in modo da commuovere profondamente la
folla dominata dalla sua voce; quindi non trovò più né la consueta
efficacia, né la misura dell’accento. Ines Cristina studiò con molto amore
la sua parte; e la sua bellezza giovanile e la sua figura elegante erano le
più adatte a rappresentare la giovinezza e la innocenza di Bianca Maria.
Ma, la sua voce parve alquanto monotona e la sua recitazione alquanto
convenzionale. Al Rosaspina mancò la naturalezza; la Magazzari
piagnucolò con importuna costanza.
Dell’apparato scenico abbiamo già parlato. Fu ammiratissimo.
Elegantissimi i vestiti della Duse di cui il Worth non a torto si vanta.