CULTURA GIORNALE DI BRESCIA DOMENICA 24 APRILE 2011 51 ELZEVIRO Regole di decoro nel gergo politico degli antichi di Gian Enrico Manzoni i è detto e scritto anche recentemente che la politica avrebbe cancellato le parole. Ne hanno discusso in pubblici dibattiti autorevoli studiosi della lingua e ne hanno scritto anche i quotidiani nazionali. Ma diverse e contraddittorie sono le cose che possono essere intese, quando si parla dell’uccisione della lingua da parte della politica. Innanzitutto se ne può considerare l’imbarbarimento, nel senso di un’accondiscendenza diffusa alla volgarità. Il «Föra dai ball» rivolto da un ministro della Repubblica agli immigrati ne è il penultimo esempio; l’ultimo invece è il «vaffa» con cui un altro ministro ha apostrofato il presidente della Camera. Dovremo imparare a «relativizzare» anche queste espressioni? Può darsi. Ma la cancellazione delle parole però è altra cosa: è il loro svuotamento di significato, la loro banalizzazione, l’uso improprio. Oppure è la riduzione della comunicazione a slogan, all’uso di frasi fatte, utili più o meno in tutte le situazioni: se la decisione assunta può essere definita importante, ecco che viene enfatizzata come storica; se la svolta è di rilievo, almeno per chi la fa e non per chi la subisce, ecco che, come le riforme, viene promossa a epocale. Promossa ma inevitabilmente sbiadita: svalutata perché viene ignorata (o banalizzata) la relazione con altre decisioni o riforme del genere, che meriterebbero pari considerazione. Certochelaretorica, l’antichissima tecnica del parlare bene, nata nella Sicilia greca quasi 2.500 anni fa, si dovrebbe occupare ancor oggi, come in effetti si Socrate (affresco I sec. d.C.) occupava in origine, dell’efficacia politica della comunicazione. La retorica è tecnica di persuasione, dichiara Gorgia a Socrate nel dialogo omonimo: persuasione in tribunale, dove si tratta di convincere la giuria a pronunciare la sentenza nel senso auspicato, nelle celebrazioni ufficiali e nei discorsi di propaganda, e soprattutto nelle assemblee politiche, dove si deve convincere la gente a votare in un certo modo. Le scuole antiche di retorica insegnavano in maniera dettagliata che cosa dire e che cosa non dire, come e quando farlo, come organizzare il discorso, e magari con quale postura recitarlo per essere più efficaci. E tra le materie insegnate c’era pure quella che gli Ateniesi chiamavano léxis e i Romani elocutio: cioè la scelta dei termini appropriati e di un certo stile nell’impiegarli. Una materia imprescindibile per chiunque volesse avere successo non solo a scuola ma anche e soprattutto in pubblico, nella cosiddetta società civile (altra frase fatta oggi di moda). Ciò non significa che anche nelle discussioni antiche non si scadesse nel turpiloquio, nell’insulto, nell’attacco alla persona: ne abbiamo molte testimonianze, greche e romane. La foga di Demostene contro Eschine, e viceversa, trascende infatti ogni regola codificata in tal senso. Significa solo, o invece, che si insegnava il contrario, cioè che un certo modello o stile era indicato come positivo, al di là della sua efficacia immediata. In questo senso si insisteva a scuola e, in genere, così valutava la società che recepiva tali messaggi. La misura del successo dipendeva anche dall’impiego o meno di determinate regole di decoro: teoria e pratica dello stile tendevano, salvo eccezioni, a coincidere, anche nella vita pubblica. S Il «rotolo» del manoscritto di «Sulla strada» («On the road», 1951) di Jack Kerouac, uno degli scrittori americani che rinnovarono anche la letteratura italiana Vittorini, la frontiera della scrittura Edoardo Esposito delinea la forte e innovativa personalità dell’intellettuale che dalla letteratura americana attinse la forza per rinnovare lo stile partire dagli anni Venti del secolo scorso la letteratura «egemonica» in Italia era quella di tipo rondista che faceva capo a Cardarelli, Cecchi, Baldini. Lo scrittore che primo reagì a quel clima fu Elio Vittorini. Grazie anche alle sue esperienze di traduttore della letteratura anglo-americana, uscì dal genere «romanzesco» per dare vita a una narrativa volta a creare effetti di poesia attraverso un’attenta osservazione del mondo affettivo e un linguaggio sciolto dai consueti schemi sintattici, con narrazioni di tono spesso autobiografico, ma non intimistico. Nel rinnovato interesse che contrassegna questo caposcuola esce il succoso volume di Edoardo Esposito, «Elio Vittorini, Scrittura e utopia» (Donzelli, pp. 214, 25 euro). L’autore, docente di Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Milano, sulla base delle ultime acquisizioni archivistiche e dell’epistolario che sta per essere da lui stesso completato per Einaudi, illumina gli aspetti più significativi della narrativa e dell’attività di Vittorini. Prof. Esposito, il realismo fantastico di «Conversazione in Sicilia» per quel suo dar vita a dialoghi più sottintesi che espressi appartiene alla tradizione che da Cielo D’Alcamo giunge a Verga? Non credo sia necessario ricondurre i suoi modi a forme della «sicilianità», anche se autori come Verga erano certamente familiari a Vittorini (e tuttavia non del tutto amati). La stessa Sicilia di A Lo scrittore Elio Vittorini era nato a Siracusa il 23 luglio 1908 e morì a Milano il 12 febbraio 1966 Il romanziere e giornalista statunitense Ernest Hemingway (1899 - 1961) fotografato durante un safari cui Vittorini parlava era, come precisava la nota di accompagnamento, «solo per avventura Sicilia». Lei scrive che Vittorini fu affascinato dagli scrittori americani per «la loro aderenza anche antiletteraria alla vita». Come la recepì? Perché non volle tradurre Henry James? «Aderenza antiletteraria alla vita» voleva dire che per questi scrittori era più importante raccontare certe cose che preoccuparsi del come raccontarle. Vittorini fu affascinato da questa freschezza, magari cruda e un po’ grezza. James non gli piaceva proprio perché era un americano troppo legato al vecchio mondo e alle sue raffinatezze o complicazioni a volte sterili. Che posto occupa l’antologia degli scrittori statunitensi, «Americana» (33 autori, 1.036 pagine) curata da Vittorini, censurata nel 1942 e apparsa integralmente solo nel ’68? È il posto di un mito, di un’intenzione che riuscì solo in parte a diventare realtà. Ebbe da insegnare qualcosa, in quanto realtà, e lo fece attraverso i testi e gli autori che fece conoscere. Ma, paradossalmente, attraverso la censura che la colpì, «Americana» ha contato di più nella nostra cultura per ciò che, nel 1942, non le fu dato di esprimere. Le sue pagine più famose sono infatti quelle di inquadramento storico e letterario scritte da Vittorini e che allora furono soppresse. In Vittorini - lei scrive - il simbolo non è una chiave che deve aprire qualcosa. Quale ne è la funzione? La necessità di ricorrere ai simboli discendeva da quella di eludere la censura, che non avrebbe permesso di parlare di certe cose o di definire il fascismo una «offesa al mondo»; ma Vittorini voleva parlare in generale di una situazione, e non di fatti o persone specifiche. Del resto, la scelta di un linguaggio simbolico era implicita nella volontà di dare vita alla scrittura poetica che gli stava a cuore. Il 29 settembre 1945 esce il primo numero del «Politecnico». Vittorini scrive: «occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’anima». Cosa intendeva? Era un’affermazione rivolta contro coloro che pretendevano di svolgere la loro funzione intellettuale nell’ignoranza dei problemi della «produzione del lavoro», contro le «anime belle» che ritengono che la politica sia una cosa con cui non bisogna sporcarsi. Vittorini si oppose alla pubblicazione de «Il gattopardo» di Tomasi di Lampedusa. Per quali ragioni? Contrariamente a quanto è sempre avvenuto, non è alla questione ideologica che bisogna riferirsi: nessuno ricorda mai che il giudizio fu dato su un’opera che non era compiuta ed era un’opera di impianto e di linguaggio tradizionali, mentre Vittorini dirigeva una collana di narrativa giovane e sperimentale. Fu solo dopo un’elaborazione adeguata che l’opera diventò pubblicabile. Sergio Caroli Ecco la Pivano «madrina» yankee Due ciak da Kerouac: Mostra a Milano su colei che diffuse tanta America letteraria roseguirà fino al 18 luglio (sua data di nascita nel 1917) a Milano, al Credito Valtellinese- Refettoriodelle Stelline (c.so Magenta 59), la mostra documentaria «Fernanda Pivano. Viaggi, cose, persone» ideata da Michele Concina, curata da Ida Castiglionicon FrancescaCarabellie la consulenzadiEnricoRotelli,giàassistente della Pivano e curatore dei «Diari». Morta a 92 anni, nel 2009, «Nanda»harappresentatoper60anni, un ponte culturale tra Stati Uniti eItalia,contribuendoallaconoscen- P Un ritratto della Pivano: una mostra la ricorda za di scrittori come Ernest Hemingway, Sherwood Anderson, Francis ScottFitzgerald,William Faulkner,e di tutta la Beat Generation. La Pivano iniziò da traduttrice nel 1943,quandoEinaudipubblicò«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Master. In mostra scritti, lettere (tra cui le inedite a Cesare Pavese suo maestro), documenti, foto e altre testimonianze,anchesul sodalizioconiugale-intellettualeconEttoreSottsass. In proiezione i filmati «Pivano Blues» di Teresa Marchesi e «A farewell to beat» di Luca Facchini. On The Road e Big Sur attore franco-americano Jean Marc Barr è il protagonista di un adattamento di Big Sur, il romanzo autobiografico che Jack Kerouac pubblicò nel 1962. A dirigerlo è lo scrittore-regista Michael Polish. Nel libro, il re dei beatnik raccontava i giorni trascorsi a Big Sur, sulla costa della California per sfuggire ai clamori del successo della pubblicazione di «On the road», ma anche per disintossicarsi dall’alcol. Con Barr recitano Kate Bosworth e Josh Lucas. Dopo un altro recente film sulla Beat Generation («Howl», con James Franco nei panni del poeta Allen Ginsberg e Todd Rotondi in quello di Kerouac), nel corso di quest’anno dovrebbe uscire anche «On the road» di Walter Salles, con Sam Riley, Kristen Stewart e Viggo Mortensen. L’