L`inefficacia della misura per intempestivo deposito della

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Processo penale e giustizia n. 2 | 2016
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ELISA ZERBINI
Dottore in Giurisprudenza
L’inefficacia della misura per intempestivo deposito della
motivazione in sede di riesame: un caso insolito di ius superveniens sull’“atto complesso”
The order directing the precautionary measures must be considered
subject to the law n. 47 of 2015 even when the new deadline to file
the grounds upon which the decision of re-examination relies has
not expired any longer
La novella 16 aprile 2015, n. 47 ha introdotto nel comma 10 dell’art. 309 c.p.p. un’inedita causa di perdita di efficacia del provvedimento applicativo della misura cautelare, per il caso in cui le motivazioni dell’ordinanza del riesame
vengano depositate oltre i termini ivi prescritti. La Corte regolatrice, valorizzando l’autonomia tra l’emissione del
dispositivo e la stesura della relativa motivazione, afferma l’applicabilità della nuova disciplina sulla perenzione cautelare ai procedimenti nei quali, al momento dell’entrata in vigore della legge, i termini per il deposito della motivazione fossero ancora pendenti.
Under the prescription of the law n. 47 of 2015, the precautionary order is now bound to loose its effects when
the Court of re-examination files the motivation beyond the new prescribed deadline. The Supreme Court states
that this new discipline must be intended also for the orders whose deadline for the Court of re-examination to
file the motivation is still open at the time of the entrance into force of the law n. 47 of 2015.
LA NUOVA COMMINATORIA DI INEFFICACIA DELL’ORDINANZA DI RIESAME
Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione affronta uno dei numerosi aspetti interessati
dalla recente riforma in materia cautelare.
Lo scorso 8 maggio, all’esito di un travagliato iter parlamentare protrattosi per oltre due anni 1, è entrata in vigore la legge 16 aprile 2015, n. 47, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia
di misure cautelari personali” 2, il cui art. 11 ha riformulato l’art. 309, comma 10, c.p.p. 3 Alla luce della
1
L’originaria proposta di legge fu presentata alla Camera dei Deputati il 3 aprile 2013, per iniziativa dell’On. Ferranti e Altri
(C-631, unificata con i disegni di legge C-980, C-1707, C-1807, C-1847).
2
Per una completa panoramica sulle novità introdotte dalla novella, si rinvia a T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle
misure cautelari. Analisi della legge n. 47 del 16 aprile 2015, Torino, 2015, passim; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in Proc.
pen. giust., 2015, 5, p. 106 ss.; AA.VV., Le modifiche in materia di misure cautelari, in G.M. Baccari-K. La Regina-E.M. Mancuso (a
cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, Padova, 2015, p. 383 ss. Sull’argomento, si veda anche V. Pazienza-G. Fidelbo, Le
nuove disposizioni in tema di misure cautelari, Rel. N. III/03/2015, in www.cortedicassazione.it; P. Borrelli, Una prima lettura delle
novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
3
Questo il tenore letterale del nuovo comma 10 dell’art. 309 c.p.p.: «Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui
al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate,
non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in
cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il
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novellata disposizione, la misura disposta perde efficacia nel caso in cui l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame non venga depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione, prorogabili sino
a quarantacinque nei casi in cui la stesura della motivazione risulti particolarmente complessa per il
numero dei soggetti o per la gravità dei fatti 4.
Emerge, prima facie, l’allargamento dell’inefficacia del provvedimento cautelare, prima limitata ai soli casi di ritardo nella trasmissione degli atti posti a sostegno della richiesta ovvero nella emissione del
dispositivo dell’ordinanza 5. La finalità delle inedite scansioni procedimentali introdotte dal novum legislativo è quella di incidere – accelerandolo – sul sub-procedimento cautelare, attraverso l’introduzione
di ulteriori cadenze temporali 6.
Un intento indubbiamente pregevole, dunque, quello che ispira la novella, alla quale va riconosciuto
lo sforzo di ricondurre la delicata materia della restrizione della libertà personale ante judicatum entro
gli argini, troppo spesso pericolanti, del dettato costituzionale 7.
In tale ottica la modifica in parola è coerente con un «disegno di limitazione della risposta cautelare
di tipo custodiale» che pare permeare anche gli ulteriori interventi adottati dal legislatore attuale sulla
materia de qua 8.
Per altro verso, tuttavia, le modifiche introdotte finiscono per affaticare l’attività dei giudici del riesame, oggi gravati dall’onere della tempestività non solo con riguardo all’assunzione della decisione,
ma pure rispetto al deposito delle relative motivazioni.
Il regime sanzionatorio prescritto dalla nuova norma è peraltro sostenuto da un rigore sconosciuto
alla disciplina previgente. Se, infatti, la censurabile “pigrizia” della prassi cautelare ha da sempre potuto contare su una giurisprudenza comprensiva, che pacificamente ammetteva la possibilità di una nuova emissione del provvedimento divenuto inefficace ai sensi dell’art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., senza
pretendere condizione alcuna 9, oggi tale eventualità, pur non essendo del tutto inibita, potrà inverarsi
solo sulla base di «eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate» 10.
giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della
decisione».
4
All’evidenza, l’ultima parte della disposizione ricalca quanto previsto dall’art. 544, comma 3, c.p.p., a norma del quale «quando
la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni, il giudice, se
ritiene di non poter depositare la sentenza nel termine previsto dal comma 2», cioè quello ordinario di 15 giorni decorrenti dalla pronuncia,
«può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia».
5
Il testo pre-riforma dell’art. 309, comma 10, c.p.p. così recitava: «se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al
comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame non interviene entro il termine prescritto, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva
perde efficacia».
6
Per l’esaustiva analisi dei «ritocchi alla tempistica del riesame», v. P. Maggio, I controlli, in T. Bene (a cura di), Il
rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 108 ss.
Esprime «riserve» sulle nuove scansioni temporali per il deposito del provvedimento G. Spangher, Una piccola riforma della
custodia cautelare, in G.M. Baccari-K. La Regina-E.M. Mancuso (a cura di), Il nuovo volto della giustizia penale, cit., p. 390. Secondo
l’Autore, «del tutto assiomatici si presentano i termini per il deposito della motivazione, non solo in relazione all’art. 128 c.p.p., ma
addirittura a quanto previsto dall’art. 544 c.p.p. per le sentenze. Il rischio sotteso a questa previsione è quello di sovrapporre un
giudizio prognostico di colpevolezza con un giudizio anticipato di responsabilità. Questo elemento, già sotteso e implicito in varie
disposizioni, rischia in tal modo di accentuarsi. Il dato è rafforzato dai riferimenti alla ratio della previsione legata alla pluralità
degli imputati e delle imputazioni, così da collegare le varie situazioni personali e processuali in un quadro integrato capace di
sorreggere soprattutto le fattispecie associative (vere o ritenute tali). […] Al riguardo, non sembra cogliere nel segno né la
considerazione che diversamente si correrebbe il rischio di provvedimenti sommari e mal motivati, né il rilievo per il quale si
accentuerebbero i casi di rigetto, né l’affermazione per la quale i tempi del deposito sarebbero più lunghi di quelli ora fissati. Non si
capisce, invero, perché bisogna assecondare le patologie e non correggerle, riportando il sistema alla sua fisiologia e sistematicità, e
non si possa pretendere serietà ed impegno da parte di chi esercita la delicata funzione di garantire la libertà personale».
7
Secondo B. Galgani, Le questioni di diritto intertemporale, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p.
181, il «raffronto tra i diritti e le garanzie specificamente riconosciuti, nel quadro codicistico precedente, all’indagato/imputato
(protagonista, suo malgrado, della vicenda cautelare), ed il complesso delle prerogative oggi introdotte dalla novatio legis, può
essere dimostrativo della manovra di “arricchimento” – qualitativa e quantitativa al contempo – che è venuta ad interessare non
soltanto il corredo lato sensu difensivo disponibile in costanza di restrizione ma, soprattutto ed ancor prima, gli standard normativi e valutativi chiamati a presidiare la scelta giurisdizionale sull’an e sul quomodo della cautela».
8
A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L. 16 aprile 2015), in Cass. pen., 2015, 7-8, p. 2538 ss.
9
Sul punto, P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, cit., p. 29;
nonché a A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L. 16 aprile 2015), cit., p. 2538 ss.
10
Ciò che, invece, il nuovo sistema eredita dal precedente è l’assenza dell’obbligo, per l’autorità procedente, di interrogare
l’indagato, già sottoposto a misura cautelare dichiarata inefficace, prima di procedere al ripristino del regime custodiale nei suoi
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Un condizionamento, dunque, che se da un lato pone un freno alle distorsioni del diritto vivente, pretendendo per la reiterazione della misura un periculum qualificato 11, dall’altro suscita riflessioni critiche.
Non può celarsi, infatti, come la novella in esame realizzi un livellamento inopportuno tra situazioni
eterogenee. «Nella scelta legislativa del divieto di rinnovazione si annida il rischio che il mancato rispetto dei termini, dovuto magari a un disguido attinente di volta in volta alla tempestiva formazione
del fascicolo, ovvero a un difetto di notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza con l’impossibilità di
fissarla nei tre giorni liberi, si risolva in una sorta di “salvacondotto” per il soggetto beneficiario della
declaratoria di inefficacia, la cui posizione nel procedimento si cristallizzerebbe “allo stato degli atti”,
anche in difformità rispetto a indagati con posizioni processuali analoghe» 12.
Le perplessità sono inoltre accentuate dalla considerazione di alcune incongruenze sistematiche 13.
Altrove le criticità ascrivibili alla carente tenuta dell’assetto organizzativo della giustizia vengono sì
sanzionate, ma in termini certamente più lievi di quanto accade rispetto alla fattispecie di cui all’art. 309
c.p.p. Si pensi all’ipotesi di perdita di efficacia della misura conseguente all’omesso interrogatorio da
parte del giudice nei termini prescritti dall’art. 294 c.p.p. In questo caso, l’art. 302 c.p.p. consente
l’emissione di una nuova cautela, a seguito della liberazione dell’imputato e del suo interrogatorio, sol
che sussistano le condizioni previste dagli artt. 273, 274 e 275 c.p.p.
Ancora, disposizione analoga a quella di cui all’art. 309, comma 10, del codice di rito è ora contenuta
nell’art. 310 c.p.p., in relazione dunque all’appello cautelare, rispetto al quale, tuttavia, non viene affatto
replicata la sanzione dell’inefficacia del provvedimento gravato; qui i prescritti termini restano meramente ordinatori.
IL (FALSO) PROBLEMA DELLA RETROATTIVITÀ SULLA FATTISPECIE PROCESSUALE IN ITINERE
Si giunga ora alla questione sottoposta alla Suprema Corte.
Come precisato, la legge n. 47 è entrata in vigore l’8 maggio 2015. Tale data assume, nella vicenda in
esame, una precisa valenza, rappresentando l’orizzonte temporale l’elemento fondante le ragioni del
gravame.
Accadeva, infatti, che il 7 maggio 2015 il Tribunale del riesame, richiesto dalla difesa dell’indagato
sottoposto agli arresti domiciliari di pronunziarsi sulla misura cautelare, concludeva per il rigetto, depositando la relativa ordinanza a distanza di più di due mesi; dunque, ben oltre il termine massimo
previsto dalla nuova normativa per i casi di particolare complessità.
Il successivo ricorso della difesa ruotava attorno alla sostenuta retroattività dell’art. 309, comma 10,
c.p.p., in quanto norma che, pur avendo natura processuale, è idonea nella sua concreta applicazione a
produrre effetti sostanziali favorevoli all’indagato 14.
Un terreno impervio, quello calcato dal ricorrente, eretto su fondamenta non prive di sostegno in letteratura, ma piuttosto scarne di riconoscimenti giurisprudenziali.
L’individuazione dell’ambito temporale di applicabilità della nuova disciplina non può che risolverconfronti nonché di replicare l’interrogatorio di garanzia successivamente all’adozione del nuovo provvedimento «sempre che
l’interrogatorio sia stato in precedenza regolarmente espletato e sempre che la nuova ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e
diversi rispetto alla precedente». Così, Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 28270, in CED Cass., n. 260016, per il cui commento si rinvia
a M. Montagna, Reiterazione di misura cautelare per inefficacia della precedente ed interrogatorio dell’indagato, in Dir. pen. proc., 2014, 9,
p. 1055 ss. La recente pronuncia del Supremo Collegio sancisce definitivamente la bontà dell’orientamento già ampiamente
invalso nella giurisprudenza di legittimità: ex multis, Cass., sez. un., 1° luglio 1992, n. 11, in CED Cass., n. 191182; Cass., sez. VI,
24 ottobre 2002, n. 20494, ivi, n. 227209; Cass., sez. V, 15 luglio 2010, n. 35931, ivi, n. 248417; Cass., sez. II, 23 novembre 2012, n.
9258. Per la critica all’orientamento in parola, si rinvia a P. Maggio, I controlli, cit., p. 111 ss.
11
«Sarà la quotidiana interpretazione ad indicare la latitudine delle eccezionali esigenze cautelari, anche se, in via di prima
lettura, si può affermare che debbano essere considerate eccezionali le esigenze di spessore tale da non poter essere neutralizzate se non con la misura di massimo rigore». Così, A. De Caro, Misure cautelari personali, in A. Scalfati ed Altri, Manuale di diritto
processuale penale, Torino, 2015, p. 399. Secondo A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in materia di misure cautelari personali (L.
16 aprile 2015), cit., p. 2538 le «eccezionali esigenze cautelari» dovranno essere valutate alla luce dei medesimi contenuti prescritti dall’art. 275, comma 4, c.p.p.
12
P. Maggio, I controlli, cit., p. 114.
13
E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 122.
14
Cass., sez. V, 21 maggio 2015, n. 31839, in CED Cass., n. 263727; Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 44895, ivi, n. 260927.
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si ricorrendo ai principi di carattere generale che regolano i conflitti fra norme nel tempo. Il c.d. diritto
intertemporale, quale sistema di “meta-norme” strumentali ad individuare quale, fra tutte le previsioni,
sia in concreto applicabile al caso di specie 15, consiste in una serie di criteri di ordine generale, valevoli
ora per tutto l’ordinamento, ora per un sotto-sistema particolare.
Come noto, la dimensione cronologica dell’ordito processuale penale è governata dal principio sintetizzato nel brocardo tempus regit actum, che traghetta sul terreno in parola il contenuto di cui all’art. 11
disp. prel. c.c.: all’atto processuale si applica la disciplina vigente al momento del suo compimento, restando irrilevante sia la legge del tempo di apertura del procedimento penale, sia quella sopravvenuta.
Il momento decisivo è, dunque, quello genetico. “Regola aurea”, che parrebbe non soggiacere a
smentite, quale che sia il contenuto della modifica legislativa eventualmente intervenuta 16.
La dottrina si è sempre – e comprensibilmente – mostrata recalcitrante a scorgere nella rigida applicazione del principio del tempus regit actum la soluzione a qualsivoglia questione sollevata dal fenomeno della successione delle leggi nel tempo 17. Il freddo meccanicismo che anima la regola in esame mal
si concilia con la considerazione degli inevitabili riflessi che le modifiche normative recano all’assetto
delle garanzie spettanti ai diversi soggetti coinvolti nella vicenda processuale.
La ricerca di una rilettura più garantista della regola intertemporale processuale è tuttavia, ancora
oggi, lontana dall’essere realizzata 18.
E anche nel caso in esame l’applicabilità della nuova causa di inefficacia della misura cautelare affermata dalla Corte non costituisce una inedita lettura del principio tempus regit actum, ma solo la conseguenza della valorizzata «autonomia dell’emissione del dispositivo della decisione, in quanto contenente tutti
gli elementi necessari per identificare il contenuto della stessa, dalla successiva attività motivazionale».
15
Il diritto intertemporale rappresenta, dunque, «una categoria a sé di norme, e cioè la categoria di norme che disciplinano
altre norme (ius sopra ius)». Così G.U. Rescigno, Disposizione: VI) disposizioni transitorie, in Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, p. 227. Ancora, secondo O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, Milano, 1999, p. 94, si tratta di «vere e proprie regole positive, dotate
di una loro indubbia autonomia, essendo dettate per risolvere autoritativamente, in un senso piuttosto che in un altro, questioni
controverse sollevate dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico». E non, invece, meri aspetti temporali delle norme materiali a
cui fanno riferimento. In senso contrario, G. Pace, Il diritto transitorio con particolare riguardo al diritto privato, Milano, 1944, p. 367 ss.
Sostiene l’Autore che «l’efficacia materiale, temporale e spaziale della norma non sono fenomeni autonomi, non sono tre specie di
attività, ma solo tre aspetti di una identica e unitaria efficacia della norma giuridica. Ne viene che il diritto c.d. transitorio [rectius:
diritto intertemporale] non costituirebbe un vero e proprio diritto (sostantivo, questo, che meglio si addirebbe al tutto), ma quasi
una sua sezione ideale, un suo aspetto, l’aspetto temporale […]; ed inoltre le c.d. norme transitorie [rectius: norme intertemporali],
per la stessa ragione, non sarebbero vere e proprie norme giuridiche, ma solo parti integranti di esse».
16
In ciò si coglie la distanza rispetto al diritto penale sostanziale, laddove vige la regola della retroattività della legge
favorevole al reo.
17
Da ultimo, i sintetici rilievi di A. Scalfati, Principi, in A. Scalfati et al., Manuale di diritto processuale penale, cit., p. 63 ss.
18
Il tentativo di ricondurre anche il diritto processuale penale sotto l’egida del favor rei, cardine diritto penale sostanziale,
è originata, sin dalla vigenza del codice del 1930, dalla riflessione sugli stretti rapporti di affinità intercorrenti tra diritto
penale e processo, nonché dalla oggettiva difficoltà a discriminare con precisione le norme pertinenti all’una piuttosto che
all’altra sfera. Si è, così, sostenuta una esegesi, tanto letterale quanto concettuale, dell’art. 2, comma 3, c.p. quale norma atta a
comprendere pure il mutamento della legge processuale; si è affermata la necessità di temperare il principio del tempus regit
actum in quel settore della disciplina processuale nella quale l’applicazione delle norme, e dunque dei mutamenti legislativi,
viene ad incidere direttamente sul bene fondamentale della libertà personale; si è, infine, con l’avvento della Costituzione
repubblicana, promossa la doverosa revisione della regola cardine della successione delle leggi nel tempo, ancorando la
retroattività della norma processuale più favorevole al reo all’art. 25, comma 2, della Carta, ricostruita in chiave di garanzia
del singolo. Sul delicato fronte delle misure restrittive della libertà personale, poi, la valorizzazione dell’art. 13 Cost., quale
prescrizione atta ad attribuire natura eccezionale alla disciplina della custodia cautelare, ha supportato l’interpretazione
della stessa quale argine alla idoneità delle nuove norme contra libertatem ad incidere negativamente sulle situazioni
detentive già in corso alla data della loro emanazione. Ma, a dispetto dei tentativi, la giurisprudenza ha persistito
nell’escludere la costituzionalizzazione della retroattività della lex mitior. Salvo poi, con un sussulto meritevole di
condivisione, introdurre, anche nella materia de qua, il metodo del bilanciamento tra valori, imponendo all’interprete di
sottoporre la regola del tempus regit actum ad un serrato vaglio di ragionevolezza al fine di verificare la necessità di
opportuni mitigazioni e contemperamenti. L’analisi della tematica, oltre agli Autori già citati, non può prescindere dai
contributi di E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1967, p. 863 ss.; G. Lozzi, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, p. 153 ss.; M. Nobili, sub art. 25 comma 1, in
Commentario della Costituzione, G. Branca (a cura di), Rapporti civili. Artt. 24-26, Bologna-Roma, 1981, p. 186. Per una completa
ricognizione dell’evoluzione nei rapporti fra tempo e diritto penale processuale, in specie cautelare, si veda B. Galgani, Le
questioni di diritto intertemporale, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari, cit., p. 167 ss.
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Il Supremo Collegio, in altre parole, pur richiamando le sue precedenti decisioni di segno contrario
alla tesi difensiva 19 – peraltro sempre generate dalla medesima legge n. 47/2015 – nega che la soluzione
sia da individuarsi «necessariamente» nella tematica attinente la retroattività delle norme processuali.
Posto che l’attività procedimentale regolamentata dall’art. 309, comma 10, c.p.p., ossia l’oggetto specifico della norma novellata, va identificata nella redazione della motivazione di una decisione già assunta, e che siffatta attività era pienamente in corso alla data di entrata in vigore della nuova disciplina,
è quest’ultima a trovare applicazione 20.
A sostegno della ricostruzione avallata, la Corte invoca l’orientamento – consolidatosi all’esito della
travagliata vicenda originata dalla nuova disciplina sulla prescrizione introdotta con legge n. 251/2005
e ruotante attorno all’esatta individuazione del perimetro di applicabilità del regime transitorio in essa
prevista – relativo alla nozione di “pendenza della fase di appello del procedimento”.
Le differenti interpretazioni formatesi sulla questione 21 sono infatti approdate, a compimento di un
percorso nutrito di interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite 22, ad affermare che il procedimento deve considerarsi automaticamente pendente in appello sin dal momento della lettura del
dispositivo della sentenza di primo grado e non da quello, successivo, del deposito della motivazione
della stessa 23.
19
Cass., sez. un., 17 luglio 2014, in CED Cass., n. 260927; Cass., sez. IV, 21 maggio 2015, n. 24816, ivi, n. 263727.
20
Occorre segnalare un recentissimo revirement della Corte sulla tematica in questione. Con sentenza n. 5774 del 14 ottobre
2015, depositata lo scorso 11 febbraio, la Prima Sezione della Cassazione, chiamata ad esprimersi su di una fattispecie del tutto
analoga a quella oggetto della pronunzia annotata, apertamente ammette di non condividerne il percorso argomentativo, pervenendo così a conclusioni diametralmente opposte. In particolare, il giudice di legittimità rammenta che al divieto di retroattività
della legge, sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c., deve riconoscersi valore di principio generale dell’ordinamento giuridico e che la
declinazione in campo processuale del canone tempus regit actum, considerate le potenziali ricadute della relativa applicazione
«sui procedimenti in atto e sui sottostanti diritti e facoltà», comporta la necessità di calibrarne la portata «alla diversa tipologia degli atti
processuali» interessati dalla modifica. Pur esplicitando, dunque, un netto rifiuto a risolvere il problema della ricaduta delle
sopravvenienze normative sul diritto intertemporale «mediante un generico riferimento al principio di perdurante validità degli atti
processuali compiuti secondo la legge vigente al momento della loro emissione», e sollecitandone piuttosto l’adeguamento al contenuto
della singola disposizione raggiunta dall’innovazione, la Corte esclude che la nuova previsione del termine perentorio di
deposito della motivazione dell’ordinanza conclusiva del procedimento di riesame di cui all’art. 309, comma 10, c.p.p., come
novellato dalla legge n. 47/2015, sia applicabile alle decisioni emesse prima della data di entrata in vigore della legge in
questione, ancorché, a tale data, fosse ancora pendente l’attività di redazione della relativa motivazione. Infatti, «l’”actum” che in
tal caso viene in rilievo è rappresentato dalla decisione, che per dettato normativo assume la forma dell’ordinanza. Sul piano del modello
legale, l’ordinanza è atto unitario che – di regola – non comporta scissione tra parte dispositiva e parte argomentativa e pertanto non è
riconoscibile alcuna autonomia “strutturale” della parte motiva (ove depositata separatamente) rispetto al dispositivo». Ne deriva che la
«norma regolatrice “ratione temporis” è da ritenersi quella vigente al momento della emissione dell’ordinanza stessa, pur se la medesima
viene resa manifesta – provvisoriamente – attraverso il deposito del solo dispositivo». Deve, invece, escludersi che «l’esistenza “prasseologica” di una scissione – anche consistente – tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione dell’ordinanza» legittimi «la
possibile “attrazione” di tale attività, se non ancora realizzata, nell’ambito applicativo della nuova previsione di legge».
In conclusione, secondo questa decisione, «il legislatore dell’aprile 2015 ha inteso contrastare una prassi di dilatazione del termine di
deposito delle motivazioni oltre limiti fisiologici (…) sia attraverso l’introduzione di un diverso ambito temporale di tollerabile “scissione”
che mediante l’introduzione espressa di una sanzione processuale di notevole incidenza, rappresentata dalla perdita di efficacia di una misura
cautelare oggetto di conferma»; sanzione che, tuttavia, «non può realizzare i suoi effetti in rapporto a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene».
21
Tre, in particolare, le tesi prospettate, tendenti ad ancorare il momento della pendenza della fase d’appello, rispettivamente, alla proposizione dell’impugnazione (ex multis, Cass., sez. VII, 2 ottobre 2007, n. 41965, in CED Cass., n. 238194; Cass., sez. IV,
28 maggio 2009, n. 22328, ivi, n. 244000), alla pronuncia della sentenza di primo grado (Cass., sez. VII, 22 ottobre 2008, n. 13523,
in CED Cass., n. 243826; Cass., sez. V, 14 maggio 2009, n. 34231, ivi, n. 244100) ovvero al momento dell’iscrizione dell’impugnazione nel registro della Corte d’Appello (Cass., sez. III, 15 aprile 2008, n. 24330, in CED Cass., n. 240342).
22
Per una completa panoramica della complessa vicenda, v. E.M. Ambrosetti, Sezioni Unite e prescrizione. La normativa più
favorevole non si applica in appello anche nel caso di assoluzione in primo grado, in Proc. pen. giust., 2012, 5, p. 48 ss.
23
In tal senso, ex multis, Cass., sez. III, 10 luglio 2008, n. 38836, in CED Cass. n. 241291 [«in tema di prescrizione del reato, la
pendenza del giudizio di appello, rilevante, secondo la normativa transitoria dettata dall’art. 10, comma terzo, della l. n. 251 del 2005
(come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006), ai fini dell’applicazione delle "vecchie" o delle "nuove"
norme in tema di prescrizione, ha inizio nel momento della pronuncia della sentenza di primo grado, coincidente con il momento della
lettura del dispositivo e non con quello, eventualmente successivo, del deposito della motivazione»]; Cass., sez. V, 16 aprile 2009, n.
25470, in CED Cass., n. 243898 [ «in tema di prescrizione, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie di cui all’art. 10,
comma 3, l. n. 251 del 2005, la pendenza del grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme sopravvenute più
favorevoli, ha inizio con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta con la lettura del
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È infatti «la lettura del dispositivo della sentenza che rende la decisione non più modificabile in relazione alla
pretesa punitiva, e non quello successivo del deposito della motivazione, che contiene soltanto l’esposizione dei
motivi in fatto e in diritto sui quali la decisione è fondata» 24.
LE COORDINATE DELL’ATTO COMPLESSO: PERFEZIONE, EFFICACIA, DURATA
Il ragionamento così delineato evoca categorie concettuali basilari del sistema processuale, di antica
ma sempre attuale elaborazione 25, che appaiono funzionali alla comprensione del percorso interpretativo seguito nella pronuncia in commento, quanto mai avara di spiegazioni.
Accogliendo l’opinione che afferma la necessaria separazione tra fattispecie ed atto e che descrive
la prima come il «complesso degli elementi astratti a cui l’ordinamento ricollega un certo effetto giuridico» 26, ossia come «la previsione normativa dell’atto», l’indagine non può che essere condotta attorno ai «due aspetti dell’atto che rivestono maggiore interesse per il diritto, e cioè la perfezione e
l’efficacia» 27.
La perfezione dell’atto, quale “concetto di relazione” atto ad indicare la corrispondenza tra il comportamento storicamente realizzatosi e gli elementi formanti la fattispecie, consente di distinguere tra
fattispecie semplici – quelle inverate dal compimento di un solo atto, di per sé, quindi, perfetto – e fattispecie complesse.
Queste ultime risultano infatti formate da più atti distinti, ciascuno dei quali, isolatamente considerato, è in grado di realizzare non l’intera fattispecie del quale è parte, bensì soltanto «quella porzione
autonoma di fattispecie che lo riguarda direttamente». Se è vero che, in tal caso, «l’atto risult[a] comunque perfetto rispetto al corrispondente “segmento” del modello normativo», certamente non può esserlo rispetto alla fattispecie complessivamente intesa, la cui perfezione «si potrà poi raggiungere attraverso il compimento di tutti gli atti previsti, e cioè dell’atto complesso» 28.
Così definita la latitudine del concetto di perfezione dell’atto giuridico, ad esso variamente si correla
l’altro termine del binomio in apertura evocato, cioè l’efficacia.
A differenza dell’atto semplice, il quale, «integrando l’intera fattispecie (semplice) di riferimento,
può dirsi immediatamente efficace», nel caso di fattispecie complesse, il singolo atto, pur perfetto in sé
nei termini anzidetti, non è sostenuto dall’immediata efficacia, «poiché la produzione di effetti viene
collegata all’integrazione della fattispecie nel suo complesso». Non, dunque, di efficacia può parlarsi,
quanto di «mera rilevanza, intesa come semplice idoneità dell’atto a produrre effetti qualora concorrano
anche tutti gli altri atti previsti dalla fattispecie che descrive l’atto complesso» 29.
Fin qui, l’autorevole ricostruzione ancora non riesce a sostenere le conclusioni propugnate dalla Corte, la quale pretende, invece, di far derivare precisi e differenziati effetti dal perfezionamento dei singoli
segmenti componenti la “fattispecie”.
Un simile esito può, infatti, ricondursi soltanto a quella particolare forma di atto complesso definibile come atto cumulativo 30, laddove «più atti singoli, pur integrando una fattispecie complessa, producodispositivo»]; Cass., sez. V, 16 gennaio 2009, n. 7697 [«in tema di prescrizione, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie di
cui all’art. 10, comma 3, della l. n. 251 del 2005, la pendenza del grado di appello, che rileva per escludere la retroattività delle norme
sopravvenute più favorevoli, ha inizio dopo la pronunzia della sentenza di condanna di primo grado, che deve ritenersi intervenuta nel
momento della lettura del dispositivo, non in quello, eventualmente successivo, del deposito della motivazione»].
24
Così Cass., sez. VII, 13 febbraio 2014, n. 38143, in CED Cass, n. 262615.
25
Preziose, a tal riguardo, le approfondite considerazioni svolte da G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed
efficacia, Milano, 1982, passim e da O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., passim.
26
G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, cit. p. 2. Sull’argomento, si veda anche F. Cordero, Le
situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 33 e R. Scognamiglio, Fattispecie, in Enc. giur., XIV, 1989, p. 1 ss.
27
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 18, dal quale Autore è pure ripresa la citazione immediatamente
precedente.
28
Così, O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 18.
29
Questa la ricostruzione prospettata da O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 19. Impostazione che ricalca
quella veicolata da G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Perfezione ed efficacia, cit., pp. 42-48, anche se, come sottolinea lo
stesso Mazza (La norma processuale nel tempo, cit., p. 19, nota 47), l’illustre Autore del quale condivide il pensiero ritiene più
opportuno parlare di “fattispecie complessa” in luogo di “atto complesso”.
30
Sulle varianti strutturali dell’atto complesso, v. inoltre F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1987, p. 396 ss.
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no ciascuno, indipendentemente dal collegamento con tutti gli altri, ulteriori effetti propri, essendo contemporaneamente riferibili a una fattispecie semplice o a una fattispecie complessa minore» 31.
È questo lo schema tipico del procedimento penale, il quale non esclude l’efficacia dei singoli atti che
ne formano l’ossatura, pur producendo effetti nel suo complesso. La stessa struttura è pacificamente
estensibile al procedimento cautelare globalmente inteso, ma pare più difficile la sua pretesa applicabilità al provvedimento-ordinanza nel quale culmina la vicenda de libertate.
Nondimeno, l’affermazione conclusiva della sentenza può condividersi da una diversa prospettiva.
Assumendo la logica dell’atto complesso, è indubbio che la vicenda modificativa della normativa di
cui all’art. 309 c.p.p. intervenga nel momento in cui l’ordinanza in questione è pendente, «trattandosi di un
atto in corso di compimento o, più precisamente che si sta perfezionando» 32. Quando, al suo sopravvenire, la nuova norma colga un atto complesso in stato di pendenza, «può dirsi retroattiva solo nella misura in cui rivaluti i singoli atti già realizzatisi prima del mutamento legislativo, attribuendo loro una diversa rilevanza o privandoli della medesima»; non invece quando, come nel caso in esame, si limiti ad incidere «esclusivamente sulla disciplina degli atti ancora da compiere facenti parte dell’atto complesso
pendente» 33. La norma in esame, infatti, «presenta una pròtasi caratterizzata da una fattispecie chiaramente riferita a singoli atti futuri la cui realizzazione non ha ancora avuto inizio, mentre l’apòdosi ne lascia immutata la rilevanza, non essendo modificata l’efficacia dell’atto complesso di riferimento» 34.
In altri termini, qualora la nuova disciplina del segmento di atto pendente ancora non realizzato non
incida sulla (ri)valutazione dei singoli atti già compiuti – i quali mantengono la propria perfezione e rilevanza sulla base della legge del tempo in cui furono realizzati – né comporti una diversa efficacia
dell’intero atto complesso, risulta dimostrata l’estraneità della stessa alla logica della retroattività.
L’applicazione della lex superveniens alla vicenda di specie pare dunque pienamente giustificata in
ossequio all’ordinario canone processuale del tempus regit actum.
La comprensione dell’incidenza delle norme sopravvenute sui procedimenti penali pendenti passa,
infatti, attraverso la necessaria individuazione del «grado di atomizzazione che può essere riconosciuto
all’oggetto della loro regolamentazione»; dunque attraverso «l’esame della struttura dell’atto» 35. Volendo aderire alla teoria dell’ordinanza decisoria del riesame quale atto complesso e dovendo concordare con la Corte laddove individua l’oggetto della regolamentazione di cui al novellato art. 309, comma 10, c.p.p. nell’attività di redazione della motivazione, non può che identificarsi nella nuova norma
la lex temporis dell’actum in parola. In questa prospettiva, la precisazione indicata in sentenza circa la
sussistenza delle «condizioni anche fattuali perché l’attività costituita dalla redazione della motivazione dell’ordinanza e dal deposito della stessa potesse essere adeguata ai termini posti dalla norma sopravvenuta», essendo
gli stessi «ancora disponibili quasi per la loro interezza», pare persino superflua.
A stretto rigore, ancorché l’innovazione normativa fosse intervenuta in prossimità della scadenza
dei termini prescritti a pena di inefficacia della misura, il Tribunale ne sarebbe stato, suo malgrado, vincolato. È chiaro, infatti, che «la perfezione» dell’atto semplice (motivazione) coinvolto nell’atto complesso (ordinanza) rappresenta «il momento a partire dal quale l’atto viene a giuridica esistenza, suscettibile di autonoma considerazione. Pertanto, tutte le concrete attività che si sono rese eventualmente necessarie per giungere alla perfezione dell’atto, ponendosi in un lasso di tempo a essa precedente, appaiono giuridicamente irrilevanti» 36.
31
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 31.
32
Ancora una volta le parole sono di O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 31.
33
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 73.
34
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 73. Prosegue l’Autore affermando che «il tipico schema della retroattività non potrebbe dirsi integrato nemmeno osservando il fenomeno dal punto di vista dell’atto complesso che, in quanto
pendente, non è ancora perfettamente compiuto e, pertanto, consente l’efficacia immediata dei “segmenti” della fattispecie complessa (pròtasi) che fungono esclusivamente da modelli legali per le attività future, mentre l’apòdosi rimane invariata, facendo
conseguire all’integrazione dell’atto complesso sempre il medesimo effetto».
35
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 24.
36
Così O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 25. L’Autore porta l’esempio della redazione della sentenza,
affermando che «l’attività di scrittura compiuta del giudice estensore rimane irrilevante fino a quando non è perfezionato lo
schema tipico previsto dall’art. 546 c.p.p.». «L’atto giuridico», infatti, «e in particolare quello processuale, si configura come
un’unità elementare non suscettibile di ulteriori frazionamenti, ancorché effettivamente corrispondente ad attività umane che presentano una certa complessità e occupano un sensibile periodo di tempo».
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CONCLUSIONI
Al cospetto della materia cautelare, il problema della rigorosa applicabilità del canone del tempus regit actum è chiamato a confrontarsi con due consistenti criticità.
In primis, il contenuto de libertate della materia in questione, che invocherebbe, al contrario, l’applicazione retroattiva dei nova legislativi di segno favorevole. Argomento, tuttavia, che la Suprema Corte
ritiene esulare dall’orbita della vicenda sottoposta al suo esame.
In secondo luogo, viene in rilievo il carattere dinamico e complesso della vicenda cautelare, alla quale difficilmente si attaglia l’applicazione rigida del tradizionale schema biunivoco – un atto, una norma
– che rappresenta, a sua volta, il fondamento del canone-guida della successione nel tempo di norme
processuali. Per dirlo con le parole di autorevole dottrina 37, laddove ci si trovi dianzi ad “atti processuali a carattere non istantaneo”, i quali rendono assai vivo il rischio della successione medio tempore di
regimi normativi diversi, diviene estremamente arduo discernere tra situazioni definitivamente consolidate e situazioni ancora in divenire.
Problematica, dunque, l’individuazione del tempus cui fare riferimento nonché, soprattutto, dell’atto
cui esso si rivolge.
«L’identificazione dell’actus con ogni singolo accadimento processuale giuridicamente rilevante risulta […] imposta […] dalla valutazione logica della struttura che connota le norme alle quali si applicano i principi intertemporali. […] Se la nuova normativa non si riferisce all’intero processo, bensì contiene solo i modelli di ben determinati atti e delle relative conseguenze, allora – dato che l’oggetto (mediato) dei principi intertemporali è il medesimo delle norme a cui gli stessi fanno riferimento – il concetto di actus deve essere rapportato allo stesso grado di “atomizzazione” che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione» 38.
Del resto, «in assenza di norme transitorie, non sempre è semplice distinguere quale legge applicare
nell’ipotesi di atti a formazione progressiva, ovvero, atti complessi che si frazionano in più unità».
L’interrogativo tuttavia «emerge quando la nuova disciplina interviene prima che la fattispecie complessa sia stata definitivamente realizzata e la mutazione normativa imponga condotte processuali incompatibili con le conseguenze derivanti dalle frazioni dell’atto già formate; in tal caso, la nuova disciplina, caduta sull’itinerario in via di formazione, dovrebbe condizionare a ritroso la sequenza causale,
dirottandone gli effetti nella prospettiva imposta dalla statuizione vigente» 39.
Ma non è questo, alla luce della ricostruzione fin qui svolta, il caso che occupa l’attenzione odierna
della Corte di Cassazione.
Il limite dell’argomentazione svolta pare, piuttosto, quello di aver invocato la soluzione (a tratti
oscura) escogitata dalla giurisprudenza sulla nozione di “pendenza in appello” del procedimento; «un
assunto» senz’altro «meritevole di ripensamento» 40.
37
Il riferimento è a E. Massari, Le dottrine generali del processo penale, Napoli, 1948, p. 511.
38
O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, cit., p. 121. L’Autore sottolinea pure come la soluzione invocata sia imposta dal dato normativo: a voler conservare la corrispondenza di significato tra la formula tempus regit actum e la regola ricavabile
dall’art. 11, comma 1, disp. prel., che essa mira a compendiare, occorre necessariamente ritenere applicabile quel principio, agli
effetti della successione delle leggi processuali penali, ai singoli atti o fatti processuali ed ai relativi effetti. Così contrastando la
diversa tesi che identifica il concetto di actus con i diversi stati, gradi o fasi del procedimento, unitariamente considerati, o
addirittura con l’intero processo, il quale, altrimenti «continuerebbe ad essere regolato sempre e soltanto dalle norme vigenti al
momento della sua instaurazione». Opinando in tal senso, infatti, l’effetto sarebbe quello di scalzare la regola dell’efficacia
immediata dello ius novum sostituendola con quella della efficacia differita. Nella stessa direzione di O. Mazza-G. Conso, La
«doppia pronuncia» sulle garanzie della difesa nell’istruzione sommaria: struttura ed efficacia, in Giur. cost., 1965, p. 1150; G. Lozzi,
Favor rei e processo penale, cit., p. 160; Id., La successione delle leggi processuali penali nel tempo e le disposizioni transitorie del nuovo
codice di procedura penale, in Id., Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1990, p. 75.
39
Così, A. Scalfati, Principi, cit., p. 64.
40
C. Gabrielli, Per le Sezioni Unite il processo pende in grado d’appello sin dalla lettura della sentenza di condanna: un assunto
meritevole di ripensamento, in Cass. pen., 2010, 5, p. 1750 ss.
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