nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 145 TARIQ ALI* Il Medio Oriente a metà strada? (marzo-aprile 2006) Guardando il mondo dall’alto della grandeur imperiale dello Studio Ovale nell’autunno del 2001, l’accoppiata CheneyBush era convinta di poter sfruttare l’attentato dell’11 settembre per rimodellare il mondo. Arthur K. Cebrowski, viceammiraglio del Pentagono, ha così sintetizzato il legame fra il capitalismo e la guerra: «I pericoli contro cui devono essere schierate le forze USA arrivano proprio dai Paesi e dalle regioni che sono rimaste «isolate» dalle tendenze prevalenti della globalizzazione». Qual è il bilancio a cinque anni di distanza? All’attivo c’è il fatto che la Russia, la Cina e l’India, così come l’Europa orientale e il Sud-est asiatico, restano sotto* Scrittore, giornalista e sceneggiatore, è nato a Lahore nel 1943. Oltre a far parte del comitato di redazione della «New Left Review», collabora con varie riviste e quotidiani, come «The Guardian», la «London Review of Books», «il manifesto» e con la radio della Bbc. Tra i suoi saggi possiamo ricordare: Lo scontro dei fondamentalismi. Crociate, jihad e modernità (2002) e Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq (2003). I suoi ultimi lavori sono: Rough Music: Blair, Bombs, Baghdad, London, Terror (2005) e Speaking of Empire and Resistance (2005). È anche autore di romanzi storici ambientati nel mondo islamico: The Book of Saladin (1998), The Stone Woman (2000), Un sultano a Palermo (2005) e All’ombra del melograno (2007). 145 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 146 Tariq Ali messi. In questo caso, nonostante i centri di studi politici dell’Occidente cerchino di giustificare le svolte strumentali della politica USA nascondendole sotto varie foglie di fico – «democrazie limitate», «democrazie tutelari», «democrazie illiberali», «autocrazie globali», «autocrazie illiberali» –, la realtà è che il principale criterio per ottenere l’approvazione imperiale consiste nell’accettare le regole stabilite da Washington. L’Unione Europea, dopo alcuni ondeggiamenti rispetto alla posizione da prendere di fronte alla guerra all’Iraq, ha deciso di sostenere gli americani. Oggi Chirac sembra più bellicoso di Bush nella questione mediorientale e le autorità tedesche fanno ogni sforzo per calmare Washington. Al passivo c’è la dilatazione dell’effetto Caracas. Il lungo isolamento di Cuba è finito, l’oligarchia boliviana è stata sconfitta a La Paz, e la Repubblica bolivariana del Venezuelana ha assunto un ruolo centrale nella mobilitazione dei movimenti popolari contrari al neoliberismo che esistono praticamente in ogni Paese dell’America Latina.1 Ma ciò che allarma ancor più Washington è la progressiva perdita di controllo sul Medio Oriente. Finora non è accaduto niente di irreparabile, ma l’anno scorso la posizione degli Stati Uniti in quella regione si è indebolita. Il fenomeno non è stato uniforme – almeno in un caso si è verificato il contrario, con l’intervento in Libano coronato da successo. Altrove però il decorso degli eventi è tutt’altro che favorevole a Washington. In Iran e in Palestina, i personaggi su cui il governo USA faceva affidamento perché docili strumenti o interlocutori malleabili sono stati umiliati alle elezioni, vinte dai gruppi più radicali. In Iraq, la resistenza ha inflitto una serie di duri colpi alle forze di occupazione, impedendo la stabilizzazione del regime collaborazionista e minando nella 146 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 147 Il Medio Oriente a metà strada? stessa America il sostegno alla guerra. Il progetto di Cheney e Wolfowitz di creare uno stato satellite che servisse da modello alla regione giace sepolto sotto le macerie di Falluja. In Afghanistan, la guerriglia si è rimessa in moto, e Washington sta corteggiando le fazioni talebane più vicine all’intelligence militare pakistana. Le recenti rivelazioni di torture praticate dai soldati statunitensi e britannici, e il saccheggio di risorse locali da parte degli invasori e dei loro agenti, hanno accresciuto in tutto il mondo arabo l’odio per l’Occidente. Le truppe americane, insufficienti per controllare l’intero territorio, stanno perdendo fiducia nella loro missione. In patria, le autorità cominciano a temere che si stia profilando una débâcle paragonabile a quella subita in Vietnam o addirittura peggiore. Tuttavia gli esiti del conflitto sono ancora incerti ed è improbabile che siano omogenei. La Palestina L’entusiasmo degli occidentali per le rivoluzioni arcobaleno svanisce, come è prevedibile, quando il colore dominante è il verde. Gli uomini di governo e i giornalisti occidentali hanno visto nel trionfo di Hamas alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese un infausto segnale di ripresa del fondamentalismo e un colpo terribile alle prospettive di pace con Israele. Immediatamente sono state messe in atto pressioni finanziarie e diplomatiche per costringere Hamas ad adottare la stessa politica di coloro che aveva sconfitto alle elezioni. Sotto il profilo numerico, non si è trattato di una vittoria schiacciante – con il 45% dei suffragi su un’affluenza del 78%, Hamas ha conquistato il 54% dei seggi. Ma se si con147 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 148 Tariq Ali sidera che Israele, gli USA e l’Europa sono intervenute pubblicamente per garantire la vittoria di al Fatah, quel risultato è stato un vero e proprio trionfo sotto il profilo morale. Gli elettori palestinesi non si sono lasciati condizionare né dalle minacce né dai tentativi di corruzione messi in atto dalla comunità internazionale in una campagna elettorale durante la quale i membri di Hamas e altri oppositori venivano periodicamente arrestati o aggrediti dai soldati israeliani, i loro manifesti sequestrati o distrutti, gli Stati Uniti e l’Europa finanziavano la propaganda di al Fatah e i membri del Congresso USA ripetevano che non si doveva permettere ad Hamas di presentarsi alle elezioni. Perfino la data delle elezioni è stata scelta in modo da poterne alterare il risultato. Fissate per l’estate 2005, sono state rinviate al gennaio 2006 affinché il presidente Abū Māzen avesse il tempo di distribuire aiuti agli abitanti di Gaza perché in tal modo, come ha dichiarato un funzionario egiziano, «la gente appoggerà l’Autorità nazionale palestinese contro Hamas».2 Il desiderio popolare che fosse fatta pulizia dopo dieci anni di corruzione, di prepotenze e spacconate sotto al Fatah si è dimostrato più forte di tutti quegli espedienti. Avendo dimostrato di non essere né avido né dipendente come l’Autorità palestinese, di non essersi arricchito come i suoi portavoce e poliziotti servili, di non aver preso parte a un «processo di pace» che aveva portato soltanto ulteriori espropriazioni e miseria alla popolazione su cui l’Autorità governava, Hamas offriva l’alternativa di un esempio concreto e chiaro. Benché privo delle risorse del rivale, aveva creato ambulatori, scuole, ospedali, istituito corsi professionali e varato programmi di assistenza per i poveri. I suoi dirigenti e i suoi quadri conducevano una vita frugale, non diversa da 148 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 149 Il Medio Oriente a metà strada? quella della gente comune. Ed è stato proprio questo modo di risolvere i problemi quotidiani, e non la recitazione giornaliera dei versetti del Corano, che ha permesso ad Hamas di conquistare una vasta base di sostenitori. Fino a che punto il suo operato durante la seconda Intifada ne abbia aumentato la credibilità è meno chiaro. Gli attacchi armati di Hamas contro Israele, come quelli della Brigata dei Martiri di al-Aqsa, il braccio armato di al Fatah, o della Jihad islamica, sono stati rappresaglie contro le forze di occupazione molto più micidiali di qualunque altra azione. Se raffrontati alle numerose e feroci incursioni delle forze israeliane, gli attacchi dei palestinesi sono stati rari e distanziati nel tempo. Lo squilibrio è apparso in tutta la sua chiarezza quando Hamas, nel giugno 2003, ha proclamato una tregua unilaterale, e l’ha rispettata per tutta l’estate nonostante i raid di Israele e gli arresti di massa nella West Bank, che hanno portato alla cattura di trecento quadri di Hamas.3 Il 19 agosto, una sedicente cellula di Hamas costituita a Hebron – ma non riconosciuta e anzi denunciata dalla leadership ufficiale – ha fatto saltare in aria un autobus a Gerusalemme ovest, provocando la reazione immediata di Israele che ha assassinato Ismail Abu Shanab, il mediatore politico di Hamas che aveva negoziato la tregua. Hamas ha reagito a sua volta. Come tutta risposta, l’Autorità palestinese e gli Stati arabi sospesero gli aiuti umanitari e, nel settembre 2003, l’Unione Europea dichiarò che Hamas era un movimento terrorista – dichiarazione che Tel Aviv aspettava da lungo tempo. Ciò che ha distinto Hamas nell’affrontare quello scontro assolutamente impari non è stato l’invio di kamikaze, usati da molti gruppi concorrenti, ma la sua superiore disciplina – che è emersa in tutta la sua chiarezza quando il partito è riu149 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 150 Tariq Ali scito a far rispettare, l’anno scorso, una tregua con Israele. Le uccisioni di civili devono essere condannate in ogni caso ma, poiché Israele ne è il principale artefice, le parole di condanna degli europei e degli americani non sono altro che una dimostrazione di ipocrisia. Le orme lasciate dall’assassino appartengono quasi sempre a un esercito moderno che, con l’appoggio di jet, carri armati e missili, sta calpestando senza pietà la Palestina, vittima dell’oppressione più lunga della storia moderna. «Nessuno può criticare o condannare un popolo che dopo quarantacinque anni di occupazione militare si rivolta contro gli invasori», dichiarò nel 1993 il generale Shlomo Gazit, ex capo dei servizi segreti militari israeliani.4 In realtà, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno protestato contro Hamas perché aveva rifiutato di accettare la resa prevista dagli accordi di Oslo e si era opposto a ogni tentativo, da Taba a Ginevra, di addossare sui palestinesi la responsabilità dei disastri provocati da loro. Oggi, quello che interessa maggiormente agli occidentali è spezzare la resistenza di Hamas, e un’arma per costringerlo a sottomettersi è tagliare gli aiuti all’Autorità palestinese. Un’altra è quella di dare maggiori poteri al presidente Abū Māzen – incaricato da Washington di governare il Paese come Bremer ha governato l’Iraq – a spese del Consiglio legislativo.5 Ma poiché entrambe le armi possono avere un effetto boomerang, è più probabile che si cerchi di ammansire Hamas, nella speranza che, grazie ai vantaggi della carica, diventi più moderato e col tempo «pragmatico» come chi lo ha preceduto. Una previsione senza dubbio ragionevole. Hamas è storicamente una propaggine dei Fratelli musulmani, il cui ramo egiziano è all’apparenza poco più radicale del partito al governo in Turchia.6 Come tutte le altre religioni, l’Islam offre una gamma 150 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 151 Il Medio Oriente a metà strada? completa di posizioni politiche, dalla totale collaborazione con il capitale e l’impero all’opposizione dura e cruda, oltre che a un gran numero di posizioni intermedie. Sulla possibilità di corrompere Hamas per piegarlo in breve tempo ai fini dell’Occidente e di Israele esistono alcuni dubbi, anche se non mancano i precedenti. Sull’eredità programmatica di Hamas grava l’ipoteca della più fatale tra le debolezze del nazionalismo palestinese, ossia la convinzione di avere solo sue scelte: non riconoscere l’esistenza di Israele tout court o accettare i resti smembrati di un quinto del Paese. Come ha dimostrato la storia di al Fatah, la via fra il massimalismo illusorio dei primi e il minimalismo patetico dei secondi è fin troppo breve. Quanto ad Hamas, non si tratta di verificare se può essere addomesticato per soddisfare l’opinione pubblica occidentale, ma se è in grado di infrangere una tradizione che lo blocca. Per far questo, bisognerebbe che un futuro Stato palestinese sorgesse sulle fondamenta che gli competono, dividendo il Paese e le sue risorse equamente – non darne l’80% a uno e il 20% all’altro, con un’espropriazione tanto iniqua che, alla lunga, nessun popolo con un certo rispetto di sé potrà mai tollerare. L’unica soluzione accettabile è quella proposta da Virginia Tilley: un solo Stato per ebrei e palestinesi, nel quale siano annullati i danni del sionismo.7 Il Libano e la Siria A Nord, la relativa indipendenza del regime baathista siriano e la stabilità istituzionale che gli ha consentito di esercitare nella regione un’influenza superiore alla sua reale forza sono 151 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 152 Tariq Ali da molto tempo motivo di irritazione per Tel Aviv e Washington. A prescindere dal suo storico opportunismo politico, Damasco, a differenza del Cairo, si è rifiutata di far naufragare la causa palestinese firmando una pace separata con Israele o di collaborare con le forze di occupazione USA in Iraq. Il diffondersi dell’insurrezione irachena nelle province confinanti con la Siria, dove le condizioni erano favorevoli a Damasco, ha spinto Washington a mettere fra i primi punti dell’ordine del giorno la neutralizzazione o l’eliminazione del presidente siriano Bashar al Assad.8 Poiché le forze USA attualmente non sono in grado di organizzare una seconda invasione, il solo modo di abbattere il governo siriano è stato quello di trasformare il Libano in una zona di pressione, dove le potenze occidentali possono manovrare liberamente. Le truppe siriane, presenti in Libano dal 1976, sono sempre state impopolari e si sperava che un loro ritiro forzato avrebbe fomentato in patria una serie di agitazioni tali da favorire un cambio di regime. Ancor oggi il Libano è in larga misura una creazione artificiale del colonialismo francese – una fascia costiera della Grande Siria che il governo di Parigi, una volta resosi conto che l’indipendenza siriana era inevitabile, aveva separato dall’entroterra creando una regione clientelare dominata da quella minoranza maronita che era da lungo tempo burattino della Francia nel Mediterraneo orientale. Le suddivisioni confessionali del Paese hanno sempre impedito un censimento accurato che avrebbe mostrato che la pur consistente maggioranza musulmana – oggi forse in prevalenza sciita – non è adeguatamente rappresentata nel sistema politico. A metà degli anni Settanta le tensioni tra fazioni, aggravate dalle condizioni dei profughi palestinesi, erano esplose in una 152 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 153 Il Medio Oriente a metà strada? guerra civile, offrendo alla Siria l’occasione per inviare, con la tacita approvazione di Washington, le sue truppe in Libano dove sono rimaste a lungo sia come cuscinetto fra le comunità in lotta sia per fungere da deterrente nei confronti di Israele che con le invasioni del 1978 e 1982 aveva tentato di prendere il controllo del Paese. Col passare del tempo, Damasco è riuscita a esercitare un’influenza pesante in vasti settori della vita politica libanese, assicurandosi che il proprio apparato militare e di intelligence scegliesse i candidati alle più alte cariche dello Stato, manipolasse i governi e le dispute tra fazioni, uccidesse i politici recalcitranti e accumulasse fortune personali. Nel 1994, come Primo ministro fu scelto il miliardario Rafik Hariri, proprietario di un impero immobiliare nonché creatura della casa reale saudita. Una volta insediato al potere, era diventato il Berlusconi o il Thaksin del Libano. Grazie alle proprie imprese, aveva ricostruito il centro di Beirut e ne aveva ricavato alti profitti. Quando fu – per breve tempo – spodestato, architettò una crisi del tasso di cambio per ripresentarsi successivamente come il solo uomo in grado di risolverla. Grazie alle ingenti somme di denaro liquido di cui disponeva, riuscì a procurarsi contatti che gli fornirono ampi margini di manovra nelle trattative con Damasco. Fra i suoi amici intimi di quegli anni c’era un altro politico venale, Jacques Chirac, di cui si dice abbia finanziato generosamente la campagna elettorale.9 La Francia non ha mai perso interesse per l’ex colonia. Nel 2004 Chirac stava cercando di rimediare alla rottura con gli USA dovuta al mancato appoggio all’intervento in Iraq (giustificato da motivi di politica interna) e, dopo essersi accordato con Washington per effettuare un colpo di Stato ad Haiti, aveva tutte le ragioni per aiutare 153 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 154 Tariq Ali Bush e Hariri a scacciare i siriani dal Libano. Damasco, ovviamente, sapeva cosa si stava progettando. In agosto, Bashar Assad convocò Hariri e – secondo suo figlio – gli avrebbe detto: «Se lei e il presidente Chirac pensate di poter governare il Libano, vi sbagliate. O si prolunga [la durata della presidenza di Lahoud] oppure spaccherò il Libano sulla vostra testa e su quella di Walid Jumblatt».10 La settimana seguente, Francia e Stati Uniti presentarono al Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione in cui si chiedeva alla Siria di ritirarsi dal Libano e alla milizia di Hezbollah di deporre le armi. La risposta non si fece attendere. In febbraio, in occasione dell’apertura della campagna elettorale in Libano, Hariri venne ucciso da un’autobomba di fronte all’hotel St Georges di Beirut, una sorte toccata ad altri due presidenti prima di lui: Bashir Gemayel e René Moawad morti nel 1892 e nel 1989 senza che ci fossero dure reazioni. Il quell’occasione però il segretario generale dell’ONU convocò subito una commissione d’inchiesta, inviando un pubblico ministero tedesco con pieni poteri a indagare sul crimine. La Siria fu riconosciuta responsabile dell’attentato. Ma, poiché la sua responsabilità era evidente fin dall’inizio, la commissione ha rivelato soltanto fino a che punto l’ONU e l’impotente Kofi Annan – allora Segretario generale – fossero strumenti di cui si serviva l’Occidente per imporre la propria volontà. Infatti gli omicidi perpetrati da Israele – a danno dei capi di Hezbollah, al Fatah e Hamas – non hanno mai suscitato la minima protesta da parte di Annan e tanto meno lo hanno indotto a convocare una commissione di inchiesta. La fine di Patrice Lumumba, Ben Barka, Che Guevara, Salvador Allende, Samora Machel la dice lunga sul perpetuarsi di simili tradizioni in Occidente. 154 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 155 Il Medio Oriente a metà strada? Nel Libano stesso, l’uccisione di Hariri – che con la sua generosità si era procurato una vasta clientela – ha provocato una reazione più genuina, con imponenti manifestazioni dei ceti medi che chiedevano l’espulsione delle truppe e della polizia siriana, proprio mentre giungeva in Libano uno stuolo di organizzazioni occidentali per vedere i progressi della rivoluzione dei cedri.11 Le manifestazioni, accompagnate dalle minacce di Washington e Parigi, hanno costretto la Siria a ritirarsi e hanno consentito di insediare a Beirut un governo più attento alle esigenze locali. Nonostante ciò le varie fazioni libanesi rimangono più incontrollabili che mai, Hezbollah non ha deposto le armi e Assad non è caduto.12 L’America ha conquistato una pedina, ma la partita è ancora tutta aperta. L’inferno iracheno Se gli americani hanno preso di mira la Siria perché offre riparo alla resistenza irachena, è a ragion veduta. Infatti per Washington la guerra in Iraq è andata di male in peggio. Dovendo affrontare un’insurrezione indomabile, le truppe di occupazione – dopo tre anni e una spesa di oltre 200 miliardi di dollari – non sono ancora in grado di garantire rifornimenti regolari di acqua ed elettricità alla popolazione. Le industrie sono ferme, gli ospedali e le scuole funzionano appena, i profitti del petrolio sono stati rapinati dai beniamini locali degli americani, per non parlare dell’orda di appaltatori pronti a trarre profitto dalla situazione. Se all’epoca delle sanzioni ONU le condizioni di vita di gran parte della popolazione erano miserabili, sotto gli americani sono persino peggiorate, gli omicidi tra fazioni si sono moltiplicati e ogni sicurezza è scomparsa. 155 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 156 Tariq Ali In questo scenario infernale, il morale stesso delle truppe di occupazione comincia a dare segni di cedimento. Privati del piacere che provavano nell’assistere ai bombardamenti per loro senza rischi da un’altezza di circa 1000 metri, i soldati americani sono a un punto morto: nonostante siano confinati nelle caserme o inviati in missione solo con la copertura dell’aviazione e in terreni ultraprotetti subiscono perdite quasi giornaliere. Da un sondaggio fatto dall’istituto Zogby nel febbraio 2006 fra i soldati americani in Iraq, è emerso che il 72% era d’accordo per il ritiro «entro un anno» e di questo 72% il 29% avrebbe voluto un ritiro «immediato». Meno di un quarto – il 23% – condivideva la posizione ufficiale, ribadita dal presidente e da gran parte dell’establishment, secondo cui gli Stati Uniti dovevano «mantenere la rotta». Le riserve militari sono oggi esaurite, al punto che il Pentagono ha annunciato di non tenere più conto dei precedenti penali delle nuove reclute e sempre più è costretto ad arruolare mercenari. La copertura politica accuratamente costruita per giustificare l’invasione non ha avuto esito migliore. La prima tornata elettorale per la formazione di un governo fantoccio è stata boicottata in blocco dalla comunità sunnita. La costituzione made-in-USA è stata imposta con un plebiscito manipolato. Una seconda tornata elettorale ha generato scontri fra i vari clientes americani e una situazione parlamentare insolubile. Le ingenti somme spese per corrompere vari personaggi e finanziare i candidati non hanno ottenuto l’effetto sperato, perché alle elezioni Iyad Allawi e Ahmed Chalabi, gli stipendiati della CIA e del Pentagono, sono stati umiliati. In questo momento, il viceré americano sta usando il presidente curdo per soppiantare il premier sciita diventato troppo scomodo. Nei confronti della rivoluzione color porpora ser156 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 157 Il Medio Oriente a metà strada? peggia un diffuso scetticismo popolare, e le autorità di Baghdad hanno perso ogni credibilità. Ma la liberazione dell’Iraq non è a portata di mano. Il protrarsi dell’occupazione ha acuito le tensioni tra le fazioni favorevoli agli americani. Gli attacchi mortali dei sunniti contro gli sciiti e degli sciiti contro i sunniti sono ormai all’ordine del giorno e causano gravissime perdite in entrambe le comunità. I primi ad aggredire sono stati i gruppi più fanatici della resistenza sunnita. Ma la responsabilità di aver trasformato quegli attacchi in una guerra generale, alla quale si è intrecciata la lotta patriottica contro lo straniero, ricade sui religiosi sciiti – e in special misura sull’ayatollah Sistani – che si sono schierati con i conquistatori, esponendo inevitabilmente le proprie comunità alle rappresaglie della resistenza, finché rimarranno fedeli alle loro direttive. La simpatia accordata con tanto strepito a Sistani per i suoi stretti rapporti con Bremer, Negroponte e Khalilzad eguaglia quella riservata un tempo all’altro religioso taciturno e austero del Paese, che al tramonto della vita aveva protetto il suo popolo, prendendo al contempo le distanze dagli occupanti. Ma il Pétain di Najaf può sperare in un destino migliore. La gratitudine per aver difeso i beni americani dovrebbe garantirgli il Nobel per la pace per il quale Thomas Friedman, strenuo difensore dell’invasione, lo ha segnalato.13 Se i capi sciiti in generale e Sistani in particolare avessero detto agli americani di fare i bagagli nella primavera del 2004, quando i sunniti e gli sciiti erano insorti contro l’occupazione, l’Iraq ora sarebbe un Paese libero con una ragionevole prospettiva di armonia fra le sue componenti, basata sulla comune lotta contro l’invasore. Ma Sistani e il suo entourage hanno unito le proprie forze a quelle degli americani per soffo157 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 158 Tariq Ali care la rivolta dell’esercito del Madhi di Muqtada al Sadr nel Sud e la resistenza sunnita nel Nord e nell’Ovest del Paese, allo scopo di prendere il potere a Baghdad sotto la tutela USA e instaurare un regime settario basato sulla preponderanza demografica e sulle armi straniere. Via via che il germe del collaborazionismo si diffondeva, questo tipo di parlamentarismo confessionale ha acuito, come prevedibile, l’odio tra le fazioni provocando rappresaglie indiscriminate e massacri reciproci fra le milizie della jihad da un lato e gli squadroni della morte dall’altro. I responsabili di questo caos lo stanno sfruttando ora come pretesto per prolungare l’occupazione del Paese. Distribuiscono tangenti ai politici sunniti e li incoraggiano a implorare gli americani di rimanere, come se l’occupazione non fosse la causa della catastrofe in atto ma un modo per porvi rimedio. In realtà c’è una sola via per fermare la spirale di violenza: quella rifiutata da Sistani nel 2004 e ora adottata ancora una volta da Muqtada al Sadr – un accordo nazionale fra i capi sunniti e sciiti, fra i partigiani delle province e le milizie della capitale, per scacciare tutte le forze di occupazione senza ulteriori indugi. «Taglia la testa del serpente e sopprimi tutto il male», esortava Muqtada al suo ritorno dal Libano, dopo aver visto Samara e Baghdad in rovina. Le sue milizie, formate in gran parte dai poveri delle città, sono reclutate in quartieri un tempo roccaforti del comunismo iracheno. Gli eserciti invasori anglo-americani non potrebbero resistere neppure un mese in Iraq, se gli sciiti seguissero l’esempio dei compatrioti sunniti. Infatti basterebbe che nel parlamento di burattini un solo deputato votasse a favore del ritiro immediato dei soldati stranieri per rendere insostenibile la posizione di Washington e Londra. Data la storia recente dell’I158 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 159 Il Medio Oriente a metà strada? raq, continuerebbero a esistere molte e gravi tensioni fra le comunità, per non parlare del ruolo svolto recentemente dai curdi, novelli gurkha, a favore dell’invasore. Ma, finché non verrà rimosso il veleno sparso dall’Occidente, non ci sarà nessuna possibilità di curare le ferite, presenti o passate. Perché l’Iraq abbia un futuro bisogna che le truppe anglo-americane facciano armi e bagagli e lascino il Paese. L’Iraq nella rete Attualmente, nelle province sud-orientali di Bassora e Maysan, le autorità sciite locali si rifiutano di collaborare con le truppe di occupazione britanniche. Alla base del mutato atteggiamento c’è con ogni probabilità la nuova situazione venutasi a creare oltreconfine. La vittoria in Iran di Mahmud Ahmadinejad nelle elezioni del 2005 rappresenta nella regione il più importante capovolgimento politico del nuovo secolo. Nato in una famiglia operaia, ex combattente nella guerra contro l’Iraq, ex sindaco di Teheran e intransigente sostenitore dell’Islam, Ahmadinejad ha sbaragliato il candidato appoggiato dai media occidentali e dai loro padroni: il corrotto religioso Rafsanjani, ricchissimo e politicamente potente, che aveva governato il Paese dalla fine degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta. Ma nel 2005, nonostante una campagna elettorale generosamente finanziata – e accompagnata da comizi hi-tech, dalla distribuzione di adesivi propagandistici e da ragazze con l’hijab che gridavano urrà-urrà – ha subito una sconfitta schiacciante dietro la quale ci sono i voti di protesta dei diseredati. Presentando un progetto di distribuzione egualitaria delle ricchezze – «mettete il denaro del petrolio sul tavolo dei poveri» – e diffon159 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 160 Tariq Ali dendo un CD che mostrava il suo milionario rivale circondato dal lusso, mentre egli dava gran parte del suo stipendio ai bisognosi, Ahmadinejad si era presentato come il solo candidato che potesse indossare in modo convincente i panni di chi vuol fare piazza pulita nelle strade di Teheran. Mentre Rafsanjani ripeteva i vacui discorsi tipici di ogni establishment, Ahmadinejad parlava di progetti concreti per risolvere i problemi della casa e della disoccupazione, che colpivano soprattutto le giovani coppie desiderose di sposarsi, e prometteva di porre fine alla corruzione e all’acquiescenza ai diktat degli Stati Uniti in campo energetico.14 Di conseguenza la campagna elettorale – più dura nei toni e più radicale nelle scelte di politica sociale di quelle del 2004 negli Stati Uniti o del 2005 in Gran Bretagna – si è conclusa con un’alta affluenza alle urne. Ahmadinejad si è fatto interprete non solo del malcontento verso la corrotta e brutale presidenza di Rafsanjani, ma anche del senso di disagio provocato dal suo successore privo di spina dorsale. Sotto il riformatore Khatami, nonostante il prezzo del petrolio fosse salito, la situazione economica si era infatti notevolmente aggravata, mentre le caute aperture in politica estera, nello stile di Gorbaciov, avevano avuto un unico risultato: permettere a Bush di inserire l’Iran nell’Asse del Male, proprio come due decenni prima Reagan aveva fatto con la Russia. Pronto a difendere i diritti degli investitori stranieri, ma raramente quelli dei giornali indipendenti e degli studenti che manifestavano, disposto ad aprire con il Papa un inutile dialogo sui valori spirituali, ma incapace di salvaguardare con fermezza i diritti civili, Khatami aveva tentato invano di destreggiarsi fra pressioni contrastanti finché non aveva perso ogni credibilità morale. Ahmadinejad, che gode dell’appoggio delle classi popolari, si mo160 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 161 Il Medio Oriente a metà strada? stra particolarmente sensibile ai problemi sociali, ma nulla garantisce che gli esiti saranno migliori sotto il profilo pratico. I milioni di giovani disoccupati che vivono ammassati in sovraffollati quartieri urbani hanno bisogno di una coerente politica di sviluppo nazionale. Ma il volontarismo islamico non è un’alternativa stabile al neoliberismo strisciante, e la tentazione di ricorrere alla repressione culturale per compensare il fallimento economico è in genere irresistibile. Nel sistema politico iraniano, poco trasparente e disordinatamente sviluppato, la presidenza è affiancata da vari centri di potere rivali, in genere più conservatori del presidente stesso. L’ayatollah Khamenei, capo supremo della Rivoluzione islamica, non vuole essere eclissato da un giovane agitatore. Il gruppo dei mullah-bazaari, che appoggia Rafsanjani, ha già ostacolato gli sforzi di Ahmadinejad volti a fare pulizia nel ministero del Petrolio e resta trincerato nel Consiglio nazionale di discernimento delle opportunità. La borghesia filo-occidentale che si riconosceva in Khatami si sta leccando le ferite e spera di riprendere il potere. Approfittando di una situazione sociale molto tesa, tutti sono pronti a scagliarsi contro qualsiasi decisione incauta o passo falso, che senza dubbio non saranno rari.15 Lo squilibrato modello di sviluppo ereditato dallo scià, aggravato da circa dieci anni di guerra e successivamente dal boom inflazionistico di Rafsanjani e dalle privatizzazioni di Khatami, ha dato origine a un fiorente mercato nero e ha aggravato la disoccupazione, che in base a dati non ufficiali avrebbe raggiunto il 25%, provocando peraltro un’incombente crisi agricola. Gli studenti sono delusi, i lavoratori si ribellano, gli arabi nel Sud-ovest, i curdi e gli azeri nel Nord e i baluchi nel Sud-est sono in fermento. In una simile confusione c’è ampio spazio per ogni tipo di in161 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 162 Tariq Ali trigo interno o imperiale che potrebbe rovesciare lo sgradito vincitore di una lotta popolare. Nel frattempo coloro che un tempo sognavano di «liberarsi» tramite un intervento degli Stati Uniti dovrebbero prendere atto che in Iraq l’incubo diventa sempre più drammatico. Ma per il momento, a occupare il centro della scena è il ruolo che il Paese gioca all’estero. Anche in questo caso, lo Stato confessionale privo di direzione è sprofondato nel caos. Dopo la fine della guerra con l’Iraq, la politica estera iraniana è stata poco più di un guazzabuglio di opportunismo incoerente, nel quale si combinavano iniziative diplomatiche caute e convenzionali, tipicamente collaborazioniste, e manifestazioni di solidarietà, per lo più gratuite, nei confronti degli sciiti all’estero, soprattutto degli hezbollah del Libano meridionale, con qualche briciola distribuita anche ai palestinesi. Nel 1991, durante la guerra del Golfo, Teheran non solo aveva mantenuto un silenzio tattico, senza esprimere la minima protesta quando le truppe USA si erano stanziate nei luoghi santi, ma aveva anche dato istruzione ai suoi rappresentanti nell’Alleanza del Nord di spianare la strada all’invasione americana dell’Afghanistan. Oltre a ciò aveva collaborato con la CIA in previsione dell’occupazione dell’Iraq e imposto allo SCIRI e agli altri suoi alleati politici di sostenere il governo di Baghdad appoggiato da Washington. In cambio di questi favori, cosa ha ricevuto il Grande Satana? Le truppe USA sono accampate lungo i suoi confini orientali e occidentali, e gli americani minacciano di distruggere i suoi reattori nucleari. Perfino secondo gli standard dell’odierna «comunità internazionale», la campagna condotta dall’Occidente per costringere l’Iran ad abbandonare la ricerca nucleare, alla quale ha diritto in base allo stesso Trattato di non proliferazione, la162 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 163 Il Medio Oriente a metà strada? scia senza fiato. L’Iran è circondato da Paesi che possiedono la bomba atomica – India, Pakistan, Cina Russia e Israele –, e i sottomarini nucleari americani pattugliano le sue coste meridionali. Storicamente, ha tutte le ragioni di temere le minacce esterne. Infatti nella seconda guerra mondiale, nonostante fosse neutrale, l’Iran era stato occupato sia dagli inglesi sia dai sovietici. Nel 1953, gli anglo-americani avevano rovesciato con un colpo di Stato il suo governo regolarmente eletto e annientato l’opposizione laica. Fra il 1980 e il 1988, le potenze occidentali avevano appoggiato i massacri perpetrati da Saddam Hussein, che avevano causato la morte di migliaia di iraniani. Nelle ultime fasi della guerra, gli Stati Uniti avevano distrutto circa metà della flotta iraniana nel Golfo e abbattuto perfino un aereo di linea carico di passeggeri. Oggi, in Iran la tecnologia necessaria per fabbricare armi nucleari difensive è a uno stadio alquanto primitivo. Eppure Bush, Chirac, Blair e Olmert, i cui Paesi possiedono centinaia di bombe atomiche – in America ne esistono migliaia –, ne stanno facendo un casus belli. Le proteste della diplomazia iraniana e il suo cavillare sui più minuti articoli del Trattato di Vienna sono inutili. L’Iran farebbe meglio a scegliere il momento giusto per ritirare la propria adesione al Trattato di non proliferazione. Fra tutti i sovrani anacronistici del mondo, quello dell’Iran è il più sfacciatamente nudo. Le attuali potenze nucleari non hanno la minima giustificazione, dal momento che sono tanto ipocrite da non osare neppure fare il nome di Israele che pure possiede la bellezza di 200 bombe atomiche. Finché questo stato di cose non cambierà, non ci sarà mai un disarmo nucleare. Per affrontare i suoi nemici, l’Iran dovrebbe avere una coerenza e una disciplina di cui oggi è carente. I religiosi ira163 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 164 Tariq Ali niani, con i loro sistemi operativi e i principi dottrinali che diffondono, hanno svolto un ruolo determinante nel creare divisioni interne e nell’indurre i partiti sciiti e Sistani – la regina barbuta di Teheran nello scacchiere iracheno – a contrastare le forze della resistenza. Un’alleanza laica che unisca le forze da Teheran a Damasco, passando per Bassora e Baghdad, attenuerebbe i conflitti fra fazioni e al tempo stesso rafforzerebbe la posizione dell’Iraq. La storia recente del Paese insegna che le autorità al governo, ogni qual volta hanno a che fare con l’arroganza imperiale, non sanno evitare l’incompetenza. Tuttavia è possibile che oggi le circostanze le costringano a prendere decisioni che hanno rimandato a lungo. Non sarà facile presentare la resa alle minacce dell’Occidente come prova di saggezza e dignità nazionale. E non sarà difficile aizzare le folle e le milizie sciite contro le forze di occupazione occidentali oltreconfine. Teheran oggi ha in mano ostaggi ben più importanti di una semplice ambasciata. Se il Paese mantiene i nervi saldi, è improbabile che il Pentagono o i suoi alleati osino attaccarlo. Quali prospettive? Per la crisi del Medio Oriente, iniziata nel 2001, non si intravede nessuna soluzione. Nel migliore dei casi si può affermare che il dramma in corso è solo a metà strada. Stanno emergendo nuove forze e nuovi volti che hanno qualcosa in comune. Muqtada, Ismail Haniyeh, Hasan Nasrallah, Ahmadinejad, ciascuno di loro è salito alla ribalta organizzando i poveri delle città, fra cui Baghdad e Bassora, Gaza e Jenin, Beirut e Sidone, Teheran e Shiraz. È negli slum che Hamas, 164 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 165 Il Medio Oriente a metà strada? Hezbollah le brigate di al Sadr e la milizia Basij hanno le loro radici. I contrasti con personaggi come Hariri, Chalabi, Karzai e Allawi, sui quali fanno assegnamento gli occidentali – milionari d’oltremare, banchieri imbroglioni, distributori di fondi della CIA –, non potrebbero essere più duri. Dai quartieri e dalle baracche dei nuovi poveri della terra, circondati dalle favolose ricchezze del petrolio, soffia il vento dell’integralismo. Ma i limiti di questa forma di radicalismo continueranno a essere evidenti, finché esso resterà prigioniero del Corano. Promettendo equità e solidarietà, gli integralisti esercitano un fascino infinitamente superiore a quello degli imperialisti e dei loro agenti avidi e oppressivi ma, se invece di occuparsi della ricostruzione si limitano a proporre miglioramenti sociali, rischiano prima o poi di essere fagocitati dall’ordine esistente. Per il momento, non sono ancora emersi leader della statura di uno Chávez o un Morales, dotati di una visione politica capace di trascendere le divisioni locali o nazionali, e di affermare un senso di appartenenza al continente e una fiducia nelle possibilità di poterlo diffondere. Grazie al suo ex sindaco, Teheran ha oggi una statua di Simon Bolívar. La regione aspetta che emerga un uomo con lo stesso spirito. Nel frattempo, le posizioni della potenza egemone sono praticamente immobili. Oggi, i disordini sono confinati nelle regioni del Medio Oriente dove da vent’anni gli americani cercano di penetrare senza riuscirci: la West Bank, le zone dell’Iraq controllate dai baathisti e l’Iran di Khomeini. Sono altri i Paesi in cui gli Stati Uniti hanno dei punti fermi: l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Stati del Golfo e la Giordania. In questi luoghi i loro clienti tradizionali non li hanno abbandonati e sono disposti ad aiutarli per risolvere i problemi del165 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 166 Tariq Ali la regione. Anche l’Europa e il Giappone appoggiano la politica USA in Iran e Palestina, mentre Russia, Cina e India non creano difficoltà. Una sconfitta dell’impero è per il momento ancora lontana. 1. Negli ultimi cinque anni, Hugo Chávez ha visitato i principali Paesi di tutti i continenti, mettendo in imbarazzo alcuni dei suoi ospiti con la richiesta di creare un fronte mondiale contro l’imperialismo. La sua intervista di un’ora mandata in onda da al Jazeera ha avuto un impatto esplosivo su ventisei milioni di spettatori arabi. L’emittente ha ricevuto decine di migliaia di e-mail che ponevano tutte una semplice domanda: perché il mondo arabo non può produrre uno Chávez? 2. Graham Usher, The New Hamas, «MERIP», 21 agosto 2005. 3. Alla fine del 2004, gli squadroni della morte e gli elicotteri israeliani hanno assassinato molti capi di Hamas – lo sceicco Yassin, Abdel Aziz al Rantissi, Ibrahim al Makadmeh, Adnan al Ghoul, lo sceicco Khalil – e tentato, senza successo, di uccidere Muhammad Dayf, Mahmud Zahhar, e forse Khaled Meshaal e Musa Abu Marzuq a Damasco. 4. Yediot Aharonot, 12 agosto 1993, citato in Khaled Hroub, Hamas: Political Thought and Practice, Washington 2000. 5. Per questa prospettiva ottimistica vedi Hussein Agha e Robert Malley: «Ora che l’onere del governo è passato ad Hamas, gli USA e Israele potrebbero raggiungere i loro obiettivi a un prezzo inferiore a quello che avrebbero dovuto pagare se fosse rimasto il vecchio regime… il leader che ha più da guadagnare nella nuova situazione è il presidente Abū Māzen… Costui è diventato il personaggio centrale da cui tutti dipendono: gli islamici che hanno bisogno di lui come tramite con il mondo esterno; Israele che lo ritiene l’interlocutore più accettabile e affidabile sulla scena palestinese; gli Stati Uniti e l’Europa che cercano di ignorare Hamas senza voltare le spalle ai palestinesi» – Hamas: the Perils of Power, New York «Review of Books», 9 marzo 2006. Una fotografia scattata ai funerali di re Fahd 166 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 167 Il Medio Oriente a metà strada? 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. a Riyadh mostra Abū Māzen, Iyad Allawi e Hamid Karzai che, seduti ai piedi di un gruppo di autorevoli personaggi in lutto, danno l’impressione di fare un provino per un film comico. Alla fine degli anni Sessanta e Settanta i Fratelli musulmani palestinesi si erano tenuti in disparte mentre i loro rivali laici dell’OLP venivano decimati in Giordania e costretti a rifugiarsi a Beirut. Per giustificare la loro inattività avevano detto di non voler lavorare con dei militanti senza Dio, in un momento in cui si stavano costruendo nuove moschee. Quando negli anni Novanta la credibilità delle autorità secolari era iniziata a calare, Hamas, prendendo a pretesto l’Islam, assunse un atteggiamento sempre più nazionalista. Virginia Tilley, The One-State Solution, Ann Arbor e Manchester 2005. Per le posizioni della «NLR» su cosa possa comportare una soluzione che prevede due Stati, vedi Perry Anderson, Scurrying towards Bethlehem, Guy Nandron, Redividing Palestine?, Gabriel Piterberg, Erasure, Yitzhak Laor, Tears of Zion, «NLR» 10, luglioagosto 2001. Inizialmente si era sperato che Bashar, il quale aveva studiato medicina in Gran Bretagna, si sarebbe rivelato disponibile come i figli di Mubarak e Gheddafi, favorevoli entrambi all’Occidente. La fedeltà alle tradizioni paterne da lui dimostrata è stata un duro colpo. Sulla campagna per l’Eliseo vedi Flynt Leverett, Inheriting Syria: Bashar’s Trial by Fire, Washington 2005, p. 259. Vedi la relazione ONU 111C del procuratore tedesco Detlev Mehlis sull’assassinio di Hariri, ottobre 2005. Walid Jumblatt è il capo dei drusi, attualmente fedele alleato dell’Occidente. La Saatchi & Saatchi ha aiutato a orchestrare le dimostrazioni in favore della libertà; Spirit of America ha procurato i sandwich, le bandiere e gli effetti scenici, oltre a un enorme orologio della Libertà che scandiva il «conto alla rovescia per la libertà». Durante le manifestazioni sono state inoltre distribuite carte da gioco con i volti dei personaggi siriani più ricercati – un genere di carte ideate dal giornale israeliano «Maariv» quando prendeva di mira i palestinesi e pubblicizzate in tutto il mondo dall’esercito americano in Iraq. Vedi Counter Punch, 18 novembre 2005. Nell’ultima crisi, vari gruppi di siriani di opposizione hanno proposto ad Assan un accordo: un governo di unità nazionale per difen167 nlr_DEF 16-03-2007 16:16 Pagina 168 Tariq Ali dere il Paese dall’Occidente, seguito da elezioni in cui il Partito Baath avrebbe avuto il ruolo principale. L’Alto Comando del Baath ha però rifiutato, preferendo affidarsi alla repressione in patria e alle manovre all’estero. 13. Anche Reuel Marc Gerecht, ex capo della CIA in Medio Oriente, la pensa così. In un saggio scrive: «Le elezioni del 30 gennaio in Iraq saranno certamente l’evento più importante nella storia dei Paesi arabi da quando Israele, con la guerra dei Sei giorni, ha sconfitto nel 1967 l’alleanza di Gamal Abd al Nasser». E conclude: «Continuate a pregare per la salute, il benessere e l’autorità del Grande Ayatollah Sistani [sic]… È una benedizione che Sistani e i suoi seguaci abbiano una conoscenza della storia moderna del Medio Oriente molto superiore a quella dei liberali americani ed europei». «Birth of Democracy», in Gary Rosen, a cura di, The Right War? The Conservative Debate on Iraq, Cambridge 2005, pp. 237, 243. 14. Per un’analisi negativa fatta dalla sinistra, vedi «Iran Bulletin – Middle East Forum», serie 11, n. 3, dicembre 2005. Per una rappresentazione cinematografica delle divisioni di classe in Iran, vedi il film Oro rosso (2003) regia di Jafar Panahi, sceneggiatura di Abbas Kiarostami, vietato dal governo di Khatami. Il film Offside, girato nel 2006 da Panahi sulle donne e il football, avrà lo stesso destino sotto il successore di Khatami? 15. La negazione del genocidio degli ebrei, tipica espressione dell’ignoranza, della stupidità e del pregiudizio di una cultura fondamentalista, è uno dei primi esempi. Questo oltraggio rivolto agli europei e agli americani – il socialista francese Laurent Fabius è arrivato a chiedere di vietare ad Ahmadinejad i viaggi nei Paesi occidentali – è ovviamente pura e semplice ipocrisia. L’Iran non ha preso parte alla Shoah. La Turchia, d’altra parte, nega il genocidio degli armeni di cui si è macchiata, senza un battito di ciglia diplomatico dei benpensanti europei: infatti, nessuna causa è patrocinata, in nome del multiculturalismo, con altrettanta passione di quella che dovrebbe consentire alla Turchia un rapido ingresso nell’Unione Europea. Ma l’Armenia non è Israele: a chi importa cosa vi è accaduto? 168