L. A. Muratori, INTORNO AL METODO SEGUITO NE` SUOI STUDI

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L. A. Muratori, INTORNO AL METODO SEGUITO NE' SUOI STUDI.
LETTERA ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNORE GIOVANNI ARTICO CONTE DI PORCìA1 (in Opere di Ludovico Antonio
Muratori, TomoI, Dal Muratori al Cesarotti, Milano-Napoli, Ricciardi, pp. 6-38
Sempre ho riputato e riputerò mia singolar fortuna il poter ubbbidire a V. S. ill.ma; ma ora che ella mi richiede del
metodo de' miei studi passati, io dovrei ben far alto e mettermi sul forte per dire di no. Della vanità, s'ella nol sa,
purtroppo n'ho la mia parte in capo, bench'io mi vada ingegnando di ricoprirla; ma come sottrarla ora al guardo del
pubblico, se debbo parlare di me rnedesirno, quando fin l'esporre i propri difetti, non che le proprie lodi a chi s'intende
del cuore dell'uomo si fa conoscere bene spesso per uno scaltro e finissimo amor di noi stessi? Tuttavia vada come si
voglia: il comandamento viene da intenzion troppo buona e da padrone arbitro de' miei voleri: mi darà licenza il
pubblico che anche in questo io l'ubbidisca, giacché vien creduto che l’ ubbidirla possa tornare in vantaggio del
pubblico stesso.
Ora dunque le dirò che il metodo de' miei primi studi fu il comune degli altri, avendo anch'io succiata dalle pubbliche
scuole la lingua latina coll'altre arti e scienze susseguenti; se non che ne' miei più teneri anni mi avvenni in alcuni
romanzi, i quali tanto mi solleticarono il gusto, che quanti ne potei mai ottenere, tutti con incredibile avidità divorai, fino
a portarli meco alla mensa, pascendo con più sapore allora di quelle favole la mia curiosità, che il corpo de' cibi. S'io
dirò che questa lettura servì non poco a svegliarmi l'ingegno, a facilitarmi lo stile e ad invogliarmi sempre più di
leggere, forse dirò il vero. Ma debbo nello stesso tempo intimare massimamente ai giovanetti che non venisse lor mai
talento d'imitare un sì pericoloso esempio; perciocché quand'anche potessero qualche cosa guadagnare dalla parte
dell'ingegno, po-trebbono perdere molto da quella de' costumi; e quando ancora si abbattessero in que' soli, ch'io ebbi
alla mano, cioè nell'opere dell'ingegnosa e savia Madama di Scudery e in altri simili non disonesti romanzi, pure non è
sì facile l'impedire che da libri tali non vengano inspirate delle massime vane del mondo, le quali s’abbarbicano presto
nelle menti tenere e producono poscia il lor frutto a suo tempo. […]
Mi verrà finalmente chiedendo V. S. illustrissima che nuovo lavoro io abbia fra le mani, ben sapendo ella che
d'ordinario ognuno suol morire nel suo mestiere. Quasi non mi attento a dirlo, tanto è grandiosa un'altra impresa che
medito. Vorrei far onore non solo alla patria mia, ma a tutte ancora, se potessi, l'altre città d'Italia. Cioè, son dietro ad
unire in un corpo, che abbraccerà più tomi, tutte le storie d'Italia composte dall'anno 500 dell'era volgare sino al 1500,
sì stampate, come inedite. Non è picciola la raccolta ch'io ho fatto di queste ultime; e se il buon genio d'altri mi
seconderà in così nobile assunto, verrà a crescere anche di più2: con che non resterà più all'Italia da desiderare un
pregio e soccorso, di cui abbondano l'altre nazioni ed ella è stata priva finora. Il credito d'un'opera non si misura dalla
mole, ma dalla maggiore o minore utilità o delettazione, ch'ella può porgere al pubblico. Certo da quella ch'io vo'ora
digerendo3 ha da sperarsi l'una e l'altra; perché in fine la storia, e massimamente di tanti secoli, è un gran fondo per
l'erudizione e per assaissime altre vedute. Ed ecco, riveritissimo mio sig. conte, un abbozzo de' miei poveri studi, e
dell'ordine, o disordine da me tenuto in essi. Ma vo' ben aggiugnere due altre parole intorno ad un punto, che è il più
essenziale di tutti. Cioè vo' dir francamente ad ogni persona studiosa che di leggieri andranno a finir male le
applicazioni e il metodo di un letterato, s'egli con tanto studiare non istudia nel medesimo tempo due importantissime
cose e non le fa eziandio comparire in tutti i suoi libri. Ha egli, dico, da imparar sopra tutto ad essere uomo onorato e
uomo dabbene. Quest'obbligo l'ha chiunque entra nel consorzio de' mortali e professa la divina legge di Cristo; ma più
debbono attendervi le persone di lettere, al sapere ch'egli non vivono né scrivono solamente a se stessi, ma anche al
pubblico e i lor sentimenti ed esempli passano colle lor opere pubblicate ad istruire nel bene o nel male infinite altre
persone. lo per me avrei bramato più che altro di poter servire in tutte e due queste lezioni di lodevole, o almen
soffribile esempio al prossimo mio; e per conto della prima mi son ingegnato di studiarla, ed anche via via di
praticarla, ma quanto alla seconda, parrà modestia, ma non è così, s'io confesserò che ho tuttavia da impararla.
Conosco però tanto che posso confortar gli altri a far quello che non ho saputo far io per me stesso.
1
Giovanni Artico conte di Porcia (1682-I743), erudito friulano, dal 1736 condottiero della Serenissima, autore, fra
l'altro, di due tragedie, Medea (1721) e Seiano (1722), da lui sottoposte anche al giudizio del Muratori.
2
Il primo definito piano editoriale dei Rerum Italicarum Scriptores é contenuto nella lettera al Sassi del 9 aprile 1721. Il
Muratori pensava allora a quattro tomi: la raccolta, apparsa tra il 1723 e il 1738, doveva riuscire di venticinque tomi in
ventotto volumi.
3
digerendo: ordinando
E primieramente per onore crederà forse taluno ch'io intenda la fama, la gloria, la rinomanza, che onore ancora si
chiama. Oh a cercar questo, no, che non ha bisogno letterato alcuno ch'io l'accenda e lo sproni! Vi vanno essi
naturalmente con tutti i piedi e v'ha di quelli che invece di aspettare la gloria qual premio onesto delle lor fatiche
letterarie (il che a niuno è disdetto), la sforzano per così dire e la comperano con un traffico anziché no laborioso e
poco talvolta onorevole; non potendosi spiegare quant'arti, maneggi ed anche viltà e bassezze adoperirio alcuni per
accattar lode e dilatare il lor nome4. Abbiamo infin veduto ai nostri giorni un letterato5, pure utilissimo, a cui altro quasi
non mancava che la botte per acquistarsi tutto il credito dell'antico Diogene, tanta era strana e stramba la sua
maniera di vivere. Parlo qui del sodo interno onore dell'uomo che secondo me consiste in un certo vigoroso amore del
vero, dell'onesto, del giusto e della moderazione, e in un abborrimento al contrario. La buona morale filosofia è quella
che ce ne dà le lezioni, ce ne insegna la pratica, indirizzando i suoi precetti a perfezionare l'indole, se è buona, e a
correggerla, se cattiva: sebbne purtroppo è vero che, facciasi quanto si vuole, quella maledetta bestia dell'indole, o
sia dell'inclinazione perversa, per lo più la vince e caccia vituperosamente in un fascio tutti i balsami e gli alberelli
6
della povera filosofia appresa in tant'anni. Naturam expellas furca, tamen usque recurrit7.' Ora a questa venerabil
maestra de’ costumi necessario è che s'applichi, non passeggieramente, ma ex professo e con istudio indefesso,
chiunque prende a far l'uorno di lettere. Bisogna studiarla per tempo sui libri migliori, studiarla in se stesso e negli altri;
e molto più conviene metterne in opera gli avvertimenti in tutti i tempi, luoghi ed occasioni, di maniera che chi ci sta
con cent'occhi addosso, non peni a crederci e chiamarci persone onorate e, quel che più importa, si sia veramente
tale. Giudico io, e meco lo giudicheran tutti i saggi, che più vaglia nell'uomo un pregio tale, che quello d'essere gran
letterato; perché in fine se il sapere dell'intelletto non è accompagnato dalla virtù dell'anirno, facilmente nocerà più a
noi stessi e ad altri, di quel che giovi. Mi si lasci ora discendere un poco al pratico con un solo esempio, giacché non
si può di più in un campo sì angusto. L'invidia è un vilissimo affetto e vizio che scuopre gran povertà di cuore e, se
non questa, certo uno smoderato e brutto arnor di noi stessi, Si vergognerebbe forte l'uorno, se ci fosse uno specchio
che glie ne rappresentasse al vivo tutta la deformità. Né già tali specchi ci mancano, ma il male è che non si cercano
e che pochi vi s'affacciano per consigliarsi con esso loro; perciocché pochi, pochissimi si persuadono, anzi nulla
pensano d'averne bisogno. E pure l'invidia, che sembra confinata nel solo basso volgo, ha un dominio vasto, abita nei
tuguri, abita ne' gran palagi, entra ne' tribunali, nelle scuole, nelle comunità ed università, e (chi 'l crederebbe?) fin si
arrampica dentro de' chiostri più santi e trova luogo in tutti gli ordini de' letterati. Osservisi come quegl'ingegni minori
stieno mirando con occhio bieco quegli altri ingegni maggiori; e se nol mostrano in piazza quel torbido loro affetto, gli
lasciano ben la briglia in que' confidenti ridotti. E chi sa che quegli altri ancora, ove alcuno tenti di fare anch'egli
comparsa, quasi che godano il gius privativo di tutte le belle imprese, e debba essere a lor soli riserbato l'erario del
sapere e della gloria, non si sentano muovere in cuore qualche tempesta che probabilmente presto s'acqueta, ma
pure si muove? E quindi poi nasce non di rado quel detrarre assai facilmente l'uno all'altro i letterati e il lasciarsi
trasportare a dissensioni o segrete o palesi, ad odi, riotte, censure e fino a libelli obbrobriosi, e tanto più se in una città
medesima eglino s'incontrano per via nel sentiero dell'interesse pel loro mestiere, o della gloria pe' libri loro.
Certamente io conosco delle città, ove nell'abbondanza de' professori di lettere non abbonda l'invidia; e spezialmente
mi è sembrato questo un bel pregio della mia patria, Modena. Ornata essa a' miei dì, più che altre città più maestose
e vaste, non dirò solo di letterati, ma di letterati insigni, e celebri da per tutto per le lor opere ed opere di buon gusto,
pure il credito e la fortuna degli uni non ha qui, la Dio mercé, cagionato tumulti, né fatto gran male allo stomaco degli
altri, e ci s'è conservata e si conserva tuttavia fra loro la stima, la buona legge e l'amor vicendevole. Ma non va già
così, o non e andata sempre cosi in altri paesi.
4
quant'arti ... nome: “l'arti ... per dilatare la fama ... diedero ... un curioso argomento al Trattato della ciarlataneria de'
letterati del Menchenio” noterà poi il Muratori nelle Memorie.
5
un letterato: allusione al Magliabechi, del quale, nel già ricordato ritratto (vedi la nota 2 a p. 18), il Muratori diceva:
“Ragioniamo ora alquanto de' suoi costumi, intorno alla maniera di vivere. Fa egli una vita peggio che cinica. Ha più di
trent'anni che porta il medesimo cappello unto bene e bisunto. Spesso non ha camicia o l'ha tutta logora. Consiste la
sua parrucca, fatta al tempo di Carlo V, in centoquarantatré capelli. Il collare è sempre tutto lordo per lo tabacco ... Va
quasi sempre ammantellato con un vecchissimo mantello, sotto cui per sei mesi dell'anno porta uno scaldino con
brace dentro, ovunque vada, onde per lo troppo calore gli si pelano le mani ... Dentro questo scaldino, o pur dalle
vicine, fa cuocer delle uova che sono, con pane, il suo cibo ordinario [non] mangiando egli altro. La camera sua, anzi
la casa tutta e le scale e il cortile son pieni da capo a fondo di libri ammontati e alla rinfusa, onde bisogna talvolta
camminar sovra libri e sedervi. Dorme vestito ed ha parecchi anni che non vuol tirar lo stipendio dal gran duca,
mantenendosi col suo. In una parola egli è sordidissimo uomo e in questa parte ridicolo, perché può esservi gran
filosofo senza ricorrere a siffatti deliri”.
6
alberelli: vasi di terra per spezie.
7
“Puoi ben cacciare la natura con la forca, essa sempre farà ritorno” (Orazio, Epist., I, X, 24):. Il Muratori, citando a
memoria, sostituisce recurrit a “recurret”.
VITA DI GIAMBATTI STA VICO SCRITTA DA SE’ MEDESIMO (cit., p. 56-61)
E nel fine dell'anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodeci fogli,
non piú, in carattere di testino, con titolo: Princípi di una Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, per li quali
si ritruovano altri princpi del diritto naturale delle genti, e con uno elogio l'indirizza alle università dell'Europa. In
quest'opera egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch'esso ancor confusamente e non con tutta
distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti. Imperciocché egli appruova una indispensabile necessità,
anche urnana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da' princípi della storia sacra, e, per una disperazione
dimostrata cosí da' filosofi come da' filologi di ritrovarne i progressi ne' primi auttori delle nazioni gentili, esso facendo piú ampio, anzi un vasto uso di uno de' giudizi che 'l signor Giovanni Clerico avea dato dell'opera
antecedente, che ivi egli « per le principali epoche ivi date in accorcio dal diluvio universale fino alla seconda guerra di
Cartagíne, discorrendo sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, fa molte osservazioni di filologia
sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori volgari, a' quali uomini intendentissimi non hanno
punto badato » - discuopre questa nuova Scienza in forza di una nuova arte critica da giudicare il vero negli auttori
delle nazioni medesime dentro le tradizioni volgari delle nazioni che essi fondarono, appresso i quali doppo migliaia
d'anni vennero gli scrittori, sopra i quali si ravvoglie questa critica usata; e, con la fiaccola di tal nuova arte critica,
scuopre tutt'altre da quelle che sono state immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti,
che abbisognano per raggionare con idee schiarite e con parlari propi del diritto naturale delle nazioni. Quindi egli ne
ripartisce i princípi in due parti, una delle idee, un'altra delle lingue. E per quella dell'idee, scuopre altri princípi storici
di cronologia e geografia, che sono i due occhi della storia, e quindi i princípi della storia universale, c'han mancato
finora. Scuopre altri principi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere urnano,cioè una teologia
naturale di tutte le nazioni, con la quale ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i suoi propri dèi per un
certo istinto naturale che ha l'uomo della divinità, col cui timore i primi auttori delle nazioni si andarono ad unire con
certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana società de' matrimoni; e sì scuopre essere stato lo
stesso il gran principio della teologia de' gentili e quello della poesia de' poeti teologi, che furono i primi nel mondo e
quelli di tutta l'umanità gentilesca. Da cotal metafisica scuopre una morale e quindi una politica commune alle nazioni,
sopra le quali fonda la giurisprudenza del genere umano variante per certe sette de' tempi, si come esse nazioni
vanno tuttavia piú spiegando l'idee della loro natura, in conseguenza delle quali piú spiegate vanno variando i governi,
l'ultima forma de' quali dimostra essere la monarchia, nella quale vanno finalmente per natura a riposare le nazioni.
Cosí supplisce il gran vuoto che ne' suoi princípi ne ha lasciato la storia universale, la quale incomincia in Nino dalla
monarchia degli assiri. Per la parte delle lingue, scuopre altri princípi della poesia e del canto e de' versi, e dimostra
essere quella e questi nati per necessità di natura uniforme in tutte le prime nazioni. In seguito di tai princípi scuopre
altre origini dell'imprese eroiche, che fu un parlar mutolo di tutte le prime nazioni in tempi diformati di favelle articolate.
Quindi scuopre altri princípi della scienza del blasone, che ritruova esser gli stessi che quegli della scienza delle
medaglie, dove osserva eroiche di quattromill'anni di continuata sovranità le origini delle due case d'Austria e di
Francia. Fra gli effetti della discoverta delle origini delle lingue ritruova certi principi communi a tutte, e per un saggio
scuopre le vere cagioni della lingua latina, e al di lei essemplo lascia agli eruditi a farlo delle altre tutte; dà un'idea di
un etimologico commune a tutte le lingue natie, un'altra di altro etimologico delle voci di origine straniera, per
ispiegare finalmente un'idea d'un etimologico universale per la scienza della lingua necessaria a raggionare con
propietà del diritto naturale delle genti. Con sì fatti principi sì d'idee come di lingue, che vuol dire con tal filosofia e
filologia del gener umano, spiega una storia ideale eterna sull'idea della providenza, dalla quale per tutta l'opera
dimostra il diritto naturale delle genti ordinato; sulla quale storia eterna corrono in tempo tutte le storie particolari delle
nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Sì che esso dagli egizi, che motteggiavano i greci che
non sapessero di antichità, con dir loro che erano sempre fanciulli, prende e fa uso di due gran rottami di antichità:
uno, che tutti i tempi scorsi loro dinanzi essi divisero in tre epoche, una dell'età degli dèi, l'altra dell'età degli eroi, la
terza di quella degli uomini; l'altro che con questo stesso ordine e numero di parti in altrettanta distesa di secoli si
parlarono inanzi, ad essoloro tre lingue: una divina, muta, per geroglifici o sieno caratteri sacri; un'altra simbolica o sia
per metafore, qual è la favella eroica; la terza epistolica per parlari convenuti negli usi presenti della vita. Quindi
dimostra la prima epoca e lingua essere state nel tempo delle famiglie, che certamente furono appo tutte le nazioni
inanzi delle città e sopra le quali ognun confessa che sorsero le città, le quali famiglie i padri da sovrani príncipi
reggevano sotto il governo degli dèi, ordinando tutte le cose urnane con gli auspici divini, e con una somma
naturalezza e semplicità ne spiega la storia dentro le favole divine'de' greci. Quivi osservando che gli dèi d'Oriente,
che poi da' caldei furono innalzati alle stelle, portati da' fenici in Grecia (lo che dimostra esser avvenuto dopo i tempi
d'Omero), vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi greci a ricevergli, sí come poi, portati nel Lazio, vi ritruovarono
acconci i nomi dei dèi latini. Quindi dimostra cotale stato di cose, quantunque in altri dopo altri, essere corso
egualmente tra latini, greci ed asiani. Appresso dimostra la seconda epoca con la seconda lingua simbolica essere
state nel tempo de'primì governi civili, che dimostra essere stati di certi regni eroici o sia d'ordini regnanti de' nobili,
che gli antichissimi greci dissero « razze erculee », ríputate di origine divina sopra le prime plebi, tenute da quelli di
origine bestiale; la cui storia egli spiega con somma facilità descrittaci da' greci tutta nel carattere del loro Ercole
tebano, che certamente fu il massimo de' greci eroi, della cui razza furono certamente gli Eraclidi, da' quali sotto due
re si governava il regno spartano, che senza contrasto fu aristocratico. Ed avendo egualmente gli egizi.e greci
osservato in ogni nazione un Ercole, come de' latini ben quaranta ne giunse a numerare Varrone, dimostra dopo degli
dèi aver regnato gli eroi da per tutte le nazioni gentili e, per un gran frantume di greca antichità, che i cureti uscirono di
Grecia in Creta, in Saturnia, o sia Italia, ed in Asia; scuopre questi essere stati i quiriti latini, di cui furono una spezie i
quiriti romani, cioè uomini armati d'aste in adunanza; onde il diritto de' quiriti fu il diritto di tutte le genti eroiche. E
dimostra la vanità della favola della legge delle XII tavole venuta da Atene, scuopre che sopra tre diritti nativi delle
genti eroiche del Lazio, introdotti ed osservati in Roma e poi fissi nelle tavole, reggono le cagioni del governo, virtú e
giustizia romana in pace con le leggi e in guerra con le conquiste; altrimenti la romana storia antica, letta con l'idee
presenti, ella sia piú incredibile di essa favolosa de' greci; co'quali lumi spiega i veri principi della giurisprudenza
romana. Finalmente dimostra la terza epoca dell'età degli uomini e delle lingue volgari essere nei tempi dell'idee della
natura umana tutta spiegata e ravisata quindi uniforme in tutti; onde tal natura si trasse dietro forme di governi umani,
che pruova essere il popolare e 'l monarchico, della qual setta de' tempi furono i giureconsulti romani sotto
gl'imperadori. Tanto che viene a dimostrate le monarchie essere gli ultimi governi in che si ferman finalmente le
nazioni; e che sulla fantasia che i primi re fussero stati monarchi quali sono i presenti, non abbiano affatto potuto
incominciare le repubbliche; anzi con la froda e con la forza, come si è finora immaginato, non abbiano potuto affatto
cominciare le nazioni. Con queste ed altre discoverte minori, fatte in gran numero, egli raggiona del diritto naturale
delle genti, dimostrando a quali certi tempi e con quali determinate guise nacquero la prima volta i costumi che
forniscono tutta l’ iconomia di cotal diritto, che sono religioni, lingue, domíni, commerzi, ordini, imperi, leggi, armi,
giudizi, pene, guerre, paci, alleanze, e da tali tempi e guise ne spiega l'eterne propietà che appruovano tale e non
altra essere la loro natura o sia guisa e tempo di nascere; osservandovi sempre essenziali differenze tra gli ebrei e
gentili: che quelli da principio sorsero e stieron fermi sopra pratiche di un giusto eterno, ma le pagane nazioni,
conducendole assolutamente la providenza divina, vi sieno ite variando con costante uniformità per tre spezie di diritti,
corrispondenti alle tre epoche e lingue degli egizi: il primo, divino, sotto il governo del vero Dio appo gli ebrei e di falsi
dèi tra' gentili; il secondo, eroico, o propio degli eroi, posti in mezzo agli dèi e gli uomini; il terzo, umano, o della natura
umana tutta spiegata e riconosciuta eguale in tutti, dal quale ultimo diritto possono unicamente provenire nelle nazioni
i filosofi, i quali sappiano compierlo per raziocini sopra le massime di un giusto eterno […].
P. Giannone, Vita scritta da lui medesimo (cit. ,pp.336-338)
[1737]
E’ già scorso un anno e siamo entrati nel secondo, che in questa solitudine soffro la pena ed il tedio d'una vita misera
e noiosa, e come fuori del mondo. Da che ci fui menato, niente so di ciò che sia avvenuto in quella o di pace, o di
guerra, o di altro, e molto meno de' miei congionti ed amici; sicché sembrarni il mio vivere un'immagine di morte. Né
so quel che fia di noi; ma temo e pavento che; sembrando alla corte di Roma troppo lungo l'aspettare la morte d'un
vecchio, qual io mi sono, non procuri co' suoi accorti artifici ed ingegni di far prolungare qui il mio incolato, in sì misero
ed infelice stato, per affrettarla, quanto fia possibile, almanco con incomodi, disagi e patimenti, a' quali la mia grave
età d'uopo è che, finalmente, soccomba.
A questo fine, se mai venissi io qui a mancare, avendomi ella esposto come bersaglio a gli occhi di tutti, e resomi noto assai piú per l'incessanti e fiere sue persecuzioni, che per le mie opere divolgate alle stampe, affinché tutti siano
informati de' miei avvenimenti e sappiano discernere il vero da falsi rapporti, de' quali non dubbito che avrà
ingombrate le menti de' piú semplici, ho voluto, dandomene opportunità quest’ ozio e questa solitudine, dar al mondo
una verace e fedel narrazione della mia vita e quanto nel corso della medesima siami avvenuto.
Forse avverrà che alcuni, mossi da spirito di pietà e di compassione sospireranno, morto chi, vivo, disprezzarono o
non curarono. Forse dal mio esempio si accorgeranno non avere la corte di Roma altra difesa o schermo, per
mantenere gl'ingiusti acquisti fatti sopra la potestà e giurisdizione de' principi, se non quella di perseguitare gli autori,
non già di rispondere alle di loro opere, nelle quali con manifeste pruove sono dimostrate e poste in chiara luce le
tante sorprese ed usurpazioni. Ma (ciò che forse sembrerà loro piú strano e portentoso) stupiranno come, per
abbattergli e rovinargli, cerchi e trovi aiuto da' principi stessi, ut haberet instrumenta servitutis et reges8. Sicché ora
piú non dubiteranno essersi San Girolamo apposto al vero, quando scrisse che il vangelista Giovanni, nell'Apocalisse,
per la grande città da lui chiamata Babilonia intese di parlar di Roma corrotta; e di lei pur intese, quando ci descrisse
quella meretrice ornata di porpora, gemme ed oro, la quale, prostitutta sovra sette colli, fu veduta sfacciatamente
puttaneggiar co' regi; sicome Dante ce ne fece pur accorti.`
A me, che non per odio altrui o per disprezzo, ma unicamente per arnor della verità e per investigarla fra l'oscurità de'
più incolti e tenebrosi secoli ho sofferte tante fatiche e travagli, se accaderà fra queste alpestri rupi lasciar il mio corpo
esanime, pregherò Iddio, ch'é la Verità istessa, che accolga il mio spirito in pace: e sicome per lei ho sofferti tanti
strazi e martirii, giusto è che finalmente diale tranquillità e riposo.
Pregherò pure i paesani e viandanti che traversando per questi monti, e dovendo, nel passar per la Savoia in Francia,
calcar la strada donde non molto lontano vedesi il castello di Miolans, volti i loro pietosi occhi al gran sasso sotto il
quale giaceranno sepolte le mie fredde ossa, mossi da spirito di pietà, in passando lor dicano: "Ossa aride ed
asciutte, abbiate quella pace e riposo che vive non poteste ottener giammai.9
Di nuove pene mi convien far versi
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"Avendo gli stessi re per strumenti di servitú."
Da questo momento può dirsi terminata l’autobiografia. Le righe che seguono, distintre anche nel manoscritto, sono
gli appunti stesi nel castello di Cesa.
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