LA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

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LA RISOLUZIONE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA IN ORDINE
AGLI STATI GENERALI SULL’ESECUZIONE PENALE DEL 6 APRILE 2016
“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri,
perché da esse si misura il grado di civiltà di una Nazione (Voltaire)”
“La liberazione non è la libertà: si esce dal carcere ma non dalla condanna (Victor Hugo)”
Il disegno di legge delega in materia di esecuzione penale
Il disegno di legge delega n. 2798, attualmente all’esame del Parlamento, all’art. 29 prevede la
delega al Governo “per la riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario per
l’effettività rieducativa della pena” e mira a dare attuazione ai principi del finalismo rieducativo e
dell’umanizzazione della pena sanciti dall’art. 27, comma 3, della Carta Costituzionale. La
Relazione accompagnatoria al disegno di legge delega richiama le contrapposte istanze che
convivono nel’attuale ordinamento penitenziario, tese a garantire, da un lato, la “rieducazione” e
“risocializzazione” del condannato, dall’altro, quella sicurezza sociale il cui perseguimento si è
incrementato negli ultimi decenni in virtù di una spinta punitiva tesa ad un sostanziale inasprimento
del sistema sanzionatorio, nella convinzione che il carcere continui a costituire l’unica efficace
risposta all’allarme sociale derivante dalla commissione del crimine. Il percorso normativo che si
intende affrontare muove, invece, dalla necessità di “ripensare la pena” partendo da una novellata
prospettiva culturale, scevra da quei pregiudizi che, nell’ottica della sicurezza, ostacolano il ricorso
a misure alternative alla detenzione in carcere e alla graduale reintegrazione del detenuto nel tessuto
sociale, attraverso strumenti che, oltre ad agevolare l’effettivo recupero del reo, nel contempo
consentano l’azzeramento della sua pericolosità sociale connessa al rischio di recidiva. Una sorta di
rivoluzione copernicana che, privilegiando le misure alternative, vuole approdare all’idea del
carcere quale extrema ratio, cui ricorrere quando ogni altra soluzione risulti inadeguata alla
salvaguardia di beni costituzionalmente protetti. Peraltro, anche laddove la detenzione in carcere sia
ineludibile, l’esecuzione penitenziaria deve attuarsi con modalità tali da consentire un trattamento
improntato ai canoni di umanità e di rieducazione per preparare il reo al rientro nella società. In
questa visione, la promozione di adeguati spazi e luoghi della pena, delocalizzandola per quanto
possibile, la creazione di un nuovo modello di carcere ove si valorizzino il ruolo e la professionalità
degli operatori che concorrono a gestire le fasi e i momenti del trattamento penitenziario e
l’attuazione in generale di un sistema penale che offra concrete opportunità per i condannati
nell’ottica della loro rieducazione, costituiscono alcuni dei molteplici obiettivi cui tendere nella
prospettiva di un’organica revisione del sistema dell’esecuzione penale, sia sul versante normativo
che sul versante amministrativo-organizzativo. Una iniziativa di riforma, questa, che si pone nel
solco della normativa adottata negli anni 2013 e 2014 per fronteggiare il sovraffollamento
carcerario e consentire all’Italia di allinearsi alla normativa europea.
Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale
Il processo normativo di attuazione della delega è accompagnato da un innovativo percorso di
riflessione “collettiva” all’interno degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Le linee di intervento
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promosse da tale articolato organismo hanno guardato a tutto tondo la realtà dell’esecuzione penale.
Il prezioso contributo fornito dai vari Tavoli di Lavoro, formati da individui con professionalità
diverse e portatori di esperienze peculiari nelle molteplici angolazioni di questa complessa realtà, ha
consentito l’esame dei punti nevralgici del sistema e l’individuazione degli obiettivi primari,
generando un patrimonio documentale di aspetti conoscitivi che, al di là della loro concreta
attuazione nel breve termine, rappresenta un substrato dal quale poter sempre attingere per riflettere,
analizzare, proporre e promuovere iniziative che possano contribuire nel tempo a cambiare la
percezione sociale del senso della pena, inducendo la collettività a guardare al carcere non come
luogo lontano dalla società civile, sospeso nello spazio e nel tempo, bensì quale parte della società
stessa, una realtà “aperta” che deve relazionarsi con il territorio al fine di favorire efficacemente il
reinserimento del detenuto già durante l’esecuzione della pena. I progressi stimolati dalla
giurisprudenza europea sono stati indirizzati, dunque, ad abbattere il muro che divide il carcere
dalla società e a “delocalizzare” sempre più la pena. Le finalità perseguite dagli Stati Generali
emergono con chiarezza dalla lettura dell’articolata relazione conclusiva e dal contenuto delle
riflessioni esternate dai soggetti istituzionali intervenuti a Roma nella convocazione indetta per le
giornate del 18 e 19 aprile 2016. In tale contesto, sono state individuate macroaree di intervento che
riguardano il riconoscimento del condannato come portatore di diritti (oltre che di doveri), la tutela
dei soggetti vulnerabili, la giustizia ripartiva e il recupero del ruolo della vittima del reato,
l’esecuzione penitenziaria, l’esecuzione esterna e misure alternative e, infine, l’organizzazione, il
personale e il volontariato (per valorizzare le diverse professionalità di coloro che operano
quotidianamente a contatto con i condannati), auspicandosi che le iniziative di reinserimento
prevedano il coinvolgimento di un’ampia platea di soggetti istituzionali affinché si diffonda
nell’opinione pubblica una visione dell’esecuzione penale che sia incentrata sulla finalità
rieducativa della pena e sul recupero del condannato, quale soggetto di diritti costituzionalmente
protetti. L’obiettivo preminente della riforma dell’esecuzione penale e la sfida che coinvolge i
diversi protagonisti del confronto è superare l’apparente ma ancora radicato ossimoro sicurezzareinserimento sociale, stabilendo la “residualità” del carcere e contribuendo a dare a ciascun
detenuto gli strumenti per avviare un percorso di “liberazione” dalla condanna prima ancora di
essere libero, offrendogli opportunità concrete di reinserimento sociale, nell’amara constatazione
che “la liberazione non è la libertà: si esce dal carcere ma non dalla condanna”. Del resto, il
principio di uguaglianza sostanziale impone la rimozione degli ostacoli che impediscano il pieno
sviluppo della personalità umana in condizioni di uguaglianza e il pensiero, allora, va rivolto alle
donne e alle madri che si trovano all’interno di un carcere modellato per gli uomini, al diritto dei
detenuti a mantenere legami con la famiglia e gli affetti, che vanno tutelati con la previsione di
appositi spazi di incontro e intimità, alla specificità di alcune categorie di detenuti (stranieri, rom,
transessuali) che rischiano di restare isolati anche nel mondo intramurario, al ruolo della giustizia
riparativa. E’ stato efficacemente affermato, nel corso delle giornate romane di convocazione degli
Stati Generali, che tutta la società è responsabile della tensione alla rieducazione quale finalità della
pena e che la rieducazione, intesa come aspirazione ad offrire una seconda occasione “educativa”,
rappresenta un valore certo per ogni comunità democratica e sicura, perché solo un reale recupero
sociale può aiutare a sconfiggere la recidiva e a garantire la sicurezza, facendo uscire dal carcere
“persone migliori di quelle che sono entrate”. Il carcere va identificato come un luogo di diritti oltre
che di doveri, come un luogo di opportunità, funzionale per il reo ad una responsabile ed autonoma
riappropriazione della propria personalità, ad un reinserimento sociale dopo la ferita causata dalla
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commissione del reato, laddove egli desideri intraprendere “il cammino di rientro nella comunità
sociale”. Solo così si offre realmente l’opportunità e la speranza di diventare migliori.
La Risoluzione del C.S.M. del 6 aprile 2016
La “Risoluzione in ordine agli Stati Generali sulla Esecuzione Penale” del 6 aprile 2016 si colloca
nel solco già tracciato di un consolidato e fecondo dialogo tra il Consiglio Superiore della
Magistratura e il Governo-Parlamento, nel rispetto delle prerogative di ciascun soggetto
istituzionale, per attuare riforme normative in materia di giustizia. Nel citato documento, l’organo di
autogoverno della Magistratura segnala le diffuse corrispondenze tra le proposte elaborate nei
diversi Tavoli di Lavoro e le pluriennali riflessioni consiliari sul tema dell’esecuzione penale,
corrispondenze certamente riconducibili alla comune matrice culturale ispirata dai principi della
nostra carta costituzionale. Del resto il tema della pena e dell’esecuzione penale è sempre stato
centrale nelle iniziative dell’organo consiliare, tese da molti anni a elaborare importanti proposte di
modifica normativa, nel leale confronto istituzionale con gli organi politici, per quanto concerne la
formazione e l’organizzazione degli uffici di sorveglianza, le problematiche connesse alla loro
funzionalità, alla esecuzione della pena e alla tutela dei diritti dei detenuti e degli internati. Negli
ultimi quindici anni, il C.S.M., avvertendo la centralità della questione penitenziaria, ha promosso
sia iniziative volte a stimolare il ministro della giustizia al fine di pervenire a condivise modifiche
normative sia iniziative volte ad una efficace ed efficiente riorganizzazione degli uffici che si
occupano di esecuzione penale. Al riguardo, si citano i lavori della Commissione di studio sulla
pena e le sue alternative, la cui relazione finale venne approvata dal C.S.M. con delibera del 27
luglio 2006, nonché i lavori della Commissione mista per lo studio dei problemi della Magistratura
di Sorveglianza, istituita in più occasioni sin dal 1986 e ricostituita, da ultimo, con la risoluzione del
26 luglio 2010, le cui proposte sono state fatte proprie dal C.S.M. con le delibere del 2 luglio 2003 e
del 21 novembre 2012 e riprese dagli ultimi interventi normativi del legislatore del governo.
L’organo consiliare della magistratura, con delibera dell’11 novembre 2015 ad integrazione del
parere reso il 20 maggio 2015, aveva, invero, già esaminato i criteri direttivi della “delega
penitenziaria” n. 2798, fornendo il suo contributo alla discussione parlamentare nell’ambito di una
sostanziale condivisione delle proposte ivi contenute. Con riferimento ai temi in discussione,
l’organo consiliare, da tempo consapevole della necessità di porre al centro dell’azione politicoistituzionale un’iniziativa riformatrice in grado di fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento
carcerario con i gravi riflessi in termini di mancato rispetto dei diritti fondamentali delle persone
detenute, ha aderito più volte, in ottica di confronto e collaborazione istituzionale, all’invito a
fornire il suo contributo qualificato di analisi e proposta, in primo luogo con i pareri resi ai sensi
dell’art. 10 della Legge n. 195/1958 sui disegni di legge concernenti le materie in esame.
All’unisono voci qualificate si erano levate anche del panorama costituzionale per rivolgere al
legislatore e al governo l’auspicio di iniziative tempestive anche alla luce della sentenza della
CEDU dell’8 gennaio 2013 sul ravvisato conflitto tra il principio del rispetto della dignità umana e
le degradanti condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari italiani. Proprio su tale scia
sono state introdotte significative novità incidenti sulle misure cautelari personali e sull’esecuzione
penale (contenute nel DL 78/2013 conv. in Legge 94/2013 e nel DL 146/2013 conv. in Legge n.
10/2014), dirette a limitare l’ingresso al carcere e, specularmente, a favorire l’uscita da esso. Si
pensi alle modifiche in materia di custodia cautelare, all’ampliamento delle possibilità di accesso
alle misure alternative, all’introduzione della liberazione anticipata speciale, alla possibilità di
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scontare presso il proprio domicilio la pena detentiva (anche residua) non superiore a 18 mesi,
all’espulsione dal territorio italiano come sanzione alternativa alla detenzione per consentire il
rimpatrio dei numerosissimi detenuti stranieri. Con il DL n. 92/2014 conv. in Legge 117/2014 sono
stati introdotti, infine, rimedi preventivi e compensativi alla lesione di diritti dei detenuti (art. 35 bis
Ord. Pen.). Il risultato complessivo dei diversi interventi “emergenziali” è stato quello di consentire
una drastica riduzione del numero dei detenuti anche in custodia cautelare e un significativo
aumento delle persone sottoposte alle misure alternative alla detenzione.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella Risoluzione adottata il 6 aprile 2016, ribadisce il
suo apprezzamento per la metodologia “innovativa” della convocazione degli Stati Generali. Ed
infatti, colpisce positivamente la grande mobilitazione culturale che si è realizzata per affrontare un
tema caratterizzato da evidente poliedricità. Il contributo di professionalità e le esperienze
appartenenti a mondi diversi si sono incontrate e intersecate nell’unico tema dell’esecuzione penale.
Approcci e mentalità diverse, ma proprio per questo capaci di offrire un ampio confronto di idee
caratterizzate dalla visione, da punti di vista differenti, di uno stesso problema. Una “feconda
elaborazione dal basso”, così si esprime l’organo consiliare, conscio che la preziosa scelta
metodologica è idonea a garantire un confronto di idee connotato da spiccato pluralismo, affinché
nulla venga tralasciato, almeno in sede di analisi e discussione. Infatti, al di là delle differenze e
della fattibilità di talune proposte, il dato univoco è la comune aspirazione a contemperare la tutela
di beni giuridici significativi con il reinserimento sociale del condannato. E così, se da un lato il
Consiglio Superiore della Magistratura riafferma il “principio di stretta necessità” del ricorso alla
pena, dall’altro auspica l’affrancamento dal “carcerocentrismo” in favore di forme sanzionatorie di
comunità e di natura flessibile. Pur riconoscendo, infatti, che il carcere costituisce uno strumento
ineludibile di risposta sanzionatoria per la sicurezza della società, va riconosciuta una sua
progressiva residualità in relazione alla specifica necessità di proteggere efficacemente beni
costituzionalmente significativi e non altrimenti tutelabili.
Il C.S.M. individua quattro direttrici tematiche dal contenuto delle proposte offerte dai Tavoli di
Lavoro evidenziando un’ampia corrispondenza con i risultati compendiati nel documento finale
redatto successivamente dagli Stati Generali. Le macroaree riguardano la riforma del sistema
sanzionatorio, un nuovo modello di carcere, il disagio in carcere e l’amministrazione penitenziaria.
In tale ambito, la riforma del sistema sanzionatorio costituisce un tema in ordine al quale l’organo
consiliare aveva interloquito più volte, sottolineando l’esigenza di una riforma del codice penale del
1930 che riducesse l’area della penalità alla luce del principio di offensività di beni
costituzionalmente protetti e superasse la centralità del carcere in favore di strumenti alternativi, sia
per contrastare il fenomeno del sovraffollamento penitenziario sia per individuare percorsi di
riabilitazione. Il C.S.M., consapevole della fallacia del binomio “più carcere uguale più sicurezza”,
come dimostrato dai dati statistici rilevabili dal panorama nazionale e internazionale in termini di
abbassamento dei livelli di recidiva per i condannati ammessi alle misure alternative, già con la
delibera del 21 novembre 2012 aveva ribadito la necessità di una rimodulazione delle misure
alternative nell’auspicio di una riforma normativa che eliminasse le preclusioni ispirate dalla
normativa emergenziale e che, rispettosa della finalità rieducativa della pena, ripudiasse un sistema
di esecuzione penale basato esclusivamente, nell’individuazione dei percorsi trattamentali, sul “tipo
di autore” in base del reato commesso. In una sostanziale condivisione di intenti con le riflessioni
degli Stati Generali, il C.S.M. evidenzia l’approfondita ricognizione effettuata dal Tavolo 14 in
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tema di esecuzione penale, esperienze comparative e regole internazionali, laddove i dati
provenienti dagli ordinamenti di tanti Paesi Europei mostrano che l’innalzamento dei livelli di
sicurezza contro la criminalità dipende, in larga misura, da interventi di tipo “inclusivo”, volti a
garantire al condannato il mantenimento dei legami con l’esterno. Il monito dell’organo consiliare è
solo quello di adottare strumenti che incentivino una reale opportunità risocializzante al fine di
evitare gli effetti pregiudizievoli derivanti da mere misure di tipo prescrittivo che importino una
rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà sanzionatoria e, dunque, una pericolosa attenuazione
della funzione general-preventiva della pena. Occorre, quindi, incentivare l’utilizzo di misure di
comunità le quali, per contenuti, organizzazione, meccanismi di accesso e monitoraggio
costituiscano un’efficace risposta sanzionatoria alternativa al carcere, nel contempo idonea a
garantire il progressivo reinserimento del reo nel tessuto sociale. La riforma del codice penale
dovrebbe riguardare anche una più ampia revisione “a monte” delle pene principali, ampliando
l’ambito di pene di tipo non detentivo, proseguendo sulla direttrice tracciata dalla Legge n. 67 del
28 aprile 2014 in materia di messa alla prova. Ancora, sempre in ambito di riforma, si apprezzano le
proposte che mirano a promuovere modelli di giustizia ripartiva orientati alla vittima o alla società
attraverso strumenti che elidano o attenuino le conseguenze del reato, anche attraverso la
realizzazione di forme di risarcimento diretto e di riparazioni indirette che prevedano il
coinvolgimento di enti o associazioni (si pensi ad esempio alle restituzioni in favore della vittima o
ai lavori di pubblica utilità e di volontariato in favore della collettività). Opportuno, a giudizio
dell’organo consiliare, anche un intervento di modifica del doppio binario previsto per le pene e le
misure di sicurezza, attraverso l’applicazione delle seconde solamente in presenza di reati di
rilevante gravità e nei casi in cui sussista il concreto pericolo della commissione di ulteriori gravi
violazioni della legge penale. In tal modo, in prima battuta, si applicherebbe la misura della libertà
vigilata con prescrizioni ricorrendo a misure contenitive unicamente qualora la prima si rivelasse
inadeguata a seguito della reiterata violazione delle prescrizioni, seguendo un iter progressivo
culminante in contenuti di tipo detentivo stricto sensu. Ci si è soffermati infine, sulle misure
giudiziarie di cura e controllo per i pazienti psichiatrici giudiziari, per i quali si pone la preminente
necessità di provvedere ai bisogni terapeutici e si propone una dettagliata riforma delle principali
norme in materia distinguendosi tre aree trattamentali del paziente psichiatrico in base alla gravità
del reato commesso.
Per chi si confronta ogni giorno con la normativa attuale sull’accesso alle misure alternative alla
detenzione, risulta preminente la necessità di operare una revisione dei presupposti soggettivi ed
oggettivi al fine di facilitarne il ricorso e superare le attuali discrasie generate dal susseguirsi
frammentario di interventi normativi dettati dall’esigenza di evitare il sovraffollamento carcerario e
le conseguenti condanne della Corte Europea. Ci si riferisce, in particolare alla necessità di
coordinare le nuove ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell’art. 47 comma 3
bis Ord. Pen. (che oggi prevede l’applicazione di tale istituto, in presenza dei presupposti, fino al
limite di quattro anni di pena anche residua) e i meccanismi generali di sospensione dell’ordine di
carcerazione ex art. 656 comma 5 c.p.p., il quale, invece, prevede, salvo eccezioni tassativamente
indicate, la sospensione soltanto fino a tre anni di pena. In tal modo si potrà usufruire, fin dallo stato
di libertà, dell’affidamento in prova, senza che il PM debba emettere un ordine di esecuzione senza
sospensione qualora la pena superi i tre anni e sia inferiore o pari a quattro anni. E’condivisa
dall’organo consiliare, dunque, la previsione di un innalzamento di pena fino a quattro anni per la
sospensione, mantenendo nondimeno un regime più restrittivo per i casi di eccezionale gravità e
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pericolosità, quali le condanna per delitti di mafia e terrorismo nazionale e internazionale e per reati
ostativi. Sulla stessa direttrice il limite generale di quattro anni di pena (anche residua) potrebbe
consentire al Tribunale di Sorveglianza di poter scegliere tra un ampio ventaglio di misure
alternative, ricorrendo ad esempio alla semilibertà qualora la misura della detenzione domiciliare
non possa essere concessa per mancanza di un domicilio idoneo. Ferma resta l’utilità dell’art. 41 bis
Ord. Pen. nella lotta alla criminalità organizzata, dato che l’interesse prevalente è quello di impedire
che il detenuto mantenga contatti con l’associazione criminale di provenienza. Ma dove questa
funzionalità non esiste, ogni restrizione all’esercizio di diritti avrebbe una valenza afflittiva
incompatibile con la funzione rieducativa della pena. In tale ottica, sono giudicate positivamente le
proposte di aumentare la durata dei colloqui visivi e telefonici e la permanenza all’esterno della
camera. Condivisa, inoltre, è la proposta di eliminare quegli automatismi e preclusioni che
impediscano o rendano difficile per i recidivi e tipi di autore il trattamento rieducativo così come
condivisa è anche l’idea di una riflessione sulle attuali preclusioni ai benefici penitenziari per i
condannati all’ergastolo, i quali attualmente sono esclusi da qualunque beneficio se non hanno
collaborato volontariamente con la giustizia e ciò pare contrastare anche con in principi della
giurisprudenza europea secondo cui una pena perpetua e sempre uguale annienta il diritto alla
speranza. Strumenti di recupero potrebbero ammettersi qualora venga raggiunta la prova positiva
della dissociazione. Auspicabile la previsione di un ampliamento della sfera di applicazione della
detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 bis ai detenuti per reati di cui all’art. 4 bis (reati
ostativi), salvo per i condannati di cui al comma 1 (reati di criminalità organizzata) per i quali, nel
bilanciamento di interessi, è prevalente l’esigenza di protezione di beni costituzionalmente rilevanti
messi in pericolo dalla organizzazioni criminali nazionali e transnazionali. In ordine alle altre
direttrici individuate nella Risoluzione del C.S.M. dall’analisi delle proposte dei Tavoli di Lavoro,
si evidenzia un giudizio complessivamente positivo sulla strada intrapresa attesa la coincidenza con
quanto affermato in più occasioni in precedenti risoluzioni dell’organo di autogoverno della
Magistratura. Le indicazioni del C.S.M. sulla realizzazione di un “nuovo modello di carcere” quale
luogo in cui attuare un progressivo recupero sociale del detenuto attraverso norme che “riscrivano la
quotidianità della vita in carcere non più come passiva e rassegnata attesa di un tempo (in)definito
da trascorrere nell’ozio, quanto piuttosto come reale opportunità di un processo di
responsabilizzazione e di reinserimento…” connotato da effettive attività di lavoro e di studio e da
contatti con il mondo esterno soprattutto con la famiglia attraverso colloqui visivi e comunicazioni
telefoniche più frequenti (cfr. delibera C.S.M. in data 11 novembre 2015) trovano approdo nei
lavori del Tavolo 1 (Spazio della pena: architettura e carcere), del Tavolo 2 (Vita detentiva.
Responsabilizzazione del detenuto), del Tavolo 9 (Istruzione, cultura e sport), del Tavolo 8 (Lavoro
e formazione), del Tavolo 6 (Mondo degli affetti e territorializzazione della pena) nella comune
consapevolezza che l’apertura all’esterno aumenta i livelli di sicurezza, anche grazie a percorsi
individuali trattamentali dei detenuti che passano attraverso forme concrete di assistenza nel loro
reinserimento lavorativo una volta rimessi in libertà e grazie al riconoscimento del diritto
all’affettività. Per quanto concerne il tema del “disagio in carcere”, le riflessioni consiliari (cfr.
delibera 11 novembre 2015 e relazione 2012 della Commissione mista) hanno trovato eco nei lavori
del Tavolo 4 (Minorità sociale, vulnerabilità, dipendenze), del Tavolo 10 (Salute e disagio psichico)
e del Tavolo 7 (Stranieri ed esecuzione penale), nella comune presa di coscienza che la detenzione
costituisce elemento di disgregazione, rompe i legami sociali e familiari degenerando a volte in vere
patologie fisiche e psichiche. Si avverte la necessità di elaborare, attraverso processi condivisi, la
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diffusione di istituti di custodia attenuata per le madri e i padri assegnatari di figli minori, nonché la
diffusione di buone prassi consolidando la presenza di mediatori culturali per i detenuti stranieri.
Per i soggetti vulnerabili si auspica un ampliamento delle possibilità di accesso alle misure
alternative alla detenzione in carcere, come ad esempio per i soggetti affetti da dipendenza da
sostanze, in relazione ai quali il C.S.M. auspica la possibilità di accedere all’affidamento in casi
particolari prescindendo dall’allegazione del programma terapeutico e il superamento del divieto
della reiterata concessione della sospensione della pena ai sensi dell’art. 90 DPR 309/90.
Conclusioni
Una comunione di intenti e di pensiero, al di là della naturale diversità di approccio derivante dalla
diversità delle funzioni e dei ruoli istituzionali svolti, unisce gli Stati Generali e C.S.M, nella
convinzione che ogni ferita inferta ai diritti inviolabili del reo che non derivi da restrizioni
strettamente indispensabili per la sicurezza della collettività, ne mortifica la dignità e preclude in
radice la possibile funzione rieducativa della pena. Nessuna situazione soggettiva e nessun tipo di
reato dovrebbe costituire un ostacolo ad opportunità di recupero sociale poiché sono inaccettabili
presunzioni legali di irrecuperabilità sociale. Certamente possono e debbono prevedersi presupposti
rigorosi per l’accesso alle misure alternative al carcere in ragione della natura del reato e della pena
inflitta, ma il diniego non può dipendere semplicemente dal titolo del reato anziché dalla condotta e
il percorso va, dunque, modellato sull’uomo, sulla sua evoluzione psicologica e comportamentale
durante l’espiazione della pena. La pena “deve tendere alla rieducazione del condannato” e questa
tensione è il nucleo attorno al quale costruire un nuovo modello di pena. La rieducazione del reo
non è un risultato sicuro, ma neppure impossibile da raggiungere, ed è compito di ogni comunità
democratica favorire questa tensione, intesa come spinta al reinserimento e alla possibilità di
redenzione per chi ha pagato il suo debito con la giustizia e tenta di riqualificarsi come uomo e
cittadino. Una tensione che dovrebbe tradursi, anche per un ergastolano, in un diritto alla speranza.
Consentire questa spinta significa dare piena attuazione al dettato dell’art. 27 della Costituzione
nella duplice funzione attribuita alla pena.
Roberta D’Avolio
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