Razionalità utopica e razionalità scientifica

Razionalità utopica e razionalità scientifica
Cosimo Quarta
Università del Salento (Italia)
Riassunto
Il mio intervento mira a dimostrare:
1. Che tra le due razionalità non v’è alcuna contrapposizione,
come pochi studiosi ritengono.
2. Che la contrapposizione utopia-scienza – che risale certo a Marx
ma che è stata ribadita fino ai nostri giorni sulla scia di Popper –
è priva di fondamento.
3. Che da un rapido sguardo sull’utopia letteraria – da Platone ad
Asimov, passando attraverso More, Bacone, Andreae, Saint-Simon,
Fourier, Verne, Wells – l’utopia, lungi dal contrapporsi alla scienza,
ne sollecita e stimola lo sviluppo.
Cosimo Quarta è docente di “Filosofia della storia” ed “Etica ambientale” presso la Facoltà
di Scienze della Formazione dell’Università del Salento; co-fondatore e direttore del Centro
Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia dello stesso Ateneo. Le sue ricerche si sono orientate,
fin dall’inizio, sul pensiero utopico (Per una definizione dell’utopia, Napoli 1971), affrontando
successivamente problemi di storia dell’utopia (Platone, Moro, Campanella, Andrete, Péguy) e
di rapporti tra utopia e ideale, ideologia, mito, escatologia, millenarismo, futurologia, scienza,
fantascienza, ecologia, rivoluzione, uguaglianza, pace, non-violenza. E’ autore di numerosi saggi
e volumi, tra cui si segnalano: L’utopia platonica (1985); Tommaso Moro. Una reinterpretazione
dell’“Utopia” 1991); Thomas More: Testimone della pace e della coscienza (1991). Tra i suoi lavori più
recenti: Homo utopicus (1996); Principio responsabilità versus principio speranza? (2001); L’utopia:
una storia di fraintendimenti (2002); Globalizzazione, giustizia, solidarietà (2004); Una nuova etica
per l’ambiente (2006).
Cosimo Quarta
1. Scienza versus utopia?
Onde evitare equivoci, mi preme notare preliminarmente che qui
il termine utopia è utilizzato per indicare sia il fatto letterario, (romanzo
utopico o progetto filosofico) sia il progetto storico (ossia l’istanza di una
società secondo giustizia che l’umanità ha tentato di perseguire, almeno
da quando si è storicamente attestata) sia, infine, uno dei caratteri specifici
dell’homo sapiens, dal momento che, come ho cercato di mostrare in altri
miei scritti, l’uomo si presenta originariamente come utopicus, ovvero come
un essere progettante.
Fatta questa doverosa premessa, entro subito in medias res. Intanto
è opportuno ricordare che uno dei caratteri fondamentali dell’utopia è la
razionalità. Il carattere razionale è costitutivo dell’utopia. La razionalità
utopica è anzitutto una razionalità progettante, in cui ha un ruolo
predominante l’immaginazione. Sotto questo aspetto, la razionalità utopica
è assai vicina alla razionalità scientifica, almeno nella sua fase incoativa, dove,
com’è noto, l’immaginazione ha un ruolo di prim’ordine. L’idea di una scienza
separata o contrapposta all’immaginazione è ancor oggi molto diffusa, ma è
fondamentalmente sbagliata, dal momento che essa non trova riscontro nella
realtà storica, come ben sanno i filosofi e gli storici della scienza (P. Rossi).
La separazione o la contrapposizione tra scienza e immaginazione veniva
spiegata, fino a tempi recenti, con l’applicazione del metodo matematico
alle scienze della natura. Ma questo, come dicevo, non ha alcun fondamento
storico, dal momento che gli scritti di gran parte dei padri della scienza
moderna (Galileo, Keplero, Cartesio, Newton ecc.) contengono “similitudini,
analogie, metafore, immagini di straordinaria efficacia”.
Qualcuno potrebbe pensare che l’uso delle metafore e delle immagini
negli scritti dei padri della scienza moderna fosse dovuto al fatto che,
essendo agli inizi, la scienza non aveva ancora un linguaggio rigoroso ed
era quindi costretta, per supplire a tale mancanza, alla forza delle immagini.
Ma anche questo non è corretto, perché il ricorso all’immaginazione è
legato strettamente alla nostra capacità di pensare, ossia alla nostra capacità
di collegare tra loro impressioni e idee che, lasciate a se stesse, rimarrebbero
separate e quindi insignificanti, inadatte a farci conoscere la realtà
(Einstein). Il “sapere per immagini”, dunque, non è, come comunemente
si crede, qualcosa che riguarda solo il Medioevo e il Rinascimento, ma è
proprio anche della scienza moderna, che oltre a procedere per “concetti” e
“astrazioni”, continua ad utilizzare anche immagini, espressioni metaforiche,
le quali costituiscono “una parte insostituibile del meccanismo linguistico
di una teoria scientifica”. E’ stato giustamente osservato che “ogni processo
inventivo si radica anche nell’immaginazione; si fonda su intuizioni,
metafore, analogie che costituiscono, parallelamente a concetti già enunciati,
una sorta di ‘poetica’ della scienza” (E. Klein).
Possiamo quindi affermare che scienza e utopia sono legate tra loro
dal fatto che entrambe sono razionalità progettanti, nel senso che entrambe
fanno ricorso all’immaginazione, anche se la scienza, al progetto, associa
immediatamente il calcolo, cioè la matematica. In altri termini, la razionalità
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Razionalità utopica e razionalità scientifica
scientifica, oltre che progettante è anche e forse soprattutto calcolante e, in
quanto tale, tende a trasformarsi in razionalità strumentale, cioè in tecnologia.
Con tutte le conseguenze che tale trasformazione può comportare sul piano
della prassi. La scienza moderna si configura, fin dal suo nascere, come
scienza-tecnologia, nel senso che il sapere, o meglio, la ricerca scientifica
non è più fine a se stessa, ordinata alla mera conoscenza, alla teoria, dal
momento che quasi sempre è intrapresa in ordine a produrre strumenti,
oggetti, merci ecc. La scienza moderna ricerca certamente il vero, ma lo fa,
quasi sempre, in funzione dell’utile. Dalle origini fino ai nostri giorni, nella
scienza moderna, teoria e pratica costituiscono due momenti “inseparabili”.
E a ciò non sono sfuggiti nemmeno i grandi geni del pensiero, come Galilei,
Bacone, Cartesio, Newton, Einstein. Non a caso oggi, l’imperativo della
tecnologia, “Puoi, quindi tu devi”, ha soppiantato l’imperativo etico kantiano:
“Devi, quindi tu puoi”. E le conseguenze di queste trasformazioni sono sotto
gli occhi di tutti, nel bene e nel male.
Per altro verso, la razionalità utopica (progettante) può trasformarsi,
degenerando, in razionalità totalizzante, cioè in distopia, ossia in un progetto
perverso di società. Com’è capitato, ad esempio, prima con la Rivoluzione
inglese (1640-1660), poi con la Rivoluzione francese e, infine, con la
Rivoluzione russa. In questi come in analoghi casi, l’utopia originaria si
è trasformata in distopia, cioè in ideologia, intesa quest’ultima come uso
distorto e falsificante dell’idea per fini di potere. Il non aver distinto in modo
chiaro il concetto di utopia da quello di distopia è alla base di molti equivoci,
tra cui spicca quello in cui è incorso uno dei più illustri epistemologi del XX
secolo e cioè Karl Popper. Questi, infatti, a partire dal suo famoso scritto
La società aperta e i suoi nemici, ha creduto di individuare nel pensiero utopico
la radice del totalitarismo e della violenza. E ciò perché, egli dice, il pensiero
utopico ha un carattere olistico, nel senso che mira a cambiare la realtà in
maniera radicale, totale; cioè Popper identifica la mentalità utopica con la
mentalità rivoluzionaria, che è, essa sì, la mentalittà del “tutto e subito”.
In altri termini, i difetti che Popper attribuisce alla mentalità utopica
(pianificazione rigida, controllo totale, incapacità di imparare dai propri
errori, indifferenza verso i singoli, livellamento sociale ecc. ), questi difetti,
dicevo, che Popper attribuisce all’utopia, sono invece propri della distopia.
Se si prendono in esame le utopie letterarie (su cui, per altro, Popper
fonda la sua virulenta critica all’utopia) non si fa fatica a scorgere come
in esse, quasi sempre, compaia un topos: quello dell’invio di delegati o
ambasciatori in altri Paesi, per vedere se altrove esistano istituzioni più sagge
e più giuste delle proprie. Il che vuol dire che gli utopisti non assolutizzano
le proprie istituzioni, ma adottano quelle misure che fino a quel momento
sembrano loro migliori, pronti a cambiarle, se l’esperienza offre loro altre
possibilità. Come si vede, gli utopisti mettono in conto la “falsificazione”,
ossia la possibilità che le istituzioni da loro proposte non siano le migliori
in assoluto, ma solo in senso relativo. Sotto questo aspetto si può dunque
dire che il metodo utopico non è poi così diverso dal metodo scientifico
(la comunità scientifica è pronta ad accettare un nuovo paradigma, se questo
riesce a spiegare meglio di quello vecchio i fenomeni considerati).
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Cosimo Quarta
Ma, prima ancora di Popper, il tentativo di contrapporre la
scienza all’utopia, lo troviamo già in Marx ed Engels e, soprattutto, nel
pensiero marxista “ortodosso”. L’utopia, per Marx (Miseria della filosofia),
ma soprattutto per Engels (Anti Dühring), è l’espressione di un pensiero
sociale non ancora giunto a maturità. Le utopie letterarie (anche qui il
riferimento è solo all’utopia letteraria) costituiscono lo sforzo di superare
la società ingiusta, in un periodo in cui l’analisi sociale non aveva raggiunto
la sua “scientificità”. Le utopie vengono qui considerate come proposte di
mutamento sociale che, data l’immaturità dei tempi, non erano in grado di
“trasformare il mondo”. E ciò perché gli strumenti del cambiamento sociale
non erano ancora ben visibili e, soprattutto, non erano dati dall’analisi
scientifica della realtà sociale, politica ed economica, ma erano tratti dal
“cervello” degli utopisti. Ora invece, pensavano Marx ed Engels, con lo
sviluppo del modo di produzione capitalistico e, soprattutto, con l’analisi
economico-sociale fornita dal materialismo storico e dialettico, ossia con
l’avvento del marxismo, l’utopia non aveva più ragion d’essere. E’ questa
l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, di cui parla Engels.
Il marxismo ortodosso, fin quasi ai nostri giorni, ha seguito
fedelmente la lezione di Engels, relegando l’utopia nel novero del pensiero
astratto o immaturo, se non addirittura nel novero della pura fantasticheria. Il
presunto socialismo scientifico prevalse così sul cosiddetto socialismo utopistico.
Un fenomeno carico di conseguenze storiche, su cui qui non è possibile
soffermarci. Anche se occorre dire che non sono mancati, all’interno del stesso
marxismo, autori, come ad esempio Kautsky e soprattutto Ernst Bloch, che
hanno riconosciuto all’utopia un valore in sé e non solo come precorritrice del
marxismo. Bloch, in particolare, nel suo Das Prinzip Hoffnung, ha dato un
contributo di prim’ordine non solo alla riconsiderazione del concetto marxista
di utopia, ma anche al pensiero utopico in generale, perché è proprio grazie a
lui, oltre che a Mannheim (Ideologie und Utopie) e Buber (Pfade in Utopia) che
l’utopia è uscita dall’ambito letterario per coinvolgere l’intera storia umana.
Utopia e scienza, dunque, lungi dall’essere due mondi in irriducibile
contrasto tra loro, come ritengono non solo Marx ed Engels, ma anche,
per altra via, lo stesso Popper, hanno invece in comune il carattere critico,
razionale e progettuale, poiché entrambe si fondano sulla capacità,
tipicamente umana, di immaginare e di intuire creativamente. E’ chiaro,
infatti, che senza pensiero creativo non ci sarebbe né utopia né scienza, che
sono mosse entrambe da profondi principi etici: l’utopia mira a costruire
una società secondo giustizia; la scienza, sul piano pratico, si propone di
venire incontro ai reali bisogni umani, i quali sono per loro natura poietici,
creativi e, quindi, mutevoli nello spazio e nel tempo, a differenza degli altri
esseri viventi, i cui bisogni, com’è noto, restano fissati per milioni di anni
2. La scienza nell’utopia letteraria
Vediamo ora di capire il ruolo della scienza all’interno dell’utopia
letteraria. Diciamo subito che la scienza, nell’utopia letteraria (almeno nei
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classici più significativi) ha avuto sempre un ruolo importante. Si pensi,
ad esempio, al ruolo che ha il sapere nella Repubblica di Platone. Qui,
certo, si tratta della scienza in senso lato, ossia del sapere filosofico che,
come sappiamo, nell’antichità includeva non solo le cosiddette “scienze dello
spirito”, ma anche le “scienze della natura”, oltre, beninteso, la matematica.
Com’è noto, nella Repubblica di Platone, il governo della polis spetta solo
ai “filosofi”, ossia a coloro che conoscono la realtà per averla faticosamente
studiata (un tirocinio che durava circa trent’anni).
Se passiamo ad analizzare l’utopia moderna, vediamo come
nell’Utopia di More, tutti i cittadini trascorrano le ore libere dal lavoro
manuale (che sono solo sei al giorno) alle attività intellettuali. E gli Utopiani
sono particolarmente attenti ad accettare e a far proprie tutte le invenzioni
che provengono anche da altri Paesi, se queste giovano alla crescita morale,
civile ed economica della popolazione. Gli Utopiani, esercitandosi negli
studi scientifici, hanno “possibilità straordinarie di scoprire tecniche
applicate alla comodità e all’economia della vita”. In Utopia, la curiosità,
o meglio, l’indagine scientifica è vista alla stregua di un atteggiamento
religioso, poiché è Dio stesso che ha donato all’uomo la ragione per capire
la bellezza e la grandezza del creato. Al tempo stesso, come si diceva,
in Utopia la scienza è considerata anche per i suoi risvolti pratici, ossia come
un potente strumento per la costruzione di una società virtuosa e felice.
Anche ne La Città del Sole di Campanella, la scienza ha un ruolo
importante. Basti pensare che tra i tre Principi collaboratori del reggitore
supremo (che nella loro lingua si chiama Sole), vi è appunto Sin (o Sapienza),
il quale “ha cura di tutte le scienze e delli dottori e magistrati dell’arti
liberali e meccaniche e tiene sotto a sé tanti offiziali quante sono le scienze
(l’astrologo, il cosmografo, il geometra, il loico, il rettorico, il grammatico,
il medico, il fisico, il politico, il morale)”. E questo magistrato (cioè Sin)
“tiene un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il
popolo ad usanza dei Pitagorici”. E più oltre: “I Solari laudano Tolomeo
e ammirano Copernico, ma “sono nemici di Aristotele”, che accusano di
pedanteria. Qui è il caso di ricordare che la polemica di Campanella non
è tanto contro Aristotele, quanto contro gli Aristotelici del suo tempo che,
nel nome del maestro, impedivano alle scienze di progredire.
Nella Città de Sole, le scienze vengono insegnate a tutti i fanciulli,
i quali poi si specializzeranno in quella disciplina per cui si sentono più
portati. E tutti gli uomini di scienza, “tutti gli inventori” vengono onorati e
rispettati e la loro effigie compare nel sesto girone delle mura.
Nella Nuova Atlantide di Bacone, la scienza occupa un ruolo
addirittura centrale. La Nuova Atlantide è una città fondata sulla scienza
e sulla tecnica. Parlando della “Casa di Salomone”, che può considerarsi
come una vera e propria cittadella della ricerca scientifica, Bacone dice
che il fine di tale istituzione “è la conoscenza delle cause e dei segreti
movimenti delle cose, allo scopo di allargare i confini del potere umano
verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo”. Anche nella Nuova
Atlantide, come già nell’Utopia di More e nella Città del Sole di Campanella,
gli scienziati illustri, o meglio, gli inventori importanti vengono gratificati
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economicamente e onorati con statue e monumenti. Con Bacone, la scienza
si sta già trasformando in tecnologia. Dal passo sopra riportato emerge con
chiarezza che la scienza (la “conoscenza delle cause”) non è fine a se stessa,
ma è volta a “realizzare ogni possibile obiettivo”. Cioè la scienza ha scopi
immediatamente pratici.
Non è un caso, infatti, se nell’edizione della Nuova Atlantide del
1627 comparve un’appendice dal titolo assai significativo: Magnalia naturae
praecipue quoad usus humanus (“Le grandi opere della natura soprattutto a
vantaggio degli uomini”). E in questa appendice compaiono, tra l’altro:
1. prolungamento della vita;
2. parziale restituzione della giovinezza;
3. ritardare la vecchiaia;
4. cura delle malattie ritenute incurabili;
5. mitigare la sofferenza;
6. modificazione della statura e degli aspetti somatici;
7. accrescimento delle facoltà intellettive;
8. fabbricazione di nuove specie;
9. trapianto di una specie in un’altra;
10. strumenti di distruzione, come armi e veleni;
11. modi di rasserenare gli spiriti;
12. accelerazione del tempo nei processi di maturazione,
di putrefazione, di germinazione;
13. modificazione dell’atmosfera e provocazione di tempeste;
14. fabbricazione di nuove fibre per l’abbigliamento;
15. minerali e cementi artificiali.
Come si vede, questo elenco baconiano sembra il programma di
lavoro che gli scienziati, lungo i secoli della modernità, avrebbero seguito
e, in parte, realizzato. In Bacone, il contributo che l’utopia ha dato allo
sviluppo della scienza è evidente. Non è un caso se, di lì a qualche decennio,
cominciano a formarsi club di studiosi e scienziati che metteranno capo,
nel 1660, alla Royal Society, la società scientifica inglese, che tanto lustro
avrebbe dato alla ricerca scientifica fino ai nostri giorni.
Ma la scienza occupa un ruolo di primo piano anche in un altro testo
di questo periodo: Christianopolis di Johann Valentin Andreae, pubblicata in
Germania nel 1619. L’entusiasmo per la cultura e la scienza traspare dal fatto
che a Cristianopoli si studiano tutte le scienze in laboratori adeguatamente
attrezzati: si hanno così scuole in cui si insegnano discipline come la
retorica, la dialettica, la metafisica, la teosofia, l’astrologia, la politica, la
teologia, la storia, l’etica, le arti. Ma l’aspetto più interessante della proposta
di Andreae è costituito dai “laboratori” dedicati alle scienze: uno è dedicato
alla scienza chimica, definita come “scrupolosissima levatrice della natura”;
un altro alla fisica, che costituisce la struttura didattica fondamentale per
l’apprendimento delle scienze naturali; un altro ancora alla matematica, la
quale aiuta l’uomo a liberare il suo ingegno dalle “catene mortali”; grande
spazio è dato alla farmacia e alla medicina, con i suoi diversi laboratori di
anatomia, chirurgia ecc.
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In Andreae, la scienza ha soprattutto un valore conoscitivo, anche
se le applicazioni tecnologiche non vengono trascurate, a condizione che
esse non creino squilibri a livello di natura. Andreae invita l’uomo non a
sfruttare, ma ad amare la natura, in quanto creatura di Dio. Su questo punto,
la sua attualità è davvero sconcertante, se solo lo si paragona a Bacone che,
proprio in quegli anni, incitava gli uomini “a intraprendere la crociata contro
la natura”. (Su questo argomento si veda il mio saggio Sul progetto utopico di
J. V. Andreae, in “Idee”, I (1986) n. 1, pp. 77-100).
Ma non meno importante è il ruolo che viene assegnato alla scienza nei
progetti utopici dei secoli successivi: non tanto, bisogna riconoscerlo, nell’età
dei Lumi, della ragione tutta dispiegata, ossia in quel secolo diciottesimo,
che pure viene considerato come “l’età dell’oro dell’utopia” (Trousson), in
cui, però, gran parte degli scritti utopici, tranne poche eccezioni, dedicano
alla scienza uno spazio piuttosto scarso, quando addirittura non la ignorano.
Non così accade invece nei progetti utopici dei secoli diciannovesimo e
ventesimo, dove la scienza torna ad occupare un ruolo centrale, di primo
piano. Qui basterà portare solo qualche esempio, per convincersene.
Assai significativo è, a questo proposito, il ruolo che Saint-Simon
assegna alla scienza e agli scienziati nel suo Sistema industriale. Com’è noto,
all’interno del suo progetto politico, egli assegna a quelli che definisce i
“pratici”, ossia alla classe dei “produttori” (coltivatori, fabbricanti, negozianti
e banchieri), il difficile compito di governare lo stato, lasciando fuori gli
scienziati. Ma di fronte all’obiezione che in tal modo si finirebbe col dare
“la superiorità del materiale sullo spirituale”, subordinando “la teoria alla
pratica”, egli non ha difficoltà a rispondere che tale obiezione è priva di
fondamento, perché, nel suo sistema industriale, la scienza e gli scienziati
(fisici, chimici, fisiologi, matematici astronomi ecc. ) – hanno un ruolo di
primo piano, dal momento che spetta a loro il non meno difficile compito
di perfezionare “tutti i procedimenti generali usati nell’agricoltura, nelle
industrie di ogni genere, nel commercio come nelle banche”. In altri
termini, Saint-Simon è convinto che le “scoperte fatte nelle scienze fisiche
e matematiche procurino, sotto il regime industriale, il primo grado
di considerazione, poiché esse hanno la maggior utilità generale per la
prosperità dell’agricoltura, così come dell’industria e del commercio”.
Se gli scienziati vengono esclusi dal compito di amministrare gli “interessi
generali della nazione”, ciò è dovuto, dice Saint-Simon, al fatto che
“i teorici vivono quasi tutti della rendita di cariche delle quali il governo
dispone”, cioè perché erano soggetti al governo allora al potere (che tutelava
gli interessi della nobiltà, del clero e dei giuristi) e quindi, dipendendo
economicamente da queste classi, non erano in grado di contrapporsi e di
esautorarle, come invece potevano fare i “pratici”, che disponevano di propri
“mezzi di sussistenza”.
Ma, al di là di questa discutibile concezione economicistica della
libertà, o meglio, dell’indipendenza, non v’è dubbio che nel progetto utopico
di Saint-Simon, gli uomini di scienza sono tenuti in grande considerazione.
Ai “teorici”, o “scienziati positivi”, è affidato anzitutto il delicatissimo e
importante ruolo di “organizzare l’istruzione nazionale, in modo tale che i
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Cosimo Quarta
bambini di tutte le classi imparino, nel minor tempo possibile, ciò che loro
è più utile sapere, per loro stessi e per la società”. A loro, inoltre, è affidato
il compito di far progredire, mediante la ricerca scientifica e tecnologica,
il benessere della nazione. Saint-Simon sottolinea, a questo proposito, che i
progetti per innovare le tecniche in campo agricolo, industriale, commerciale
e bancario sono già pronti, e che non vengono resi pubblici, solo perché sono
in contrasto con gli interessi delle classi che ancora detengono ingiustamente
il potere politico (ossia, la nobiltà, il clero e l’ordine giudiziario).
Donde l’urgenza di cambiare il vecchio sistema di governo, attraverso
l’elaborazione e la diffusione di una “una nuova dottrina”, ossia di un nuovo
sistema di valori, fondato non più “su delle credenze” - come accadeva con
l’antica dottrina -, ma sulla scienza, la quale soltanto è in grado di dimostrare
“che tutto ciò che è utile alla specie è utile agli individui e reciprocamente
tutto ciò che è utile all’individuo lo è anche alla specie”. Solo se si adotta
un tale “codice morale” è possibile costruire una società più giusta, in cui il
governo tuteli non più solo gli interessi di pochi privilegiati, ma quelli della
“maggioranza” dei cittadini.
Come si vede, la scienza, per Saint-Simon, non era solo “teoria”,
conoscenza pura, contemplazione, ma aveva il compito di gettare le basi per
la trasformazione della società. Ed è questa la ragione per cui egli muove
una critica severissima agli “Enciclopedisti”, i quali ebbero il grave torto
di dare molto più spazio alle arti e alla letteratura invece che alla scienza.
Non Diderot (cioè un letterato), ma d’Alembert (che era uno scienziato)
avrebbe dovuto dirigere l’Enciclopedia. Se così fosse accaduto, dice SaintSimon, d’Alembert si sarebbe circondato di collaboratori provenienti
dall’Accademia delle scienze, i quali “avrebbero applicato a questo lavoro il
metodo che usavano giornalmente nelle scienze positive che coltivavano”.
Non solo, ma avrebbero anche “tracciato il cammino da seguire e i mezzi da
usare per operare la transizione dal regime teologico, feudale e giudiziario
al regime industriale; in questo modo, la Rivoluzione sarebbe stata fatta
senza danno maggiore”, ossia “non si sarebbe versato sangue e le riforme
sarebbero avvenute con saggia lentezza”. Invece, prosegue Saint-Simon,
gli Enciclopedisti, sotto questo aspetto, “hanno agito da veri stolti”, in quanto
“hanno screditato il clero, la nobiltà e l’ordine giudiziario, senza preoccuparsi
di indicare le istituzioni che dovevano sostituire quelle contro le quali essi
dirigevano l’opinione pubblica; hanno esasperato il popolo contro i preti,
contro i nobili e contro i giudici, presentando questi funzionari pubblici
come coloro che avevano, in tutte le epoche, ritardato i progressi dello
spirito umano, il che è assolutamente falso […]. In una parola - conclude
Saint-Simon – si deve attribuire principalmente alla direzione errata degli
Enciclopedisti, nei loro lavori, l’insurrezione scoppiata nel 1789, come pure
il carattere sanguinario preso dalla Rivoluzione fin dalla sua origine”.
In questa dura requisitoria contro gli Enciclopedisti, Saint-Simon,
oltre a sottolineare i limiti del pensiero storico dell’illuminismo francese
- che aveva screditato gli “antichi” o, comunque, il “passato” come un’età
avversa ai lumi della ragione e, quindi, al progresso – egli mette in evidenza
la pericolosità sociale dell’ideologia dei Lumi che, attraverso la sua critica
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radicale all’“antico regime”, generò non solo la Rivoluzione, ma anche la
violenza rivoluzionaria. Gli Enciclopedisti (in prevalenza artisti e letterati)
svolsero una funzione critica, ma furono incapaci di indicare gli strumenti del
cambiamento sociale, cioè furono incapaci di progettazione utopica. Un ruolo,
invece che gli scienziati, secondo Saint-Simon, avrebbero potuto svolgere
con grande efficacia, proprio perché essi partivano non da “credenze”, ossia
da posizioni ideologiche, ma da analisi rigorose delle strutture sociali.
Qui, come si vede, scienza e utopia sono intimamente legate nel formulare
proposte di cambiamento sociale, senza passare attraverso la tragedia della
rivoluzione violenta. In Saint-Simon, utopia e scienza vengono presentate
non solo nella funzione progettante, ma anche come antidoto alla violenza
rivoluzionaria.
Che poi le cose, nel loro concreto sviluppo storico, siano andate
in modo assai diverso è un altro discorso. Saint-Simon ha certamente il
merito di aver compreso l’importanza del connubio tra fenomeno industria
e progresso scientifico, in ordine allo sviluppo economico sociale non solo
dei singoli popoli, ma dell’intera umanità. Di fatto, però, come notava
giustamente Calvino, “la ‘società industriale’, tecnocratica e produttivistica
che egli aveva profetato […] non è stata la panacea dei mali sociali che egli
prometteva”. Essa, infatti, non solo “non ha eliminato dalla scena l’esecrato
potere militare” - poiché “anzi si è integrata ad esso” -, ma ha fatto ancora di
peggio. Gli industriali o, comunque, i nuovi potentati economici, asservendo
la scienza al profitto e alle egemonie politico-militari, hanno provocato
uno dei più gravi disastri della storia umana, ossia hanno causato quel
dissesto ambientale che sta mettendo in pericolo non solo la sopravvivenza
dell’umanità, ma dell’intera biosfera.
Non meno centrale, poi, è il ruolo della scienza in un altro grande
maestro dell’utopia dell’Ottocento: Charles Fourier. Il quale, nel Nuovo
mondo industriale e societario, mentre, da un lato, elogia e veri grandi scienziati
o scopritori (come Colombo, Galileo, Newton, Harwey, Linneo), dall’altro,
critica aspramente, spesso con accenni sarcastici, gli accademici – che egli
chiama “sofisti privilegiati” - i quali, poiché ritengono che “le scienze di
maggior prestigio non possono essere contestate”, sembrano avere come
scopo quello di scoraggiare le nuove scoperte e invenzioni. Queste ultime,
infatti, se sono realmente “nuove”, non possono non contestare, cioè superare
le vecchie teorie scientifiche. I veri “ciarlatani scientifici”, dice Fourier, non
sono quelli che si distaccano “dalle idee preconcette”, ma coloro che, “secondo
le convenzioni accademiche, […] si preoccupano di non urtare la pubblica
opinione; usano modi melliflui, insinuanti; evitano gli annunci inverosimili”.
Ma ciò che è ancor più grave, è che questo malcostume accademico si è
diffuso nell’intera società: “Contestare le scoperte e insultarne gli autori, è
un difetto insito nello spirito dei civilizzati”.
Occorre rilevare che la severa critica fourieriana nei confronti degli
accademici non deriva tanto da un risentimento personale verso tale mondo,
che aveva ignorato o comunque giudicato con sufficienza e negativamente
i suoi scritti. La polemica nei confronti dei “filosofi”, in realtà, compare
già nella sua prima grande e fondamentale opera, cioè la Teoria dei quattro
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movimenti (pubblicata nel 1808), in cui egli, fin dalle prime pagine, spiega le
ragioni di questa sua critica ai “cultori delle scienze incerte”, ossia “i politici,
i moralisti, gli economisti e gli altri, le cui teorie non sono compatibili con
l’esperienza e non hanno come regole che il capriccio dei loro autori”.
Queste scienze, osserva Fourier, non hanno retto alla prova
dell’esperienza storica, alla prova dei fatti, come aveva dimostrato l’esito
catastrofico della Rivoluzione francese: “Dopo aver impiegato venticinque
secoli a perfezionare le loro teorie”, una volta messe alla prova della storia,
tali teorie si sono rivelate fallimentari sotto ogni aspetto, dal momento che
hanno prodotto tali e tante “calamità” da far “regredire la società civile allo
stato barbaro”.
Una volta, dunque, che le “scienze incerte” erano state “coperte
d’ignominia e definitivamente screditate”, era necessario ripensare i problemi
umani e sociali, cioè la storia, in modo nuovo; si trattava, dice Fourier, di
“cercare il bene sociale in qualche nuova scienza e aprire nuove strade al
genio politico”. E questa “nuova scienza” doveva seguire non più il metodi
delle “scienze incerte”, ma quello delle “scienze esatte”. E fu proprio questo
metodo che Fourier cercò di applicare nella Teoria dei quattro movimenti:
un metodo che gli consentì di scoprire “la teoria delle attrazioni e delle
repulsioni passionate”, la quale non solo risultava “integralmente conforme
ai teoremi della geometria”, ma era anche “in tutto e per tutto” conforme
alle leggi “dell’Attrazione materiale dimostrate da Newton e da Leibniz”.
Insomma, Fourier riteneva di aver scoperto che le leggi che governano
il mondo della storia - cioè l’uomo e la società, il mondo spirituale - non
differivano da quelle che governano la natura. Per cui le quattro sfere (o i
quattro movimenti) di cui si compone il cosmo (sociale, animale, organica
e materiale) sono governate dalla medesima legge, che è quella, appunto,
dell’attrazione e repulsione universale. Ciò che Newton aveva scoperto per la
sfera “materiale” (ossia la teoria della gravitazione universale), Fourier riteneva
di aver scoperto per la sfera umana e sociale. Egli era realmente convinto di
aver fatto una scoperta grandiosa, al punto da dichiarare orgogliosamente:
“Io solo avrò umiliato venti secoli di imbecillità politica, ed è a me soltanto
che le generazioni presenti e future dovranno l’inizio della loro immensa
felicità”. Attraverso la sua scoperta, Fourier credeva davvero di essere
diventato il “possessore del libro dei destini”, di aver dissipato “le tenebre
politiche e morali” e di aver costruito, “sulle rovine delle scienze incerte”,
la sua straordinaria e meravigliosa “teoria dell’armonia universale”.
È noto che la proposta fourieriana, per la sua potenza immaginativa
e la sua eccentricità, è stata fatta oggetto di numerose e svariate critiche
che toccano tutti gradi di giudizio, che vanno dalla profonda ammirazione
al profondo dileggio, scherno, sarcasmo. A tali giudizi, ovviamente, non
poteva sfuggire la scienza di Fourier, proprio per l’importanza, anzi
la centralità che ad essa viene assegnata nel suo sistema. Certamente,
la scienza fourieriana, a prima vista, presenta spesso molte bizzarrie. Ma,
se si procede ad una più attenta lettura, si scopre che tale bizzarria non è
fine a se stessa, ma, come gran parte della scrittura di Fourier, è carica di
segni, di simboli, si presenta, anzi, come un “geroglifico” che, in quanto
40
Razionalità utopica e razionalità scientifica
tale, richiede di essere rivelato. Giustamente è stato osservato che Fourier
elabora, “in una girandola di miraggi parascientifici, prodotti o commentati
su un registro sovente favoloso […] veri e propri anamorfismi culturali:
infatti la scrittura di Fourier – scomponendo e ricomponendo materiali
diversi, riplasmati secondo le proprie esigenze – agisce talvolta come uno
specchio deformante” (Calcagno).
Per comprendere il messaggio fourieriano, occorre porsi, quindi, da
un particolare angolo visuale, che è poi il punto di vista dell’autore, altrimenti
i fraintendimenti sono inevitabili. Ora, per un autore che si proponeva di
“ri-formare” tutto - ossia non solo la società, ma anche l’amore e l’intera
gamma dei rapporti umani, la storia nel suo complesso e perfino lo stesso
cosmo - è chiaro che la scienza non poteva non seguire la medesima sorte e
diventare, quindi, l’“altra scienza”, la scienza alternativa, la nuova scienza, che
perveniva alle nuove scoperte, non tanto o, comunque, non solo attraverso il
metodo sperimentale, proprio della “scienza normale”, ma facendo ricorso, in
gran parte e direttamente, a quelo straordinario deposito di idee, pressoché
inesauribile, che è la sfera dell’immaginario. Ed è necessario tener presente
che l’immaginario, in Fourier, come giustamente ha osservato Calcagno, “non
è tanto un travestimento letterario, una modalità estrinseca, un espediente
[…], un ‘artificio’ strumentale, quanto una necessità implicata dalla potenza
del messaggio utopico, che a nessun livello può essere contenuto (esaurito)
dall’esistente”. Questo significa che per comprendere adeguatamente il
messaggio utopico fourieriano “è necessario appropriarsi anche criticamente
del punto di vista dell’immaginario, con tutto il carico - è ovvio - di aporie,
di paradossi, di ossimori che la cosa può comportare”.
Se guardiamo l’opera di Fourier da questo punto di vista, allora
anche la sua “superscienza”, con tutte le sue bizzarrie, si rivela assai feconda
non solo sul piano etico, politico ed economico, ma anche su quello
scientifico. Occorre ricordare, a questo proposito, che egli non si limitò
a criticare severamente quelle che egli definì allora le “scienze incerte”,
ma lanciò i suoi strali critici anche contro gli esiti negativi del connubio tra
scienza e fenomeno industria, che invece di aumentare il benessere sociale
per tutti stava invece producendo malattie, miseria e degrado morale in
larghi strati della popolazione, sicché “l’industrialismo” gli appariva come
“l’ultima delle nostre chimere scientifiche”. In realtà, dice Fourier nel Nuovo
mondo industriale esocietario, il tanto decantato “progresso dell’industria
è solo un’illusione per le masse indigenti”. Egli si era accorto, infatti,
che “l’industria civilizzata” non solo non stava mantenendo le sue promesse di
ricchezza diffusa, ma stava sprofondando “nella miseria tutta la popolazione
lavoratrice per arricchire pochi privilegiati”. Una critica, questa, che, poco
più tardi, Marx ed Engels avrebbero fatto propria, sviluppandola in modo
analitico. Fourier non era contro l’industria e le macchine, ma contro la nuova
tecnologia, che invece di liberare l’uomo lo stava asservendo ulteriormente,
causando danni irreparabili anche alla natura. In questo senso, “la scelta antiindustriale di Fourier”, come osserva Tundo, non deve essere considerata
come una scelta negativa “almeno per i postulati di rispetto perla natura e
l’uomo su cui si fonda”.
41
Cosimo Quarta
Sul piano scientifico, infatti, la “superscienza” di Fourier rivela la
sua fecondità e attualità proprio a proposito del dissesto ambientale, che
oggi sta mettendo in pericolo la sopravvivenza umana e quella dell’intera
biosfera. Com’è noto, sotto il profilo epistemologico, la scienza moderna
aveva cominciato a perdere le sue “certezze” teoriche, di tipo deterministico
e positivistico, già con la teoria quantistica, con la teoria della relatività,
col principio di indeterminazione di Heisenberg, con la teoria popperiana
della “falsificabilità” e via dicendo. Ma a decretarne l’“incertezza”, anche
sul piano della prassi, è intervenuta proprio la crisi ambientale, la quale
ha messo in evidenza come “sempre più spesso e in ambiti numerosi,
la comunità scientifica, chiamata a pronunciarsi in relazione a una questione
di scienza che esiga regolazione normativa, non sia in grado di esprimere
una posizione certa e univoca, ma presenti una varietà di tesi disparate o
parzialmente divergenti”.
Ed è stata proprio questa incertezza sugli esiti, a breve, medio e
lungo termine, dell’uso di certe tecnologie sia sull’uomo che sull’ambiente
a richiedere l’elaborazione di “criteri prudenziali”, come la valutazione
preventiva del rischio (o valutazione di impatto ambientale = VIA) e il principio
di precauzione (Vorsorgeprinzip). L’adozione di questi “criteri”, che sono stati
prima elaborati all’interno della riflessione morale sull’ambiente e trasformati
poi in norme giuridiche, a livello nazionale e internazionale, implica un
importante cambiamento anche sul piano epistemologico, dal momento che
suppone il “passaggio da una visione acritica del sapere scientifico, assunto
come oggettivo e scevro da incertezze, a una posizione consapevole della nonneutralità delle proposizioni scientifiche”. Se poi si tiene presente che una
delle interpretazioni del “principio di precauzione” stabilisce che si “debba
intervenire anche prima che un nesso causale sia stato stabilito”, ne consegue,
in tal modo, “il passaggio da una scienza a due valori a una scienza a tre valori”,
ossia a una scienza che non si fonda più soltanto sulla tradizionale dicotomia
vero-falso, ma che prende anche “in considerazione e dà riconoscimento
all’ipotesi di incertezza, di indecidibilità” (Tallacchini).
Non è un caso se oggi, soprattutto all’interno della riflessione
sulle scienze della vita, si parla di “scienza post-normale”, per indicare,
appunto, una scienza in cui l’incertezza non costituisce più un’eccezione,
ma la norma. Ora, poiché l’incertezza riguarda soprattutto le conseguenze
pratiche della scienza-tecnologia, ossia le sue implicazioni sul piano sociale,
è emersa l’esigenza sia di democratizzare la scienza, - ossia di coinvolgere
direttamente i cittadini, soprattutto quando si tratta di prendere decisioni
su nuovi materiali, strumenti e tecniche che riguardano non solo la salute e
la vita dell’uomo, ma anche la salvaguardia dell’ambiente - sia di superare
la clausura disciplinare, connessa all’eccesso di specializzazione, attraverso
il dialogo interdisciplinare, per valutare i rischi connessi all’uso dei nuovi
ritrovati tecnologici.
E qui si può scorgere, a mio avviso, un altro motivo dell’attualità
dell’“altra scienza” di Fourier. Egli, infatti, oltre ad istanziare una scienza che
si ponesse a servizio di tutti e non solo di pochi privilegiati, aveva intuito
anche la pericolosità della clausura disciplinare e, quindi, la necessità di una
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Razionalità utopica e razionalità scientifica
“superscienza”, intesa come il risultato di un dialogo intenso e proficuo tra i
diversi saperi. Non solo, ma Fourier aveva anche intuito che questi incontri
interdisciplinari sarebbero avvenuti proprio nelle “cosiddette zone di confine”,
ossia in quelle “aree di confronto (e di eventuale scambio) tra immaginario
scientifico e immaginario non scientifico, dove si indaga intorno alle
condizioni in cui si manifestano i processi creativi, dove si esplorano i
possibili rapporti tra arte, letteratura, filosofia e scienza” (Calcagno). Ed è
quel che di fatto oggi, sia pure ancora timidamente, comincia a farsi strada,
almeno nelle comunità scientifiche che hanno preso coscienza dei radicali
mutamenti epistemologici intervenuti soprattutto all’interno delle cosiddette
“scienze esatte”. Fourier, che pure era stato definito dai suoi contemporanei
“l’Ariosto degli utopisti”, e da molti ancor oggi viene considerato come un
eccentrico visionario, aveva invece compreso, proprio attraverso l’uso, per
così dire, sregolato dell’immaginario, che non v’è alcuna contrapposizione tra
razionalità utopica e razionalità scientifica, poiché anche la scienza, se non
facesse ricorso ad ipotesi ardite, cioè in contrasto con le teorie della “scienza
normale”, smetterebbe di progredire. Come appunto ha dimostrato Kuhn,
il quale ha anche sottolineato che a spingere gli scienziati ad abbandonare un
vecchio paradigma scientifico non intervengono tanto ragioni scientifiche,
quanto considerazioni di ordine etico, estetico, religioso, psicologico ecc.
Alla luce di queste argomentazioni epistemologiche, ritengo sia doveroso
riconoscere a Fourier, la funzione di antesignano, se non di precursore,
della stretta relazione tra razionalità utopica e razionalità scientifica.
Un altro autore del diciannovesimo secolo, in cui la scienza ha un
ruolo di prim’ordine è Auguste Comte. Sebbene il suo nome non sempre
compaia nelle storie letterarie dell’utopia, non v’è dubbio, tuttavia, che il suo
pensiero abbia dei tratti chiaramente utopici, soprattutto nel suo Système de
politique positive, in cui egli elabora un modello di società che non solo si
colloca chiaramente in prospettiva utopica, ma le proposte in esso contenute
sono formulate in maniera così analitica e dettagliata, da far pensare, come
ha opinato Aron, che abbia voluto fornirci “un piano preciso dei suoi sogni,
o dei sogni ai quali può abbandonarsi ciascuno di noi nel momento in cui
crede di essere Dio”. Senza dire poi che, nel Cours de philosophie positive, egli
elabora, tra l’altro, un’idea di storia come progresso, che è ricca di elementi
non solo utopici, ma anche distopici.
All’interno del progetto politico comtiano, o meglio, all’interno del
suo complesso sistema filosofico, non solo il progresso, ma anche la scienza
occupa un posto di primo piano, dal momento che ad essa Comte affida la
soluzione di tutti i problemi dell’umanità. Egli ha una considerazione così
alta dell’attività scientifica da considerarla come il punto d’arrivo, ossia come
lo stato di perfezione cui possa giungere l’uomo e la società. Il suo concetto
di scienza, da un lato, è assai vicino a quello di Bacone, allorché le assegna
il compito di fornire all’uomo gli strumenti per dominare la natura, mentre,
dall’altro, se ne allontana, quando critica l’eccesso di specializzazione, che
finisce col trasformare la scienza in tecnologia. Per Comte, scienza e tecnica,
ossia teoria e pratica, sono e devono restare due momenti distinti dello spirito
umano e non essere confusi. Un’istanza, questa, oggi di grande attualità,
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Cosimo Quarta
dal momento che è stata proprio la confusione, o meglio, la trasformazione
della scienza in tecnologia a generare quel delirio di onnipotenza che ha
portato l’umanità “sull’orlo dell’abisso”, per dirla con Jonas. La ricerca
scientifica, per Comte, è anzitutto un bisogno dello spirito umano, un bisogno
intellettuale, un bisogno di conoscenza: conoscenza che certo può essere
utilizzata anche a fini pratici, ossia trasformata in tecnologia, a condizione
però che venga preventivamente dimostrato che tale trasformazione sia
realmente utile all’umanità. Una proposta che, per certi aspetti, anticipa
quel che oggi va sotto il nome di “principio di precauzione” e che, sia pure in
modo diverso, abbiamo già notato in Fourier. Certo, la concezione comtiana
della scienza e della società contiene anche aspetti distopici, su cui in questa
sede non è possibile soffermarci. Tuttavia, al di là di tali limiti, a Comte va
riconosciuto il merito di aver compreso e sottolineato l’alta funzione sociale
della scienza. Dopo di lui la scienza cessa di essere considerata una mera
attività privata ed assurge alla dignità di funzione pubblica, di patrimonio
collettivo dell’umanità.
Ritengo che questi elementi che ho fin qui tracciato possano essere
sufficienti per comprendere l’apporto che, soprattutto nella modernità,
l’utopia ha dato allo sviluppo della scienza. Un apporto che è continuato
fino ai nostri giorni. Si pensi, ad esempio, al ruolo che la scienza ha avuto
anche in altri utopisti dell’Ottocento, come, ad esempio, Cabet e Owen.
Ma si pensi anche alla fantascienza, che dalla seconda metà dell’Ottocento
ad oggi è diventata la forma preponderante dell’utopia letteraria, anche
se spesso tende ad inclinare verso la distopia catastrofica. Ma non sempre
è così. Solo per fare qualche nome, si pensi agli scritti di Verne, Wells,
fino ad Huxley ed Asimov, in cui sovente utopia e scienza si identificano.
Qui, solo per fare qualche esempio, basterebbe pensare a quel che Asimov
scriveva alcuni decenni fa, nel suo romanzo Viaggio allucinante, dove
immaginava che attraverso un processo di miniaturizzazione di uomini e
strumenti si potesse “viaggiare” all’interno del corpo umano e intervenire
chirurgicamente; oggi tale idea, mutatis mutandis, è diventata una prassi
corrente in medicina. Il fatto che attualmente i chirurghi intervengano
dall’esterno del corpo umano attraverso sofisticatissime sonde, e non
attraverso la miniaturizzazione immaginata da Asimov, ha davvero poca
importanza sul piano della cura medica. Ciò che qui importa considerare è
l’intuizione che Asimov ha suggerito alla scienza medica, circa la possibilità
di intervenire chirurgicamente, in maniera incruenta e con grande precisione,
sull’organismo umano.
3. Utopia e scienza in dialogo
Per concludere, possiamo quindi dire che, oggi più che mai, l’utopia,
lungi dal contrapporsi alla scienza, ne sollecita e ne stimola lo sviluppo.
L’utopia, nella forma letteraria della fantascienza, è diventata per la scienza
una riserva ricchissima di ipotesi di ricerca. Ed è questo, ritengo, un modo
per avvicinare le due culture, o meglio, per farle dialogare e collaborare
44
Razionalità utopica e razionalità scientifica
in vista di una crescita autenticamente umana delle nostre società, oggi
purtroppo scosse da ondate nichilistiche che, se non sono adeguatamente
frenate o bloccate, possono portare l’uomo all’autodistruzione. Il dialogo e
la collaborazione tra utopia e scienza si rivelano come un segno concreto di
speranza per l’uomo d’oggi.
È significativo che recentemente un autore come Zigmunt Bauman
- un critico severo della nostra società, in cui tutto si liquefa - indichi non
la scienza, ma l’utopia come scialuppa di salvataggio perché l’umanità possa
uscire dal naufragio, anzi, com’egli dice, dall’“inferno” della “liquidità”.
E invero, se come ritengono alcuni autori, come, ad esempio, Umberto
Galimberti, la nostra società, più che liquida, appare ingessata, o meglio,
solidificata dal predominio della tecnica - che serializza non solo le cose ma
anche le persone, rendendole fungibili, atomizzandole, facendole perdere
la propria identità e, quindi, impoverendo le relazioni umane, minando
così alla radice la coesione sociale e la solidarietà umana - allora è chiaro
che la scienza-tecnologia moderna non può essere invocata per risolvere
i gravi problemi che assillano oggi l’umanità. E tuttavia, pur con questi
grossi limiti, la scienza-tecnologia, purché venga depurata dal delirio
di onnipotenza che l’ha caratterizzata in questi ultimi secoli, può e deve
svolgere un ruolo importante nel superamento dell’attuale crisi. Ma per
svolgere questa preziosa funzione è necessario che la razionalità scientifica
riconosca, appunto, i propri limiti e, in primis, cessi di essere funzionale alla
massimizzazione del profitto privato e al potenziamento delle egemonie
politico-militari, ponendosi invece al servizio dei popoli, ossia dell’intera
umanità. E per far questo è necessario che essa si allei col pensiero utopico.
Uno dei sintomi più preoccupanti della crisi del nostro tempo accanto alla crescita scandalosa delle disuguaglianze, che una globalizzazione
senza regole sta generando a tutti i livelli - è la perdita della dimensione del
futuro, soprattutto nelle nuove generazioni. I giovani oggi si sentono deprivati
del futuro, nel senso che esso viene percepito, da gran parte di loro, più come
una minaccia che come una promessa. E privando i giovani del futuro, li si
priva, al tempo stesso, dello spazio più autenticamente umano, che è appunto
lo spazio della progettazione e della speranza, in cui la libertà ha la possibilità
di esprimersi al massimo grado. Il disagio di tale perdita, i giovani oggi lo
esprimono in molti modi, ma quello più appariscente, almeno in diversi Paesi
dell’Occidente, è la cosiddetta movida, ossia attraverso la vita notturna nelle
discoteche e nei pub. Se la cultura, o meglio, la prassi dominante è quella del
“carpe diem”, che esorta tutti a concentrarsi e a chiudersi nel presente – in un
presente senza passato e senza futuro – allora è pressoché inevitabile che la vita
si trasformi, soprattutto per le nuove generazioni – in qualcosa che si presenta
come del tutto priva di senso, su cui non resta che riderci sopra. Al buio di una
società apertissima, ma senza regole, che ci costringe a concentrarci solo sul
presente, i giovani hanno preferito il buio della notte, illudendosi, così facendo,
di trasgredire, ossia di opporsi all’imperante cinismo che caratterizza la vita
sociale degli adulti.
Tale scelta, però, si rivela fondamentalmente illusoria, perché non
è possibile superare quella condizione di profondo disagio provocata dalla
45
Cosimo Quarta
perdita della dimensione del futuro, passando dal buio diurno della società
caratterizzata dal “politeismo dei valori” – in cui un valore vale l’altro –
al buio notturno, in cui gli unici bagliori sono costituiti spesso dalle luci
degli spettacoli psichedelici, i quali più che illuminare abbagliano, quando
addirittura non accecano la mente e la coscienza. Ecco perché Bauman,
correttamente, ha indicato l’utopia come via d’uscita per l’attuale crisi:
Solo l’utopia, infatti, è in grado di riaprire gli immensi spazi del futuro,
che una ragione strumentale, tutta protesa sull’utile, aveva insipientemente
chiuso. Se la razionalità scientifica si allea con la razionalità utopica, allora
non ci saranno più grossi ostacoli per aprire le porte del futuro che oggi sono
ermeticamente chiuse, anzi blindate. Lavorando insieme, dunque, utopia e
scienza possono aiutare l’uomo a recuperare lo spazio della progettazione e
della speranza. Che è poi lo spazio realmente vitale, senza il quale l’umanità
s’ammala e muore.
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