Il Medio Oriente a metà strada?

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TARIQ ALI*
Il Medio Oriente a metà strada?
(marzo-aprile 2006)
Guardando il mondo dall’alto della grandeur imperiale dello Studio Ovale nell’autunno del 2001, l’accoppiata CheneyBush era convinta di poter sfruttare l’attentato dell’11 settembre per rimodellare il mondo. Arthur K. Cebrowski, viceammiraglio del Pentagono, ha così sintetizzato il legame
fra il capitalismo e la guerra: «I pericoli contro cui devono
essere schierate le forze USA arrivano proprio dai Paesi e
dalle regioni che sono rimaste «isolate» dalle tendenze prevalenti della globalizzazione». Qual è il bilancio a cinque anni di distanza?
All’attivo c’è il fatto che la Russia, la Cina e l’India, così
come l’Europa orientale e il Sud-est asiatico, restano sotto* Scrittore, giornalista e sceneggiatore, è nato a Lahore nel 1943. Oltre
a far parte del comitato di redazione della «New Left Review», collabora con varie riviste e quotidiani, come «The Guardian», la «London
Review of Books», «il manifesto» e con la radio della Bbc. Tra i suoi
saggi possiamo ricordare: Lo scontro dei fondamentalismi. Crociate,
jihad e modernità (2002) e Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq (2003). I suoi ultimi lavori sono: Rough Music: Blair, Bombs,
Baghdad, London, Terror (2005) e Speaking of Empire and Resistance
(2005). È anche autore di romanzi storici ambientati nel mondo islamico: The Book of Saladin (1998), The Stone Woman (2000), Un sultano a Palermo (2005) e All’ombra del melograno (2007).
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messi. In questo caso, nonostante i centri di studi politici
dell’Occidente cerchino di giustificare le svolte strumentali
della politica USA nascondendole sotto varie foglie di fico –
«democrazie limitate», «democrazie tutelari», «democrazie
illiberali», «autocrazie globali», «autocrazie illiberali» –, la
realtà è che il principale criterio per ottenere l’approvazione
imperiale consiste nell’accettare le regole stabilite da Washington. L’Unione Europea, dopo alcuni ondeggiamenti rispetto alla posizione da prendere di fronte alla guerra all’Iraq, ha deciso di sostenere gli americani. Oggi Chirac sembra più bellicoso di Bush nella questione mediorientale e le
autorità tedesche fanno ogni sforzo per calmare Washington. Al passivo c’è la dilatazione dell’effetto Caracas. Il lungo isolamento di Cuba è finito, l’oligarchia boliviana è stata
sconfitta a La Paz, e la Repubblica bolivariana del Venezuelana ha assunto un ruolo centrale nella mobilitazione dei
movimenti popolari contrari al neoliberismo che esistono
praticamente in ogni Paese dell’America Latina.1
Ma ciò che allarma ancor più Washington è la progressiva perdita di controllo sul Medio Oriente. Finora non è accaduto niente di irreparabile, ma l’anno scorso la posizione
degli Stati Uniti in quella regione si è indebolita. Il fenomeno non è stato uniforme – almeno in un caso si è verificato il
contrario, con l’intervento in Libano coronato da successo.
Altrove però il decorso degli eventi è tutt’altro che favorevole a Washington. In Iran e in Palestina, i personaggi su cui il
governo USA faceva affidamento perché docili strumenti o
interlocutori malleabili sono stati umiliati alle elezioni, vinte
dai gruppi più radicali. In Iraq, la resistenza ha inflitto una
serie di duri colpi alle forze di occupazione, impedendo la
stabilizzazione del regime collaborazionista e minando nella
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stessa America il sostegno alla guerra. Il progetto di Cheney
e Wolfowitz di creare uno stato satellite che servisse da modello alla regione giace sepolto sotto le macerie di Falluja. In
Afghanistan, la guerriglia si è rimessa in moto, e Washington
sta corteggiando le fazioni talebane più vicine all’intelligence
militare pakistana. Le recenti rivelazioni di torture praticate
dai soldati statunitensi e britannici, e il saccheggio di risorse
locali da parte degli invasori e dei loro agenti, hanno accresciuto in tutto il mondo arabo l’odio per l’Occidente. Le
truppe americane, insufficienti per controllare l’intero territorio, stanno perdendo fiducia nella loro missione. In patria,
le autorità cominciano a temere che si stia profilando una
débâcle paragonabile a quella subita in Vietnam o addirittura peggiore. Tuttavia gli esiti del conflitto sono ancora incerti ed è improbabile che siano omogenei.
La Palestina
L’entusiasmo degli occidentali per le rivoluzioni arcobaleno
svanisce, come è prevedibile, quando il colore dominante è il
verde. Gli uomini di governo e i giornalisti occidentali hanno visto nel trionfo di Hamas alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese un infausto segnale di ripresa del fondamentalismo e un colpo terribile alle prospettive di pace con
Israele. Immediatamente sono state messe in atto pressioni
finanziarie e diplomatiche per costringere Hamas ad adottare la stessa politica di coloro che aveva sconfitto alle elezioni. Sotto il profilo numerico, non si è trattato di una vittoria
schiacciante – con il 45% dei suffragi su un’affluenza del
78%, Hamas ha conquistato il 54% dei seggi. Ma se si con147
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sidera che Israele, gli USA e l’Europa sono intervenute pubblicamente per garantire la vittoria di al Fatah, quel risultato
è stato un vero e proprio trionfo sotto il profilo morale. Gli
elettori palestinesi non si sono lasciati condizionare né dalle
minacce né dai tentativi di corruzione messi in atto dalla comunità internazionale in una campagna elettorale durante la
quale i membri di Hamas e altri oppositori venivano periodicamente arrestati o aggrediti dai soldati israeliani, i loro
manifesti sequestrati o distrutti, gli Stati Uniti e l’Europa finanziavano la propaganda di al Fatah e i membri del Congresso USA ripetevano che non si doveva permettere ad Hamas di presentarsi alle elezioni. Perfino la data delle elezioni
è stata scelta in modo da poterne alterare il risultato. Fissate
per l’estate 2005, sono state rinviate al gennaio 2006 affinché
il presidente Abū Māzen avesse il tempo di distribuire aiuti
agli abitanti di Gaza perché in tal modo, come ha dichiarato
un funzionario egiziano, «la gente appoggerà l’Autorità nazionale palestinese contro Hamas».2
Il desiderio popolare che fosse fatta pulizia dopo dieci anni di corruzione, di prepotenze e spacconate sotto al Fatah si
è dimostrato più forte di tutti quegli espedienti.
Avendo dimostrato di non essere né avido né dipendente
come l’Autorità palestinese, di non essersi arricchito come i
suoi portavoce e poliziotti servili, di non aver preso parte a
un «processo di pace» che aveva portato soltanto ulteriori
espropriazioni e miseria alla popolazione su cui l’Autorità
governava, Hamas offriva l’alternativa di un esempio concreto e chiaro. Benché privo delle risorse del rivale, aveva creato ambulatori, scuole, ospedali, istituito corsi professionali e
varato programmi di assistenza per i poveri. I suoi dirigenti
e i suoi quadri conducevano una vita frugale, non diversa da
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quella della gente comune. Ed è stato proprio questo modo
di risolvere i problemi quotidiani, e non la recitazione giornaliera dei versetti del Corano, che ha permesso ad Hamas di
conquistare una vasta base di sostenitori.
Fino a che punto il suo operato durante la seconda Intifada ne abbia aumentato la credibilità è meno chiaro. Gli attacchi armati di Hamas contro Israele, come quelli della Brigata
dei Martiri di al-Aqsa, il braccio armato di al Fatah, o della
Jihad islamica, sono stati rappresaglie contro le forze di occupazione molto più micidiali di qualunque altra azione. Se raffrontati alle numerose e feroci incursioni delle forze israeliane, gli attacchi dei palestinesi sono stati rari e distanziati nel
tempo. Lo squilibrio è apparso in tutta la sua chiarezza quando Hamas, nel giugno 2003, ha proclamato una tregua unilaterale, e l’ha rispettata per tutta l’estate nonostante i raid di
Israele e gli arresti di massa nella West Bank, che hanno portato alla cattura di trecento quadri di Hamas.3 Il 19 agosto,
una sedicente cellula di Hamas costituita a Hebron – ma non
riconosciuta e anzi denunciata dalla leadership ufficiale – ha
fatto saltare in aria un autobus a Gerusalemme ovest, provocando la reazione immediata di Israele che ha assassinato
Ismail Abu Shanab, il mediatore politico di Hamas che aveva
negoziato la tregua. Hamas ha reagito a sua volta. Come tutta risposta, l’Autorità palestinese e gli Stati arabi sospesero gli
aiuti umanitari e, nel settembre 2003, l’Unione Europea dichiarò che Hamas era un movimento terrorista – dichiarazione che Tel Aviv aspettava da lungo tempo.
Ciò che ha distinto Hamas nell’affrontare quello scontro
assolutamente impari non è stato l’invio di kamikaze, usati
da molti gruppi concorrenti, ma la sua superiore disciplina –
che è emersa in tutta la sua chiarezza quando il partito è riu149
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scito a far rispettare, l’anno scorso, una tregua con Israele. Le
uccisioni di civili devono essere condannate in ogni caso ma,
poiché Israele ne è il principale artefice, le parole di condanna degli europei e degli americani non sono altro che una dimostrazione di ipocrisia. Le orme lasciate dall’assassino appartengono quasi sempre a un esercito moderno che, con
l’appoggio di jet, carri armati e missili, sta calpestando senza
pietà la Palestina, vittima dell’oppressione più lunga della
storia moderna. «Nessuno può criticare o condannare un popolo che dopo quarantacinque anni di occupazione militare
si rivolta contro gli invasori», dichiarò nel 1993 il generale
Shlomo Gazit, ex capo dei servizi segreti militari israeliani.4
In realtà, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno protestato contro Hamas perché aveva rifiutato di accettare la resa prevista dagli accordi di Oslo e si era opposto a ogni tentativo, da Taba a Ginevra, di addossare sui palestinesi la responsabilità dei disastri provocati da loro. Oggi, quello che
interessa maggiormente agli occidentali è spezzare la resistenza di Hamas, e un’arma per costringerlo a sottomettersi
è tagliare gli aiuti all’Autorità palestinese. Un’altra è quella di
dare maggiori poteri al presidente Abū Māzen – incaricato
da Washington di governare il Paese come Bremer ha governato l’Iraq – a spese del Consiglio legislativo.5 Ma poiché entrambe le armi possono avere un effetto boomerang, è più
probabile che si cerchi di ammansire Hamas, nella speranza
che, grazie ai vantaggi della carica, diventi più moderato e
col tempo «pragmatico» come chi lo ha preceduto. Una previsione senza dubbio ragionevole. Hamas è storicamente una
propaggine dei Fratelli musulmani, il cui ramo egiziano è all’apparenza poco più radicale del partito al governo in Turchia.6 Come tutte le altre religioni, l’Islam offre una gamma
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completa di posizioni politiche, dalla totale collaborazione
con il capitale e l’impero all’opposizione dura e cruda, oltre
che a un gran numero di posizioni intermedie.
Sulla possibilità di corrompere Hamas per piegarlo in
breve tempo ai fini dell’Occidente e di Israele esistono alcuni dubbi, anche se non mancano i precedenti. Sull’eredità
programmatica di Hamas grava l’ipoteca della più fatale tra
le debolezze del nazionalismo palestinese, ossia la convinzione di avere solo sue scelte: non riconoscere l’esistenza di
Israele tout court o accettare i resti smembrati di un quinto
del Paese. Come ha dimostrato la storia di al Fatah, la via fra
il massimalismo illusorio dei primi e il minimalismo patetico
dei secondi è fin troppo breve. Quanto ad Hamas, non si
tratta di verificare se può essere addomesticato per soddisfare l’opinione pubblica occidentale, ma se è in grado di infrangere una tradizione che lo blocca. Per far questo, bisognerebbe che un futuro Stato palestinese sorgesse sulle fondamenta che gli competono, dividendo il Paese e le sue risorse equamente – non darne l’80% a uno e il 20% all’altro,
con un’espropriazione tanto iniqua che, alla lunga, nessun
popolo con un certo rispetto di sé potrà mai tollerare. L’unica soluzione accettabile è quella proposta da Virginia Tilley:
un solo Stato per ebrei e palestinesi, nel quale siano annullati i danni del sionismo.7
Il Libano e la Siria
A Nord, la relativa indipendenza del regime baathista siriano
e la stabilità istituzionale che gli ha consentito di esercitare
nella regione un’influenza superiore alla sua reale forza sono
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da molto tempo motivo di irritazione per Tel Aviv e Washington. A prescindere dal suo storico opportunismo politico, Damasco, a differenza del Cairo, si è rifiutata di far naufragare la causa palestinese firmando una pace separata con
Israele o di collaborare con le forze di occupazione USA in
Iraq. Il diffondersi dell’insurrezione irachena nelle province
confinanti con la Siria, dove le condizioni erano favorevoli a
Damasco, ha spinto Washington a mettere fra i primi punti
dell’ordine del giorno la neutralizzazione o l’eliminazione del
presidente siriano Bashar al Assad.8 Poiché le forze USA attualmente non sono in grado di organizzare una seconda invasione, il solo modo di abbattere il governo siriano è stato
quello di trasformare il Libano in una zona di pressione, dove le potenze occidentali possono manovrare liberamente.
Le truppe siriane, presenti in Libano dal 1976, sono sempre
state impopolari e si sperava che un loro ritiro forzato avrebbe fomentato in patria una serie di agitazioni tali da favorire
un cambio di regime.
Ancor oggi il Libano è in larga misura una creazione artificiale del colonialismo francese – una fascia costiera della
Grande Siria che il governo di Parigi, una volta resosi conto
che l’indipendenza siriana era inevitabile, aveva separato dall’entroterra creando una regione clientelare dominata da
quella minoranza maronita che era da lungo tempo burattino della Francia nel Mediterraneo orientale. Le suddivisioni
confessionali del Paese hanno sempre impedito un censimento accurato che avrebbe mostrato che la pur consistente
maggioranza musulmana – oggi forse in prevalenza sciita –
non è adeguatamente rappresentata nel sistema politico. A
metà degli anni Settanta le tensioni tra fazioni, aggravate dalle condizioni dei profughi palestinesi, erano esplose in una
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guerra civile, offrendo alla Siria l’occasione per inviare, con
la tacita approvazione di Washington, le sue truppe in Libano dove sono rimaste a lungo sia come cuscinetto fra le comunità in lotta sia per fungere da deterrente nei confronti di
Israele che con le invasioni del 1978 e 1982 aveva tentato di
prendere il controllo del Paese. Col passare del tempo, Damasco è riuscita a esercitare un’influenza pesante in vasti settori della vita politica libanese, assicurandosi che il proprio
apparato militare e di intelligence scegliesse i candidati alle
più alte cariche dello Stato, manipolasse i governi e le dispute tra fazioni, uccidesse i politici recalcitranti e accumulasse
fortune personali.
Nel 1994, come Primo ministro fu scelto il miliardario
Rafik Hariri, proprietario di un impero immobiliare nonché
creatura della casa reale saudita. Una volta insediato al potere, era diventato il Berlusconi o il Thaksin del Libano. Grazie alle proprie imprese, aveva ricostruito il centro di Beirut
e ne aveva ricavato alti profitti. Quando fu – per breve tempo – spodestato, architettò una crisi del tasso di cambio per
ripresentarsi successivamente come il solo uomo in grado di
risolverla. Grazie alle ingenti somme di denaro liquido di cui
disponeva, riuscì a procurarsi contatti che gli fornirono ampi margini di manovra nelle trattative con Damasco. Fra i
suoi amici intimi di quegli anni c’era un altro politico venale,
Jacques Chirac, di cui si dice abbia finanziato generosamente la campagna elettorale.9 La Francia non ha mai perso interesse per l’ex colonia. Nel 2004 Chirac stava cercando di rimediare alla rottura con gli USA dovuta al mancato appoggio
all’intervento in Iraq (giustificato da motivi di politica interna) e, dopo essersi accordato con Washington per effettuare
un colpo di Stato ad Haiti, aveva tutte le ragioni per aiutare
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Bush e Hariri a scacciare i siriani dal Libano. Damasco, ovviamente, sapeva cosa si stava progettando. In agosto, Bashar
Assad convocò Hariri e – secondo suo figlio – gli avrebbe
detto: «Se lei e il presidente Chirac pensate di poter governare il Libano, vi sbagliate. O si prolunga [la durata della
presidenza di Lahoud] oppure spaccherò il Libano sulla vostra testa e su quella di Walid Jumblatt».10
La settimana seguente, Francia e Stati Uniti presentarono
al Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione in cui si
chiedeva alla Siria di ritirarsi dal Libano e alla milizia di Hezbollah di deporre le armi. La risposta non si fece attendere.
In febbraio, in occasione dell’apertura della campagna elettorale in Libano, Hariri venne ucciso da un’autobomba di
fronte all’hotel St Georges di Beirut, una sorte toccata ad altri due presidenti prima di lui: Bashir Gemayel e René
Moawad morti nel 1892 e nel 1989 senza che ci fossero dure
reazioni. Il quell’occasione però il segretario generale dell’ONU convocò subito una commissione d’inchiesta, inviando
un pubblico ministero tedesco con pieni poteri a indagare
sul crimine. La Siria fu riconosciuta responsabile dell’attentato. Ma, poiché la sua responsabilità era evidente fin dall’inizio, la commissione ha rivelato soltanto fino a che punto
l’ONU e l’impotente Kofi Annan – allora Segretario generale – fossero strumenti di cui si serviva l’Occidente per imporre la propria volontà. Infatti gli omicidi perpetrati da
Israele – a danno dei capi di Hezbollah, al Fatah e Hamas –
non hanno mai suscitato la minima protesta da parte di Annan e tanto meno lo hanno indotto a convocare una commissione di inchiesta. La fine di Patrice Lumumba, Ben
Barka, Che Guevara, Salvador Allende, Samora Machel la dice lunga sul perpetuarsi di simili tradizioni in Occidente.
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Nel Libano stesso, l’uccisione di Hariri – che con la sua generosità si era procurato una vasta clientela – ha provocato
una reazione più genuina, con imponenti manifestazioni dei
ceti medi che chiedevano l’espulsione delle truppe e della polizia siriana, proprio mentre giungeva in Libano uno stuolo di
organizzazioni occidentali per vedere i progressi della rivoluzione dei cedri.11 Le manifestazioni, accompagnate dalle minacce di Washington e Parigi, hanno costretto la Siria a ritirarsi e hanno consentito di insediare a Beirut un governo più
attento alle esigenze locali. Nonostante ciò le varie fazioni libanesi rimangono più incontrollabili che mai, Hezbollah non
ha deposto le armi e Assad non è caduto.12 L’America ha conquistato una pedina, ma la partita è ancora tutta aperta.
L’inferno iracheno
Se gli americani hanno preso di mira la Siria perché offre riparo alla resistenza irachena, è a ragion veduta. Infatti per Washington la guerra in Iraq è andata di male in peggio. Dovendo affrontare un’insurrezione indomabile, le truppe di occupazione – dopo tre anni e una spesa di oltre 200 miliardi di dollari – non sono ancora in grado di garantire rifornimenti regolari di acqua ed elettricità alla popolazione. Le industrie sono
ferme, gli ospedali e le scuole funzionano appena, i profitti del
petrolio sono stati rapinati dai beniamini locali degli americani, per non parlare dell’orda di appaltatori pronti a trarre profitto dalla situazione. Se all’epoca delle sanzioni ONU le condizioni di vita di gran parte della popolazione erano miserabili, sotto gli americani sono persino peggiorate, gli omicidi tra
fazioni si sono moltiplicati e ogni sicurezza è scomparsa.
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In questo scenario infernale, il morale stesso delle truppe
di occupazione comincia a dare segni di cedimento. Privati del
piacere che provavano nell’assistere ai bombardamenti per loro senza rischi da un’altezza di circa 1000 metri, i soldati americani sono a un punto morto: nonostante siano confinati nelle caserme o inviati in missione solo con la copertura dell’aviazione e in terreni ultraprotetti subiscono perdite quasi giornaliere. Da un sondaggio fatto dall’istituto Zogby nel febbraio
2006 fra i soldati americani in Iraq, è emerso che il 72% era
d’accordo per il ritiro «entro un anno» e di questo 72% il
29% avrebbe voluto un ritiro «immediato». Meno di un quarto – il 23% – condivideva la posizione ufficiale, ribadita dal
presidente e da gran parte dell’establishment, secondo cui gli
Stati Uniti dovevano «mantenere la rotta». Le riserve militari
sono oggi esaurite, al punto che il Pentagono ha annunciato di
non tenere più conto dei precedenti penali delle nuove reclute e sempre più è costretto ad arruolare mercenari.
La copertura politica accuratamente costruita per giustificare l’invasione non ha avuto esito migliore. La prima tornata elettorale per la formazione di un governo fantoccio è
stata boicottata in blocco dalla comunità sunnita. La costituzione made-in-USA è stata imposta con un plebiscito manipolato. Una seconda tornata elettorale ha generato scontri
fra i vari clientes americani e una situazione parlamentare insolubile. Le ingenti somme spese per corrompere vari personaggi e finanziare i candidati non hanno ottenuto l’effetto
sperato, perché alle elezioni Iyad Allawi e Ahmed Chalabi,
gli stipendiati della CIA e del Pentagono, sono stati umiliati.
In questo momento, il viceré americano sta usando il presidente curdo per soppiantare il premier sciita diventato troppo
scomodo. Nei confronti della rivoluzione color porpora ser156
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peggia un diffuso scetticismo popolare, e le autorità di Baghdad hanno perso ogni credibilità.
Ma la liberazione dell’Iraq non è a portata di mano. Il
protrarsi dell’occupazione ha acuito le tensioni tra le fazioni
favorevoli agli americani. Gli attacchi mortali dei sunniti
contro gli sciiti e degli sciiti contro i sunniti sono ormai all’ordine del giorno e causano gravissime perdite in entrambe
le comunità. I primi ad aggredire sono stati i gruppi più fanatici della resistenza sunnita. Ma la responsabilità di aver
trasformato quegli attacchi in una guerra generale, alla quale
si è intrecciata la lotta patriottica contro lo straniero, ricade
sui religiosi sciiti – e in special misura sull’ayatollah Sistani –
che si sono schierati con i conquistatori, esponendo inevitabilmente le proprie comunità alle rappresaglie della resistenza, finché rimarranno fedeli alle loro direttive. La simpatia
accordata con tanto strepito a Sistani per i suoi stretti rapporti con Bremer, Negroponte e Khalilzad eguaglia quella riservata un tempo all’altro religioso taciturno e austero del
Paese, che al tramonto della vita aveva protetto il suo popolo, prendendo al contempo le distanze dagli occupanti. Ma il
Pétain di Najaf può sperare in un destino migliore. La gratitudine per aver difeso i beni americani dovrebbe garantirgli
il Nobel per la pace per il quale Thomas Friedman, strenuo
difensore dell’invasione, lo ha segnalato.13
Se i capi sciiti in generale e Sistani in particolare avessero
detto agli americani di fare i bagagli nella primavera del 2004,
quando i sunniti e gli sciiti erano insorti contro l’occupazione, l’Iraq ora sarebbe un Paese libero con una ragionevole
prospettiva di armonia fra le sue componenti, basata sulla comune lotta contro l’invasore. Ma Sistani e il suo entourage
hanno unito le proprie forze a quelle degli americani per soffo157
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care la rivolta dell’esercito del Madhi di Muqtada al Sadr nel
Sud e la resistenza sunnita nel Nord e nell’Ovest del Paese, allo scopo di prendere il potere a Baghdad sotto la tutela USA
e instaurare un regime settario basato sulla preponderanza
demografica e sulle armi straniere. Via via che il germe del
collaborazionismo si diffondeva, questo tipo di parlamentarismo confessionale ha acuito, come prevedibile, l’odio tra le
fazioni provocando rappresaglie indiscriminate e massacri reciproci fra le milizie della jihad da un lato e gli squadroni della morte dall’altro. I responsabili di questo caos lo stanno
sfruttando ora come pretesto per prolungare l’occupazione
del Paese. Distribuiscono tangenti ai politici sunniti e li incoraggiano a implorare gli americani di rimanere, come se l’occupazione non fosse la causa della catastrofe in atto ma un
modo per porvi rimedio.
In realtà c’è una sola via per fermare la spirale di violenza: quella rifiutata da Sistani nel 2004 e ora adottata ancora
una volta da Muqtada al Sadr – un accordo nazionale fra i capi sunniti e sciiti, fra i partigiani delle province e le milizie
della capitale, per scacciare tutte le forze di occupazione senza ulteriori indugi. «Taglia la testa del serpente e sopprimi
tutto il male», esortava Muqtada al suo ritorno dal Libano,
dopo aver visto Samara e Baghdad in rovina. Le sue milizie,
formate in gran parte dai poveri delle città, sono reclutate in
quartieri un tempo roccaforti del comunismo iracheno. Gli
eserciti invasori anglo-americani non potrebbero resistere
neppure un mese in Iraq, se gli sciiti seguissero l’esempio dei
compatrioti sunniti. Infatti basterebbe che nel parlamento di
burattini un solo deputato votasse a favore del ritiro immediato dei soldati stranieri per rendere insostenibile la posizione di Washington e Londra. Data la storia recente dell’I158
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raq, continuerebbero a esistere molte e gravi tensioni fra le
comunità, per non parlare del ruolo svolto recentemente dai
curdi, novelli gurkha, a favore dell’invasore. Ma, finché non
verrà rimosso il veleno sparso dall’Occidente, non ci sarà
nessuna possibilità di curare le ferite, presenti o passate. Perché l’Iraq abbia un futuro bisogna che le truppe anglo-americane facciano armi e bagagli e lascino il Paese.
L’Iraq nella rete
Attualmente, nelle province sud-orientali di Bassora e Maysan,
le autorità sciite locali si rifiutano di collaborare con le truppe
di occupazione britanniche. Alla base del mutato atteggiamento c’è con ogni probabilità la nuova situazione venutasi a creare oltreconfine. La vittoria in Iran di Mahmud Ahmadinejad
nelle elezioni del 2005 rappresenta nella regione il più importante capovolgimento politico del nuovo secolo. Nato in una
famiglia operaia, ex combattente nella guerra contro l’Iraq, ex
sindaco di Teheran e intransigente sostenitore dell’Islam, Ahmadinejad ha sbaragliato il candidato appoggiato dai media
occidentali e dai loro padroni: il corrotto religioso Rafsanjani,
ricchissimo e politicamente potente, che aveva governato il
Paese dalla fine degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta. Ma nel 2005, nonostante una campagna elettorale generosamente finanziata – e accompagnata da comizi hi-tech, dalla
distribuzione di adesivi propagandistici e da ragazze con l’hijab
che gridavano urrà-urrà – ha subito una sconfitta schiacciante
dietro la quale ci sono i voti di protesta dei diseredati. Presentando un progetto di distribuzione egualitaria delle ricchezze –
«mettete il denaro del petrolio sul tavolo dei poveri» – e diffon159
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dendo un CD che mostrava il suo milionario rivale circondato
dal lusso, mentre egli dava gran parte del suo stipendio ai bisognosi, Ahmadinejad si era presentato come il solo candidato
che potesse indossare in modo convincente i panni di chi vuol
fare piazza pulita nelle strade di Teheran. Mentre Rafsanjani ripeteva i vacui discorsi tipici di ogni establishment, Ahmadinejad parlava di progetti concreti per risolvere i problemi della casa e della disoccupazione, che colpivano soprattutto le giovani coppie desiderose di sposarsi, e prometteva di porre fine
alla corruzione e all’acquiescenza ai diktat degli Stati Uniti in
campo energetico.14 Di conseguenza la campagna elettorale –
più dura nei toni e più radicale nelle scelte di politica sociale di
quelle del 2004 negli Stati Uniti o del 2005 in Gran Bretagna –
si è conclusa con un’alta affluenza alle urne.
Ahmadinejad si è fatto interprete non solo del malcontento verso la corrotta e brutale presidenza di Rafsanjani, ma
anche del senso di disagio provocato dal suo successore privo di spina dorsale. Sotto il riformatore Khatami, nonostante il prezzo del petrolio fosse salito, la situazione economica
si era infatti notevolmente aggravata, mentre le caute aperture in politica estera, nello stile di Gorbaciov, avevano avuto
un unico risultato: permettere a Bush di inserire l’Iran nell’Asse del Male, proprio come due decenni prima Reagan
aveva fatto con la Russia. Pronto a difendere i diritti degli investitori stranieri, ma raramente quelli dei giornali indipendenti e degli studenti che manifestavano, disposto ad aprire
con il Papa un inutile dialogo sui valori spirituali, ma incapace di salvaguardare con fermezza i diritti civili, Khatami
aveva tentato invano di destreggiarsi fra pressioni contrastanti finché non aveva perso ogni credibilità morale. Ahmadinejad, che gode dell’appoggio delle classi popolari, si mo160
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stra particolarmente sensibile ai problemi sociali, ma nulla
garantisce che gli esiti saranno migliori sotto il profilo pratico. I milioni di giovani disoccupati che vivono ammassati in
sovraffollati quartieri urbani hanno bisogno di una coerente
politica di sviluppo nazionale. Ma il volontarismo islamico
non è un’alternativa stabile al neoliberismo strisciante, e la
tentazione di ricorrere alla repressione culturale per compensare il fallimento economico è in genere irresistibile.
Nel sistema politico iraniano, poco trasparente e disordinatamente sviluppato, la presidenza è affiancata da vari centri di potere rivali, in genere più conservatori del presidente
stesso. L’ayatollah Khamenei, capo supremo della Rivoluzione islamica, non vuole essere eclissato da un giovane agitatore. Il gruppo dei mullah-bazaari, che appoggia Rafsanjani, ha
già ostacolato gli sforzi di Ahmadinejad volti a fare pulizia
nel ministero del Petrolio e resta trincerato nel Consiglio nazionale di discernimento delle opportunità. La borghesia filo-occidentale che si riconosceva in Khatami si sta leccando
le ferite e spera di riprendere il potere. Approfittando di una
situazione sociale molto tesa, tutti sono pronti a scagliarsi
contro qualsiasi decisione incauta o passo falso, che senza
dubbio non saranno rari.15 Lo squilibrato modello di sviluppo ereditato dallo scià, aggravato da circa dieci anni di guerra e successivamente dal boom inflazionistico di Rafsanjani e
dalle privatizzazioni di Khatami, ha dato origine a un fiorente mercato nero e ha aggravato la disoccupazione, che in base a dati non ufficiali avrebbe raggiunto il 25%, provocando
peraltro un’incombente crisi agricola. Gli studenti sono delusi, i lavoratori si ribellano, gli arabi nel Sud-ovest, i curdi e
gli azeri nel Nord e i baluchi nel Sud-est sono in fermento.
In una simile confusione c’è ampio spazio per ogni tipo di in161
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trigo interno o imperiale che potrebbe rovesciare lo sgradito
vincitore di una lotta popolare. Nel frattempo coloro che un
tempo sognavano di «liberarsi» tramite un intervento degli
Stati Uniti dovrebbero prendere atto che in Iraq l’incubo diventa sempre più drammatico.
Ma per il momento, a occupare il centro della scena è il
ruolo che il Paese gioca all’estero. Anche in questo caso, lo
Stato confessionale privo di direzione è sprofondato nel caos.
Dopo la fine della guerra con l’Iraq, la politica estera iraniana
è stata poco più di un guazzabuglio di opportunismo incoerente, nel quale si combinavano iniziative diplomatiche caute
e convenzionali, tipicamente collaborazioniste, e manifestazioni di solidarietà, per lo più gratuite, nei confronti degli sciiti all’estero, soprattutto degli hezbollah del Libano meridionale, con qualche briciola distribuita anche ai palestinesi. Nel
1991, durante la guerra del Golfo, Teheran non solo aveva
mantenuto un silenzio tattico, senza esprimere la minima protesta quando le truppe USA si erano stanziate nei luoghi santi, ma aveva anche dato istruzione ai suoi rappresentanti nell’Alleanza del Nord di spianare la strada all’invasione americana dell’Afghanistan. Oltre a ciò aveva collaborato con la
CIA in previsione dell’occupazione dell’Iraq e imposto allo
SCIRI e agli altri suoi alleati politici di sostenere il governo di
Baghdad appoggiato da Washington. In cambio di questi favori, cosa ha ricevuto il Grande Satana? Le truppe USA sono
accampate lungo i suoi confini orientali e occidentali, e gli
americani minacciano di distruggere i suoi reattori nucleari.
Perfino secondo gli standard dell’odierna «comunità internazionale», la campagna condotta dall’Occidente per costringere l’Iran ad abbandonare la ricerca nucleare, alla quale
ha diritto in base allo stesso Trattato di non proliferazione, la162
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scia senza fiato. L’Iran è circondato da Paesi che possiedono
la bomba atomica – India, Pakistan, Cina Russia e Israele –, e
i sottomarini nucleari americani pattugliano le sue coste meridionali. Storicamente, ha tutte le ragioni di temere le minacce esterne. Infatti nella seconda guerra mondiale, nonostante fosse neutrale, l’Iran era stato occupato sia dagli inglesi sia dai sovietici. Nel 1953, gli anglo-americani avevano rovesciato con un colpo di Stato il suo governo regolarmente
eletto e annientato l’opposizione laica. Fra il 1980 e il 1988, le
potenze occidentali avevano appoggiato i massacri perpetrati
da Saddam Hussein, che avevano causato la morte di migliaia
di iraniani. Nelle ultime fasi della guerra, gli Stati Uniti avevano distrutto circa metà della flotta iraniana nel Golfo e abbattuto perfino un aereo di linea carico di passeggeri.
Oggi, in Iran la tecnologia necessaria per fabbricare armi
nucleari difensive è a uno stadio alquanto primitivo. Eppure
Bush, Chirac, Blair e Olmert, i cui Paesi possiedono centinaia di bombe atomiche – in America ne esistono migliaia –,
ne stanno facendo un casus belli. Le proteste della diplomazia iraniana e il suo cavillare sui più minuti articoli del Trattato di Vienna sono inutili. L’Iran farebbe meglio a scegliere
il momento giusto per ritirare la propria adesione al Trattato
di non proliferazione. Fra tutti i sovrani anacronistici del
mondo, quello dell’Iran è il più sfacciatamente nudo. Le attuali potenze nucleari non hanno la minima giustificazione,
dal momento che sono tanto ipocrite da non osare neppure
fare il nome di Israele che pure possiede la bellezza di 200
bombe atomiche. Finché questo stato di cose non cambierà,
non ci sarà mai un disarmo nucleare.
Per affrontare i suoi nemici, l’Iran dovrebbe avere una
coerenza e una disciplina di cui oggi è carente. I religiosi ira163
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niani, con i loro sistemi operativi e i principi dottrinali che
diffondono, hanno svolto un ruolo determinante nel creare
divisioni interne e nell’indurre i partiti sciiti e Sistani – la regina barbuta di Teheran nello scacchiere iracheno – a contrastare le forze della resistenza. Un’alleanza laica che unisca
le forze da Teheran a Damasco, passando per Bassora e Baghdad, attenuerebbe i conflitti fra fazioni e al tempo stesso
rafforzerebbe la posizione dell’Iraq. La storia recente del
Paese insegna che le autorità al governo, ogni qual volta hanno a che fare con l’arroganza imperiale, non sanno evitare
l’incompetenza. Tuttavia è possibile che oggi le circostanze le
costringano a prendere decisioni che hanno rimandato a lungo. Non sarà facile presentare la resa alle minacce dell’Occidente come prova di saggezza e dignità nazionale. E non sarà
difficile aizzare le folle e le milizie sciite contro le forze di occupazione occidentali oltreconfine. Teheran oggi ha in mano
ostaggi ben più importanti di una semplice ambasciata. Se il
Paese mantiene i nervi saldi, è improbabile che il Pentagono
o i suoi alleati osino attaccarlo.
Quali prospettive?
Per la crisi del Medio Oriente, iniziata nel 2001, non si intravede nessuna soluzione. Nel migliore dei casi si può affermare che il dramma in corso è solo a metà strada. Stanno
emergendo nuove forze e nuovi volti che hanno qualcosa in
comune. Muqtada, Ismail Haniyeh, Hasan Nasrallah, Ahmadinejad, ciascuno di loro è salito alla ribalta organizzando i
poveri delle città, fra cui Baghdad e Bassora, Gaza e Jenin,
Beirut e Sidone, Teheran e Shiraz. È negli slum che Hamas,
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Hezbollah le brigate di al Sadr e la milizia Basij hanno le loro radici. I contrasti con personaggi come Hariri, Chalabi,
Karzai e Allawi, sui quali fanno assegnamento gli occidentali – milionari d’oltremare, banchieri imbroglioni, distributori di fondi della CIA –, non potrebbero essere più duri. Dai
quartieri e dalle baracche dei nuovi poveri della terra, circondati dalle favolose ricchezze del petrolio, soffia il vento
dell’integralismo. Ma i limiti di questa forma di radicalismo
continueranno a essere evidenti, finché esso resterà prigioniero del Corano. Promettendo equità e solidarietà, gli integralisti esercitano un fascino infinitamente superiore a quello degli imperialisti e dei loro agenti avidi e oppressivi ma, se
invece di occuparsi della ricostruzione si limitano a proporre miglioramenti sociali, rischiano prima o poi di essere fagocitati dall’ordine esistente. Per il momento, non sono ancora emersi leader della statura di uno Chávez o un Morales,
dotati di una visione politica capace di trascendere le divisioni locali o nazionali, e di affermare un senso di appartenenza al continente e una fiducia nelle possibilità di poterlo
diffondere. Grazie al suo ex sindaco, Teheran ha oggi una
statua di Simon Bolívar. La regione aspetta che emerga un
uomo con lo stesso spirito.
Nel frattempo, le posizioni della potenza egemone sono
praticamente immobili. Oggi, i disordini sono confinati nelle regioni del Medio Oriente dove da vent’anni gli americani
cercano di penetrare senza riuscirci: la West Bank, le zone
dell’Iraq controllate dai baathisti e l’Iran di Khomeini. Sono
altri i Paesi in cui gli Stati Uniti hanno dei punti fermi: l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Stati del Golfo e la Giordania. In
questi luoghi i loro clienti tradizionali non li hanno abbandonati e sono disposti ad aiutarli per risolvere i problemi del165
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la regione. Anche l’Europa e il Giappone appoggiano la politica USA in Iran e Palestina, mentre Russia, Cina e India
non creano difficoltà. Una sconfitta dell’impero è per il momento ancora lontana.
1. Negli ultimi cinque anni, Hugo Chávez ha visitato i principali Paesi di tutti i continenti, mettendo in imbarazzo alcuni dei suoi ospiti
con la richiesta di creare un fronte mondiale contro l’imperialismo.
La sua intervista di un’ora mandata in onda da al Jazeera ha avuto
un impatto esplosivo su ventisei milioni di spettatori arabi. L’emittente ha ricevuto decine di migliaia di e-mail che ponevano tutte
una semplice domanda: perché il mondo arabo non può produrre
uno Chávez?
2. Graham Usher, The New Hamas, «MERIP», 21 agosto 2005.
3. Alla fine del 2004, gli squadroni della morte e gli elicotteri israeliani
hanno assassinato molti capi di Hamas – lo sceicco Yassin, Abdel Aziz
al Rantissi, Ibrahim al Makadmeh, Adnan al Ghoul, lo sceicco Khalil
– e tentato, senza successo, di uccidere Muhammad Dayf, Mahmud
Zahhar, e forse Khaled Meshaal e Musa Abu Marzuq a Damasco.
4. Yediot Aharonot, 12 agosto 1993, citato in Khaled Hroub, Hamas:
Political Thought and Practice, Washington 2000.
5. Per questa prospettiva ottimistica vedi Hussein Agha e Robert Malley: «Ora che l’onere del governo è passato ad Hamas, gli USA e
Israele potrebbero raggiungere i loro obiettivi a un prezzo inferiore
a quello che avrebbero dovuto pagare se fosse rimasto il vecchio regime… il leader che ha più da guadagnare nella nuova situazione è
il presidente Abū Māzen… Costui è diventato il personaggio centrale da cui tutti dipendono: gli islamici che hanno bisogno di lui come
tramite con il mondo esterno; Israele che lo ritiene l’interlocutore
più accettabile e affidabile sulla scena palestinese; gli Stati Uniti e
l’Europa che cercano di ignorare Hamas senza voltare le spalle ai palestinesi» – Hamas: the Perils of Power, New York «Review of
Books», 9 marzo 2006. Una fotografia scattata ai funerali di re Fahd
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a Riyadh mostra Abū Māzen, Iyad Allawi e Hamid Karzai che, seduti
ai piedi di un gruppo di autorevoli personaggi in lutto, danno l’impressione di fare un provino per un film comico.
Alla fine degli anni Sessanta e Settanta i Fratelli musulmani palestinesi si erano tenuti in disparte mentre i loro rivali laici dell’OLP
venivano decimati in Giordania e costretti a rifugiarsi a Beirut. Per
giustificare la loro inattività avevano detto di non voler lavorare
con dei militanti senza Dio, in un momento in cui si stavano costruendo nuove moschee. Quando negli anni Novanta la credibilità
delle autorità secolari era iniziata a calare, Hamas, prendendo a
pretesto l’Islam, assunse un atteggiamento sempre più nazionalista.
Virginia Tilley, The One-State Solution, Ann Arbor e Manchester
2005. Per le posizioni della «NLR» su cosa possa comportare una soluzione che prevede due Stati, vedi Perry Anderson, Scurrying
towards Bethlehem, Guy Nandron, Redividing Palestine?, Gabriel
Piterberg, Erasure, Yitzhak Laor, Tears of Zion, «NLR» 10, luglioagosto 2001.
Inizialmente si era sperato che Bashar, il quale aveva studiato medicina in Gran Bretagna, si sarebbe rivelato disponibile come i figli di
Mubarak e Gheddafi, favorevoli entrambi all’Occidente. La fedeltà
alle tradizioni paterne da lui dimostrata è stata un duro colpo.
Sulla campagna per l’Eliseo vedi Flynt Leverett, Inheriting Syria:
Bashar’s Trial by Fire, Washington 2005, p. 259.
Vedi la relazione ONU 111C del procuratore tedesco Detlev Mehlis
sull’assassinio di Hariri, ottobre 2005. Walid Jumblatt è il capo dei
drusi, attualmente fedele alleato dell’Occidente.
La Saatchi & Saatchi ha aiutato a orchestrare le dimostrazioni in favore della libertà; Spirit of America ha procurato i sandwich, le bandiere e gli effetti scenici, oltre a un enorme orologio della Libertà che
scandiva il «conto alla rovescia per la libertà». Durante le manifestazioni sono state inoltre distribuite carte da gioco con i volti dei personaggi siriani più ricercati – un genere di carte ideate dal giornale
israeliano «Maariv» quando prendeva di mira i palestinesi e pubblicizzate in tutto il mondo dall’esercito americano in Iraq. Vedi Counter
Punch, 18 novembre 2005.
Nell’ultima crisi, vari gruppi di siriani di opposizione hanno proposto ad Assan un accordo: un governo di unità nazionale per difen167
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dere il Paese dall’Occidente, seguito da elezioni in cui il Partito
Baath avrebbe avuto il ruolo principale. L’Alto Comando del Baath
ha però rifiutato, preferendo affidarsi alla repressione in patria e alle manovre all’estero.
13. Anche Reuel Marc Gerecht, ex capo della CIA in Medio Oriente, la
pensa così. In un saggio scrive: «Le elezioni del 30 gennaio in Iraq saranno certamente l’evento più importante nella storia dei Paesi arabi
da quando Israele, con la guerra dei Sei giorni, ha sconfitto nel 1967
l’alleanza di Gamal Abd al Nasser». E conclude: «Continuate a pregare per la salute, il benessere e l’autorità del Grande Ayatollah Sistani [sic]… È una benedizione che Sistani e i suoi seguaci abbiano
una conoscenza della storia moderna del Medio Oriente molto superiore a quella dei liberali americani ed europei». «Birth of Democracy», in Gary Rosen, a cura di, The Right War? The Conservative
Debate on Iraq, Cambridge 2005, pp. 237, 243.
14. Per un’analisi negativa fatta dalla sinistra, vedi «Iran Bulletin –
Middle East Forum», serie 11, n. 3, dicembre 2005. Per una rappresentazione cinematografica delle divisioni di classe in Iran, vedi il
film Oro rosso (2003) regia di Jafar Panahi, sceneggiatura di Abbas
Kiarostami, vietato dal governo di Khatami. Il film Offside, girato nel
2006 da Panahi sulle donne e il football, avrà lo stesso destino sotto
il successore di Khatami?
15. La negazione del genocidio degli ebrei, tipica espressione dell’ignoranza, della stupidità e del pregiudizio di una cultura fondamentalista, è uno dei primi esempi. Questo oltraggio rivolto agli europei e
agli americani – il socialista francese Laurent Fabius è arrivato a
chiedere di vietare ad Ahmadinejad i viaggi nei Paesi occidentali – è
ovviamente pura e semplice ipocrisia. L’Iran non ha preso parte alla
Shoah. La Turchia, d’altra parte, nega il genocidio degli armeni di
cui si è macchiata, senza un battito di ciglia diplomatico dei benpensanti europei: infatti, nessuna causa è patrocinata, in nome del
multiculturalismo, con altrettanta passione di quella che dovrebbe
consentire alla Turchia un rapido ingresso nell’Unione Europea. Ma
l’Armenia non è Israele: a chi importa cosa vi è accaduto?
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