J. Lehrer, Proust era un neuroscienziato

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S&F_n. 1 (2009) J. Lehrer, Proust era un neuroscienziato
tr. it. a cura di Susanna Bourlot, Codice Edizioni, Torino 2008, pp. 204, € 22 «Il vero dono della nostra materia è di permetterci di essere qualcosa in più che pura materia» (p. 167).
Si chiude così l’appassionato testo del giovanissimo studioso americano Jonah Lehrer, un itinerario che si dipana tra arte e scienza, alla ricerca degli insospettati e spesso inascoltati profeti di quelle che si sarebbero rivelate più tardi delle vere e proprie rivoluzioni scientifiche. Jonah Lehrer ci racconta delle storie: storie di uomini che avevano occhi per vedere e che hanno visto lontano, precorrendo il nostro presente. Si tratta di un suggestivo vagabondaggio attraverso l’arte e le sue forme variegate, in cui il pittore, il musicista, lo chef e infine lo scrittore si fanno loro malgrado esploratori dei cinque sensi e del loro funzionamento. Il percorso di Leher tenta di illuminare quel fervido periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima del Novecento, e le intuizioni di cui fu volano. Di che materia sono intessuti i nostri ricordi? Era la domanda che ossessionava Marcel Proust nella penombra solitaria di una stanza parigina, nella quale fabbricò il talismano contro l’oblio: lo trovò in una madeleine imbevuta in una tazza di tè, sul selciato sconnesso di un luogo della giovinezza, nel tocco di un tovagliolo inamidato. Lo scrittore capì, prima che le scienze lo avallassero col loro sigillo di oggettività, che la memoria non è un deposito, uno spazio più o meno capiente all’interno del quale gli eventi della nostra vita sono ordinati come in un archivio polveroso; essa è un processo, che riguarda «sempre meno il suo oggetto e sempre più noi». Come tale è «inseparabile dal momento del suo recupero» (p. 76), da quelle casualità di cui la vita stessa è intessuta, e che fanno di un oggetto banale, quotidiano, ignorato nella routine affaccendata della nostra esistenza, il nume tutelare di quel passato che pure fummo. Ancora a Parigi un giovane pittore di provincia, Paul Cézanne, passava ore intere a contemplare una mela poggiata sul tavolo, cosciente che «l’occhio non basta, bisogna 149
RECENSIONI&REPORTS recensione anche pensare» (p. 86), poiché la realtà non è un blocco uniforme che aspetta solo di essere testimoniato, ma è continuamente creata dalla mente; perciò ogni volta che apriamo gli occhi «il cervello si impegna in un atto di immaginazione» (ibid.), e la mente non è una semplice macchina fotografica che immortala il reale. A Londra, nella stessa epoca in cui il positivismo imperante applicava le proprie combinatorie deterministiche anche alle più imponderabili dinamiche umane, George Eliot, immersa nella lettura di Darwin, si avvide del fatto che la casualità ha la meglio sul rigido determinismo, che siamo sì un’equazione, «ma senza una soluzione stabilita» (p. 30). Dall’altra parte dell’oceano un giovane scrittore, Walt Whitman, anticipando quelli che sarebbero stati gli esiti della biologia e dall’antropologia filosofica del Novecento, elabora una poetica del corpo, convinto che l’umano esista come unità e non come conglomerato di parti, e persuaso fino in fondo che noi non abbiamo un corpo, bensì siamo corpo. Stravinskij comprese che l’orecchio anticipa la musica, poiché si pone sempre all’ascolto del suono con delle aspettative. E proprio delle aspettative del suo pubblico si prese gioco, affidandosi alla dissonanza, poiché intuì che è dalla tensione insoddisfatta che sorge l’emozione, e che l’orecchio, così come uno strumento, va accordato ed educato. Escoffier rese felici i suoi clienti quando intravide che il piacere del cibo dipende in gran parte dal suo odore, e che le sensazioni di piacere legate al nutrimento sono orientate dal contesto. Gertrude Stein intraprese improbabili esperimenti linguistici e si accorse che è impossibile all’uomo uscire dalle strutture della significazione, poiché un segno noi siamo che sempre indica, anche quando sembra non averne alcuna intenzione. Il testo ripercorre i luoghi e le vicende di questo appassionato peregrinare del pensiero, trasportandoci con grazia dal passato al presente; dopo aver assistito all’epifania di intuizioni che sanno quasi di miracoloso, il lettore viene accompagnato per mano sul variegato terreno delle più recenti scoperte scientifiche, dalle teorie sui geni agli sviluppi delle neuroscienze. La posizione che emerge – tanto più apprezzabile in quanto assunta da uno studioso di neuroscienze – è l’assoluto rifiuto di qualsiasi piega riduzionista: la grandezza degli artisti di cui si racconta sta tutta nella loro capacità di difendere la libertà contro il determinismo, l’ininterrotta processualità del movimento contro la definizione 150
S&F_n. 1 (2009) di statiche essenze, l’esperienza come testimonianza piena, viva, carnale contro l’esperimento da laboratorio. L’oggetto di questo saggio, e in generale della ricerca scientifica, come Lehrer afferma, è la «nostra disonesta soggettività» (p. 104): la scienza deve fare i conti con la soggettività dell’esperienza, deve mescolarsi, contaminarsi con questa questione privata che noi da sempre siamo, poiché «l’unica realtà che mai conosceremo è la nostra esperienza» (p. 168). FABIANA GAMBARDELLA 151
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