PAUL KRUGMAN IL RITORNO DELL’ECO DELLA DEPRESSI E LA CRISI DEL 2008 Il premio Nobel per l'Economia ci spiega il «grande crac» e come uscirne nuova edizione aggiornata e ampliata Prima edizione: 1999 Prima edizione negli Elefanti Saggi: aprile 2001 In questa collana Nuova edizione aggiornata e ampliata: gennaio 2009 Prima ristampa: febbraio 2009 Seconda ristampa: marzo 2009 Traduzione dall’inglese di Nicolò Regazzoni (capitoli 1,2,3, 4, 5, 6, 10) Roberto Merlini (capitoli 7,8,9 e aggiornamenti) Titolo originale dell’opera: The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008 © 2009, 1999 by Paul Krugman ISBN 978-88-11-60093-0 © 1999, 2001, 2009, Garzanti Libri s.p.a., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Printed in Italy garzantilibri.it Dello stesso autore in edizione Garzanti: Il silenzio dell’economia L’incanto del benessere Geografia e commercio internazionale Economisti per caso Meno tasse per tutti? IL RITORNO DELL’ECONOMIA DELLA DEPRESSIONE E LA CRISI DEL 2008 Introduzione La maggior parte degli economisti, se per caso hanno avuto una propria opinione in merito, considerano la Grande Depressione degli anni Trenta una tragedia di cui si poteva tranquillamente fare a meno. Se solo Herbert Hoover non avesse tentato di portare il bilancio in pareggio in un momento di piena recessione; se solo la Federal Reserve non avesse difeso lo standard aureo a spese dell’economia nazionale; se solo fosse stato dato denaro contante alle banche sull’orlo del collasso, così da arginare il panico che si diffuse tra gli istituti di credito negli anni 1930-31; allora il crollo del mercato azionario del 1929 avrebbe portato solo a una recessione di poco conto, che sarebbe stata presto dimenticata. E poiché economisti e politici hanno imparato la lezione – oggi nessun ministro del Tesoro seguirebbe infatti il famoso consiglio di Andrew Mellon di «Disfarsi degli operai, disfarsi delle azioni, disfarsi dei contadini, disfarsi degli investimenti immobiliari… espellere il marcio dal sistema» – niente di simile alla Grande Depressione potrà mai fare ritorno. E se non fosse vero? Alla fine degli anni Novanta, un gruppo di economie asiatiche – economie che producevano circa un quarto dell’output mondiale e contavano una popolazione complessiva di oltre seicento milioni di abitanti – ha vissuto una crisi che ricorda sinistramente la Grande Depressione. Oggi come ieri quella crisi ha cominciato a dare i primi segnali in un cielo azzurro e sereno, quando la maggior parte degli esperti prevedeva che il boom sarebbe comunque continuato, anche se la recessione si stava avvicinando; oggi come ieri i tradizionali interventi macroeconomici si sono rivelati inefficaci, forse anche controproducenti. Il fatto che qualcosa di simile possa accadere nel mondo moderno dovrebbe far venire i brividi a chiunque abbia un minimo di senso della storia. A me li ha fatti venire di sicuro. La prima edizione di questo libro è stata scritta in risposta alla crisi asiatica degli anni Novanta. Mentre alcuni la consideravano un fenomeno esclusivamente asiatico, io la consideravo un fosco presagio per tutti noi, un indicatore del fatto che i problemi dell’economia della depressione non sono venuti meno nel mondo moderno. È triste doverlo dire, ma avevo ragione a preoccuparmi: mentre questa nuova edizione va in stampa, gran parte del mondo, inclusi gli Stati Uniti, è alle prese con una crisi finanziaria ed economica che assomiglia alla Grande Depressione ancora più di quanto non le assomigliavano le vicissitudini asiatiche degli anni Novanta. Il tipo di problema che ha vissuto l’Asia un decennio fa, e che stiamo vivendo tutti noi, è proprio quello che pensavamo di avere imparato a evitare. Nel passato, durante i momenti di difficoltà, i grandi paesi industrializzati con governi forti – come la Gran Bretagna negli anni Venti – potevano non essere sempre in grado di rispondere a prolungati periodi di stagnazione e deflazione; ma negli anni a cavallo tra John Keynes e Milton Friedman eravamo convinti di essere ormai sufficientemente pronti a evitare che ciò succedesse di nuovo. Tempo fa le nazioni più piccole – come l’Austria nel 1931 – potevano anche restare in balìa dei dissesti finanziari e apparire incapaci di governare il loro destino economico, ma oggi ci si aspetta che esperti banchieri e funzionari governativi (per non parlare del FMI) siano in grado di intervenire rapidamente così da contenere le crisi prima che si diffondano. Un tempo i governi – come quello degli Stati Uniti durante gli anni 1930-31 – potevano assistere impotenti al collasso del sistema bancario nazionale; ma nel mondo moderno si presume che l’assicurazione dei depositi e la prontezza delle banche centrali nel fornire denaro contante agli istituti di credito in difficoltà possano prevenire il sorgere di queste situazioni. Nessuna persona di buon senso pensava che i problemi in economia fossero finiti; eravamo comunque sicuri che qualsiasi problema avessimo mai potuto incontrare in futuro sarebbe stato abbastanza diverso da quelli degli anni Venti e Trenta. Ma un decennio fa avremmo dovuto renderci conto che la nostra fiducia era mal riposta. Il Giappone si è trovato per quasi tutti gli anni Novanta in una trappola economica che Keynes e i suoi contemporanei conoscevano benissimo. Le economie asiatiche più piccole, per contro, sono passate dal boom alla calamità praticamente da un giorno all’altro; e la storia di questo tracollo sembra ambientata nel clima finanziario degli anni Trenta. All’epoca la pensavo così: era come se alcuni batteri che avevano causato gravissime pestilenze, ma che si consideravano ormai definitivamente sconfitti dalla medicina moderna, fossero riemersi in una forma resistente agli antibiotici standard. Ecco quello che scrivevo nell’introduzione alla prima edizione: «Per ora solo un numero limitato di persone è stato vittima di questo nuovo malessere incurabile; ma anche quelli che hanno avuto la fortuna di non essere contagiati sarebbero degli sciocchi se non cercassero nuove cure, nuovi accorgimenti preventivi, qualsiasi cosa occorra, per evitare di diventare le prossime vittime». Be’, siamo stati veramente degli sciocchi. E adesso abbiamo in casa la peste. Questa nuova edizione è dedicata in gran parte alla crisi asiatica degli anni Novanta, che si è rivelata una sorta di prova generale della crisi globale a cui stiamo assistendo adesso. Ma ho aggiunto parecchio nuovo materiale, nel tentativo di spiegare perché gli Stati Uniti si sono ritrovati nella stessa situazione in cui versava il Giappone una decina di anni fa, perché l’Islanda si è ritrovata nella stessa situazione della Thailandia, e perché i paesi colpiti dalla crisi originaria degli anni Novanta si sono ritrovati ancora una volta sull’orlo dell’abisso. Questo libro Permettetemi di dichiarare subito che questo libro è, in fondo, un trattato analitico. Non si occupa tanto di quello che è successo quanto del perché. La cosa importante, credo, è capire come questa catastrofe sia potuta accadere, come possano riprendersi i paesi colpiti e come possiamo evitare che la situazione si ripeta. Di conseguenza l’obiettivo ultimo è, come insegnano nelle aule di economia, sviluppare una teoria su questo specifico argomento, riuscire a capire come interpretare questa serie di eventi. Tuttavia ho tentato di non renderla un’esposizione teorica. Non ci sono né equazioni, né diagrammi complicati, né (mi auguro) parole incomprensibili. In qualità di economista di una certa fama sono assolutamente in grado di scrivere cose che nessuno può leggere. In realtà il linguaggio incomprensibile – il mio e quello degli altri – mi ha aiutato a giungere alle conclusioni che vi presento qui di seguito. In questo momento il mondo ha bisogno di decidere sulla base di informazioni concrete; di conseguenza le idee devono essere rese accessibili a tutte le persone interessate, non solo ai professori di economia. Comunque le equazioni e i diagrammi caratteristici dell’economia formale rappresentano, il più delle volte, solo un’impalcatura utilizzata per aiutare a mettere in piedi una costruzione intellettuale. Una volta che i lavori di costruzione abbiano raggiunto un certo livello, l’impalcatura può essere tolta, lasciando così solo parole comprensibili. Inoltre, sebbene il principale obiettivo del libro sia analitico, vi sono contenute molte descrizioni di eventi. In parte perché seguire una storia dall’inizio alla fine spesso garantisce che la teoria di cui si sta discutendo abbia senso. (Per esempio, la visione «fondamentalista» delle crisi economiche – secondo la quale le economie hanno soltanto la punizione che si meritano – deve fare i conti con la strana coincidenza che un gran numero di sistemi economici apparentemente così diversi siano crollati nel giro di pochi mesi.) Ritengo inoltre che riportare l’intera sequenza degli eventi fornisca un quadro di riferimento necessario a ogni tentativo di spiegazione, e che la maggior parte delle persone non abbia passato gli ultimi 18 mesi a seguire in maniera ossessiva le varie fasi del dramma. Non tutti ricordano cosa ha detto il primo ministro Mohamad Mahathir a Kuala Lumpur nell’agosto del 1997, e non tutti riescono a mettere in relazione questa dichiarazione con quanto ha finito per fare Donald Tsang a Hong Kong un anno dopo. Bene, questo libro servirà a rinfrescarvi la memoria. Una nota sullo stile intellettuale: una tentazione che prova spesso chi scrive di economia, specie quando la materia è così grave, è quella di esprimersi in modo eccessivamente paludato. Non che gli eventi di cui ci occupiamo qui non siano importanti; in alcuni casi sono questione di vita o di morte. Troppo spesso, però, i cosiddetti esperti pensano che essendo una materia molto seria, vada affrontata in tono solenne; che trattandosi di grossi problemi, si debbano trattare in stile ampolloso; che non siano ammessi né l’informalità né un tocco di umorismo. Tuttavia, come si vedrà in seguito, per dare una spiegazione a fenomeni nuovi e insoliti bisogna essere pronti a giocare con le idee. E uso la parola «giocare» con cognizione di causa: le persone austere, senza una vena di stravaganza, non sono quasi mai in grado di avere buone intuizioni, in economia come altrove. Immaginiamo che io affermi: «il Giappone sta soffrendo di una profonda incapacità di adattamento, perché il suo modello di crescita governato dallo stato porta a una rigidità strutturale». Adesso pensateci bene: non ho detto proprio niente; al massimo sono riuscito a comunicare una vaga sensazione che i problemi sono difficili e che non esistono risposte immediatamente disponibili – una sensazione che può anche risultare completamente sbagliata. Immaginate invece che io mi metta a spiegare i problemi del Giappone con la divertente storiella dei successi e degli insuccessi di una cooperativa di baby-sitter (a cui in realtà farò spesso riferimento in questo libro). Può darsi che il tutto risulti infantile, forse la mia leggerezza offenderà la vostra sensibilità, ma la stravaganza ha uno scopo preciso: fa pensare a soluzioni originali, suggerendo che in realtà può esserci un modo sorprendentemente facile di risolvere almeno una parte dei problemi del Giappone. Quindi non aspettatevi un libro austero e solenne: trovare un argomento più serio di questo è difficile, ma la scrittura sarà semplice come è doveroso che sia. E adesso iniziamo il nostro viaggio, partendo dal mondo come sembrava che fosse solo pochi anni fa. 1. «IL PROBLEMA PRINCIPALE È STATO RISOLTO» Nel 2003 Robert Lucas, docente presso la University of Chicago e vincitore nel 1995 del premio Nobel per l’economia, ha tenuto il discorso presidenziale all’assemblea annuale dell'American Economic Association. Dopo aver spiegato che la macroeconomia era nata in risposta alla Grande Depressione, ha dichiarato che era ora di fare un passo avanti in questo campo: «Il problema principale di prevenire la depressione», ha osservato, «è stato risolto, in tutte le sue implicazioni pratiche». Lucas non ha detto che il ciclo economico, l’alternanza irregolare di recessioni ed espansioni che ci accompagna da almeno un secolo e mezzo, era finito. Ma ha detto che era stato addomesticato, al punto che i benefici di nuovi interventi finalizzati a metterlo ulteriormente sotto controllo si potevano considerare marginali: l’appiattimento delle irregolarità che si riscontrano nel processo di crescita, ha affermato, avrebbe prodotto solo dei benefici trascurabili a livello di benessere nazionale. Era venuto perciò il momento di concentrarsi su aspetti come la crescita economica di lungo termine. Lucas non era l’unico a sostenere che la prevenzione della depressione fosse ormai un problema risolto. Un anno dopo Ben Bernanke, un ex professore di Princeton che era entrato a far parte del board della Federal Reserve – e di lì a poco ne sarebbe diventato il presidente – ha tenuto un discorso straordinariamente ottimista intitolato The Great Moderation, in cui affermava, proprio come Lucas, che la moderna politica macroeconomica aveva risolto il problema del ciclo economico – o, per essere più precisi, l’aveva ridotto a un banale fastidio. A pochi anni di distanza, mentre gran parte del mondo è alle prese con una crisi finanziaria ed economica che ricorda sin troppo da vicino gli anni Trenta, questi pronunciamenti ottimistici appaiono quasi incredibili. La cosa più singolare di quell’ottimismo era il fatto che negli anni Novanta, problemi economici molto simili ai sintomi della Grande Depressione erano emersi in diversi paesi – incluso il Giappone, la seconda economia del mondo. Ma nei primi anni di questo decennio, i problemi tipici della depressione non avevano ancora colpito gli Stati Uniti, mentre l’inflazione – il flagello degli anni Settanta – appariva finalmente sotto controllo. E questa notizia relativamente tranquillizzante si inquadrava in un contesto politico che incoraggiava l’ottimismo: il mondo sembrava più favorevole alle economie di mercato di quanto non fosse stato da quasi novant’anni. Il trionfo del capitalismo Questo è un libro di economia, ma inevitabilmente l’economia prende forma in un contesto politico e non si può comprendere il mondo così come appariva in quell’estate dorata senza considerare l’evento politico fondamentale degli anni Novanta: il collasso del socialismo, considerato non soltanto come ideologia dominante, ma come ideale in grado di far muovere la mente degli uomini. Il collasso ebbe inizio, abbastanza stranamente, in Cina. Fa ancora impressione ricordare che nel 1978 Deng Xiao-ping aveva spinto il suo paese su quella che poi sarebbe stata conosciuta come la via al capitalismo, solo tre anni dopo la vittoria dei comunisti in Vietnam e solo due anni dopo la sconfitta interna dei maoisti radicali che volevano ricominciare la Rivoluzione culturale. Probabilmente Deng non comprese del tutto quanto lontano avrebbe portato la strada da lui indicata; certamente il resto del mondo ci mise un bel po’ per capire che un miliardo di persone si era tranquillamente lasciato alle spalle il marxismo. Infatti, al più tardi nei primi anni Novanta, la trasformazione della Cina non era assolutamente stata recepita dall’opinione pubblica; nei bestseller del tempo l’economia mondiale era vista come un’arena per un combattimento «testa a testa» tra Europa, America e Giappone – la Cina veniva ritenuta al massimo un attore di secondo piano, eventualmente parte di un gruppo di paesi emergenti sotto l’egida dello yen. Ciò nonostante tutti avevano intuito che qualcosa era cambiato – e che quel «qualcosa» era la caduta dell’Unione Sovietica. Nessuno capisce veramente che cosa sia accaduto al regime sovietico. Col senno di poi noi ora consideriamo quella struttura come qualcosa il cui sviluppo era stato a lungo ostacolato, e che dunque era destinata al fallimento. In realtà quello sovietico era un regime che aveva conservato il potere passando attraverso una guerra civile e una carestia, che nonostante tutto era stato capace di sconfiggere il precedente Nuovo Ordine tedesco, che era in grado di mobilitare risorse scientifiche e industriali per competere con la superiorità nucleare degli Stati Uniti. La ragione per cui l’Unione Sovietica sia finita così all’improvviso, senza esplosioni, ma con solo un leggero brontolio, va considerata uno dei grandi misteri dell’economia politica. Probabilmente era solo questione di tempo – alcuni dicono che il fervore rivoluzionario, al di là di quel gran desiderio di uccidere i nemici in nome di un bene superiore, non può durare per più di un paio di generazioni. Oppure il regime potrebbe essere stato progressivamente indebolito dal fatto che il capitalismo si rifiutava ostinatamente di mostrarsi vicino alla fine. Io ho una mia personale teoria in proposito, che tuttavia non si basa su alcuna prova specifica: secondo me, la crescita dell’Asia ha demoralizzato in maniera sottile ma profonda il regime sovietico, rendendo ancora meno plausibile la pretesa di quest’ultimo di avere la storia dalla sua parte. L’orribile guerra dell’Afghanistan, destinata a essere persa sin dall’inizio, ha certamente facilitato questo processo, assieme all’evidente incapacità dell’industria sovietica di confrontarsi con la crescita militare statunitense all’epoca di Ronald Reagan. Ma poco importa: qualunque sia stata la ragione, nel 1989 l’impero sovietico si sfaldò improvvisamente nell’Europa dell’Est e nel 1991 la medesima sorte toccò alla stessa Unione Sovietica. Gli effetti di questo sfaldamento furono avvertiti in tutto il mondo, in modo evidente e sottile. E le sue conseguenze facilitarono il successo politico e ideologico del capitalismo. Innanzitutto diverse centinaia di milioni di persone che vivevano sotto i regimi marxisti divennero improvvisamente cittadini di stati disposti a tentare la strada dell’economia di mercato. Al contrario di quanto la maggior parte delle persone si aspettava, le «economie di transizione» dell’Europa dell’Est non diventarono rapidamente protagoniste di primo piano nell’economia mondiale, o meta privilegiata per gli investimenti stranieri. Caso mai accadde il contrario, poiché la maggior parte di questi paesi dovette fare molta fatica per portare a termine la transizione: la Germania dell’Est, per esempio, è diventata per la Germania l’equivalente di quello che il Mezzogiorno è per l’Italia: una zona sempre depressa che continua a essere fonte di problemi sociali e fiscali. Solo oggi, una decina d’anni dopo la caduta del comunismo, alcuni paesi – la Polonia, l’Estonia e la Repubblica Ceca – possono essere annoverati tra le storie di successo. La stessa Russia non è riuscita a effettuare una convincente transizione all’economia di mercato; anzi, dopo aver preso a prestito ingenti quantitativi di denaro, offrendo in realtà come garanzia il suo decadente arsenale nucleare, ha rischiato di diventare fonte d’instabilità finanziaria per il resto del mondo. Un’altra diretta conseguenza del collasso del regime sovietico fu che i governi che nel passato si erano affidati alla sua generosità dovevano ora contare solo su se stessi. Poiché alcuni di questi paesi erano stati idealizzati e idolatrati dagli avversari del capitalismo, la loro improvvisa povertà – e la conseguente percezione di quanto in precedenza fossero stati dipendenti – servì a delegittimare tutti gli atteggiamenti di questo tipo. Cuba, per esempio, aveva fama di essere una nazione eroica, da sola e a pugni chiusi di fronte agli Stati Uniti, e rappresentava un allettante simbolo per i rivoluzionari di tutta l’America Latina – molto più allettante, naturalmente, di quanto non fossero i grigi burocrati di Mosca. Lo stesso si può dire del governo della Corea del Nord che fino agli anni Novanta, nonostante tutto il suo squallore, riusciva a emanare un certo fascino tra i radicali – in particolar modo tra gli studenti della Corea del Sud. Non appena la popolazione cominciò a morire di fame perché non riceveva più gli aiuti sovietici, l’eccitazione scomparve. Un altro effetto più o meno diretto della caduta dell’impero sovietico fu la scomparsa di molti movimenti estremisti che, sebbene nelle intenzioni volessero rappresentare un più nobile spirito rivoluzionario, in realtà potevano operare solo perché Mosca forniva le armi, i campi di addestramento e i soldi. Gli europei amano sottolineare che i terroristi degli anni Settanta e Ottanta – Baader-Meinhof in Germania, Brigate Rosse in Italia – si ritenevano tutti veri marxisti e non avevano nulla a che fare con i vecchi comunisti corrotti della Russia. Tuttavia oggi noi sappiamo che questi movimenti erano profondamente dipendenti dagli aiuti che arrivavano dal blocco sovietico, e che non appena gli aiuti cessarono anche il terrorismo svanì. Il fallimento dell’Unione Sovietica distrusse soprattutto il sogno socialista. Per un secolo e mezzo l’idea di socialismo – «da ognuno secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo i propri bisogni» – servì come punto di riferimento intellettuale per coloro che non apprezzavano il modo con cui venivano trattati dal mercato. I leader nazionalisti invocavano gli ideali socialisti perché ostacolavano gli investimenti stranieri o non permettevano l’indebitamento con l’estero; i sindacati usavano la retorica del socialismo per chiedere salari più elevati; anche gli uomini d’affari facevano riferimento a vaghi princìpi socialisti per chiedere dazi doganali o sussidi. E i governi che, nonostante tutto, avevano optato per un mercato più o meno libero, lo facevano con molta cautela, quasi con un po’ di vergogna, perché avevano sempre il timore che un atteggiamento troppo esplicito potesse essere considerato alla stregua di una politica brutale, inumana, antisociale. Ma con che faccia oggi ci si può permettere di utilizzare le espressioni tipiche del socialismo? Faccio parte della generazione dei «baby boomer» e di conseguenza riesco a ricordarmi di quando l’idea di rivoluzione, di uomini coraggiosi che portavano avanti la storia, aveva ancora un certo fascino. Ora questa parola è come una barzelletta che non fa più ridere nessuno: dopo tutte le purghe e i gulag, la Russia è arretrata e corrotta come non lo è mai stata; dopo tutti i Grandi balzi e le Rivoluzioni culturali, la Cina ha deciso che far soldi è la cosa più importante. Circolano ancora estremisti di sinistra, che dichiarano ostinatamente che il vero socialismo non è ancora stato messo in pratica; e ci sono ancora moderati di sinistra che affermano con maggiori giustificazioni che si può rifiutare il marxismo-leninismo senza dover necessariamente diventare discepoli di Milton Friedman. Ma la verità è che il nocciolo del socialismo non rappresenta più un’opposizione al capitalismo. Per la prima volta dopo il 1917 viviamo dunque in un mondo in cui i diritti alla proprietà e al libero mercato sono considerati princìpi fondamentali, non più cinici espedienti; dove gli aspetti negativi dell’economia di mercato – ineguaglianza, disoccupazione, ingiustizia – sono accettati come parte della vita. Come accadeva durante l’epoca vittoriana, il capitalismo è garantito non solo dai suoi successi – che, come vedremo tra poco, sono molto concreti – ma dal fatto che nessuno dispone di alternative plausibili. Questa situazione non durerà per sempre. Di sicuro seguiranno altre ideologie, altri sogni; prima o poi questi ultimi prenderanno forma se la crisi economica attuale persisterà e si estenderà ulteriormente. Ma per ora il capitalismo governa in maniera incontrastata il mondo. Il ciclo economico addomesticato I grandi nemici della stabilità capitalistica sono sempre stati la guerra e la depressione. La guerra, inutile dirlo, è ancora con noi. Ma le guerre che hanno rischiato di mettere fine al capitalismo negli anni intermedi del XX secolo erano conflitti giganteschi tra grandi potenze – ed è difficile immaginare come una guerra di quella portata possa scoppiare nel prevedibile futuro. E che dire della depressione? La Grande Depressione riuscì quasi a distruggere sia il capitalismo sia la democrazia e portò più o meno direttamente alla guerra. Tuttavia nel mondo industrializzato a quest’ultima seguì un lungo periodo di elevata crescita, durante il quale le recessioni furono brevi e non particolarmente gravi. Fino agli ultimi anni Sessanta gli Stati Uniti erano andati avanti così a lungo senza una recessione che gli economisti avevano iniziato a tenere conferenze dal titolo Il ciclo economico è ormai un concetto obsoleto? Era troppo presto per porsi questa domanda: gli anni Settanta furono segnati dalla «stagflazione», un crollo economico unito a inflazione; e, come ho già accennato nell’introduzione, le due crisi energetiche del 1973 e del 1979 furono seguite dalle peggiori recessioni mai conosciute dopo gli anni Trenta. All’inizio degli anni Novanta ci si pose nuovamente la domanda, e come abbiamo visto, pochi anni fa sia Robert Lucas sia Ben Bernanke hanno dichiarato pubblicamente che mentre l’economia avrebbe continuato a incontrare occasionali battute d’arresto, l’era delle grandi depressioni, e tanto più delle depressioni globali, era definitivamente alle nostre spalle. Come potete farvi un’idea su queste affermazioni, se non limitandovi a notare che di recente l’economia non ha avuto più grandi recessioni? In realtà per rispondere a questa domanda è necessario compiere una digressione teorica e chiederci innanzitutto che cosa vuol dire ciclo economico. In particolare, perché le economie di mercato vivono momenti di recessione? Dite tutto quello che volete, ma per favore non dite che la risposta è ovvia – che le recessioni succedono a causa di X, dove X rappresenta il vostro preconcetto. La verità è che, se ci pensate bene – in particolar modo se siete dell’idea che i mercati abbiano l’obiettivo di far incontrare domanda e offerta – la recessione è una cosa veramente molto insolita. Durante un crollo economico, in particolar modo uno di quelli più gravi, sembra infatti che ci sia troppa offerta e niente più domanda. Ci sono lavoratori a disposizione ma non abbastanza posti di lavoro, stabilimenti perfettamente funzionanti ma non abbastanza ordini, negozi aperti ma non abbastanza clienti. È piuttosto facile osservare come ci possa essere una carenza di domanda su alcuni prodotti: se le industrie producono grandi quantità di bambole Barbie, ma ci si rende conto che i consumatori preferiscono invece le più moderne Bratz, alcune Barbie resteranno inevitabilmente invendute. Ma come è possibile che, complessivamente, il livello della domanda resti basso? Non è forse necessario che la gente spenda i propri soldi per qualcosa? La gente ha di solito problemi a parlare razionalmente delle recessioni perché le è difficile capire quello che accade durante un crollo, perché non riesce a concepire il tutto da un punto di vista pratico. A questo proposito mi diverte molto raccontare una storia, sia per spiegare cosa siano effettivamente le recessioni sia per aiutarmi a pensare in maniera creativa. (I lettori dei miei precedenti libri hanno già avuto modo di leggerla.) È una storia vera, anche se nel capitolo 3 ne utilizzerò una versione un po’ rielaborata per chiarire le difficoltà che attualmente incontra il Giappone. Questa storia era contenuta in un articolo scritto da Joan e Richard Sweeney, pubblicato nel 1978 con il titolo La teoria monetaria e la grande crisi della cooperativa di baby-sitter di Capitol Hill. Non fermatevi al titolo: si tratta di una cosa seria. Durante gli anni Settanta la famiglia Sweeney era socia, pensate un po’, di una cooperativa di baby-sitter: un’associazione di giovani coppie, in questo caso quasi tutta gente impiegata presso il Congresso degli Stati Uniti, che volevano aiutarsi reciprocamente a fare da babysitter ai propri bambini. Questa cooperativa era piuttosto grossa, formata da circa 150 coppie: di conseguenza c’era grande abbondanza di potenziali babysitter e gestire l’organizzazione – in particolar modo assicurarsi che ogni coppia avesse fatto il suo dovere – non era assolutamente facile. Come tante altre istituzioni simili (e altri sistemi di scambio), la cooperativa di Capitol Hill aveva un problema da risolvere: doveva emettere dei certificati, i buoni che dessero diritto al portatore a un’ora di baby-sitter. Chi si occupava di assistere i bambini avrebbe ricevuto i buoni dai genitori che lasciavano in custodia i loro figli. Strutturato in questo modo, il sistema era a prova di furbo: assicurava automaticamente che, con il tempo, ogni coppia avrebbe elargito tante ore di baby-sitter quante ne aveva ricevute. Ma non era così semplice. Si scoprì che un sistema di questo tipo necessitava la messa in circolazione del giusto numero di certificati. Le coppie che avevano più serate consecutive libere, e nessun piano per uscire nell’immediato, avrebbero cercato di accumulare riserve per il futuro; questo accumulo sarebbe stato compensato dalla diminuzione delle riserve delle altre coppie, ma con il tempo ogni coppia avrebbe mediamente desiderato risparmiare abbastanza buoni per poter uscire durante periodi di intensa attività di baby-sitter. L’emissione di buoni da parte della cooperativa di Capitol Hill era il risultato di un processo complicato: le coppie ricevevano i buoni ogni volta che si prestavano a fare da baby-sitter, dovevano consegnarli ogni volta che lasciavano i propri figli, ma dovevano pagare sotto forma di buoni anche chi si occupava della gestione. I dettagli non sono importanti: il punto è che arrivò il momento in cui ci furono relativamente pochi buoni in circolazione – troppo pochi, effettivamente, per soddisfare i bisogni della cooperativa. Il risultato fu molto particolare. Le coppie che si resero conto che le proprie riserve di buoni erano diventate insufficienti cercarono a tutti i costi di fare da baby-sitter e diventarono riluttanti all’idea di uscire la sera. Ma quando una coppia decideva di uscire, dava a un’altra l’opportunità di fare da baby-sitter; di conseguenza le opportunità di fare da babysitter si fecero rare, rendendo le coppie ancora più riluttanti a usare le loro riserve se non nelle occasioni speciali, il che rese le opportunità di fare da babysitter ancora più rare… In breve, la cooperativa entrò in un momento di recessione. Va bene, prendiamoci un momento di sosta. Come avete reagito di fronte a questa storia? Se siete confusi – questo doveva essere un libro sulle crisi economiche, non sulla cura dei bambini – non avete afferrato la morale della storia. L’unico modo per rendere comprensibile un sistema complesso, che si tratti di previsioni del tempo a livello globale o dell’economia mondiale, è quello di lavorare con dei modelli – rappresentazioni semplificate che ci si augura possano aiutare a capirne il funzionamento. Alcune volte si tratta di sistemi di equazioni, oppure di programmi di computer (come le simulazioni che forniscono quotidianamente le previsioni del tempo); altre volte i sistemi sono simili ai modelli di aeroplani che i progettisti sperimentano nelle gallerie del vento, versioni in scala ridotta di oggetti di più grandi dimensioni, più facili da osservare e studiare. La cooperativa di baby-sitter di Capitol Hill era un sistema economico in miniatura – in realtà era una piccola economia in grado di sperimentare un momento di recessione. Ma quello che visse fu una recessione reale, così come la portanza generata dalle ali di un modello di aeroplano è una portanza a tutti gli effetti; e così come il comportamento di quel modello può dare ai progettisti indicazioni utili riguardo al futuro comportamento di un jumbo jet, gli alti e bassi di quella cooperativa ci possono fornire importanti lezioni riguardo ai motivi per cui le economie di dimensioni reali funzionano o meno. Se non siete più offesi che confusi – in questa sede dovevamo discutere argomenti importanti e invece vi stanno raccontando simpatiche storielle sugli yuppies di Washington – vergognatevi. Ricordatevi quel che ho detto nell’introduzione: la stravaganza, il desiderio di giocare con le idee, non solo è divertente ma è pure indispensabile, in tempi come i nostri. Non fidatevi mai di un progettista di aeroplani che si rifiuta di giocare con i modellini, e non date mai fiducia a un esperto di economia che non gioca con i suoi modelli economici. La storiella della cooperativa di baby-sitter torna utile proprio come strumento per comprendere i problemi assolutamente non stravaganti dell’economia reale. I modelli teorici che usano gli economisti, la maggior parte dei quali sono complessi concetti matematici, sembrano spesso molto più complicati di quest’ultimo, ma di solito le loro conclusioni possono essere riassunte in semplici storielle, simili a quella della cooperativa di Capitol Hill (e, se non è possibile, allora è segno che c’è qualcosa che non funziona con il modello). Finirò per tornare più volte sulla storia delle baby-sitter, in diversi momenti del libro. Per ora, tuttavia, limitiamoci a considerare due importanti conseguenze di questa storia: una riguardo a come le recessioni possono nascere, l’altra riguardo a come è possibile gestirle. Innanzitutto, perché la cooperativa di baby-sitter ebbe un momento di recessione? Il motivo non era che i membri della cooperativa stessero facendo male il loro compito di baby-sitter: forse lo stavano facendo, o forse no, ma in ogni caso non è questo il discorso. Il motivo non era neanche che i valori della cooperativa fossero degenerati, che avesse preso piede il nepotismo, o che non ci si fosse adeguati a una determinata tecnologia. Il problema non aveva niente a che fare con l’abilità della cooperativa a produrre, ma semplicemente con la mancanza di «domanda effettiva»: si spendeva troppo poco in beni reali (le ore di baby-sitter) perché la gente preferiva accumulare contanti (i buoni per le ore di baby-sitter). La lezione per il mondo reale è che la vulnerabilità nei confronti del ciclo economico può avere poco o nulla a che fare con i fondamentali: cose brutte possono capitare anche alle buone economie. In secondo luogo, come si poteva risolvere il problema? I coniugi Sweeney affermano che, nel caso della cooperativa di Capitol Hill, era piuttosto difficile convincere il comitato di gestione – formato in larga misura da avvocati – che il problema era fondamentalmente tecnico, e che avevano una rapida soluzione a portata di mano. All’inizio i responsabili della cooperativa considerarono il problema come «strutturale»: fu emanata una regola che obbligava ogni coppia a uscire almeno due volte al mese. Alla fine, tuttavia, gli economisti ebbero la meglio e fu deciso di aumentare l’offerta di buoni. Il risultato fu sorprendente: con più ampie riserve di buoni le coppie cominciarono ad avere più voglia di uscire, e così facendo diedero maggiori opportunità ad altre coppie di fare da baby-sitter, rendendo queste ultime ancora più desiderose di uscire, e così via. Il PIL della cooperativa di babysitter, calcolato in termini di bambini accuditi, aumentò. Il motivo non fu che le coppie disponevano di migliori babysitter o che la cooperativa fosse passata attraverso un radicale processo di riforma; il motivo era semplicemente che si era deciso di correggere una situazione di scarsità di denaro contante. Le recessioni, in altre parole, possono essere sconfitte semplicemente stampando nuova moneta – e talvolta (di solito) possono essere curate con estrema facilità. E con questo ritorniamo al ciclo economico nel mondo a dimensioni reali. L’economia di una piccola nazione è, naturalmente, di gran lunga più complessa di quella di una cooperativa di baby-sitter. Tra le altre cose, nel mondo reale la gente spende il denaro non solo per il suo piacere attuale ma per investire sul futuro (immaginate di chiedere aiuto ai membri della cooperativa non per sorvegliare i vostri figli, ma per costruire un nuovo piccolo recinto per bambini). Nel mondo reale c’è anche il mercato dei capitali, nel quale le persone che dispongono di contanti in eccesso possono concedere prestiti a quelli che ne hanno bisogno. Ma la questione di fondo è sempre la stessa: una recessione è un evento che normalmente riguarda un insieme di persone che cercano di accumulare contanti (o, detto in maniera diversa, che cercano di risparmiare più di quello che investono), a cui normalmente si può ovviare limitandosi a emettere nuovi buoni. Nel mondo moderno coloro che emettono buoni sono le banche centrali: la Federal Reserve, la Banca centrale europea, la Bank of Japan e così via. Il loro compito è quello di tenere in equilibrio l’economia, aggiungendo o togliendo contanti a seconda delle necessità. Ma se è veramente così facile ovviare al problema, perché mai ci sono collassi economici? Perché le banche centrali non stampano sempre abbastanza moneta per mantenerci a un livello di piena occupazione? Prima della Seconda guerra mondiale la risposta sembrava essere abbastanza evidente: questa politica si rivelava inefficace perché chi doveva applicarla non sapeva esattamente che cosa stava facendo. Oggi praticamente tutti gli economisti, da Milton Friedman fino alla sinistra, concordano sul fatto che la Grande Depressione fu causata da un’improvvisa caduta della domanda, e che la Federal Reserve avrebbe dovuto combattere il tracollo con grandi iniezioni di liquidità. Ma all’epoca questo non era assolutamente il pensiero della maggioranza. Al contrario, molti importanti economisti aderirono a una sorta di fatalismo moralistico, che considerava la depressione come una conseguenza inevitabile dei precedenti eccessi dell’economia, e addirittura come un processo salutare: la ripresa, dichiarò Joseph Shumpeter, «è salutare solo se non la si cerca. Poiché ogni ritorno dovuto a soli interventi artificiali lascia irrisolta una parte degli obiettivi della depressione e aggiunge, a un residuo non ancora digerito di difficoltà, nuove difficoltà che a loro volta devono essere eliminate, minacciando così in prospettiva l’economia con un’altra [peggiore] crisi». Questo fatalismo scomparve dopo la guerra, e per alcuni anni la maggior parte dei paesi si diede da fare per controllare attivamente il ciclo economico, con un successo considerevole; le recessioni diventarono più tenui e normalmente c’era abbondanza di lavoro. Alla fine degli anni Sessanta molti cominciarono a credere che il ciclo economico non fosse più un problema serio; anche Richard Nixon promise di utilizzare la politica del «fine tuning».{1} Non era altro che arroganza; e il tragico difetto delle politiche di pieno impiego divenne evidente negli anni Settanta. Se la banca centrale è eccessivamente ottimista riguardo al numero di posti di lavoro che possono essere creati, se mette in circolazione troppa moneta, come risultato si ha l’inflazione; e una volta che l’inflazione si è profondamente radicata nelle aspettative della gente, può essere estirpata dal sistema solo attraverso un periodo di elevata disoccupazione. Si aggiungano alcuni shock esterni che improvvisamente aumentano i prezzi – come, per esempio, il raddoppio del prezzo del petrolio – ed ecco pronta la ricetta per ottenere pericolosi collassi economici, che possono avvicinarsi alla depressione. Ma alla fine degli anni Ottanta l’inflazione era tornata a livelli tollerabili, l’offerta di petrolio era abbondante e le banche centrali sembravano aver capito come gestire l’economia. In realtà gli spiacevoli eventi che erano accaduti in precedenza avevano finito per rafforzare la sensazione che fossimo finalmente riusciti a capirci qualcosa. Nel 1987, per esempio, il mercato azionario statunitense collassò – con un crollo durato un solo giorno, che si rivelò terribile quanto il primo giorno del crollo del ’29. Ma la Federal Reserve rifornì di contanti il sistema, l’economia reale non fece neanche registrare una flessione e l’indice Dow Jones riprese presto quota. Alla fine degli anni Ottanta le banche centrali, preoccupate per un piccolo aumento dell’inflazione, non avvertirono per tempo i segnali di una recessione nascente, e mentre la combattevano ne rimasero vittime; questa recessione costò il posto a George Bush ma, alla fine, la solita medicina fece effetto e gli Stati Uniti conobbero un altro periodo di elevata crescita. Alla fine degli anni Novanta sembrava corretto dire che il ciclo economico, se non eliminato, era perlomeno sotto controllo. Gran parte del merito di questi risultati fu dato alle autorità monetarie: mai nel corso della storia il governatore di una banca centrale ha ricevuto tanti onori come Alan Greenspan. Si aveva la sensazione che la struttura dell’economia facesse sembrare sempre più verosimile una situazione di continua prosperità. La tecnologia come elemento salvifico In senso strettamente tecnologico si potrebbe dire che l’età moderna dell’informatica iniziò quando Intel lanciò sul mercato il microprocessore – l’anima di un computer su un singolo chip – nel 1971. Nei primi anni Ottanta i prodotti che utilizzavano questa tecnologia per gli usi più conosciuti – fax, videogiochi e personal computer – cominciavano a essere sempre più popolari. Ma all’epoca non la si percepiva ancora come una rivoluzione. La maggior parte delle persone dava per scontato che l’industria informatica avrebbe continuato a essere dominata da grandi multinazionali burocratizzate come IBM – o che tutte le nuove tecnologie avrebbero seguito il destino del fax, del videoregistratore e dei videogiochi: inventati da americani intraprendenti, ma trasformati in prodotti redditizi solo da sconosciuti produttori giapponesi. Negli anni Novanta, tuttavia, era ormai chiaro che l’industria informatica avrebbe completamente cambiato la struttura e le logiche della nostra economia. È ancora possibile restare scettici riguardo ai benefici economici indotti dalla tecnologia informatica. Quello che non si può negare è che le nuove tecnologie abbiano avuto un impatto più visibile sul nostro modo di lavorare, rispetto a qualunque innovazione emersa negli ultimi venti o trent’anni. Dopo tutto il tipico uomo moderno oggi lavora seduto in ufficio, e dal 1900 fino agli anni Ottanta l’arredo e il modo di lavorare tipici di un ufficio – macchine da scrivere e archivi, appunti e riunioni – sono cambiati molto poco. (È vero, la macchina fotocopiatrice ci ha permesso di fare a meno della carta carbone.) Successivamente, in un periodo di tempo molto breve, è cambiato tutto: pc collegati in rete su ogni scrivania, posta elettronica e Internet, videoconferenze e telelavoro. Tutto ciò ha rappresentato un evidente cambiamento qualitativo, e ha dato una sensazione di progresso che i soli miglioramenti quantitativi non potevano dare. E questo senso di progresso ha aiutato a far nascere una nuova sensazione di ottimismo riguardo al capitalismo. I nuovi settori economici ci hanno riportato indietro a quello che potremmo chiamare il «romanzo del capitalismo»: l’immagine di un eroico imprenditore che costruisce una migliore trappola per topi e che, così facendo, diventa meritatamente ricco. A partire dall’epoca di Henry Ford quella figura eroica era stata progressivamente mitizzata, mentre l’economia diventava sempre più dominata da grandi multinazionali, gestite non da romantici innovatori ma da burocrati che avrebbero benissimo potuto essere funzionari dello stato. Nel 1968 John Kenneth Galbraith scrisse che «con la nascita delle aziende moderne, la creazione di organizzazioni compatibili alle moderne tecnologie e ai sistemi di pianificazione, e la separazione tra la figura di chi possiede il capitale e quella di chi gestisce l’azienda, scompare l’imprenditore, inteso come persona impegnata nella gestione di mature strutture industriali». E chi avrebbe potuto dirsi entusiasta di un sistema capitalistico che assomigliava più o meno a un socialismo senza giustizia? L’industria informatica, tuttavia, diede un bello scossone alla struttura industriale. Così come era accaduto nel XIXsecolo, la storia economica tornò a essere opera di individui speciali: uomini (e solo di rado donne) che ebbero una grande idea, la approfondirono nel loro garage o sul loro tavolo di cucina e si arricchirono improvvisamente. Le riviste di economia diventarono finalmente interessanti da leggere; e, dopo un secolo, il successo economico tornò a essere una cosa desiderabile. Tutto ciò creò terreno fertile per le idee liberiste. Quarant’anni fa i difensori del libero mercato e delle virtù dell’imprenditorialità senza vincoli avevano un problema di immagine: quando dicevano «impresa privata», la maggior parte delle persone pensava alla General Motors; quando dicevano «manager» la maggior parte delle persone pensava a uomini con un vestito di flanella grigia. Negli anni Novanta tornò la vecchia idea che la ricchezza fosse il prodotto della virtù, o per lo meno della creatività. Ma ciò che alimentò veramente l’ottimismo economico fu l’incredibile diffusione della prosperità – non solo nei paesi industrializzati (dove, in realtà, i benefici non erano così condivisi come ci si sarebbe potuti augurare), ma anche in quei paesi che non molto tempo fa sarebbero stati considerati senza speranza. I frutti della globalizzazione La definizione «Terzo Mondo» era stata originariamente coniata per esprimere un certo orgoglio: Jawaharlal Nehru la utilizzò per primo per descrivere i paesi che avevano difeso la loro indipendenza, non alleandosi né con l’Occidente né con l’Unione Sovietica. Ma in breve l’originaria intenzione politica fu sopraffatta dalla realtà economica: il «Terzo Mondo» cominciò a voler dire arretrato, povero, sottosviluppato. E questo termine perse la connotazione di legittima ambizione, per acquistarne una priva di speranza. Questo cambiamento era dovuto alla globalizzazione: il trasferimento di tecnologia e di capitale dai paesi con alto costo del lavoro a quelli con manodopera più a buon mercato, e la conseguente crescita di esportazioni ad alta intensità di lavoro dal Terzo Mondo. È assai difficile ricordare a cosa somigliava il mondo prima della globalizzazione; quindi proviamo a far girare all’Indietro le lancette dell’orologio, fino al Terzo Mondo di meno di una generazione fa (è ancora così, in molti paesi). A quel tempo, sebbene la rapida crescita economica di alcuni piccoli paesi del vicino Oriente avesse già iniziato ad attirare l’attenzione, paesi in via di sviluppo come le Filippine, l’Indonesia o il Bangladesh restavano in gran parte quello che erano sempre stati: esportatori di materie prime, importatori di prodotti finiti. Piccoli, inefficienti settori produttivi rifornivano i mercati interni, protetti da quote d’importazione, ma questi settori generavano pochi posti di lavoro. Allo stesso tempo l’aumento della popolazione costrinse i poveri contadini a coltivare territori sempre più marginali, o a cercare in tutti i modi di sopravvivere – per esempio facendosi dare in concessione una delle tante montagne di rifiuti che si trovano alla periferia di molte città del Terzo Mondo. In mancanza di altre opportunità, a Giacarta o a Manila era possibile assumere operai per un tozzo di pane. Ma, alla fine degli anni Settanta, la disponibilità di lavoro a buon mercato non bastava a rendere competitivo un paese in via di sviluppo sui mercati mondiali. I vantaggi dei paesi industrializzati – il know-how tecnico e logistico, le dimensioni molto più vaste dei mercati e la vicinanza ai fornitori, la stabilità politica e i sottili ma cruciali adattamenti sociali necessari a operare in un’economia efficiente – sembravano compensare differenze pari anche a dieci o venti volte il costo della mano d’opera. Anche gli estremisti sembravano aver perso ogni speranza di poter capovolgere questa situazione: negli anni Settanta la richiesta di un Nuovo Ordine Economico Internazionale si concentrava sul tentativo di aumentare il prezzo delle materie prime, piuttosto che di far entrare i paesi del Terzo Mondo nel moderno sistema industriale. E poi, improvvisamente, successe qualcosa. Un misterioso insieme di eventi che ancora non abbiamo ben compreso – meno barriere all’ingresso, migliori telecomunicazioni, tariffe aeree più convenienti – ridussero gli svantaggi per chi produceva nei paesi in via di sviluppo. A pari condizioni è ancora meglio produrre nei paesi industrializzati – sono numerosi i casi di aziende che, dopo aver spostato la produzione in Messico o nel vicino Oriente, hanno deciso di tornare sui loro passi dopo aver toccato con mano gli svantaggi del Terzo Mondo – ma a quell’epoca in alcuni settori il basso costo del lavoro rappresentò per i paesi in via di sviluppo un vantaggio competitivo sufficiente per poter entrare nei mercati mondiali. E così i paesi che prima sopravvivevano vendendo juta o caffè, cominciarono invece a produrre magliette e scarpe di tela. Gli operai impiegati nella produzione di scarpe e magliette vengono inevitabilmente pagati molto poco e devono essere disposti a sopportare condizioni di lavoro terribili. Ho detto «inevitabilmente» perché i loro datori di lavoro non hanno deciso di avviare un’attività economica per prendersi cura della propria salute (o di quella dei propri operai); cercheranno quindi di pagare il meno possibile, e questo minimo dipende dalle altre opportunità che i lavoratori hanno a disposizione. E in molti casi si tratta ancora di paesi molto poveri. Tuttavia nei paesi dove i nuovi settori dediti all’export hanno trovato terreno fertile, c’è stato un miglioramento innegabile nella vita della gente comune. In parte perché i nuovi settori economici devono poter offrire ai lavoratori uno stipendio in qualche modo più alto di quello reperibile altrove, così da incentivare il cambiamento. Ancora più importante, tuttavia, è che la crescita dell’industria – e di tutto l’indotto che ha creato l’export – abbia avuto un effetto benefico su tutta l’economia. La spinta a occupare nuove terre divenne meno intensa e di conseguenza gli stipendi dei contadini crebbero; si ridusse il numero di disoccupati che nelle grandi città erano sempre in cerca di lavoro e, così facendo, le industrie cominciarono a disputarsi l’un l’altra i lavoratori, e gli stipendi cominciarono a crescere anche nelle città. Nei paesi dove questo processo era durato abbastanza a lungo – per esempio nella Corea del Sud o a Taiwan – gli stipendi hanno raggiunto livelli da paesi avanzati. (Nel 1975 lo stipendio medio orario nella Corea del Sud era solo il di quello degli Stati Uniti; nel 2006 era salito al 62%.) I benefici per la popolazione dei paesi da poco industrializzati, causati dalla crescita delle esportazioni, erano evidenti. Un paese come l’Indonesia è ancora così povero che il progresso può essere misurato con la quantità di cibo che in media ogni abitante può mangiare; tra il 1968 e il 1990 la razione di cibo giornaliera pro capite aumentò da 2000 a 2700 calorie e l’aspettativa di vita passò dai 46 ai 63 anni. Si possono osservare miglioramenti simili lungo tutta la costa del Pacifico e anche in stati come il Bangladesh. Questi miglioramenti ebbero luogo senza che nessun occidentale avesse fatto niente per aiutare le popolazioni – gli aiuti provenienti dall’estero, mai troppi, negli anni Novanta si ridussero praticamente a zero. I miglioramenti non erano neanche la conseguenza di particolari politiche attuate dai governi nazionali, che – come presto ci saremmo resi conto – erano corrotti e senza cuore. Erano invece il risultato indiretto e non intenzionale della condotta di multinazionali senz’anima e di imprenditori locali senza scrupoli, il cui unico scopo era quello di approfittare delle interessanti opportunità offerte dalla disponibilità di lavoro a buon mercato. Non era uno spettacolo particolarmente edificante; ma poco importa quanto fossero spregevoli le motivazioni di coloro che vi erano coinvolti: il risultato fu quello di riuscire a tirare fuori dalla povertà più miserabile centinaia di milioni di persone e a creare condizioni di vita che in molti casi erano ancora orribili ma, nonostante tutto, erano assai migliori di prima. Una volta di più il capitalismo poteva, a ragione, vantarsi dei risultati raggiunti. I socialisti avevano a lungo promesso lo sviluppo; una volta il Terzo Mondo considerava i Piani quinquennali di Stalin il solo modo con cui una nazione sottosviluppata poteva entrare nel xx secolo. Anche dopo che l’Unione Sovietica aveva perso la sua fama progressista, molti intellettuali credevano che solo non entrando in competizione con i sistemi economici più avanzati le nazioni povere potevano sperare di uscire dalle loro trappole. Negli anni Novanta, tuttavia, alcuni paesi testimoniarono che un rapido sviluppo dopo tutto era possibile – e lo si poteva ottenere non con l’orgoglioso isolazionismo socialista, ma integrandosi invece il più possibile al capitalismo globale. Gli scettici e i critici Non tutti erano soddisfatti dello stato dell’economia mondiale dopo la caduta del comunismo. Mentre gli Stati Uniti vivevano un momento di grande ricchezza, altre economie industrializzate avevano qualche problema. Il Giappone non si era ancora ripreso dalla crisi che la sua economia aveva vissuto all'inizio degli anni Novanta e l’Europa stava ancora soffrendo della «Eurosclerosi», vale a dire del continuo presentarsi di alti tassi di disoccupazione – specialmente tra i giovani – anche durante i momenti di ripresa economica. Anche negli Stati Uniti non tutti condividevano la medesima sensazione di prosperità. I benefici della crescita erano ripartiti in modo ineguale: la disuguaglianza sia della ricchezza sia del reddito aveva raggiunto livelli che non si vedevano dall’epoca del Grande Gatsby e le statistiche ufficiali affermavano che per molti lavoratori i salari reali erano diminuiti. Anche interpretando i numeri con un minimo di logica era piuttosto evidente che i progressi dell’economia americana avevano lasciato almeno 20 o 30 milioni di persone nei gradini più bassi della scala sociale, dopo averli ricacciati all’indietro. Alcune persone si sentivano offese da altre cose ancora. I bassi salari e le misere condizioni di lavoro in industrie che esportavano dai paesi del Terzo Mondo costituivano un frequente pretesto per discorsi d’ordine morale – dopo tutto, secondo gli standard dei paesi industrializzati, quei lavoratori erano certamente dei poveracci, e questi critici non si lasciavano convincere dall’argomento che un cattivo lavoro con un basso stipendio era pur sempre meglio di nessun lavoro. Le persone più sensibili facevano inoltre notare che vaste parti del mondo non erano ancora state toccate dai benefici della globalizzazione: in particolare l'Africa era ancora un continente contraddistinto da livelli di povertà sempre maggiori, da un malessere diffuso e da guerre brutali.E, come sempre, c’era chi vedeva nero. Ma fin dagli anni Trenta c’è sempre stata gente che prediceva una nuova depressione; gli osservatori più razionali hanno imparato a non prendere sul serio questi moniti. Ecco perché gli inquietanti sviluppi determinatisi in America Latina nella prima metà degli anni Novanta – sviluppi che segnalavano effettivamente, adesso lo sappiamo, la possibilità del ritorno a un’economia della depressione – sono stati generalmente ignorati. 2. UN AVVERTIMENTO IGNORATO: LE CRISI DELL’AMERICA LATINA Immaginate di fare un gioco con le parole – una persona dice un nome o una frase e l’altra deve rispondere la prima cosa che le viene in mente – con un banchiere internazionale di grande esperienza, un esponente del mondo della finanza o un economista. Fino a poco tempo fa, e forse anche adesso, di fronte alla parola «crisi finanziaria» la risposta sarebbe sicuramente stata «America Latina». Per molti anni i paesi dell’America Latina hanno quasi avuto l’esclusiva di crisi valutarie, fallimenti bancari, brevi periodi di iperinflazione, e di tutti gli altri problemi monetari di cui siamo a conoscenza. Deboli governi eletti democraticamente si alternavano a dittature militari, ed entrambi cercavano di conquistare la fiducia della gente con programmi populisti che in realtà non potevano permettersi. Nell’intento di finanziare questi programmi finivano per ricorrere a prestiti concessi da disinvolti banchieri esteri, che facevano entrare in crisi la bilancia dei pagamenti, oppure alla stampa di denaro contante, che creava iperinflazione. Oggi, quando gli economisti parlano dei pericoli del «populismo macroeconomico», dei diversi modi con cui il denaro può fare una brutta fine, stanno implicitamente ragionando in «peso». Alla fine degli anni Ottanta sembrava che l’America Latina avesse finalmente imparato la lezione. In America Latina pochi ammiravano la brutalità di Augusto Pinochet, ma le riforme economiche che aveva lanciato in Cile si rivelarono molto efficaci e furono mantenute quando il Cile tornò finalmente alla democrazia nel 1989. Il ritorno del Cile alle virtù vittoriane – il denaro e il libero mercato – cominciò a incuriosire sempre più gli investitori, mentre il paese stava accelerando il suo tasso di crescita. Inoltre le vecchie politiche sembravano finalmente arrivate a fine corsa: la crisi finanziaria iniziata nel 1982 era andata avanti per gran parte del decennio, ed era sempre più chiaro che solo qualche cambiamento radicale a livello politico avrebbe permesso alla regione di ricominciare a muoversi. E così l’America Latina cominciò a darsi da fare. Le aziende di proprietà dello stato furono privatizzate, furono tolte le restrizioni alle importazioni, furono ripianati i deficit di bilancio. Il controllo dell’inflazione divenne un obiettivo prioritario; in alcuni casi, come vedremo, i paesi adottarono drastiche misure per ridare fiducia alle valute. Questi sforzi vennero presto ricompensati non solo da una maggiore efficienza, ma anche da una rinnovata fiducia da parte degli investitori stranieri. I paesi che avevano trascorso gli anni Ottanta come paria – almeno fino al 1990 chi vendeva i buoni del tesoro di paesi latino-americani a investitori più propensi al rischio riceveva in cambio, in media, solo 30 centesimi per ogni dollaro – cominciarono a essere apprezzati dai mercati internazionali, che fecero arrivare quantità di denaro tali da far sembrare poca cosa anche i debiti bancari che avevano originato la crisi finanziaria. I media internazionali iniziarono a parlare della «nuova» America Latina, in particolare del «miracolo messicano». Nel settembre del 1994 il Rapporto mondiale sul livello di competitività, preparato da coloro che presiedevano le famose conferenze di Davos, ospitò uno speciale intervento dell’eroe del momento, il presidente del Messico, Carlos Salinas. Tre mesi dopo, il Messico piombò in una delle peggiori crisi finanziarie mai viste. La cosiddetta «crisi tequila» causò una delle più dure recessioni che avessero mai colpito un solo paese dagli anni Trenta; le sue ripercussioni si diffusero in tutta l’America Latina, riuscendo quasi a far crollare il sistema bancario in Argentina. Ripensandoci a posteriori, quella crisi avrebbe dovuto essere considerata come un presagio, un avvertimento che la reputazione dei mercati può cambiare da un momento all’altro, che quello che oggi è il benevolo atteggiamento della stampa non può prevenire una futura crisi di fiducia. Ma l'avvertimento fu ignorato. Per capire il perché bisogna dare un’occhiata alla cronaca della grande crisi dell’America Latina. Il Messico: dagli anni Ottanta in poi Nessuno potrebbe considerare poco sofisticato il governo del Messico. La stretta cerchia che attorniava il presidente, i cosiddetti Cientìficos, era costituita da giovani uomini ben educati, che desideravano che il Messico diventasse una nazione moderna e di conseguenza credevano fosse necessaria una maggiore integrazione con l’economia mondiale. Gli investitori stranieri erano i benvenuti, i loro diritti di proprietà venivano garantiti. E, attratti dalla leadership progressista, questi ultimi arrivarono effettivamente in gran numero, ed ebbero un ruolo cruciale nel processo di modernizzazione del paese. Ok, vi ho preso in giro. Non sto parlando di uno degli ultimi governi messicani. Sto descrivendo il regime di Porfirio Diaz, che governò il Messico dal 1876 al 1911, quando il suo regime fu rovesciato da una sommossa popolare. Il governo che salì al potere dopo un decennio di guerra civile era populista, nazionalista, e sospettoso degli investitori stranieri in generale e di quelli statunitensi in particolare. I membri del Partito Istituzionale Rivoluzionario (PRI), dal nome così attraente, volevano modernizzare il Messico, ma lo volevano fare a modo loro: le aziende erano gestite da società nazionali e rifornivano il mercato locale, tenute al riparo da stranieri più efficienti grazie a tariffe e a massimali d’importazione. Il denaro straniero lo si poteva anche accettare, finché non comportava come conseguenza la perdita del controllo; il governo messicano fu ben felice di permettere alle aziende di prendere in prestito dalle banche statunitensi, a condizione che le azioni con diritto di voto rimanessero nelle mani dei messicani. Questa politica economica si è probabilmente rivelata inefficiente; a eccezione dei maquiladoras, aziende orientate all’esportazione, a cui era permesso di operare solo in una stretta zona di confine vicino agli Stati Uniti, il Messico non riuscì ad approfittare della crescente globalizzazione. Una volta avviata, la politica messicana si radicò profondamente nel sistema politico e sociale del paese, difeso da oligarchie industriali (che avevano l’accesso preferenziale ai crediti e ai permessi all’importazione), da politici (che ricevevano denaro dagli oligarchi), e dai sindacati (che rappresentavano «un’aristocrazia» di lavoratori relativamente ben pagati in alcune industrie protette). Bisogna anche dire che fino agli anni Settanta il Messico fu attento a non esporsi eccessivamente da un punto di vista finanziario; la crescita era molto lenta, ma per lo meno non c’erano crisi. Negli ultimi anni Settanta, tuttavia, la tradizionale cautela fu messa da parte. L’economia messicana entrò in una fase di boom, che si nutriva delle nuove scoperte petrolifere, dell’elevato prezzo del petrolio e di grandi prestiti ricevuti dalle banche straniere. Mentre l’economia si surriscaldava e la liquidità continuava a crescere, pochi scorgevano i segnali di pericolo. Rari articoli suggerivano la nascita di problemi finanziari, ma era opinione condivisa che il Messico (e, in generale, l’America Latina) stava correndo pochi rischi. Questo atteggiamento compiacente si può quantificare: al più tardi nel luglio 1982 gli interessi sui buoni del tesoro messicani erano leggermente inferiori a quelli di altre istituzioni presumibilmente sicure, indicando così che gli investitori consideravano minimo il rischio che il Messico non sarebbe riuscito a rispettare le scadenze dei pagamenti. A metà del mese successivo, tuttavia, una delegazione di funzionari messicani volò a Washington per informare il segretario al Tesoro statunitense che erano a corto di denaro e che il Messico non poteva più onorare i propri debiti. Nel giro di pochi mesi la crisi si era allargata a gran parte dell’America Latina e anche oltre, mentre le banche avevano smesso di concedere prestiti e cominciavano a chiederne il pagamento. Con enormi sforzi – prestiti d’emergenza da parte del governo degli Stati Uniti e di agenzie internazionali come la Bank for International Settlements, la modifica dei tempi di pagamento, e quello che formalmente si chiamava «prestito concertato» (in cui le banche sono più o meno obbligate a prestare ai paesi il denaro di cui questi ultimi hanno bisogno per pagare gli interessi sui debiti) – la maggior parte dei paesi cercò di evitare che l’inadempienza fosse completa. Il prezzo pagato per aver evitato di un soffio la catastrofe finanziaria, tuttavia, fu una severa recessione, seguita da una ripresa lenta e spesso incerta. Nel 1986 il reddito reale pro capite era del 10% inferiore a quello del 1981; i salari reali, colpiti da un tasso d’inflazione medio superiore al 70% negli ultimi 4 anni, erano del 30% più bassi del loro livello precedente alla crisi. A questo punto entra in scena una nuova generazione di riformatori. Nel corso degli anni Settanta in Messico una «nuova classe» era diventata sempre più influente all'interno del gruppo dirigente e del governo. Beneducati, spesso laureati ad Harvard o al MITcon un ottimo inglese e una visione internazionale dei problemi, si sentivano abbastanza messicani per riuscire a navigare nelle acque politiche dei boss e dei patronati del PRIma sufficientemente americani per credere che le cose dovevano essere diverse da come erano. La crisi economica lasciò la vecchia guardia, i «dinosauri», a corto di risposte; i tecnici che potevano spiegare come le riforme del libero mercato avessero funzionato in Cile, come la crescita focalizzata all’esportazione avesse funzionato in Corea, come l’obiettivo della stabilizzazione dell’inflazione fosse stato raggiunto in Israele, diventarono gli uomini del momento. Alla fine degli anni Ottanta molti economisti latino-americani avevano abbandonato la vecchia visione statalista degli anni Cinquanta e Sessanta in favore di quello che venne chiamato «Washington Consensus»: la crescita si poteva raggiungere più facilmente con bilanci sani, bassa inflazione, mercati non regolamentati e libero scambio. Nel 1985 il presidente Miguel de la Madrid cominciò a mettere in pratica la sua dottrina, soprattutto attraverso una radicale liberalizzazione del commercio messicano: i dazi furono eliminati e la tipologia di importazioni che richiedeva licenze governative fu drasticamente ridotta. Il governo cominciò a vendere alcune delle aziende di sua proprietà e rese meno severe le regole che disciplinavano la proprietà straniera. La decisione forse più ammirevole di tutte fu la designazione da parte di Miguel de la Madrid del suo successore. Non il solito capo del PRIma un campione dei nuovi riformatori: il ministro della Programmazione e del Bilancio Carlos Salinas de Gortari, anche lui in possesso di una laurea della Kennedy School of Government di Harvard, circondato da uno staff di economisti di elevata reputazione formati in gran parte al MIT. Non a caso ho usato l’espressione «designare come successore». Dal 1920 al 1990 il sistema politico messicano fu veramente unico. Sulla carta si trattava di una democrazia rappresentativa, ma solo da poco questa definizione ha cominciato a diventare realtà. Nel 1988, l’anno in cui Salinas fu eletto, la democrazia messicana era in pratica una versione gonfiata del vecchio modo di fare politica a Chicago: un sistema a partito unico nel quale gli elettori erano oggetto di politiche clientelari, e ogni calo di voti era compensato da un sistema di conteggio molto creativo. Tuttavia l’aspetto più straordinario di questo sistema era che il presidente, sebbene fosse diventato quasi un monarca assoluto durante i suoi sei anni di mandato, non poteva ottenere un secondo mandato; doveva lasciare il posto, con tutte le ricchezze accumulate durante questo periodo, e lasciare le redini a un successore designato che sarebbe stato nominato dal PRI e che avrebbe inevitabilmente vinto le elezioni. Nel 1988 questo sistema, come il Messico nel suo complesso, era sotto tensione. Salinas aveva di fronte per la prima volta un vero antagonista nelle elezioni generali: Cuauhtémoc Càrdenas, figlio di un famoso vecchio presidente, che criticava il riformismo liberistico di Salinas ed era favorevole a un populismo di stampo più tradizionale e anticapitalistico. Si trattò di elezioni dall’esito non scontato: vinse Càrdenas. Ma i risultati ufficiali furono diversi. Salinas diventò presidente; in questo caso, più di quanto non fosse già avvenuto con i suoi predecessori, doveva ottenere dei risultati. Proprio per questo si rivolse al suo team di esperti economici proveniente da Cambridge. I successi dell’epoca di Salinas si fondavano su due importanti decisioni politiche. Innanzitutto una deliberazione sulla crisi finanziaria. All’inizio del 1989, dopo aver archiviato con sicurezza l’elezione presidenziale, il governo degli Stati Uniti volle inaspettatamente riconoscere gli aspetti più spiacevoli della realtà. Ammise finalmente ciò che tutti sapevano da tempo, vale a dire che molte casse di risparmio avevano giocato con il denaro pubblico e che dovevano essere chiuse. Intanto, nel corso di un inatteso discorso, il segretario al Tesoro Nicholas Brady dichiarò inoltre che il debito dell’America Latina non poteva essere completamente rimborsato e che parte del debito sarebbe stata congelata. Il cosiddetto Piano Brady era più un’intenzione che un vero e proprio piano – il discorso di Brady era frutto di intrighi burocratici, durante i quali i funzionari governativi che avrebbero avuto le competenze tecniche per mettere assieme un piano in grado di alleggerire il debito furono tenuti da parte, per paura che potessero sollevare obiezioni. Tutto ciò diede ai messicani, estremamente competenti, l’opportunità che stavano aspettando. Nel giro di pochi mesi avevano escogitato un progetto valido. Il Messico finì per sostituire una parte dell’ingente debito con «titoli Brady» di valore nominale più basso. Complessivamente la diminuzione del debito messicano ottenuta grazie all’accordo Brady fu modesta, ma rappresentò una svolta psicologica. I messicani, che a lungo erano stati considerati poco affidabili, si tranquillizzarono nel vedere che i banchieri esteri gli erano venuti un po’ incontro; il debito divenne un tema di politica interna. Allo stesso tempo gli investitori stranieri, che avevano esitato a depositare in Messico i propri capitali per paura di non riuscire più a riportarli a casa, considerarono l’accordo come la conclusione di un capitolo, e si mostrarono disponibili a versare denaro fresco. Diminuirono i tassi d’interesse che il Messico era stato obbligato a pagare per evitare che il denaro uscisse dal paese; e poiché il governo non doveva più pagare tassi di interesse sul debito così elevati, in breve il deficit di bilancio svanì. Un anno dopo l’accordo Brady, la situazione finanziaria del Messico si era trasformata. La soluzione del problema del debito non era però l’unico asso nella manica di Salinas. Nel 1990 quest’ultimo sorprese il mondo proponendo che il Messico firmasse un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada (il Messico aveva già negoziato un accordo di libero scambio con ciascuno dei due paesi). In termini quantitativi il North American Free Trade Agreement, o avrebbe avuto meno conseguenze di quanto si poteva pensare: il mercato statunitense era già aperto ai prodotti messicani e la liberalizzazione del commercio era cominciata quando de la Madrid aveva dato una svolta al Messico, anche se non radicale, in direzione del libero scambio. Ma, come le misure volte alla riduzione del debito, il aveva come obiettivo quello di rappresentare un punto di svolta psicologico. Facendo sì che la decisione del Messico di aprirsi ai prodotti stranieri e agli investitori di altri paesi non fosse solo un’iniziativa di politica interna, ma parte di un trattato internazionale, Salinas sperava di rendere il cambiamento irreversibile – e di convincere in tal senso i mercati. Salinas sperava anche di poter garantire che l’apertura del Messico sarebbe stata ricambiata, che gli Stati Uniti avrebbero effettivamente assicurato al Messico l’accesso perpetuo al proprio mercato. George Bush accettò l’offerta di Salinas. Come avrebbe potuto rifiutare? Nel 1982, quando esplose la crisi finanziaria, molta gente negli Stati Uniti ebbe paura di un processo di radicalizzazione della politica messicana, nel corso del quale le forze antiamericane – forse addirittura comuniste – avrebbero potuto avere la meglio. Invece erano miracolosamente giunte al potere persone ben disposte nei confronti degli Stati Uniti e del libero mercato – gente che ci assomigliava: costoro si offrirono di abbattere tutte le vecchie barriere. Lasciarli cadere avrebbe rappresentato uno schiaffo in faccia alle riforme; sarebbe stato praticamente come incentivare l’insorgere dell’instabilità e dell’ostilità nel nostro vicino. A causa degli urgenti motivi di politica estera, i diplomatici americani si mostrarono entusiasti riguardo al NAFTA. Come vedremo, convincere il Congresso si rivelò invece un po’ più difficile. Ma nei primi momenti d’entusiasmo tutto ciò era ancora lontano. Mentre in Messico le riforme andavano avanti – le aziende di stato venivano privatizzate, vi erano sempre meno restrizioni alle importazioni, venivano ben accolti gli investitori stranieri – l’entusiasmo nei confronti del paese aumentò. Personalmente mi ricordo di avere parlato a un gruppo di dirigenti di una multinazionale – che erano a capo delle filiali dell’America Latina – a Cancun nel marzo del 1993. In quell’occasione espressi alcune deboli riserve sulla situazione messicana, e dimostrai che il risultato delle riforme era stato un po’ deludente. «Lei è la sola persona in questa stanza che ha qualcosa di negativo da dire riguardo a questo paese», mi fu detto in maniera educata. Persone come quelle della stanza in questione finirono per investire i loro soldi proprio in questo paese: nel 1993 più di 30 miliardi di dollari di capitale estero furono investiti in Messico. L'Argentina rompe con il passato «Ricco come un argentino». Questo era un modo di dire comune in Europa prima che scoppiasse la Prima guerra mondiale, un’epoca in cui l’Argentina era considerata dalla gente, e dagli investitori, come una terra dalle mille opportunità. Al pari dell’Australia, del Canada e degli Stati Uniti, l'Argentina era una nazione ricca di risorse, una delle destinazioni preferite sia dagli emigrati europei sia dal capitale europeo. Buenos Aires era una graziosa città con un’atmosfera europea, al centro di una buona rete ferroviaria costruita e finanziata dagli inglesi, che facilitava l’esportazione di grano e carne delle pampas in tutto il mondo. Unita da commercio e investimenti all’economia globale, dal telegrafo al mercato mondiale dei capitali, l’Argentina rappresentava un solido tassello del sistema internazionale di prima della guerra. È vero, anche l’Argentina talvolta aveva avuto la tendenza a stampare troppo denaro e a trovarsi in difficoltà nell’onorare il debito estero. Ma lo stesso capitava allora agli Stati Uniti. Pochi avrebbero potuto immaginare che l’Argentina sarebbe caduta così in basso. Gli anni tra le due guerre furono difficili per l’Argentina, come per tutti i paesi esportatori di materie prime. I prezzi dei prodotti agricoli rimasero bassi negli anni Venti e crollarono negli anni Trenta. La situazione peggiorò a causa dell’aumento del debito avvenuto durante gli anni migliori. In effetti l’Argentina era come un agricoltore che chiedeva ingenti prestiti quando i tempi erano favorevoli, e poi si trovava dolorosamente schiacciato tra prezzi in caduta e inderogabili pagamenti di debiti. Nonostante tutto, durante la Depressione l’Argentina non si comportò così male come ci si sarebbe potuti aspettare. Il suo governo si rivelò meno indottrinato di quelli dei paesi industrializzati, determinati a difendere a tutti i costi le loro politiche monetarie. Grazie alla svalutazione del peso, ai controlli sulla fuga dei capitali e a una moratoria sul pagamento dei debiti, l’Argentina fu in realtà in grado di vivere un momento di forte ripresa dopo il 1932; in realtà nel 1934 gli europei avevano ripreso a emigrare in Argentina, perché avevano migliori prospettive di trovare un lavoro di quante ne avessero a casa propria. Ma il successo delle politiche eterodosse durante la Depressione collaborò a creare abitudini di governo che si rivelarono sempre più distruttive a mano a mano che il tempo passava. I controlli sugli scambi con l’estero costituirono un insieme di regole così complesse da diventare un incubo, con il risultato che finirono per scoraggiare le imprese e per incoraggiare la corruzione. Quelle che erano temporanee limitazioni delle importazioni divennero barriere permanenti, dietro alle quali sopravvivevano industrie incredibilmente inefficienti. Le aziende privatizzate divennero occasione per sperperare il denaro pubblico e per dare lavoro a centinaia di migliaia di persone senza riuscire ad assicurare neanche i servizi fondamentali. Il deficit di bilancio correva impazzito, conducendo a brevi periodi di inflazione ancora più distruttivi. Negli anni Ottanta le cose peggiorarono ulteriormente. Dopo la sconfitta subita nella guerra delle Falkland del 1982, il governo militare argentino cadde e il governo laico di Raúl Alfonsín prese il potere con la promessa di rivitalizzare l’economia. Ma la crisi finanziaria colpì l’Argentina in maniera altrettanto forte del resto dell’America Latina, e il tentativo di Alfonsín di stabilizzare i prezzi introducendo una nuova valuta, l’austral, si rivelò un fallimento. Nel 1989 il paese soffriva di una vera iperinflazione, con i prezzi che crescevano a un tasso annuale del 3000%. Vinse le elezioni del 1989 Carlos Menem, il peronista – vale a dire il candidato del partito fondato da Juan Perón, le cui politiche nazionalistiche e protezionistiche erano servite più di tutto il resto a trasformare l’Argentina in un paese del Terzo Mondo. Menem, come si scoprì successivamente, era pronto a una versione economica di quello che era stato il viaggio di Nixon in Cina. Come ministro delle Finanze nominò Domingo Cavallo, un laureato ad Harvard (dello stesso anno di Pedro Aspe, ministro delle finanze del Messico nella fase di maturazione della crisi). Cavallo sviluppò un piano di riforma persino più radicale di quello del Messico. Parte del piano riguardava l’apertura dell’Argentina ai mercati mondiali – in particolare si voleva porre fine all’abitudine distruttiva, consolidata da tempo, di considerare le esportazioni agricole del paese come attività su cui imporre tasse molto elevate, che potessero poi servire a finanziare altro. Anche la privatizzazione dell’immenso e inefficiente settore statale del paese procedeva a ritmi veloci. (Al contrario del Messico, l’Argentina privatizzò anche la compagnia petrolifera statale.) Considerato che la precedente politica argentina era forse la peggiore al mondo, queste riforme ebbero importanti conseguenze. Ma il tocco distintivo di Cavallo fu dato dalla riforma monetaria. Con l’obiettivo di mettere fine per sempre alla tradizione inflattiva del paese, Cavallo fece resuscitare un sistema monetario che era stato quasi dimenticato nel mondo moderno: il currency board. Il currency board era tipico dei possedimenti coloniali europei, che avevano normalmente il permesso di stampare la propria moneta; ma quest’ultima doveva essere strettamente ancorata al valore della moneta del paese colonizzatore; la solvibilità veniva assicurata da una legge secondo la quale l’emissione di valuta nazionale doveva essere completamente garantita da valute forti. La gente aveva dunque diritto a convertire la valuta locale in sterline o in franchi a tassi stabiliti per legge, e la banca centrale era obbligata a conservare una quantità di denaro del paese colonizzatore sufficiente a cambiare tutto il denaro espresso in valuta locale. Negli anni del dopoguerra, con il declino degli imperi coloniali e la nascita di un’attiva gestione dell’economia, il currency board cadde nel dimenticatoio. È vero, nel 1983 Hong Kong, in un momento in cui la propria valuta stava subendo forti pressioni, istituì un currency board che fissava il dollaro di Hong Kong a 7,8 nei confronti del dollaro statunitense. Ma anche Hong Kong era una specie di reliquia coloniale, sebbene assai dinamica, e questo precedente non colpì particolarmente l’attenzione. Il bisogno di credibilità dell’Argentina era tuttavia disperato, e così Cavallo tornò al passato. Il vecchio austral fu sostituito da un nuovo peso, e per quest’ultimo fu stabilito un tasso di scambio fisso – un peso per un dollaro – con ogni dollaro in circolazione garantito da un dollaro di riserve. Dopo decenni in cui aveva abusato della propria valuta, con una legge l'Argentina aveva adesso completamente rinunciato alla possibilità di stampare nuova moneta, a meno che qualcuno volesse cambiare un dollaro per un peso. I risultati furono incredibili. L’inflazione si ridusse rapidamente a un tasso vicino allo zero. Come il Messico, l'Argentina negoziò un accordo Brady e fu ricompensata dalla ripresa di flussi di capitale dai paesi esteri, sebbene non della stessa portata. Si riprese anche l’economia reale: dopo anni di declino, il PIL aumentò di un quarto in soli tre anni. Il difficile anno del Messico Alla fine del 1993 c’erano altre nuvole all’orizzonte dell’America Latina? Gli investitori erano euforici: sembrava che il nuovo orientamento liberista avesse trasformato il continente in una terra piena di opportunità. Gli uomini d’affari stranieri, come quelli ai quali avevo parlato a Cancun, erano tutti ugualmente sconvolti: il mercato da poco liberalizzato aveva creato nuove e grandi opportunità. Solo alcuni economisti nutrivano perplessità e queste ultime erano relativamente poco importanti. Una domanda che si ponevano sia il Messico sia l’Argentina era quale fosse la giusta definizione del tasso di cambio. Entrambi i paesi avevano stabilizzato le loro valute; entrambi avevano fatto calare l’inflazione; ma in tutti e due i casi l’inflazione sopravviveva alla stabilizzazione del tasso di cambio. In Argentina, per esempio, il peso fu ancorato al dollaro nel 1991; tuttavia nel corso dei due anni successivi i prezzi aumentarono del 50%, rispetto al 7% degli Stati Uniti. Un processo simile, anche se meno severo, coinvolse il Messico; in entrambi i casi l’effetto fu quello di rendere costosi i prodotti nazionali sui mercati mondiali, e gli economisti iniziarono a pensare che le valute erano state sopravvalutate. Una questione simile riguardava la bilancia commerciale (più precisamente quella che si chiama bilancia dei pagamenti, un indicatore che comprende servizi, pagamenti d’interessi e così via – tuttavia utilizzerò i due termini in maniera intercambiabile). Nei primi anni Novanta le esportazioni messicane aumentarono abbastanza lentamente, in gran parte perché la forza del peso rendeva i prezzi non competitivi. Allo stesso tempo aumentarono le importazioni, stimolate sia dall’eliminazione delle barriere protezioniste, sia da una significativa crescita del credito. Di conseguenza ci fu un notevole surplus di importazioni sulle esportazioni: nel 1993 il deficit del Messico aveva raggiunto l’8% del PIL, un livello con pochi altri precedenti nella storia. Era un segnale di difficoltà? I funzionari messicani, e molti altri al di fuori del paese, risposero di no. La loro spiegazione prendeva direttamente spunto dai testi di economia. Per una semplice legge contabile la bilancia dei pagamenti è sempre in equilibrio: vale a dire che ogni acquisto effettuato all’estero deve essere compensato da una corrispondente vendita di valuta. (Gli studenti di economia sanno che esiste una piccola eccezione a questa affermazione, che riguarda i trasferimenti unilaterali, ma non importa.) Se un paese ha un deficit di spese correnti – compra più beni di quelli che vende – deve avere una corrispondente eccedenza di flussi di capitale – vendere più titoli di quelli che acquista. E vale anche il contrario: un paese che ha un’eccedenza di flussi di capitale deve avere un deficit sulle spese correnti. Ma ciò significa che il successo ottenuto dal Messico nell’incentivare gli stranieri ad acquistare titoli messicani aveva come necessaria conseguenza il deficit commerciale – il deficit, in realtà, era semplicemente un altro modo di dire che gli stranieri pensavano che il Messico fosse un posto ideale dove investire. L’unico motivo per cui ci si sarebbe dovuti veramente preoccupare, dicevano gli ottimisti, sarebbe stato se l’ingresso di capitali fosse stato in qualche modo stimolato artificialmente – se il governo avesse attirato i capitali dall’estero dando lui stesso denaro in prestito (come era successo nel 1982), o creando deficit di bilancio che avessero fatto diminuire i risparmi interni. Il governo messicano, tuttavia, aveva un bilancio in equilibrio, e in realtà stava accumulando sempre più titoli stranieri (riserve in valuta estera), piuttosto che passività. Quindi perché preoccuparsi? Se il settore privato voleva investire in Messico, perché il governo avrebbe dovuto fermarlo? Tuttavia c’era un aspetto preoccupante nei risultati ottenuti dal Messico: una volta fatte tutte le riforme e con tutto il capitale che arrivava dall’estero, dov’era la crescita? Tra il 1981 e il 1989 l’economia messicana era cresciuta solo a un tasso annuale dell’1,3%, ben al di sotto della crescita demografica, lasciando il reddito pro capite a un livello molto inferiore a quello del 1981. Dal 1990 al 1994, gli anni del «miracolo messicano», le cose andarono decisamente meglio: l’economia si sviluppò del 2,8% annuo. Ma tutto ciò era ancora ben al di sotto della crescita demografica; nel 1994 il Messico, secondo le sue stesse statistiche, restava sotto ai livelli del 1981. Dov’era il miracolo – dove si erano nascosti i risultati di tutte queste riforme, degli investimenti stranieri? Nel 1993 l’economista del MIT Rudiger Dornbush, uno studioso di lunga data dell’economia messicana (e che era stato professore di molti degli economisti che governavano il Messico, incluso Aspe), scrisse una caustica analisi sulla situazione, intitolata Messico: stabilizzazione, riforma e nessuna crescita. I difensori dei risultati messicani facevano notare che da questi numeri non si riusciva a percepire il vero progresso dell’economia, in particolar modo la trasformazione da una struttura industriale inefficiente e chiusa in sé stessa a una altamente competitiva e dedita all’export. Tuttavia non era certo fonte di soddisfazione che gli ingenti capitali provenienti dall’estero producessero risultati così miseri. Cosa c’era di sbagliato? Dornbush e altri sostenevano che il problema stava nel valore del peso: una valuta eccessivamente forte metteva fuori mercato i prodotti messicani, impedendo così all’economia di trarre vantaggio dall’aumento della sua capacità produttiva. Il Messico quindi aveva bisogno di una svalutazione – una riduzione «una tantum» del valore del peso espresso in dollari, che avrebbe permesso all’economia di riprendersi. Dopo tutto, nel 1992 la Gran Bretagna era stata obbligata dai mercati finanziari (in particolare da George Soros – vedi capitolo 6) a lasciare che il valore della sterlina diminuisse, e il risultato fu quello di trasformare la recessione in ripresa. Il Messico, dicevano alcuni, aveva bisogno di una dose della stessa medicina. (Simili proposte erano state avanzate anche a proposito dell’Argentina, la cui economia era cresciuta molto più in fretta di quella del Messico, ma che aveva dovuto far fronte a un tasso di disoccupazione ostinatamente elevato.) I messicani rifiutarono questi discorsi, assicurando gli investitori che il loro piano economico stava procedendo secondo programma, che non c’erano motivi per svalutare il peso e che non avevano alcuna intenzione di farlo. Fu particolarmente importante mettere in piedi un valido piano di difesa, perché il North American Free Trade Agreement aveva bisogno dell’approvazione del Congresso statunitense ed era contrastato dall’opposizione. Ross Perot aveva messo in guardia che gli Stati Uniti avrebbero ascoltato un «gran rumore di parassiti» muovendosi verso sud; opinioni più rispettabili vennero sorrette da motivazioni più serie. Nel 1993 l’amministrazione Clinton, che aveva ereditato il NAFTA dai suoi predecessori, si lasciò alle spalle tutti i precedenti tentennamenti e, con gran difficoltà, arrivò alla meta; si trattava però di una decisione presa con l’acqua alla gola – appena in tempo. Infatti, nel corso del 1994 in Messico alcune cose importanti iniziarono peggiorare. Il primo dell’anno ci fu una rivolta di agricoltori nel povero stato rurale del Chiapas, un’area che non era stata colpita dai cambiamenti economici e politici che si erano diffusi in tutto il paese. La stabilità del governo non fu messa in discussione, ma l’incidente ricordava che le vecchie cattive abitudini della corruzione e l’opprimente povertà rurale interessavano ancora una parte importante del Messico. Un fatto ancora più grave fu l’assassinio di Donaldo Colosio, il successore di Salinas, avvenuto a marzo. Colosio rappresentava una rara combinazione tra la figura di un riformista e quella di un politico dotato di grande carisma popolare; era considerato da tutti l’uomo in grado di legittimare il nuovo modo di gestire il paese; l’assassinio privò il Messico di un leader di cui si aveva molto bisogno e suggerì che forze oscure (boss politici corrotti? signori della droga?) non volevano un vero riformatore al governo. Il candidato che ne prese il posto, Ernesto Zedillo, era un economista che aveva studiato negli Stati Uniti, una persona la cui onestà e intelligenza non venivano messe in discussione; ma era un politico ingenuo che si sarebbe fatto comandare dai dinosauri? Alla fine, nel periodo precedente le elezioni, il cercò di ottenere consensi spendendo somme notevoli; parte dei peso stampati fu convertita in dollari, prosciugando le riserve di valuta estera. Zedillo vinse le elezioni, questa volta onestamente, perché riuscì a convincere gli elettori che il pensiero populista di Càrdenas avrebbe provocato una crisi finanziaria – come mi ha spiegato un amico messicano, il convinse gli elettori che, se non avessero votato per Zedillo, «ciò che era successo prima, sarebbe successo di nuovo». Nonostante tutto, purtroppo, la crisi esplose. La crisi tequila Nel dicembre del 1994, di fronte a una drastica riduzione delle riserve di valuta estera, le autorità messicane dovevano decidere cosa fare. Potevano coprire le perdite aumentando i tassi d’interesse, rendendo di conseguenza attraente ai residenti messicani conservare in peso il loro denaro e, magari, riuscendo anche ad attirare capitali stranieri. Ma questo aumento dei tassi d’interesse avrebbe danneggiato le aziende e i consumatori e il Messico era, dopo parecchi anni di crescita assai scarsa, già sull’orlo di una recessione. In alternativa potevano svalutare il peso – ridurre il suo valore nei confronti del dollaro – augurandosi di poter ottenere gli stessi effetti raggiunti dall’Inghilterra diciassette mesi prima. In realtà una svalutazione poteva rendere nel migliore dei casi non solo più competitive le esportazioni messicane, ma anche convincere gli investitori stranieri che i titoli messicani erano un buon investimento, e di conseguenza che i tassi d’interesse potevano diminuire. Il Messico decise di svalutare. Ma combinò un disastro. Quello che ci si aspetta succeda quando la valuta di un paese viene svalutata è che gli speculatori dicano «Ok, è finita» e smettano di scommettere sulla sua continua discesa. Così successe per Inghilterra e Svezia nel 1992. Il pericolo è che gli speculatori interpretino la prima svalutazione come un primo avvertimento di qualcosa che deve ancora venire, e che comincino dunque a speculare in maniera ancora più forte. Per evitare che tutto ciò accada, un governo deve normalmente seguire alcune regole. Prima di tutto, se si decide di svalutare, la svalutazione deve essere sufficientemente grande. In secondo luogo, subito dopo aver deciso la svalutazione è necessario dare la sensazione che tutto sia sotto controllo, che ci si sta comportando da persone responsabili che capiscono quanto sia importante trattare correttamente gli investitori, e così via. Altrimenti la svalutazione rischia di congelare i dubbi riguardo alla solidità dell’economia, e scatena il panico. Il Messico contravvenne a tutte le regole. La svalutazione iniziale fu del 15%, solo la metà di quello che economisti quali Dornbush avevano suggerito. E il comportamento dei funzionari governativi fu tutto tranne che rassicurante. Il nuovo ministro delle Finanze, Jaime Serra Puche, si mostrò arrogante e indifferente ai giudizi dei creditori esteri; si scoprì inoltre che alcuni uomini d’affari messicani erano stati consultati in anticipo riguardo alla svalutazione, e furono date loro informazioni riservate che erano state negate ai creditori internazionali. Una massiccia fuga di capitali era ormai diventata inevitabile e il governo messicano dovette presto abbandonare i tassi di cambio fissi. Tuttavia Serra Puche fu rapidamente sostituito e il Messico cominciò a fare una serie di mosse appropriate; si sarebbe potuto pensare che tutte le riforme fatte a partire dal 1985 erano comunque servite a qualcosa. In realtà non fu così: gli investitori stranieri ricevettero uno shock – un autentico shock – nello scoprire che il Messico non era ciò che poteva sembrare, e vollero ritirare il loro denaro a tutti i costi. In breve tempo il peso valeva la metà di prima della crisi. Il problema più urgente era il bilancio del governo. I governi la cui credibilità finanziaria è sospetta fanno fatica a vendere titoli a lungo periodo, e normalmente finiscono per emettere un grande ammontare di debito a breve termine che deve essere rinnovato a intervalli frequenti. Il Messico non faceva eccezione; gli elevati tassi d’interesse sul debito rappresentarono uno dei principali problemi fiscali degli anni Ottanta. Come abbiamo visto, uno dei maggiori benefici apportati dall’Accordo Brady del 1989 fu che, dando più fiducia agli investitori, il Messico poté rinnovare il suo debito a breve termine a tassi d’interesse molto più bassi. Questi vantaggi si erano nel frattempo persi; e non solo: in marzo il Messico stava pagando agli investitori un tasso di interesse del 75%. Ancora peggio, nello sforzo di convincere i mercati che non avrebbe svalutato, il Messico aveva convertito miliardi di debito a breve termine nei cosiddetti tesobonos, che erano indicizzati al dollaro; mentre il peso crollava, la dimensione di questi debiti collegati al dollaro esplodeva. E se il problema dei tesobonos ricevette ampia pubblicità, il tutto servì solo a rafforzare la sensazione di panico. La crisi finanziaria del governo si allargò presto anche al settore privato. Nel 1995 il PIL del Messico sarebbe caduto del 7%, la produzione industriale del 15%, ben peggio di quanto accadde negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta – in realtà molto peggio del primo crollo che seguì la crisi finanziaria del 1982. Migliaia di imprese fallirono; centinaia di migliaia di lavoratori persero il posto. Rimane importante chiedersi perché la crisi finanziaria ebbe un tale effetto devastante sull’economia reale – e perché il governo messicano non poté far nulla (come invece aveva fatto la cooperativa di baby-sitter) per prevenire il tracollo. La cosa più impressionante fu che la crisi non si limitò a colpire il Messico. In realtà l’«effetto tequila» si diffuse praticamente in tutto il mondo, e in particolare agli altri paesi dell’America Latina, specialmente l’Argentina. Si trattava di una brutta sorpresa. Innanzitutto perché l’Argentina e il Messico sono agli estremi opposti dell’America Latina, con pochi scambi finanziari o commerciali tra di loro. In secondo luogo perché si riteneva che il «currency board» dell’Argentina fosse in grado di rendere invulnerabile la credibilità del suo peso. Come era potuta restare coinvolta nella crisi messicana? Forse l’Argentina fu attaccata perché per gli investitori yankee tutti i paesi dell’America Latina si assomigliano. Ma una volta cominciata la speculazione contro il peso dell’Argentina, diventò evidente che il «currency board» non era riuscito a mantenere quel tipo di isolamento che i suoi creatori si erano augurati. È vero, ogni peso in circolazione era garantito da un dollaro di riserve, così che da un punto di vista tecnico il paese poteva sempre difendere il valore del peso. Ma che cosa sarebbe successo quando la gente, razionalmente o meno, avrebbe iniziato a cambiare grandi quantità di peso in dollari? La risposta, come si scoprì successivamente, fu che le banche del paese si avvicinarono rapidamente all’orlo del collasso e minacciarono di trascinare con loro il resto dell’economia. Le cose andarono così: immaginate che un funzionario di un’azienda di credito di New York, innervosito dalle notizie che provengono dal Messico, decida che è meglio ridurre l’esposizione nei confronti dei paesi dell’America Latina – e che non vale la pena di spiegare al suo boss che, come ha ricordato una volta Ronald Reagan, «sono tutti paesi diversi». Di conseguenza dice a un cliente argentino che la sua linea di credito non verrà rinnovata e che i crediti arretrati devono essere rimborsati. Il cliente ritira i pesos necessari dalla banca locale, li converte in dollari senza problemi, poiché la banca centrale ha ampia disponibilità di dollari. Ma la banca argentina deve ora rinnovare le sue riserve di cassa; quindi chiede il rimborso di un prestito a un uomo d’affari argentino. È qui che cominciano i problemi. Per ripagare il debito l’uomo d’affari deve avere peso, che probabilmente dovranno essere ritirati da un conto presso qualche banca argentina – quest’ultima dovrà lei stessa chiedere il rimborso di alcuni debiti, portando così ad altri prelevamenti bancari e a ulteriori riduzioni di crediti. L’iniziale riduzione del credito dall’estero, in altre parole, avrà un effetto moltiplicatore all’interno dell’Argentina: ogni dollaro di riduzione di credito a New York porta a diversi peso di prestiti a Buenos Aires. Alla pari delle linee di credito, anche la situazione economica comincia a diventare rischiosa in Argentina. Le aziende hanno difficoltà a rimborsare i loro debiti sul breve periodo, e tutto ciò diventa ancora più difficile perché i clienti sono anch’essi sotto pressione finanziaria. I titolari di conti correnti cominciano a chiedersi se le banche possano veramente far fronte alle richieste della clientela e iniziano a premunirsi ritirando dei soldi, frenando così ancor di più il ricorso al credito; ed eccoci all’inizio di quel circolo vizioso di strozzatura creditizia e di corsa agli sportelli che ha devastato l’economia statunitense negli anni 1930-31. Oggi le nazioni moderne possono difendersi contro situazioni di questo genere. Innanzitutto i depositi sono assicurati dal governo, quindi i risparmiatori non hanno motivo di preoccuparsi per la solvibilità delle loro banche. In secondo luogo la banca centrale è pronta ad agire come «prestatore dell’ultima ora», inviando contanti alle banche così che queste ultime non sono obbligate a svendere disperatamente qualcosa per soddisfare le esigenze dei risparmiatori. In questo modo l’Argentina avrebbe potuto stroncare il processo sul nascere. Ma le cose non furono così facili. I risparmiatori argentini erano certi che i loro peso fossero al sicuro, ma non erano altrettanto sicuri che il peso avrebbe conservato il suo valore in dollari; quindi volevano premunirsi acquistando dollari, per ogni evenienza. E la banca centrale non poteva agire come prestatore dell’ultima ora perché non le era permesso stampare nuovi peso eccetto che in cambio di dollari! Le severe regole studiate per proteggere il sistema da una particolare tipologia di crisi di fiducia lo lasciarono profondamente vulnerabile a un altro tipo di attacco. All’inizio del 1995, quindi, sia il Messico sia l’Argentina passarono rapidamente dall’euforia al terrore: sembrava ormai evidente che gli esperimenti riformisti in entrambi i paesi avevano portato a crolli disastrosi. Il grande salvataggio Ciò di cui aveva urgente bisogno l’America Latina erano dollari: dollari con i quali il Messico avrebbe potuto ripagare i tesobonos alla scadenza, dollari che avrebbero permesso all'Argentina di stampare peso e di prestarli alle proprie banche. La soluzione della situazione messicana era la più urgente e difficile dal punto di vista politico. Mentre la maggior parte del denaro proveniva da agenzie internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, l’Europa e il Giappone consideravano il salvataggio del Messico come un tema di competenza degli USA, e di conseguenza gli Stati Uniti avrebbero dovuto provvedere da soli a fornire il denaro necessario. Sfortunatamente c’erano potenti forze politiche schierate contro un salvataggio di questo tipo. Chi si era opposto con tutte le forze al NAFTA considerava la crisi messicana una vendetta e non era disposto a vedere il denaro pubblico utilizzato per salvare i messicani e i banchieri che avevano prestato loro il denaro. Allo stesso tempo i conservatori rifiutavano l’idea di far intervenire i governi in aiuto del Messico, in particolare erano contrari al ruolo del Fondo Monetario Internazionale, che consideravano un passo in avanti in direzione di un governo mondiale. Divenne subito chiaro che il Congresso degli Stati Uniti non avrebbe approvato lo stanziamento di alcun fondo per il salvataggio del Messico. Fortunatamente si scoprì che il segretario al Tesoro statunitense poteva utilizzare a sua discrezione lo Exchange Stabilization Fund (ESF), un determinato ammontare di denaro riservato a interventi d’emergenza sui mercati azionari stranieri. L’obiettivo della legge che aveva predisposto questo fondo era chiaramente quello di stabilizzare il valore del dollaro; ma il testo non diceva esattamente così. Quindi, con grande creatività, il Tesoro lo utilizzò invece per stabilizzare il peso. Tra l’ESF e altre fonti di finanziamento, una linea di credito di ben 50 miliardi di dollari fu rapidamente messa a disposizione del Messico; e dopo diversi mesi da cardiopalma la situazione finanziaria cominciò a stabilizzarsi. Il salvataggio dell’Argentina fu invece attuato tramite la Banca Mondiale, che stanziò 12 miliardi di dollari per sostenere le banche del paese. I salvataggi non evitarono a Messico e Argentina una severa recessione economica – di gran lunga peggiore, in realtà, di quanto accadde nel primo anno della crisi finanziaria degli anni Ottanta. Ma alla fine del 1995 gli investitori cominciarono a tranquillizzarsi e ad avere fiducia che, dopo tutto, quei paesi non erano proprio destinati al collasso. Calarono i tassi d’interesse; la spesa cominciò ad aumentare; e dopo poco tempo il Messico e l’Argentina si stavano entrambi riprendendo. Per migliaia di aziende e milioni di lavoratori la crisi era stata devastante; ma finì prima di quanto molti avevano temuto o si erano aspettati. Trarre le conclusioni sbagliate Due anni dopo la fine della «crisi tequila» sembrava che tutto fosse rientrato nella norma. Sia il Messico sia l’Argentina stavano vivendo una fase di ripresa economica, e gli investitori che non si erano lasciati prendere dal panico ottennero ottimi risultati. Così quello che poteva essere considerato un avvertimento divenne, al contrario, fonte di soddisfazione. Mentre pochi mettevano esplicitamente in pratica le lezioni imparate dalle crisi in America Latina, una sintesi informale di saggezza post-tequila avrebbe potuto assomigliare a quanto segue. Innanzitutto la «crisi tequila» non concerneva il funzionamento del mondo intero: riguardava il Messico e solo il Messico. La crisi era stata causata da errori messicani – soprattutto politici, che avevano permesso alla valuta di sopravvalutarsi, avevano aumentato il credito invece di limitarlo quando erano iniziate le speculazioni nei confronti dei peso, e avevano gestito goffamente la svalutazione finendo per innervosire gli investitori. La portata del crollo rappresentava una diretta conseguenza della situazione messicana, con un passato ancora irrisolto infarcito di populismo e antiamericanismo; si sarebbe quasi potuto concludere che il crollo era una punizione per i brogli nell’elezione del 1988. La lezione che si poteva trarre, in breve, era che la sconfitta del Messico aveva scarsa rilevanza per il resto del mondo. È vero, la crisi si era diffusa nel resto dell’America Latina; ma la lotta dell’Argentina contro il crollo finanziario evitò in qualche modo di attirare l’attenzione del mondo intero, forse perché fu seguita da una ripresa così vigorosa. Di certo la «crisi tequila» non si sarebbe ripetuta in economie ben governate, che non avevano una storia di populismo macroeconomico – paesi come le economiemiracolo dell’Asia. L’altra lezione non riguardava il Messico, ma Washington – vale a dire il Fondo Monetario Internazionale e il segretario al Tesoro statunitense. La crisi sembrava avere mostrato che Washington aveva la situazione sotto controllo: disponeva delle risorse e delle competenze necessarie per contenere crisi finanziarie anche di questa portata. Grandi aiuti furono velocemente messi a disposizione del Messico; e riuscirono nel loro intento. Invece del difficile periodo che aveva caratterizzato l’inizio degli anni Ottanta, la «crisi tequila» si concluse in un anno e mezzo. Sembrava che questo tipo di problemi potesse essere gestito meglio che in passato. Quattordici anni dopo l’inizio della «crisi tequila», mentre gran parte del mondo, inclusi gli Stati Uniti, vive una crisi finanziaria che ricorda molto da vicino gli eventi del 1994-1995, è chiaro che avevamo tratto lezioni sbagliate dall’America Latina. Quello che ci saremmo dovuti chiedere era ciò che l’economista Guillermo Calvo, della Banca Mondiale e successivamente dell’Università del Maryland, era solito domandare nel corso dei convegni: «Perché una punizione così severa per un crimine così piccolo?». Nel periodo immediatamente successivo alla «crisi tequila» era fin troppo facile ripensare alle politiche seguite dal Messico e trovarle piene di errori; ma il problema era che al momento sembravano piuttosto buone e, anche dopo la crisi, era difficile trovare passi falsi abbastanza importanti da giustificare la catastrofe economica del 1995. Avremmo dovuto tenere a mente l’interrogativo di Calvo – che suggeriva l’esistenza di meccanismi che trasformavano errori di poco conto in disastri economici di vaste proporzioni. Avremmo dovuto prestare più attenzione ad alcuni commentatori, che affermavano che in realtà non c’era stato alcun errore grave, a eccezione di quell’insieme di segnali poco chiari che finirono per alterare le percezioni del mercato nei riguardi del Messico, e che misero in moto un processo di panico che si autoalimentava. Di conseguenza avremmo anche dovuto comprendere che quello che era accaduto al Messico poteva capitare altrove: l’apparente successo di un’economia, lo sguardo ammirato dei mercati e dei media nei confronti dei suoi manager, non garantivano che l’economia fosse immune da improvvise crisi finanziarie. Ripensandoci a posteriori, risulta anche evidente che abbiamo dato troppo credito a «Washington», al Fondo Monetario Internazionale e al segretario al Tesoro. Era vero che avevano tutti agito in maniera coraggiosa e decisa, e che i risultati raggiunti lo testimoniavano. Ma a un esame ravvicinato non era possibile prevedere che questi risultati avrebbero potuto essere raggiunti un’altra volta. Questo perché la movimentazione del denaro era stata resa possibile grazie a una sorta di gioco di prestigio legalizzato, in gran parte giustificato dalla speciale importanza che il Messico assumeva agli occhi degli Stati Uniti; in occasione di crisi successive non sarebbe stato possibile trovare il denaro così velocemente o facilmente. Inoltre il salvataggio del Messico fu facilitato dalla cooperazione del governo messicano: i collaboratori di Zedillo non dovevano soffocare il proprio orgoglio nazionalista ed erano in completa sintonia con Washington riguardo a quello che era necessario fare. Avere rapporti con paesi asiatici abituati a negoziare da una posizione di predominio, con leader che vedevano le cose solo a modo loro, sarebbe stato molto diverso. Soprattutto forse non siamo riusciti a capire fino a che punto il Messico e Washington furono semplicemente fortunati. Il salvataggio non fu il frutto di un piano approfondito che puntava alla radice dei problemi; si trattò di un’iniezione di denaro liquido a un governo colpito dall'esterno, che fece la sua parte prendendo decisioni dolorose, più per mostrare la volontà del governo di ridare fiducia al mercato che per affrontare i problemi economici. Ci riuscirono, purtroppo solo dopo che l’economia era stata severamente colpita; tuttavia non c’erano motivi validi per prevedere che una strategia di questo tipo avrebbe potuto funzionare anche la prossima volta. Per cui, quando la crisi arrivò, nessuno era pronto né all'emergere di una nuova «tequila» in Asia pochi anni dopo, né al fatto che un piano di salvataggio che ricalcava l’esperienza messicana si rivelasse inefficace. Eravamo ancora meno preparati alla crisi globale che è scoppiata nel 2007. La cosa incredibile riguardo alla nostra inconsapevolezza era che la più grande economia asiatica aveva già seri problemi e stava commettendo chiari errori nel gestire la propria attività economica. 3. LA TRAPPOLA DEL GIAPPONE C’è stato un periodo, non molto tempo fa, in cui gli Americani erano ossessionati dal Giappone. Il successo dell’industria giapponese fece nascere sia ammirazione sia paura; non era possibile entrare nella libreria di un aeroporto senza incappare in pile di libri che esibivano in copertina un sole calante o guerrieri samurai. Alcuni di questi titoli promettevano di svelare i segreti del management giapponese; altri profetizzavano (o chiedevano) una guerra economica. Modelli da prendere a esempio o demoni, i giapponesi erano al centro dell’attenzione. Tutto ciò appartiene al passato. Di tanto in tanto il Giappone finisce ancora sulle prime pagine dei giornali, specie per le cattive notizie – un tracollo del Nikkei o un problema sul «carry trade», mediante il quale i fondi speculativi si finanziano a basso costo in Giappone e prestano quei soldi altrove. Ma la maggior parte di noi ha perso interesse per l’argomento. Dopotutto i giapponesi non erano così forti, sembra aver concluso la gente, quindi possiamo permetterci di ignorarli. Questa è una vera sciocchezza. Ogni fallimento del Giappone ha per noi lo stesso valore di un suo successo. Quello che è accaduto al Giappone è sia una tragedia sia un presagio. La seconda più grande economia mondiale ha ancora milioni di lavoratori con un elevato livello d’istruzione e tanta buona volontà, un moderno mercato azionario, e un impressionante know-how tecnologico. Ha un governo stabile, che non ha difficoltà nel raccogliere le imposte; a differenza dell’America Latina o di economie asiatiche più piccole, il Giappone è una nazione creditrice, che non dipende dagli alti e bassi degli investitori stranieri. Le caratteristiche della sua economia, che produce in gran parte per il mercato interno, dovrebbero dare al Giappone – come agli Stati Uniti – una libertà d’azione negata ad altre nazioni. Il Giappone, tuttavia, ha subito per gran parte degli anni Novanta una fase di recessione, alternando brevi e insufficienti momenti di crescita economica a recessioni ancora più profonde. Una volta campione di crescita nel mondo industrializzato, alla fine del 1998 il Giappone aveva un reddito pro capite più basso di quello del 1991. Ancora peggio dei risultati era la sensazione di fatalismo e di impotenza: la perdita di fiducia nella capacità della politica pubblica di capovolgere la situazione. Era una tragedia: una grande economia come quella giapponese non ha bisogno né si merita una recessione decennale. Le disgrazie del Giappone non sono così terribili come quelle di altre nazioni asiatiche, ma sono durate di più, con motivazioni di gran lunga meno convincenti. Tutto ciò può anche suonare come un presagio: se è successo a loro, chi può dire che non possa succedere anche a noi? Ci è successo, infatti. Ma perché è capitato al Giappone? Quando il Giappone era il numero uno Nessun paese – neanche l’Unione Sovietica all’epoca dei piani quinquennali di Stalin – aveva mai vissuto una trasformazione così incredibile come quella del Giappone negli anni a elevata crescita compresi tra il 1953 e il 1973. Nell’arco di vent’anni una nazione di tradizione agricola diventò la più grande esportatrice di acciaio e di automobili, quella di Tokyo divenne l’area metropolitana più grande e forse anche più dinamica del mondo, e la qualità della vita fece un salto in avanti. Alcuni occidentali se ne accorsero. Già nel 1969 il futurologo Herman Kahn pubblicò La nascita del superstato giapponese, prevedendo che gli elevati tassi di crescita avrebbero fatto diventare il Giappone la più grande economia mondiale entro l’anno 2000. Ma solo alla fine degli anni Settanta – pressappoco quando Ezra Vogel scrisse il suo bestseller Il Giappone numero uno – l’opinione pubblica si rese davvero conto di cosa fosse diventato quel paese. Mentre sofisticati prodotti giapponesi – soprattutto automobili ed elettronica da consumo – invadevano i mercati occidentali, la gente cominciò a chiedersi quale fosse il segreto del Giappone. Fa sorridere ripensare al giorno in cui si cominciò a parlare di questo paese: la verità era che l’epoca eroica della crescita economica giapponese finì proprio quando gli occidentali cominciarono a prendere il Giappone sul serio. Nei primi anni Settanta, per motivi che in parte restano ancora misteriosi, la crescita rallentò in tutto il mondo industrializzato. Il Giappone, che aveva avuto il tasso di crescita più elevato, subì il più marcato rallentamento – dal 9% annuo degli anni Sessanta passò a meno del 4% dopo il 1973. Sebbene questo tasso fosse ancora maggiore di quello di ogni altro paese industrializzato (un 50% in più di quello degli Stati Uniti), a questi ritmi il Giappone sarebbe diventato la prima economia mondiale molti anni dopo l’inizio del XXI secolo. Tuttavia la crescita del Giappone era oggetto d’invidia da parte delle altre nazioni; molta gente osservava che il paese aveva trovato non solo un modo migliore per gestire la sua economia ma che, almeno in parte, aveva ottenuto i suoi successi a spese dei concorrenti occidentali. Non c’è bisogno di descrivere in dettaglio il dibattito che prese vita riguardo ai motivi per cui il Giappone aveva avuto successo. In sintesi c’erano due scuole di pensiero. La prima sosteneva che la crescita era il frutto di alcune caratteristiche di base: innanzitutto un eccellente livello educativo e un elevato tasso di risparmio, e – come sempre – cercava di utilizzare elementi di sociologia spicciola per spiegare perché questo paese fosse così bravo nel produrre merce di elevata qualità a prezzi bassi. L’altra scuola di pensiero affermava che il Giappone aveva sviluppato un sistema economico completamente differente, una forma di capitalismo nuova e più avanzata. Il dibattito si concentrò anche sulla filosofia economica, sulla validità del pensiero economico occidentale e, in particolare, sui vantaggi del libero mercato. Un elemento su cui si basava la presunta superiorità del sistema giapponese era la gestione dell’economia da parte del governo. Negli anni Cinquanta e Sessanta il governo giapponese – sia il ministero dell’industria e del Commercio Internazionale (MITI) sia il ministero delle Finanze, meno noto ma forse più influente – ebbero un ruolo importante nella gestione dell’economia. I prestiti bancari e le licenze d’importazione furono concessi a industrie e a società selezionate; la crescita economica fu, almeno in parte, guidata dalla strategia del governo, giacché i prestiti bancari e le licenze di importazione andavano a settori e ad aziende favoriti. Nel momento in cui l’Occidente si concentrò sul Giappone, il controllo da parte del governo si era molto allentato; ma l’immagine del «Giappone spa», un’economia gestita centralmente, che faceva di tutto per dominare i mercati mondiali, rimase forte fino agli anni Novanta. Un altro elemento distintivo dello stile economico giapponese era il fatto che le principali società fossero tenute al riparo dalle pressioni finanziarie a breve termine. I membri dei keiretsu giapponesi – gruppi di aziende alleate, organizzate attorno a una grande banca – di solito possedevano grandi quantità di azioni l’una dell’altra, e proteggevano così la gestione aziendale dalle pressioni degli azionisti esterni. Le aziende giapponesi non dovevano neanche preoccuparsi troppo del prezzo delle azioni o della fiducia del mercato, poiché raramente si finanziavano vendendo azioni od obbligazioni; era invece la banca a cui facevano riferimento che prestava loro il denaro. Quindi le aziende non dovevano preoccuparsi della redditività a breve termine o, addirittura, non dovevano preoccuparsi della redditività. Si poteva pensare che le condizioni finanziarie della banca avrebbero alla fine posto dei vincoli agli investimenti del keiretsu: se i prestiti erano inesigibili, la banca non avrebbe forse iniziato a perdere clienti? Ma in Giappone, come nella maggior parte dei paesi, i risparmiatori pensavano che il governo non avrebbe mai permesso che i loro risparmi andassero persi, e quindi facevano poca attenzione a come le banche impiegavano i loro soldi. Questo sistema, affermavano sia i suoi ammiratori sia coloro che lo temevano, faceva del Giappone un paese in grado di mantenere lo sguardo in avanti. Uno dopo l’altro, il governo giapponese si concentrava sui settori «strategici», quelli che servivano da motori di crescita. Il settore privato veniva indirizzato a questi settori, protetto dalla concorrenza estera per un breve periodo, durante il quale le industrie potevano affinare con una relativa tranquillità le loro capacità sul mercato interno. Poi ci sarebbe stata una vera e propria corsa alle esportazioni, durante la quale le aziende avrebbero addirittura trascurato il concetto di redditività pur di conquistare quote di mercato e avere la meglio sui loro concorrenti esteri. Con il tempo, una volta rafforzato il dominio sull’industria, il Giappone andò oltre. Acciaio, automobili, videoregistratori, semiconduttori – poi computer e aeroplani. Gli scettici sottolineavano i punti deboli di questa storia. Ma anche coloro che assolsero il Giappone dalla colpa di aver avuto un comportamento predatorio, che si domandavano se i maghi del mito fossero veramente così onniscienti come si diceva, tendevano a essere d’accordo sul fatto che il successo del Giappone dipendeva in qualche modo dalle caratteristiche distintive del sistema giapponese. Solo qualche tempo dopo queste caratteristiche distintive – la commistione tra governo ed economia, la facile concessione di crediti da parte di banche garantite dal governo ad aziende con cui le banche erano alleate – cominciarono a essere definite «crony capitalism» e considerate la causa dei problemi economici. Le debolezze del sistema erano comunque già visibili alla fine degli anni Ottanta. La bolla, la trappola e il disastro All’inizio del 1990 la capitalizzazione del mercato in Giappone – il valore totale di tutte le azioni di tutte le aziende del paese – era maggiore di quella degli Stati Uniti, che aveva il doppio della popolazione del Giappone e più di due volte il suo PIL. I terreni, mai a buon mercato in Giappone, erano diventati incredibilmente cari: secondo un famoso detto, nel raggio di un miglio quadrato [circa 2,59 chilometri quadrati – n.d.r.] dal Palazzo Imperiale di Tokyo, la terra valeva più dell’intero stato della California. Benvenuti nell’economia gonfiata, l’equivalente per il Giappone dei ruggenti anni Venti. La fine degli anni Ottanta rappresentò per il Giappone un periodo di prosperità, rapida crescita, bassa disoccupazione e utili elevati. Ciò nonostante non c’era alcun indicatore economico che potesse giustificare il fatto che il prezzo dei terreni e delle azioni fosse triplicato in quel periodo. Anche a quell’epoca molti osservatori pensavano che ci fosse qualcosa di strano e irrazionale nel boom finanziario: le aziende che operavano in settori contraddistinti da lenti tassi di crescita non potevano essere considerate titoli in crescita, con tassi prezzo/utili pari a 60 o più. Ma, come spesso accade in mercati che hanno perso la ragione, gli scettici non avevano le prove, o semplicemente il coraggio, per sostenere le loro idee; la pubblica opinione giustificava in tutti i modi l’esistenza di prezzi così alti. Le bolle finanziarie non sono un fenomeno nuovo. Dalla mania per i tulipani alla mania per Internet, anche i più attenti investitori hanno spesso difficoltà a non farsi coinvolgere in queste frenesie collettive, a mantenere una visione lucida quando tutti stanno diventando ricchi. Ma, considerata la fama dei giapponesi per le strategie di lungo periodo la sensazione che il Giappone spa assomigliasse più a un’economia pianificata che a un libero mercato aperto a tutti, le dimensioni della bolla erano veramente sorprendenti. La fama che il Giappone si era fatto a proposito della capacità di effettuare investimenti a lungo termine si rivelò esagerata. Gli speculatori immobiliari, che spesso riuscivano a ottenere guadagni più elevati pagando sottobanco i politici, e ulteriori guadagni grazie a contatti con la yakuza, per lungo tempo avevano giocato una parte molto importante sulla scena giapponese. Gli investimenti speculativi in immobili arrivarono quasi a provocare una crisi bancaria negli anni Settanta; fu evitata solo grazie a un’impennata dell’inflazione, che ridusse il valore reale dei debiti degli speculatori e diede nuova vita ai debiti che prima erano stati considerati inesigibili. Tuttavia la sola dimensione della bolla giapponese faceva paura. C’erano motivi in grado di spiegare il fenomeno che non si limitassero a ripetere i concetti della psicologia della folla? In realtà la bolla giapponese era solo uno tra gli scoppi di febbre speculativa che si manifestarono nel mondo negli anni Ottanta. Tutti questi scoppi avevano come comun denominatore il fatto di essere in gran parte finanziati da prestiti bancari – istituzioni finanziarie poco accorte cominciarono infatti a offrire credito agli amanti del rischio, anche agli operatori disonesti, in cambio di tassi d’interesse al di sopra della media di mercato. Il caso più famoso fu quello delle associazioni statunitensi di risparmio e di credito – istituzioni la cui immagine pubblica era stata a lungo quella del banchiere di provincia Jimmy Stewart in La vita è meravigliosa – che negli anni Ottanta cominciarono a essere identificate con discutibili grandi imprenditori immobiliari texani. Tuttavia problemi di questo tipo erano presenti anche in altre nazioni, in particolare in Svezia, un paese di cui spesso ci si dimentica quando si parla di febbre speculativa. Gli economisti hanno a lungo sostenuto che dietro episodi di questo tipo ci fosse lo stesso principio economico – uno dei princìpi, quale quello illustrato dal modello di recessione della cooperativa di baby-sitter, a cui farò più volte riferimento in questo libro. Il principio è conosciuto come «rischio soggettivo». Il termine «rischio morale» nasce nel settore assicurativo. Molto tempo fa coloro che offrivano assicurazioni contro gli incendi notarono che i proprietari di immobili assicurati erano spesso vittime di incendi – particolarmente quando il valore di mercato degli immobili scendeva sotto l’importo coperto dall’assicurazione. (A metà degli anni Ottanta a New York c’era un certo numero di proprietari «a rischio d’incendio», alcuni dei quali compravano edifici a prezzi inflazionati da una società fantasma di loro proprietà, impiegavano questo denaro per stipulare una grossa polizza assicurativa e, successivamente, subivano casualmente un incendio. È proprio un rischio soggettivo.) Successivamente il termine cominciò a essere utilizzato per definire ogni situazione nella quale una persona decide la quota di rischio che si vuole assumere, mentre un’altra parte si incarica di risarcire la perdita se le cose vanno male. Il denaro preso a prestito produce intrinsecamente un rischio soggettivo. Immaginiamo che io sia una persona in gamba, ma senza capitale; e che, fidandovi della mia intelligenza, decidiate di darmi in prestito un miliardo di dollari, da investire in un qualsiasi modo che reputi adeguato, a patto che prometta di restituirlo in un anno. Anche se mi applicate un alto tasso di interesse, questo è un grande affare: mi prendo il miliardo, lo investo in qualcosa che può rendere un sacco di soldi, ma può anche finire male, e comincio a incrociare le dita. Se l’investimento dà i suoi frutti, allora divento ricco; in caso contrario, dichiaro il fallimento e me ne vado. Se viene testa vinco io, se viene croce perdi tu. Ovviamente questo è il motivo per cui nessuno presta un miliardo di dollari a chi non dispone di un suo capitale, anche se si tratta della persona più intelligente del mondo. I creditori normalmente pongono condizioni ai debitori riguardo a come questi ultimi possono utilizzare i soldi ottenuti; e coloro che prendono a prestito sono normalmente obbligati a rischiare un certo ammontare di denaro proprio, in modo da essere incentivati a evitare perdite. Qualche volta coloro che offrono capitali paiono dimenticarsi di queste regole elementari e prestano grandi somme senza chiedere nulla a gente che sembra sapere perfettamente quello che sta facendo: affronteremo l’incredibile storia degli «hedge funds» nel capitolo 6. In altri casi è proprio l’obbligo a rischiare un certo ammontare di denaro di proprietà della persona che chiede il prestito a diventare fonte d’instabilità sul mercato. Quando i beni acquistati con denaro preso a prestito perdono di valore, i proprietari possono trovarsi di fronte a una «chiamata di margine addizionale»: devono aggiungere denaro proprio oppure ripagare i loro debitori vendendo i beni, abbassando ulteriormente i prezzi, un processo che ha avuto un ruolo importante nella crisi finanziaria attuale. Lasciando da parte questi aspetti molto particolari, c’è un altro motivo più semplice che spiega la ragione per cui talvolta non vengono rispettate le regole: il gioco del rischio soggettivo si gioca infatti alle spalle dei contribuenti. Ricordate quello che ho scritto riguardo alle banche del keiretsu: i clienti credono che i risparmi siano al sicuro, perché li garantisce il governo. Lo stesso si può dire riguardo a tutte le banche del mondo industrializzato e di gran parte delle altre banche. Gli stati moderni, anche se non garantiscono esplicitamente i depositi, non si possono permettere che vedove e orfani perdano i risparmi di una vita semplicemente perché li hanno versati nella banca sbagliata, così come non possono farsi da parte quando un’inondazione spazza via le case costruite sulla pianura che è stata allagata. Solo il peggior conservatore potrebbe affermare il contrario; il risultato è che le persone non si preoccupano di dove costruiscono le loro case e si preoccupano ancor meno della banca in cui versano i loro risparmi. Questa mancanza d’attenzione offre una buona opportunità agli uomini d’affari senza scrupoli. Basta aprire una banca che abbia una bella sede e un nome attraente. Attirare depositi pagando elevati interessi, se questo è permesso, o in caso contrario offrendo tostapane o qualsiasi altro aggeggio in omaggio. Quindi dare in prestito i soldi raccolti, ai più elevati tassi d’interesse, a speculatori da strapazzo (preferibilmente ai vostri amici, o addirittura a voi stessi, coperti da una diversa ragione sociale). I risparmiatori non vi chiederanno spiegazioni in merito alla qualità dei vostri investimenti, dato che sanno di essere in ogni caso protetti. E voi sapete di avere una sola alternativa: se l’investimento va bene diventate ricchi, se va male potete semplicemente andarvene e lasciare che il governo sistemi le cose. D’accordo, non è tanto facile, perché i legislatori non sono così stupidi. Dagli anni Trenta agli Ottanta, infatti, questi comportamenti sono stati piuttosto rari tra i banchieri, perché i legislatori hanno fatto più o meno le stesse cose che avrebbe fatto un privato prima di lasciarmi giocare con un miliardo di dollari dato in prestito. Hanno posto condizioni agli usi che le banche potevano fare del denaro dei risparmiatori, in modo da evitare che si corressero rischi troppo elevati. Hanno chiesto ai proprietari delle banche di rischiare un certo ammontare di denaro proprio. E, in una forma più sottile, forse addirittura non intenzionale, i legislatori hanno anche limitato la competizione tra banche, dando alle autorizzazioni a operare sul mercato un valore quasi di esclusiva; chi riceveva un ’ autorizzazione era poco incentivato a giocarsela assumendosi rischi che potevano fare fallire la banca. Negli anni Ottanta, tuttavia, queste condizioni caddero in disuso in molti paesi. Il motivo fu in gran parte la liberalizzazione. Tradizionalmente le banche erano prudenti, ma anche molto conservatrici; forse non riuscivano a indirizzare il capitale verso gli impieghi più redditizi. Per cambiare la situazione, sostenevano i riformatori, erano necessarie più libertà e più competizione: lasciate che le banche prestino dove preferiscono e date la possibilità a più operatori di spartirsi il denaro dei risparmiatori. In qualche modo i riformatori dimenticavano che tutto ciò avrebbe dato alle banche una maggiore libertà nell’assumersi rischi eccessivi e che, riducendo il valore d’esclusiva delle loro autorizzazioni, sarebbero state meno incentivate a seguire un comportamento prudente. Le dinamiche di mercato, soprattutto l'aumento delle fonti alternative di finanziamento aziendale, ridussero ulteriormente i margini di profitto dei banchieri che seguivano ancora le vecchie e sicure abitudini. Di conseguenza negli anni Ottanta ci fu una specie di epidemia globale di rischi soggettivi. Pochi paesi possono vantarsi di essere riusciti a gestire la situazione – sicuramente non gli Stati Uniti, dove la cattiva gestione dei risparmi e dei crediti rappresentò un classico esempio di un modo di prendere le decisioni in maniera imprudente, poco avveduta e talvolta corrotta. Il Giappone, dove tutti i rapporti – tra il governo e l’economia, tra le banche e i loro clienti, tra quello che era e non era garantito dal governo – risultavano poco trasparenti, fu particolarmente colpito all’avvento di un regime finanziario con meno regole. Le banche giapponesi erano quelle che prestavano di più, e allo stesso tempo quelle che si facevano meno scrupoli; e così aiutarono a gonfiare la bolla fino a farle raggiungere dimensioni enormi. Prima o poi le bolle scoppiano sempre. Lo scoppio giapponese, come si scoprì successivamente, non fu del tutto spontaneo: la Bank of Japan, preoccupata dagli eccessi speculativi, nel 1990 cominciò ad aumentare i tassi d’interesse in modo da far uscire un po’ di aria dal pallone. All’inizio questa politica non raggiunse lo scopo che si era prefissa, ma a partire dal 1991 i prezzi dei terreni e delle azioni cominciarono a diminuire drasticamente, fino a ridursi nel giro di pochi anni al 60% del loro valore massimo. Inizialmente, e in realtà anche per parecchi anni dopo, le autorità giapponesi sembravano aver considerato tutto ciò come un fatto salutare – un ritorno a corsi azionari più realistici. Ma lentamente ci si rese conto che la fine dell’economia gonfiata non aveva portato la salute economica, ma un malessere sempre più profondo. Una depressione nascosta Al contrario del Messico nel 1995, della Corea del Sud nel 1998, e dell’Argentina nel 2002, il Giappone non ha mai vissuto un anno di inequivocabile, catastrofico declino economico. Nel decennio successivo allo scoppio della bolla, il PIL reale del Giappone è diminuito solo in due occasioni. Ma anno dopo anno la crescita non raggiunse più i livelli precedenti e rimase sempre al di sotto delle sue potenzialità. Nel decennio successivo al 1991 ci fu solamente un anno in cui il Giappone ebbe un tasso di crescita che poteva ricordare quello di un anno medio del decennio precedente. E anche con una stima conservativa del tasso potenziale di crescita dell’economia giapponese – la produzione che si sarebbe potuta ottenere utilizzando tutte le risorse umane e le materie prime – ci fu solo un anno in cui l’output effettivo crebbe quanto il tasso potenziale. Gli economisti utilizzano una delle loro espressioni più complicate per descrivere la situazione che stava attraversando il Giappone: una «recessione in crescita». Una recessione in crescita è ciò che accade quando un’economia cresce, ma non abbastanza velocemente da tenere il passo con la capacità di espansione dell’economia, così che sempre più macchinari e lavoratori restano inutilizzati. Normalmente le recessioni in crescita sono piuttosto rare, perché i boom e i momenti di declino tendono ad aumentare di velocità, e di conseguenza producono rapida crescita o marcato declino. Il Giappone, tuttavia, ha vissuto una crescita in recessione lunga un decennio, che ha lasciato il paese così al di sotto delle sue potenzialità da far coniare una nuova etichetta: la crescita in depressione. La stessa lentezza con la quale l’economia del Giappone si è deteriorata è un grande motivo di perplessità. Nel paese la depressione ha preso piede lentamente e dunque non c'è mai stato (fino allo scorso anno) un momento in cui la gente ha chiesto a gran voce al governo di affrontare di petto la situazione. Allo stesso modo il motore economico giapponese ha gradualmente perso potenza, piuttosto che subire una brusca frenata, e il governo ha costantemente aggiornato verso il basso i propri parametri di successo, continuando a considerare la continua crescita, anche se inferiore alle potenzialità, il risultato delle proprie politiche. (Al momento in cui scrivo i funzionari giapponesi si stanno vantando dei successi raggiunti – grazie a grandi investimenti in opere pubbliche – nell’ottenere una crescita leggermente superiore allo zero nell’ultimo quadrimestre del 1998, come se ciò rappresentasse una completa inversione di tendenza.) Allo stesso tempo gli analisti giapponesi e stranieri hanno cercato di sostenere che, poiché il Giappone era cresciuto lentamente per così tanto tempo, non poteva crescere più velocemente. Quindi le politiche economiche giapponesi sono state caratterizzate da un originale mix di soddisfazione e fatalismo – e da una grande incapacità di prendere seriamente in considerazione i motivi per cui le cose erano andate a finire così male. La trappola del Giappone Non c’è niente di misterioso riguardo all’inizio della recessione giapponese del 1991: presto o tardi la bolla finanziaria doveva scoppiare e, una volta successo, avrebbe determinato un declino negli investimenti, nei consumi e quindi nella domanda complessiva. La stessa cosa accadde negli Stati Uniti dopo che scoppiò la bolla azionaria degli anni Novanta, e poi ancora dopo lo scoppio della bolla immobiliare del decennio successivo. La domanda, tuttavia, è perché i policy maker giapponesi, e in particolare la banca centrale, non sono riusciti a rimettere in moto l’economia. È giunto il momento di tornare alla storia della cooperativa di baby-sitter. Immaginiamo che il mercato azionario statunitense crolli, minando la fiducia dei consumatori. Tutto ciò comporterebbe necessariamente una recessione disastrosa? Consideriamola in questo modo: quando diminuisce la fiducia da parte dei consumatori è come se, per un qualche motivo, un socio della cooperativa avesse iniziato ad avere meno voglia di uscire, più ansioso di accumulare i buoni per una giornata di pioggia. Questo potrebbe in realtà condurre a una recessione – ma non necessariamente, se i responsabili fossero attenti e rispondessero semplicemente stampando più buoni. Questo è esattamente ciò che il nostro più importante fornitore di buoni, Alan Greenspan, ha fatto nel 1987, ed è ciò che secondo me potrebbe fare alla prossima occasione. Immaginate che Greenspan non risponda abbastanza velocemente e che l’economia entri veramente in recessione. Niente panico: anche se il più importante fornitore di buoni si è momentaneamente distratto, può sempre capovolgere la situazione stampandone di più – vale a dire portando avanti una politica di espansione monetaria, come quelle che misero fine alle recessioni del 1981-82, del 1990-91 e del 2001. Cosa dire di tutti gli investimenti sbagliati conclusi durante il boom? Si tratta in gran parte di capitale perduto. Ma non ci sono validi motivi per credere che gli investimenti sbagliati fatti nel passato debbano necessariamente portare a un crollo della produzione oggi. La capacità produttiva può non essere cresciuta così come si credeva, ma non è ancora crollata; perché non stampare abbastanza denaro per mantenere alta la spesa, così che l’economia possa utilizzare pienamente il suo potenziale? Ricordate, la storia della cooperativa racconta che le recessioni non sono punizioni per i peccati che abbiamo commesso, sofferenze che il destino ci riserva. La cooperativa di Washington non iniziò ad avere problemi perché i suoi soci erano baby-sitter incapaci e inefficienti; i problemi non nascondevano la perdita dei valori fondanti della cooperativa o un fenomeno di «crony baby-sitterismo». Si era in presenza di un problema tecnico – poche persone a caccia di pochi buoni – che poteva, come effettivamente accadde, essere risolto analizzandolo lucidamente. Quindi la storia della cooperativa dovrebbe evitarci di cadere nel fatalismo e nel pessimismo; la conclusione sembra essere quella che le recessioni sono sempre curabili, anche senza troppa fatica. Allora perché il Giappone non si è fermato dopo lo scoppio della bolla? Come è stato possibile che il Giappone sia stato colpito da una recessione apparentemente non gestibile – una crisi dalla quale non sembrava possibile uscire limitandosi a stampare nuovo denaro? Bene, se proseguiamo ancora un po’ nella storia della cooperativa non è difficile immaginarsi qualcosa che ricorda parecchio i problemi del Giappone – e vedere le possibili soluzioni. Prima di tutto dobbiamo immaginarci una cooperativa i cui soci si rendono conto che il loro sistema presenta un punto debole: ci sono momenti in cui una coppia può avere bisogno di uscire diverse volte una dopo l’altra, arrivando a esaurire i propri buoni e non avendo quindi più la possibilità di lasciare in custodia i propri bambini, anche se disposta a fare successivamente molto lavoro di baby-sitter. Per risolvere questo problema la cooperativa potrebbe permettere ai soci di prendere a prestito buoni extra nei momenti di bisogno – ripagando i buoni così ottenuti facendo da baby-sitter in un secondo tempo. (Possiamo adattare la storia un po’ meglio al funzionamento dell’economia reale immaginando che le coppie possono anche prendere prestito i buoni l’una dall’altra; il tasso d’interesse in questo primitivo mercato dei capitali svolge un ruolo simile a quello del tasso di sconto.) Per evitare che i soci abusino di questo privilegio, i responsabili devono tuttavia stabilire alcune regole – che obbligano i soci a rimborsare più buoni di quanti non ne hanno ricevuti in prestito. Con questo sistema le coppie hanno riserve di buoni più limitate di prima, consapevoli che in caso di bisogno possono chiederne altri in prestito. I responsabili della cooperativa, inoltre, dispongono di un nuovo strumento di gestione. Quando è facile trovare baby-sitter ma difficile offrire servizi di babysitter, le condizioni alle quali i soci possono prendere a prestito i buoni vengono rese più favorevoli, poche famiglie che fanno da baby-sitter, queste condizioni vengono viceversa appesantite, spingendo così la gente a uscire di meno. In altre parole questo modello più sofisticato di cooperativa dispone ora di una banca centrale in grado di stimolare un’economia depressa riducendo i tassi d’interesse, e di raffreddarne una troppo vivace aumentandoli. Ma in Giappone i tassi d’interesse sono diminuiti praticamente a livello zero e, tuttavia, l’economia è sempre in fase di recessione. La nostra storia ha improvvisamente smesso di esserci utile? Immaginate che la domanda e l’offerta di baby-sitter abbiano un andamento stagionale. Durante l’inverno, quando è freddo e buio, le coppie non vogliono uscire spesso, ma si mostrano disponibili a stare in casa a sorvegliare i figli degli altri – accumulando così buoni che possono essere usati nelle belle serate estive. Se questo andamento stagionale non è così marcato, la cooperativa è ancora in grado di mantenere in equilibrio la domanda e l’offerta di baby-sitter diminuendo i tassi d’interesse nei mesi invernali e aumentandoli in estate. Immaginate però che la stagionalità sia molto forte. Di conseguenza in inverno, anche con un tasso d’interesse pari a zero, ci sono più coppie disposte a fare da baby-sitter che coppie desiderose di uscire; questo significa che le coppie che vogliono accumulare occasioni di divertimento estivo sono ancora meno disposte a usare i buoni in inverno, con la conseguenza che ci sono ancor meno opportunità di fare da baby-sitter… la cooperativa entra così in un periodo di recessione pur avendo un tasso d'interesse pari a zero. E gli anni Novanta sono stati l’inverno dello scontento per il Giappone. Forse a causa dell’invecchiamento della popolazione, forse perché si avverte un diffuso nervosismo riguardo al futuro, i cittadini giapponesi non erano disposti a spendere così tanto da utilizzare completamente la capacità produttiva del paese, pur avendo un tasso d’interesse pari a zero. Il Giappone, dicono gli economisti, era caduto nella temibile «trappola della liquidità»; bene, ciò che avete appena letto è una banalizzazione di quello che significa la trappola della liquidità e di come ci si può cadere. Il Giappone alla deriva La tradizionale risposta a una recessione è quella di tagliare i tassi d’interesse – di permettere alla gente di prendere in prestito a condizioni più favorevoli i buoni per baby-sitter, così che si possa ricominciare a uscire. Il Giappone è stato piuttosto lento nel tagliare i tassi d’interesse dopo lo scoppio della bolla, ma successivamente li ha tagliati subito a zero, e non è ancora abbastanza. E ora? La classica risposta, quella tradizionalmente associata al nome di John Maynard Keynes, è che se il settore privato non spende abbastanza per mantenere la piena occupazione, se ne deve occupare il governo. Offrite al governo la possibilità di prendere in prestito denaro, di utilizzare i fondi così raccolti per finanziare progetti d’investimento pubblico – che possibilmente servano anche a qualcosa di utile. ma questa è una considerazione marginale – e, di conseguenza, di creare occupazione, in modo da incentivare la gente a spendere, da aumentare ancora più l’occupazione e così via. Negli Stati Uniti la Grande Depressione finì grazie a un ingente programma di lavori pubblici finanziato dal deficit, conosciuto sotto il nome di Seconda guerra mondiale; perché non tentare di resuscitare la crescita giapponese con qualcosa di simile, anche se più pacifico? Il Giappone in realtà ci ha provato. Negli anni Novanta il governo ha adottato una serie di provvedimenti volti a incentivare la domanda, e ha iniziato a costruire strade e ponti, anche se il paese non ne aveva davvero bisogno. Tutte le volte che sono stati messi in atto, questi provvedimenti hanno direttamente incentivato la creazione di posti di lavoro e hanno anche fornito stimoli all’economia nel suo insieme. Il problema è che questi provvedimenti non sembravano riuscire a stimolare sufficientemente lo yen. Nel 1991 il governo giapponese aveva un surplus di bilancio piuttosto considerevole (2,9% del prodotto interno lordo); nel 1996, al contrario, il deficit era pari al 4,3% del PIL. Tuttavia il motore economico stava ancora girando, seppure a stento. Nel frattempo i deficit sempre più alti cominciavano a preoccupare il ministro delle Finanze giapponese, che aveva timori sulla tenuta della situazione nel lungo periodo. Il grande problema era l’andamento demografico (in realtà aveva anche molto a che vedere con gli elevati tassi di risparmio giapponesi e la bassa domanda d’investimenti). Alla pari di altri paesi, il Giappone ha vissuto un boom di nascite seguito da una fase di rallentamento, e ha ora di fronte a sé la prospettiva di un rapporto sempre più elevato tra pensionati e lavoratori attivi. Il problema del Giappone è però molto più grave: la sua popolazione in età da lavoro si sta riducendo sempre più e il numero di pensionati cresce rapidamente. Poiché i cittadini in pensione rappresentano un ingente onere per i governi – che forniscono trattamenti previdenziali e assistenza sanitaria – i tradizionali principi fiscali sostengono che il Giappone dovrebbe creare un fondo di garanzia per far fronte alle spese future, per non rischiardi avere deficit sempre più grandi. Nel 1997 prevalse un atteggiamento di responsabilità fiscale e il primo ministro Ryutaro Hashimoto aumentò le tasse per ridurre il deficit di bilancio. Immediatamente l’economia cadde però in un’ennesima fase di recessione. Si decise così di tornare a finanziare la spesa con deficit di bilancio. Nel 1998 il Giappone approntò un massiccio nuovo programma di lavori pubblici. Ma i problemi fiscali erano ormai venuti a galla e non era più possibile nasconderseli. Gli investitori si accorsero che il Giappone prevedeva di avere un deficit del 10% sul PIL e che la percentuale di debito statale sul PIL era ancora superiore al 100%; si tratta di cifre tipiche dei paesi dell’America Latina a rischio di iperinflazione. Nessuno si aspettava che ciò potesse accadere al Giappone, ma gli investitori cominciavano a preoccuparsi un po’ della solidità a lungo termine delle finanze statali. In breve, il tentativo di stimolare l’economia con la spesa finanziata dal deficit sembrava aver raggiunto il limite. A quali altre opzioni si poteva fare ricorso? Se la spesa pubblica è una classica risposta a un’economia in crisi, un’altra possibile risposta è quella di rifornire di denaro le banche. Un punto di vista ampiamente condiviso è che la Grande Depressione durò così a lungo perché la crisi bancaria del 1930-31 inflisse danni di lungo termine al sistema creditizio. Secondo questo punto di vista c’erano uomini d’affari che sarebbero stati disposti a spendere di più se avessero avuto accesso al credito. Ma i banchieri che avrebbero potuto concedere questi prestiti avevano chiuso i battenti o non erano in grado di raccogliere i fondi, perché la fiducia della gente nei confronti delle banche era stata messa duramente alla prova. Nel caso della cooperativa di baby-sitter ciò equivale a dire che c’è gente disposta a uscire in inverno e a fare da baby-sitter in estate, ma che non riesce a trovare nessuno che le dia in prestito i buoni necessari. Le banche giapponesi avevano in realtà accumulato molti debiti inesigibili durante gli anni della bolla economica, e la lunga stagnazione che seguì ne rese inesigibili molti altri. Al momento in cui sto scrivendo la maggior parte delle banche non ha ancora ben chiaro quanti siano i debiti che non saranno mai più restituiti, ma tutti sanno che molte banche o non hanno capitale oppure ne hanno molto meno di quello che richiede la legge. Una possibile teoria in grado di spiegare la recessione giapponese è dunque che il paese si trovasse in una trappola di liquidità soprattutto perché le sue banche erano finanziariamente deboli; una volta sistemate le banche, l’economia poteva solo riprendersi. Alla fine del 1998 il parlamento giapponese riuscì a predispone un piano di salvataggio da 500 miliardi di dollari rivolto alle banche. Ma un’altra opzione a disposizione del Giappone era fare tutto il necessario per produrre un po’ di inflazione. Questa opzione richiede un minimo di spiegazione. La verità è che per lungo tempo gli economisti non si sono soffermati a riflettere a sufficienza sulle trappole della liquidità. Prima delle difficoltà che ha vissuto il Giappone negli anni Novanta, l’ultimo grande sistema che sembrò essere caduto in una trappola di questo tipo erano gli Stati Uniti della fine degli anni Trenta. E gli storici dell’economia hanno tendenzialmente minimizzato la significatività di quell’esperienza affermando che non era una vera trappola della liquidità – dalla quale la Federal Reserve poteva tirarci fuori se solo ci avesse provato seriamente – o che eravamo caduti nella trappola solo grazie a una serie di errori incredibili, che difficilmente si sarebbero ripetuti. Di conseguenza, non appena alla metà degli anni Ottanta si cominciò ad avere sentore della trappola in cui era caduto il Giappone, gli economisti erano quasi tutti impreparati – e, se mi è permesso muovere qualche critica nei confronti della mia professione, poco interessati a questo argomento. Continuo a meravigliarmi di quanti pochi economisti in giro per il mondo si siano resi conto che il problema della trappola in è caduto il Giappone era importante sia come problema pratico sia come sfida al pensiero economico. Ma l’economia è, come ha detto il grande economista vittoriano Alfred Marshall, «non un insieme di verità, ma una spinta alla scoperta della verità». Per esprimere lo stesso concetto in una maniera più semplice, i vecchi modelli possono essere utilizzati per risolvere i nuovi problemi. Come abbiamo visto nell’ultima versione della storia della cooperativa di baby-sitter, un modello nato per spiegare perché una banca centrale riesce normalmente a curare una recessione tagliando i tassi d’interesse, può anche servire a descrivere in quali casi questo semplice rimedio non funziona. Questa storia, nella sua versione aggiornata, si rivela anche in grado di una trappola di liquidità, o a come evitare di entrarci. Ricordate: il problema principale della cooperativa di baby-sitting durante i mesi invernali è che la gente vuole risparmiare quello che ha guadagnato facendo da babysitter per poi utilizzarlo durante l’estate, anche a un tasso d’interesse pari a zero. Ma complessivamente i soci della cooperativa non possono mettere da parte quanto hanno fatto in inverno per usarlo in estate; quindi, se tutti gli individui vanno in questa direzione, non può che innescarsi una recessione invernale. La soluzione, un qualsiasi economista dovrebbe immediatamente rendersene conto, è quella di formulare un prezzo equo: rendere ben chiaro a tutti che i buoni guadagnati in inverno si svalutano se vengono conservati fino all'estate – vale a dire, cinque ore di baby-sitter a credito in inverno si trasformano in sole quattro ore in estate. Tutto ciò incentiva la gente ad anticipare la domanda delle loro ore di baby-sitter e quindi aumenta le opportunità di offrire ore di baby-sitter. Potreste essere tentati di pensare che c’è qualcosa di poco chiaro in tutto questo – che ciò equivale a espropriare i risparmi della gente. Ma la realtà è che la cooperativa come insieme non può mettere in banca le ore invernali per utilizzarle in estate, quindi deve effettivamente modificare gli incentivi ai soci per permettere a questi ultimi di scambiare su una base paritaria le ore invernali per quelle estive. Ma, nel nostro sistema economico non da baby-sitter, che cosa corrisponde ai buoni che perdono di valore durante i mesi estivi? La risposta è l’inflazione, che riduce nel tempo il valore del denaro. O per essere più precisi, ciò che può far uscire un’economia da una trappola di liquidità è un'aspettativa d’inflazione – che dissuade la gente dall’accumulo eccessivo di risparmi. Se si prende sul serio la possibilità di una trappola di liquidità – e il caso del Giappone dimostra chiaramente che dovremmo farlo – è impossibile sfuggire alla conclusione che l’inflazione può essere un bene, perché ci aiuta a uscire dalla trappola. Sono arrivato a queste conclusioni servendomi della storia della cooperativa di babysitter, ma è possibile arrivare alla medesima conclusione utilizzando uno qualsiasi dei tradizionali modelli matematici di cui si servono abitualmente gli economisti per discutere di politiche monetarie. In realtà c’è stata una vera e propria scuola di pensiero che afferma che una moderata inflazione può essere utile se si vuole combattere la recessione. Eppure, i difensori dell’inflazione hanno dovuto contrastare un’opinione molto consolidata, che ritiene che la stabilità dei prezzi rappresenti una situazione sempre desiderabile, e che promuovere l’inflazione significa creare incentivi perversi e pericolosi. La convinzione che la stabilità dei prezzi sia importante non trova fondamento nei tradizionali modelli economici – al contrario, la teoria che si legge sui libri di testo, se applicata alle particolari circostanze del Giappone, propone come naturale soluzione proprio l’inflazione. Ma la teoria economica tradizionale e il pensiero economico convenzionale non sempre vanno di pari passo – un conflitto che sarebbe diventato via via più evidente a mano a mano che un sempre maggior numero di paesi avrebbe dovuto prendere decisioni coraggiose per far fronte alla crisi finanziaria. La ripresa del Giappone Intorno al 2003, l’economia giapponese ha cominciato finalmente a dare segni di ripresa. Il PIL reale ha iniziato a crescere in misura leggermente superiore al 2% all’anno, la disoccupazione è calata, e l’opprimente deflazione che affliggeva l’economia (e non faceva che peggiorare la trappola di liquidità) è diminuita, anche se non c’erano segni di un’effettiva inflazione. Che cosa era andato per il verso giusto? La risposta stava principalmente nelle esportazioni. Negli anni intermedi del decennio gli Stati Uniti hanno accumulato enormi deficit, importando ingenti quantità di prodotti industriali. Alcuni di questi prodotti venivano dal Giappone, anche se il grosso della crescita riguardava le importazioni dalla Cina e da altre economie emergenti. Ma anche il Giappone ha tratto beneficio dalla crescita dell’export cinese, perché molti prodotti industriali fabbricati in Cina contengono componenti di origine giapponese. Un aspetto negativo del boom delle importazioni americane era dunque l’ascesa delle esportazioni giapponesi, insieme alla ripresa dell’economia giapponese. Ma l’uscita del Giappone da quella trappola restava provvisoria. Nel momento in cui scrivevo queste note, il call money rate del Giappone (l’equivalente del tasso di sconto praticato dalla Federal Reserve) era appena dello 0,5%. La Bank of Japan aveva perciò margini minimi per ridurre i tassi d’interesse di fronte alla recessione che sembrava profilarsi. 4. IL CROLLO DELL’ASIA La Thailandia non è proprio quello che si è soliti chiamare un piccolo paese. Ha più abitanti dell’Inghilterra o della Francia, la capitale Bangkok è un grande incubo metropolitano, con un traffico leggendario. Tuttavia l’economia mondiale ha dimensioni incredibilmente vaste e, dal punto di vista commerciale, la Thailandia occupa un posto alquanto marginale. Nonostante la rapida crescita registrata negli anni Ottanta e Novanta, resta un paese povero; i suoi abitanti hanno un potere d’acquisto che, complessivamente, è inferiore a quello degli abitanti del Massachusetts. Si poteva credere che le condizioni economiche della Thailandia, al contrario di quelle di una superpotenza quale il Giappone, interessassero solo i thailandesi, le nazioni confinanti e le industrie che avevano diretti interessi finanziari nel paese. Ma nel 1997 la svalutazione della moneta thailandese, il badi, provocò una valanga finanziaria che seppellì gran parte dell’Asia. La principale domanda da porsi è perché sia successo e come sia veramente potuto succedere. Ma prima di passare ai «come» e ai «perché», diamo un’occhiata al «cosa»: la storia del boom thailandese, il suo crollo, e la diffusione della crisi in tutta l’Asia. Il boom La Thailandia è entrata a far parte del miracolo asiatico in tempi relativamente recenti. Tradizionalmente era un paese dedito all’esportazione di prodotti agricoli e cominciò a diventare un centro industriale di una certa importanza solo negli anni Ottanta, allorché le aziende straniere – specialmente quelle giapponesi – iniziarono ad aprire stabilimenti. Ma quando il paese decollò, lo fece in maniera molto evidente: mentre i contadini si spostavano dalla campagna alle città, mentre i buoni risultati ottenuti dal primo gruppo di investitori stranieri incoraggiavano altri arrivi, la Thailandia cresceva a un tasso dell’8% annuo. Ben presto i famosi templi di Bangkok furono circondati da grattacieli di uffici e appartamenti; la Thailandia divenne un paese dove milioni di persone uscivano dalla povertà assoluta per iniziare una vita per lo meno decente, e dove alcuni si arricchivano enormemente. Fino ai primi anni Novanta la maggior parte degli investimenti che promossero questa crescita provenivano dai risparmi dei thailandesi stessi: il capitale straniero costruì stabilimenti che producevano per l’esportazione, ma le attività economiche di minori dimensioni erano finanziate da uomini d’affari locali e dai risparmi di questi ultimi; i nuovi edifici per uffici e appartamenti furono finanziati dai depositi bancari delle famiglie. Nel 1991 il debito estero della Thailandia era leggermente inferiore alle sue esportazioni annue – non una percentuale di poco conto, ma comunque entro i normali parametri di sicurezza. (Lo stesso anno il debito dell’America Latina era mediamente 2,7 volte le esportazioni.) Negli anni Novanta, tuttavia, l’autosufficienza finanziaria del paese cominciò a erodersi. In gran parte la spinta venne dall’esterno. La soluzione della crisi finanziaria dell'America Latina, descritta nel capitolo 2, rese di nuovo allettante investire nel Terzo Mondo. La caduta del comunismo, avendo diminuito la minaccia di un cambiamento radicale, rese meno rischiosa l’idea di investire al di fuori dei confini del mondo occidentale. Nei primi anni Novanta i tassi d'interesse dei paesi industrializzati erano eccezionalmente bassi, perché le banche centrali stavano cercando di tirare fuori le proprie economie da una leggera recessione, e molti investitori andavano all’estero in cerca di guadagni più alti, forse la cosa più importante fu che i fondi d’investimento coniarono un nuovo nome per quello che precedentemente si chiamava Terzo Mondo o paesi in via di sviluppo: ora erano «paesi emergenti», la nuova frontiera delle opportunità finanziarie. Gli investitori risposero in massa all’appello. Nel 1990 i flussi di capitale privato verso i paesi in via di sviluppo ammontavano a 42 miliardi di dollari, e agenzie governative come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale all’epoca stavano facendo più investimenti nel Terzo Mondo di quanto non stessero facendo tutti gli investitori privati messi assieme. Nel 1997, tuttavia, mentre il flusso di capitale pubblico aveva subito un rallentamento, i flussi privati diretti verso i paesi in via di sviluppo erano aumentati di cinque volte, fino ad arrivare a 256 miliardi di dollari. All’inizio la maggior parte del denaro andò in America Latina, specialmente in Messico; ma dopo il 1994 si rivolse sempre più verso le economie, apparentemente più sicure, dell'Estremo Oriente. Come arrivava il denaro a Bangkok o Giacarta da Tokyo o da Francoforte? (La maggior parte dei prestiti nei confronti dell’Asia erano giapponesi o europei – le banche statunitensi, per scelta o per caso, rimasero in parte a guardare.) Che fine faceva il denaro quando arrivava a destinazione? Seguiamo il suo percorso passo per passo. Cominciamo con una tipica transazione: una banca giapponese elargisce un prestito a una società finanziaria thailandese, un’istituzione il cui obiettivo principale è quello di operare come una sorta di cinghia di trasmissione nei confronti degli investimenti stranieri. La società finanziaria dispone ora di yen, che utilizza per concedere un prestito a un tasso d’interesse più alto a una società di costruzioni locale. Quest’ultima vuole però prendere a prestito bath e non yen, poiché deve pagare la terra e i propri dipendenti in valuta locale. Quindi la società finanziaria si rivolge al mercato valutario internazionale e cambia gli yen in bath. Il mercato valutario internazionale, come tutti gli altri mercati, è governato dalla legge della domanda e dell’offerta: aumenta la domanda per qualcosa e, normalmente, il suo prezzo cresce. Vale a dire che la domanda di bath da parte della società finanziaria tenderà a far aumentare il valore del bath nei confronti delle altre valute. Durante gli anni di boom la Banca Centrale thailandese si era però impegnata a mantenere un tasso di cambio fisso tra il bath e il dollaro USA. Per riuscire in questo compito avrebbe dovuto compensare ogni aumento di domanda di bath con un equivalente incremento dell’offerta: vendere i bath e comprare valuta estera come dollari o yen. Quindi il risultato indiretto di questo prestito iniziale in yen sarebbe stato un aumento sia nelle riserve in valuta estera della Bank of Thailand, sia nell’offerta di valuta thailandese. E, complessivamente, ci sarebbe anche stata un’espansione del credito – non solo il prestito fornito direttamente dalla società finanziaria, ma anche ulteriori crediti fomiti dalle banche nelle quali venivano depositati i bath da poco stampati; e, siccome gran parte del denaro dato in prestito avrebbe finito per tornare alle banche sotto forma di nuovi depositi, tutto ciò avrebbe finanziato ulteriori nuovi prestiti e così via, secondo il classico processo di «moltiplicazione della base monetaria». (La mia descrizione della crisi creditizia argentina del 1995 rappresenta un esempio di questo processo, ma al contrario.) Mentre arrivavano sempre più prestiti dall’estero, il risultato fu quindi una massiccia espansione del credito, che alimentò una serie di nuovi investimenti. Alcuni di questi investimenti servirono per costruire edifici, in gran parte destinati a uffici e appartamenti, ma ci furono pure molti casi di vera e propria speculazione, soprattutto immobiliare, ma anche nel mercato azionario. All’inizio del 1996 le economie dell’Estremo Oriente cominciavano ad assomigliare all’«economia gonfiata» giapponese degli ultimi anni Ottanta. Perché le autorità monetarie non misero un freno al boom speculativo? In realtà ci provarono, ma non ci riuscirono. In tutte le economie asiatiche le banche centrali cercarono di «sterilizzare» l’ingresso di capitale: obbligata a vendere bath sul mercato valutario internazionale, la Bank of Thailand avrebbe cercato di ricomprare quei bath vendendo buoni del tesoro, prendendo così in prestito il denaro che aveva appena stampato. Ma questo processo finì per aumentare i tassi d’interesse locali, rendendo i prestiti dall'estero ancora più allettanti e facendo affluire ancora più yen e dollari. Gli sforzi fallirono e i crediti continuarono a crescere. L’unico modo con cui la Banca Centrale avrebbe potuto evitare al denaro e al credito di gonfiarsi come un pallone sarebbe stato rinunciare al tasso fisso di cambio – lasciare semplicemente che il valore del bath aumentasse. Ma a quell’epoca sembrò una cattiva idea: un bath più forte avrebbe reso le esportazioni thailandesi meno competitive sui mercati mondiali (perché i salari e gli altri costi sarebbero stati più elevati se espressi in dollari) e, in generale, i thailandesi pensavano che un tasso di cambio fisso aumentava la fiducia dei mercati e che il loro paese era troppo piccolo per sopportare le continue fluttuazioni dei tassi di cambio alle quali gli Stati Uniti sono abituati. Di conseguenza il boom continuò la sua corsa. In seguito, come raccontano i libri di testo, l’espansione monetaria e del credito iniziò ad autolimitarsi. L’aumento degli investimenti, unito a un incremento della spesa da parte di consumatori arricchitisi da poco, portò a un rapido sviluppo delle importazioni; il boom dell’economia fece aumentare gli stipendi, rendendo così meno competitive le esportazioni thailandesi (in particolar modo perché la Cina, un grande concorrente della Thailandia, aveva svalutato la sua valuta nel 1994), e facendo rallentare la crescita delle esportazioni. Il risultato fu un grande deficit commerciale; invece di servire ad alimentare capitale locale e crediti, i prestiti in valuta straniera cominciarono a essere utilizzati per pagare le importazioni. E perché no? Alcuni economisti hanno sostenuto – così come quelli messicani avevano fatto nei primi anni Novanta – che i deficit commerciali della Thailandia, della Malesia e dell'Indonesia non erano segni di debolezza, ma di forza economica, e testimoniavano che i mercati funzionavano così come ci si aspettava facessero. Ripetiamolo ancora una volta: da un punto di vista prettamente contabile un paese che attira un saldo positivo di capitale deve avere un deficit di conto corrente di uguali dimensioni. Quindi se pensate che i flussi di capitale verso l’Estremo Oriente siano economicamente giustificati, altrettanto devono esserlo i deficit commerciali. E perché mai non doveva avere senso che il mondo investisse molto denaro in Estremo Oriente. considerati i tassi record di crescita e la stabilità economica? Dopotutto non si trattava di governi che si concedevano spese folli: mentre la Malesia e l’Indonesia partecipavano alla costruzione di grandiosi progetti pubblici, i loro bilanci erano più o meno in pareggio. Quindi questi deficit commerciali erano frutto delle decisioni di privati. Un numero sempre maggiore di osservatori cominciò tuttavia ad avvertire un certo disagio mentre i deficit della Thailandia e della Malesia crescevano al 6, 7, 8% del prodotto interno lordo – situazioni che il Messico aveva vissuto prima della «crisi tequila». L’esperienza messicana aveva convinto alcuni di noi che i flussi internazionali di capitale, sebbene fossero frutto solo delle decisioni dei settori privati, non meritavano per questo necessariamente la fiducia; la miopia degli investitori riguardo alle prospettive dell’Asia ricordava molto da vicino quella mostrata solo un paio di anni prima riguardo all’America Latina. E l’esperienza messicana suggeriva anche che quando l’opinione del mercato fosse cambiata, la situazione sarebbe stata difficile da gestire. Avremmo anche dovuto notare che l’idea che i prestiti asiatici fossero frutto di libere decisioni prese dai settori privati non rappresentava tutta la verità. L’Estremo Oriente, come il Giappone durante gli anni dell’economia gonfiata, aveva un problema di rischio soggettivo – un problema che presto sarebbe stato chiamato «crony capitalism». Torniamo a occuparci della nostra società finanziaria thailandese, l’istituzione che prendeva a prestito gli yen e che diede inizio al processo di espansione del credito. Chi erano queste società finanziarie? Non erano, come si può credere, banche ordinarie: in linea di principio avevano al massimo qualche cliente che depositava il denaro presso di loro. Allo stesso modo erano diverse dalle banche d’affari occidentali, incaricate di fornire informazioni specializzate che potevano aiutare a destinare i fondi verso gli impieghi più redditizi. In definitiva, quale era la loro ragione d’essere? Che cosa aggiungevano di nuovo? La risposta, estremamente sintetica, è: i collegamenti politici – spesso, in realtà, il proprietario della società finanziaria era parente di un funzionario governativo. Quindi affermare che le decisioni in merito a quanto prendere in prestito e quanto investire fossero prese solo dai settori privati non ha molto senso. In realtà i prestiti utilizzati per finanziare le aziende non erano garantiti come i risparmi e i prestiti negli Stati Uniti. Si può perdonare alle banche straniere che prestavano il denaro a società finanziarie vicine al governo il fatto di aver pensato che avrebbero ricevuto un po’ di garanzie in più, che il governo avrebbe trovato il modo di salvare la società se i suoi investimenti non avessero dato i risultati sperati. Alla fine quelli che fornivano il denaro dall’estero avrebbero effettivamente avuto ragione: infatti, quando arrivò la crisi, in circa nove casi su dieci gli stranieri che prestavano alle società finanziarie furono aiutati dal governo thailandese. Adesso osserviamo la situazione dal punto di vista del proprietario della società finanziaria, una persona vicina agli ambienti governativi. In linea di massima quest’ultimo poteva prendere in prestito denaro a bassi tassi d’interesse senza che nessuno gli facesse alcuna domanda. Di conseguenza veniva spontaneo prestare questo denaro a un tasso d’interesse più elevato ad amici che lavoravano nel settore immobiliare, le cui operazioni speculative potevano finire male – ma non necessariamente. Se tutto fosse andato bene non ci sarebbe stato nessun problema: entrambi avrebbero fatto un sacco di soldi. Se le cose non fossero andate come si sperava, la situazione non era così terribile: il governo avrebbe trovato il modo di salvare la società finanziaria. Se esce testa vince la società finanziaria, se esce croce perdono i contribuenti. In un modo o nell’altro si assisteva a situazioni di questo tipo in tutti quei paesi che sarebbero presto entrati in crisi. In Indonesia le società finanziarie svolsero un ruolo più importante: le tipiche transazioni dubbie rappresentavano prestiti delle banche straniere direttamente a società controllate da persone vicine al presidente. (L’esempio più evidente è quello dell’operazione che fece fallire la Peregrine Investment Holdings di Hong Kong: un prestito fatto direttamente alla società di taxi del figlio di Suharto.) In Corea le maggiori banche che prendevano a prestito erano effettivamente controllate dalle chaebol, le grandi conglomerale che avevano dominato l’economia nazionale e – fino a poco tempo fa – anche il sistema politico. In tutta la regione, quindi, le implicite garanzie prestate dai governi davano vita a investimenti più rischiosi e meno promettenti di quanto sarebbero stati se non fossero state prestate queste garanzie, alimentando così quello che sarebbe diventato un boom speculativo. Alla luce di tutto ciò non ci si deve dunque meravigliare troppo se la crisi cominciava a prendere forma. Ma nessuno si rese conto di quanto sarebbe stata dura. 2 luglio 1997 Nel 1996 e nella prima metà del 1997 la struttura creditizia che aveva fatto nascere il boom thailandese cominciò a tornare sui suoi passi. In parte ciò avvenne a causa di eventi esterni: alcuni mercati in cui venivano esportati prodotti thailandesi si indebolirono, e la svalutazione dello yen giapponese rese un po’ meno competitiva l’industria dell’Estremo Oriente. La realtà era che il proprietario della bisca aveva avuto la meglio sui giocatori, così come succede sempre: un maggior numero di investimenti speculativi finanziati, direttamente o meno, da debiti esteri a condizioni vantaggiose, finirono male. Alcuni speculatori fallirono e alcune società finanziarie chiusero i battenti. E gli investitori stranieri divennero sempre più riluttanti all’idea di concedere in prestito altro denaro. La perdita di fiducia era in un certo senso un processo che si autorafforzava. Fino a che i prezzi immobiliari e le quotazioni delle azioni erano cresciuti, anche gli investimenti più dubbi sembravano interessanti. Quando la bolla cominciò a sgonfiarsi le perdite iniziarono ad aumentare, causando un ulteriore calo della fiducia e riducendo ancora di più la concessione di nuovi debiti. Anche prima della crisi del 2 luglio il prezzo dei terreni e delle azioni era caduto ben al di sotto dei valori massimi. Il rallentamento nella concessione di prestiti dall’estero creò problemi anche alla Banca Centrale. In presenza di un minor afflusso di dollari e di yen, la domanda di bath sui mercati valutari esteri diminuì; allo stesso tempo restò invariata la necessità di cambiare il bath in valute estere per pagare le importazioni. Per evitare che diminuisse il valore del bath, la Bank of Thailand fu quindi obbligata a fare il contrario di quello che aveva fatto quando il denaro estero cominciava ad affluire: andò sul mercato per scambiare dollari e yen con i bath, in modo da sostenere la propria valuta. Ma c’è un’importante differenza tra il cercare di mantenere a livelli bassi la propria valuta e il cercare di mantenerla a livelli alti: la Bank of Thailand può aumentare l’offerta di bath quanto vuole, perché deve solo stamparli; ma non può stampare dollari. Quindi la sua abilità nel mantenere alto il livello del bath incontrò un grosso limite: presto o tardi le riserve sarebbero finite. L’unico modo per sostenere il valore della valuta sarebbe stato ridurre il numero di bath in circolazione, facendo aumentare i tassi d’interesse e rendendo ancora una volta conveniente prendere in prestito dollari per reinvestirli in bath. Ma tutto ciò poneva problemi di diverso genere. Mentre il boom degli investimenti stava finendo, l’economia thailandese aveva rallentato la sua corsa – si costruivano meno immobili, il che aveva come conseguenza un minor numero di occupati, un reddito più basso e una battuta d’arresto di tinta l’economia. Non si trattava di una vera e propria recessione, tuttavia l’economia non viveva più ai livelli ai quali si era abituata in precedenza. Aumentare i tassi d’interesse avrebbe voluto dire scoraggiare ulteriormente gli investimenti e forse condurre l’economia alla recessione. L’alternativa era non porre ostacoli all’andamento della valuta: non acquistare più bath e lasciar cadere il tasso di cambio. Ma anche questa era una opzione poco attraente, non solo perché una svalutazione di questo tipo avrebbe colpito la reputazione del governo, ma perché le banche, le società finanziarie e le altre attività economiche thailandesi avevano contratto debiti in dollari; se il valore del dollaro nei confronti del bath fosse aumentato, molti di loro sarebbero diventati insolventi. Di conseguenza il governo thailandese oscillò tra possibili alternative. Non voleva lasciar cadere il bath; allo stesso tempo non era intenzionato a prendere i severi provvedimenti che avrebbero bloccato la diminuzione delle riserve. Si limitò ad aspettare, apparentemente nell’attesa che succedesse qualcosa. Tutto ciò era perfettamente prevedibile: si trattava del classico preliminare a una crisi valutaria, quello che gli economisti amano modellizzare – e che gli speculatori amano provocare. Mentre era sempre più evidente che il governo non era capace di dare un giro di vite all’economia nazionale, e si fece più concreta l’eventualità di lasciare fluttuare il bath. Ma poiché tutto ciò non era ancora successo, c’era ancora tempo per avvantaggiarsi da questa prospettiva. Finché il tasso di cambio bath-dollaro sembrò poter rimanere stabile, il fatto che in Thailandia i tassi d’interesse fossero parecchi punti al di sopra di quelli degli Stati Uniti servì come incentivo a contrarre debiti in dollari e a concedere prestiti in bath. Ma, una volta che si fece altamente probabile l’eventualità che il bath sarebbe presto stato svalutato, l’incentivo ottenne risultati opposti – contrarre debiti in bath, aspettarsi che il valore in dollari di questi debiti si sarebbe presto ridotto, ed entrare in possesso di dollari, aspettandosi che il valore in bath di questi titoli sarebbe presto aumentato. I locali uomini d’affari prendevano in prestito in bath e ripagavano i loro debiti in dollari; i thailandesi benestanti vendettero i loro buoni del tesoro e ne acquistarono di statunitensi; infine non bisogna sottovalutare il fatto che alcuni grandi fondi d’investimento internazionali avessero cominciato a prendere in prestito bath e a convertire i propri ricavi in dollari. Tutte queste operazioni avevano in comune la vendita di bath e l’acquisto di altre valute; di conseguenza la Banca Centrale fu obbligata ad acquistare ancora più bath per evitare che la valuta crollasse e, così facendo, le riserve di valuta straniera si esaurirono ancora più velocemente – il che rinforzò ulteriormente la sensazione che il bath fosse in procinto di essere svalutato. Stava prendendo forma una classica crisi valutaria. Qualsiasi esperto di economia monetaria può dirvi che, una volta che le cose sono giunte a questo punto, il governo deve prendere una decisione immediata, in una direzione o nell’altra: o difendere a tutti i costi la valuta, oppure lasciare che quest’ultima vada per conto suo. Ma di solito per i governi è difficile prendere una qualsiasi decisione. Come molti altri governi che l’avevano preceduta, e senza dubbio come molti altri che seguiranno, la Thailandia aspettò finché le sue riserve si esaurirono; nel tentativo di convincere i mercati che la sua posizione fosse più forte di quanto non era in realtà, fece sembrare più grandi le riserve, annunciando improvvisi riporti valutari (vale a dire prendere in prestito dollari ora e restituirli in un secondo tempo). Ma, sebbene in alcuni momenti la pressione sembrasse allentarsi, subito dopo la situazione tornava esattamente come prima. All'inizio di luglio era ormai chiaro che i giochi erano fatti. Il 2 luglio i thailandesi lasciarono fluttuare liberamente il bath. Fino a quel momento non era successo niente di sorprendente. L’esaurimento delle riserve, gli attacchi speculativi su una valuta chiaramente debole, erano tutte conseguenze perfettamente prevedibili. Ma, nonostante la recente esperienza della «crisi tequila», la maggior parte della gente pensava che la svalutazione del bath avrebbe molto probabilmente messo fine a questa storia: un’umiliazione per il governo, forse anche una brutta sorpresa per qualche settore economico, ma niente di catastrofico. Di sicuro la Thailandia non aveva niente di simile al Messico. Nessuno poteva accusarla di avere raggiunto «stabilità, riforme e nessuna crescita»; non c’era nessun Càrdenas thailandese in attesa di appoggiare un programma economico populista. E quindi non ci sarebbe stata una recessione devastante. Si sbagliavano. Il disastro Ci sono due domande un po’ diverse da porsi riguardo alla recessione che si diffuse in Asia all’inizio della svalutazione thailandese. La prima riguarda la meccanica di quanto avvenne: come fu possibile la recessione? Perché la svalutazione di una piccola economia ha provocato un crollo degli investimenti e della produzione in una regione così vasta? L’altra domanda, in certo senso più profonda, è: perché i governi non riuscirono, o forse non poterono, prevenire la catastrofe? Che cosa era successo alla politica macroeconomica? Ci vuole un po’ di tempo per trovare risposta a questa seconda domanda, anche perché è stata oggetto di grandi discussioni tra esperti. Quindi lasciamo questa seconda risposta al prossimo capitolo e cerchiamo semplicemente di descrivere i fatti. Quando tutto va bene, non succede niente di terribile se si fa perdere valore a una valuta. Quando l’Inghilterra abbandonò la difesa della sterlina nel 1992, la valuta si svalutò di circa il 15% e quindi si stabilizzò: gli investitori pensaroche il peggio fosse passato, che una valuta con un valore più basso avrebbe aiutato le esportazioni del paese e che, di conseguenza, l’Inghilterra era diventata una nazione migliore di prima per effettuare investimenti. Alcune stime suggerirono che il bath avrebbe dovuto perdere circa il 15% del suo valore per rendere ancora una volta competitiva sul fronte dei costi l’industria thailandese, e quindi ci si poteva aspettare una svalutazione più o meno di questa entità. Ma invece la valuta precipitò: il prezzo di un bath espresso in dollari aumentò del 50% nel corso dei mesi successivi, e sarebbe aumentato ancora di più se la Thailandia non avesse drasticamente aumentato i tassi d’interesse. Perché il bath crollò in questo modo? In sintesi la risposta è: «panico»; ma esistono diversi tipi di panico. Quale era quello in questione? Talvolta il panico è semplicemente panico: una reazione irrazionale da parte degli investitori non giustificata dall’attuale situazione. Un esempio potrebbe essere quello del breve crollo del dollaro avvenuto nel 1981, dopo che un pazzo armato aveva ferito Ronald Reagan. Si trattò di un episodio sconvolgente; ma anche se Reagan fosse morto, la stabilità del governo statunitense e la continuità delle sue politiche difficilmente ne avrebbero risentito. Quelli che si mantennero lucidi e non abbandonarono il dollaro furono ricompensati per non aver perso la testa. In economia, tuttavia, è molto più importante il tipo di panico che, qualsiasi sia il motivo che lo fa nascere, si auto-giustifica. Il classico esempio è quello della corsa agli sportelli: quando i correntisti cercano di ritirare tutti allo stesso momento i loro risparmi, la banca è obbligata a vendere i suoi beni a prezzi bassissimi, entrando di conseguenza in bancarotta; i correntisti che non si lasciano prendere dal panico hanno conseguenze peggiori di quelli che effettivamente perdono la testa. E in realtà ci furono alcune corse agli sportelli in Thailandia, e ancora di più in Indonesia. Ma prestare attenzione solo a queste corse agli sportelli vorrebbe dire prendere la metafora troppo alla lettera. Quel che successe in realtà fu che si creò un processo circolare di deterioramento del sistema finanziario e di perdita di fiducia; le corse agli sportelli ne sono solo un aspetto. L’illustrazione pubblicata qui a fianco descrive questo processo, che in qualche modo si manifestò in tutte le economie dell’Asia colpite dalla crisi. Iniziate da una qualsiasi parte dello schema – per esempio dalla perdita di fiducia nei confronti della valuta e dell’economia thailandese. Questa perdita di fiducia spinge gli investitori, sia thailandesi sia stranieri, a portare il proprio denaro fuori dal paese. Tutto ciò, se nel frattempo le altre variabili non hanno subito cambiamenti, fa perdere valore al bath. Considerato che la Banca Centrale thailandese non poteva più mantenere alto il valore della sua valuta acquistandola sui mercati internazionali (perché non aveva più dollari o yen da spendere), l’unica cosa che poteva fare era aumentare i tassi d’interesse e ritirare dalla circolazione un po’ di bath. Sfortunatamente sia la diminuzione del valore della valuta, sia l’aumento dei tassi d’interesse crearono problemi finanziari all’economia, per le società finanziarie e per le aziende. Da un lato molte di queste ultime avevano debiti in dollari, che improvvisamente si fecero più pesanti, in quanto aumentò il numero di bath necessari per acquistare un dollaro; dall’altro lato molte di queste società avevano anche debiti in bath, che divennero difficili da onorare al crescere dei tassi d’interesse. E la combinazione di più alti tassi d’interesse e bilanci in rosso con un sistema bancario che spesso si mostrava incapace di concedere il più sicuro dei prestiti, portò alla riduzione delle spese da parte delle aziende, e causò una recessione che a sua volta finì per peggiorare ulteriormente i ricavi e i bilanci. Tutte queste brutte notizie provenienti dall’economia finirono inevitabilmente per ridurre ancora di più la fiducia, e per l’economia fu un disastro. Il circolo vizioso della crisi finanziaria Lasciando da parte tutti i complicati dettagli (che vengono ancora esaminati a uno a uno dai ricercatori), la storia sembra piuttosto chiara – specialmente perché qualcosa di simile era già avvenuto in Messico nel 1995. Quindi per quale motivo gli effetti disastrosi della svalutazione thailandese colsero tutti alla sprovvista? La risposta più semplice è che, mentre molti economisti avevano capito la complessità di questa storia – la teoria del circolo vizioso tra fiducia, mercati finanziari, economia reale e di nuovo fiducia – nessuno capiva quanto il processo potesse risultare potente nella pratica. Di conseguenza nessuno capì quanto poteva risultare esplosiva la dinamica circolare della crisi. Facciamo un esempio. In una sala convegni un microfono fa sempre un eco di ritorno: i suoni raccolti dal microfono vengono amplificati dagli altoparlanti, e quanti escono da questi ultimi vengono a loro volta raccolti dai microfoni, e così via. Ma fino a che la stanza non genera un eco eccessivo questo processo si limita a essere smorzato non crea problemi. Aumentate un po’ troppo il volume, tuttavia, e il processo aumenta in maniera spropositata: ogni più piccolo rumore viene registrato dal microfono, amplificato, registrato di nuovo e improvvisamente ci si trova in mezzo a fischi fastidiosissimi. Quel che importa, in altre parole, non è solo il processo in sé stesso, ma la sua forza; quello che ha colto tutti di sorpresa era scoprire che il volume era stato girato al massimo. In realtà ci sono tuttora persone che stentano a credere che un’economia di mercato possa rivelarsi così instabile, che il processo descritto nell’illustrazione possa veramente essere così forte da provocare una crisi esplosiva. Ma in realtà accadde proprio questo – come possiamo dedurre dal modo con cui si è diffusa la crisi. Il contagio Probabilmente c’è un buon motivo per cui gli importanti convegni di finanza internazionale, in particolare quelli che discutono di crisi internazionali, hanno di solito sede in località agresti – perché il sistema monetario del dopoguerra ha preso forma presso l’Hotel Washington di Bretton Woods o perché molti dei ministri finanziari e dei governatori delle banche centrali si riuniscono tutte le estati al Jackson Lake Lodge in Wyoming. Forse l’ambiente gradevole aiuta questi personaggi importanti a lasciarsi alle spalle le lotte quotidiane e a concentrarsi, sebbene per breve tempo, su temi di più ampia portata. In ogni caso, all’inizio dell’ottobre 1997 – quando la crisi asiatica stava già prendendo forma, ma la sua gravità non era ancora così evidente – un certo numero di banchieri, funzionari ed economisti si riunirono a Woodstock, nello stato del Vermont, per fare il punto della situazione. A quell’epoca la Thailandia era già in gravi difficoltà; anche la valuta della vicina Malesia era stata colpita; e la rupia indonesiana era stata svalutata circa del 20%. La sensazione generale era che la Thailandia avesse gettato la sventura su sé stessa; e si mostrava poca comprensione nei confronti della Malesia, che negli ultimi anni, al pari della Thailandia, aveva avuto grandi deficit di spese correnti, e il cui primo ministro aveva peggiorato le cose denunciando pubblicamente gli speculatori. Ma tutti concordavano sul fatto che, mentre l’Indonesia aveva fatto bene a lasciare deprezzare la sua valuta – in realtà la gestione economica dell’Indonesia fu oggetto di più di un apprezzamento – la debolezza della rupia non era assolutamente giustificata. Dopo tutto, il deficit di spesa corrente sul PIL dell’Indonesia non era mai stato neanche paragonabile a quello dei paesi confinanti – a meno del 4% del PIL, il deficit dell’Indonesia era in realtà inferiore, per esempio, a quello dell’Australia. Le esportazioni del paese – in parte materie prime, in parte produzioni a elevata intensità di lavoro – sembravano solide; e in generale l’economia appariva fondamentalmente sana. Nel giro di tre mesi l’Indonesia si sarebbe ritrovata in condizioni ancora peggiori di quelle del resto dell’Estremo Oriente, ormai vicina a una delle peggiori recessioni economiche della storia mondiale; la crisi si era diffusa non solo in Estremo Oriente, ma persino in Corea del Sud, un lontano paese il cui PIL era due volte quello dell’Indonesia e tre volte quello della Thailandia. Quasi sempre ci sono validi motivi che spiegano il contagio economico. Un vecchio detto afferma che quando gli Stati Uniti starnutiscono il Canada si prende l’influenza; tutto ciò non deve meravigliare, considerato che gran parte dei beni prodotti in Canada vengono venduti agli Stati Uniti. Le economie asiatiche colpite dalla crisi erano collegate tra di loro: la Thailandia rappresenta un mercato per i prodotti malesi, e viceversa. La situazione può essere stata aggravata anche dal fatto che le economie asiatiche vendevano tutte prodotti simili: quando la Thailandia svalutò la sua valuta, l’abbigliamento esportato verso l’Occidente divenne più a buon mercato, e di conseguenza in Indonesia si ridussero anche i margini di profitto di chi produceva beni simili. Ma tutte le analisi indicavano che non poteva esserci stato un solo motivo alla base del diffondersi della crisi tra economie in difficoltà. In particolare la Thailandia, come mercato di sbocco o come concorrente, rappresentava veramente una cosa da nulla nei confronti della più grande economia della Corea del Sud. Una più potente fonte di contagio poteva essere stata quella dei legami finanziari. Non che i thailandesi fossero grandi investitori in Corea, o che i coreani lo fossero in Thailandia; ma i flussi di denaro verso la regione erano spesso stati opera di «fondi d’investimento dei mercati emergenti», che gestivano senza distinzione i titoli di tutti i paesi della zona. Quando cominciarono a giungere cattive notizie dalla Thailandia, il denaro fu ritirato da questi fondi e, dunque, da tutti i paesi della regione. Ancora più importante, tuttavia, era il modo con cui le economie asiatiche erano collegate tra di loro nella mente degli investitori occidentali. La voracità degli investitori nei confronti della regione era stata alimentata da un ipotetico «miracolo asiatico»; quando si scopriva che, dopo tutto, l’economia di una nazione non era così miracolosa, questa scoperta faceva perdere la fiducia nei confronti di tutti gli altri paesi della regione. Magari le persone che si riunirono a Woodstock consideravano effettivamente l’Indonesia diversa dalla Thailandia, ma l’investitore della strada era mesicuro e, per premunirsi da ogni eventuale rischio, decideva di ritirare tutti i suoi soldi. Ci si rese conto che, quali che fossero le differenze tra quelle economie, le accomunava la tendenza a lasciarsi prendere da un panico che si autoalimentava. Le persone che si erano riunite a Woodstock si sbagliavano in merito all'Indonesia, e gli investitori che si lasciavano prendere dal panico avevano visto giusto; non perché i primi avevano travisato le virtù dell’Indonesia, ma perché avevano sottovalutato la sua vulnerabilità. In Malesia, in Indonesia, in Corea, come in Thailandia, la perdita di fiducia dei mercati diede vita a un circolo vizioso di collasso economico e finanziario. Non aveva importanza che queste economie fossero solo in parte collegate tra di loro da flussi commerciali. Queste economie erano collegate tra di loro nella mente degli investitori, che consideravano i problemi di un’economia asiatica come una cattiva notizia che riguardava anche tutte le altre; e quando un’economia ha la tendenza a lasciarsi prendere da un panico che si autoalimenta, la capacità di comprensione fa la stessa fine. Perché l’Asia? Perché il 1997? Perché l’Asia visse una terribile crisi economica e perché quest’ultima iniziò nel 1997? Forse vi state chiedendo quali siano stati gli eventi che hanno fatto precipitare la situazione o, ancora meglio, vi state domandando il motivo della straordinaria vulnerabilità dell’Asia. Se insistete nel dare la colpa dell’inizio della crisi asiatica a qualche fatto specifico, eccovi una lista di quelli che sono normalmente considerati i principali sospetti. Uno è il tasso di cambio tra dollaro e yen: tra il 1995 e il 1997 il valore dello yen, che era misteriosamente arrivato a livelli stratosferici, crollò. Dato che la maggior parte delle valute asiatiche erano più o meno agganciate al dollaro, questo faceva sembrare più care le esportazioni sia sui mercati giapponesi sia sui mercati dove queste esportazioni erano in competizione con i prodotti giapponesi, causando così un rallentamento dell’export. La svalutazione della Cina del 1994, e l’accresciuta competitività derivante dal basso costo del lavoro cinese, ebbero come effetto la riduzione delle esportazioni dalla Thailandia e dalla Malesia. Inoltre si assisteva a quel tempo a un calo della domanda mondiale per l’elettronica e, in particolare, per i semiconduttori, un’area nella quale le economie asiatiche avevano cercato di specializzarsi. In precedenza, però, l’Asia era riuscita a liberarsi da difficoltà ben peggiori. Il crollo del prezzo del petrolio nel 1985, per esempio, rappresentò un grande colpo per le esportazioni di petrolio dall’Indonesia; tuttavia l’economia riuscì a crescere anche in mezzo alle brutte notizie. La recessione del 1990-91 non fu molto forte ma colpì comunque gran parte del mondo industrializzato, ridusse la domanda per le esportazioni asiatiche, ma non rallentò assolutamente la crescita della regione. La vera domanda da porsi era dunque che cosa fosse cambiato in Asia (o, forse, nel mondo) per far sì che queste brutte notizie si trasformassero in una valanga economica. Alcuni asiatici, soprattutto il primo ministro malese Mahathir, avevano una risposta pronta: la cospirazione. Mahathir, tuttavia, affermava non solo che il panico in Asia era stato deliberatamente orchestrato da operatori finanziari come George Soros, ma che lo stesso Soros agiva dietro istruzioni del governo statunitense, che voleva così soffocare le ambizioni asiatiche. Col passare del tempo la demonizzazione di Mahathir nei confronti degli hedge funds cominciò a sembrare un po’ meno stupida di quanto non apparisse all'inizio. In realtà il ruolo degli hedge funds sembra ora sufficientemente importante da dedicare a questo tema un intero capitolo del presente libro (il capitolo 6). Ma questo ruolo divenne rilevante soprattutto nel 1998 (proprio il momento in cui, casualmente, le attività di Soros e degli altri furono molto in contrasto con la politica statunitense); dunque la teoria della cospirazione non riesce a spiegare il motivo per cui la crisi ebbe inizio. D’altro canto molti occidentali hanno raccontato la storia del crollo asiatico come una favola a sfondo morale, secondo la quale le economie hanno ricevuto la giusta punizione per i peccati di nepotismo compiuti in precedenza. Dopo la catastrofe ognuno tirava fuori la sua storia sugli eccessi e la corruzione della regione – sulle società finanziarie, sui grandiosi piani della Malesia per un «corridoio tecnologico», sulle fortune accumulate dalla famiglia Suharto, sulla bizzarra diversificazione delle conglomerate coreane (la sapevate quella del produttore d’abbigliamento intimo che aveva comprato un comprensorio sciistico che a sua volta avrebbe dovuto essere rivenduto a Michael Jackson?). Ma questo tentativo di buttarla sulla morale offre più di uno spunto problematico. Prima di tutto, mentre il nepotismo e la corruzione erano fenomeni indubbiamente reali in Asia, non rappresentavano certamente qualcosa di nuovo. I chaebol della Corea erano in pratica delle società familiari mascherate da aziende moderne, i cui proprietari avevano il privilegio di ricevere un trattamento particolare – accesso preferenziale al credito, alle licenze d’importazione, ai sussidi governativi – per anni e anni. E furono anni di crescita economica spettacolare. Non si trattava di un buon sistema secondo gli standard occidentali; ma funzionò bene per trentacinque anni. Lo stesso si può dire, su scala ridotta, per tutti i paesi che furono coinvolti nella crisi. Perché i loro limiti divennero improvvisamente visibili solo nel 1997? Inoltre, se la crisi era una punizione per i peccati delle economie asiatiche, per quale motivo economie che avevano raggiunto diversi livelli di sviluppo crollarono tutte insieme? Nel 1997 la Corea poteva quasi essere considerata una nazione sviluppata, con un reddito pro capite paragonabile a quello dei paesi dell’Europa del sud, mentre l’Indonesia era ancora un paese molto povero, dove il progresso poteva essere misurato in quante calorie la gente riusciva a consumare al giorno. Come è stato possibile che una coppia di paesi così diversi entrasse in crisi contemporaneamente? L’unica risposta che ha un qualche senso, almeno per me, è che la crisi non fosse (o, per lo meno, non lo fosse del tutto) una punizione per i peccati commessi in precedenza. Queste economie avevano effettivamente commesso degli errori, ma il principale limite restava la tendenza a vivere momenti di panico che si autoalimentavano. Torniamo alle corse agli sportelli: nel 1931 circa la metà delle banche degli Stati Uniti fallirono. Queste banche non erano tutte uguali. Alcune erano gestite molto male; alcune avevano affrontato rischi eccessivi, anche alla luce di quello che sapevano prima del 1929; altre ancora erano ben gestite, sebbene in maniera piuttosto conservatrice. Ma quando il panico si diffuse nella nazione e i risparmiatori cominciarono dappertutto a chiedere immediatamente indietro il loro denaro, niente di tutto questo ebbe più importanza: sopravvissero solo le banche che erano state estremamente conservatrici, che avevano mantenuto in contanti una percentuale di depositi che in tempi normali sarebbe stata considerata eccessiva. Allo stesso modo l’economia thailandese era stata gestita molto male, aveva chiesto in prestito troppo denaro e aveva investito in progetti ben poco trasparenti; l’Indonesia, a causa di tutta la sua corruzione, era molto meno colpevole e possedeva veramente le virtù che le persone di Woodstock avevano immaginato; ma in presenza del panico queste distinzioni non avevano più importanza. Le economie asiatiche erano più vulnerabili al panico finanziario nel 1997 di quanto non lo fossero state cinque o dieci anni prima? Sicuramente sì – ma non a causa del nepotismo o di quella che generalmente viene considerata una cattiva gestione statale. Erano invece diventate più vulnerabili, perché si erano aperte ai mercati finanziari – erano infatti diventate economie più libere –, e perché si erano avvantaggiate della popolarità acquisita presso gli operatori internazionali e l’avevano utilizzata per contrarre ingenti debiti nei confronti del mondo esterno. Questi debiti rafforzarono il legame tra perdita di fiducia, collasso finanziario e così via, rendendo ancora più radicato il circolo vizioso che caratterizzava la crisi. Il problema non era che il denaro fosse speso malamente; in qualche caso lo era, in qualche caso no. In realtà i nuovi debiti, al contrario di quelli vecchi, erano in dollari – e proprio questo si rivelò essere il motivo che portò l’economia alla rovina. Epilogo: Argentina, 2002 L’Argentina non è un paese asiatico. (Ma guarda un po’!) Eppure, nel 2002 ha vissuto una crisi di tipo asiatico, che ha dato una dimostrazione dolorosamente chiara di come certe politiche economiche ultraelogiate possano condurre un paese al disastro. Ho riassunto brevemente la storia monetaria dell’Argentina nel capitolo 2. Dopo anni e anni di uso irresponsabile e di abuso della stampa di nuova moneta, nel 1991 il governo argentino tentò di mettere fine a tutto ciò adottando un currency board (regime legale di cambio fisso, n.d.t.) che avrebbe dovuto fungere da raccordo permanente tra il peso argentino e il dollaro usa. A ogni peso in circolazione doveva corrispondere un dollaro di riserve monetarie, senza alcuno spazio di discrezionalità. E questa stabilità monetaria, si sperava, avrebbe assicurato una prosperità protratta nel tempo. Come abbiamo visto in precedenza, l’Argentina era andata molto vicino al disastro nel 1995, quando l’onda di ritorno della crisi messicana fu lì lì per abbattere il sistema bancario. Ma con l’attenuarsi della crisi è tornata la fiducia. Gli osservatori stranieri continuavano a elogiare sperticatamente l’economia argentina e i suoi gestori, e i capitali esteri tornavano ad affluire, prevalentemente sotto forma di prestiti in dollari, a imprese ai cittadini argentini. Ma alla fine degli anni Novanta, tutto cominciò ad andare per il verso sbagliato. All’inizio, il problema era la rigidità del sistema dei tassi di cambio, che eguagliava il peso al dollaro. Non sarebbe stato un grosso problema se l’Argentina, come il Messico, avesse avuto un elevatissimo interscambio commerciale con gli Stati Uniti. Ma basta guardare la cartina geografica: l’Argentina non è più vicina agli Stati Uniti che all’Europa, e in effetti ha più interscambio commerciale con l’Europa c con il vicino Brasile che con gli Stati Uniti. E il sistema valutario dell’Argentina non garantiva tassi di cambio stabili né rispetto all’euro, né rispetto al real, la moneta del Brasile. Tendeva, all’opposto, a causare fluttuazioni immotivate in questi tassi di cambio, e quindi nella posizione commerciale dell’Argentina. Se, per esempio, il dollaro si fosse apprezzato sull’euro, per qualunque ragione, l’effetto sarebbe stato di mettere le esportazioni argentine fuori mercato per i compratori europei. Ed è esattamente quello che è accaduto all’Argentina a partire dai primi anni Novanta. Da una parte, il dollaro si apprezzò moltissimo sull’euro – a un certo punto il dollaro valeva appena 0,85 dollari, contro 1,26 al momento in cui scrivo. Dall’altra il Brasile, contagiato dalla crisi finanziaria della Russia (vedi capitolo 6), svalutò pesantemente il real. L’effetto combinato di queste variazioni nei tassi di cambio fu quello di togliere competitività alle esportazioni argentine, spingendo il paese in una recessione. Con il tracollo dell’economia argentina, gli investitori esteri persero fiducia. Il flusso dei capitali diretti nel paese si invertì, creando una strozzatura nel credito. E come era accaduto nel 1995, il venir meno dei fondi esteri causò anche una crisi bancaria. Il governo argentino tentò disperatamente di arginare la crisi che si acuiva di giorno in giorno. Ridusse la spesa pubblica aggravando la recessione, nella speranza di riconquistare la fiducia degli investitori esteri. Limitò i prelievi bancari, una misura che provocò tumulti davanti al palazzo presidenziale (ricorderete la scena delle massaie che sbattevano rumorosamente pentole e pentolini). Sembrava che non funzionasse più niente. E alla fine del 2001 il governo si ritrovò nell’impossibilità di mantenere la parità tra dollaro e peso. Il valore del peso argentino crollò nel giro di pochi giorni da un dollaro a circa trenta centesimi. I risultati iniziali della crisi valutaria furono catastrofici, proprio come era avvenuto in Asia. Poiché molte imprese e molti cittadini argentini si erano indebitati in dollari, il deprezzamento del peso rispetto alla divisa americana ebbe un effetto devastante sui bilanci, portando in molti casi al fallimento. L’economia si bloccò: il PIL reale diminuì dell'11% nel 2002, dopo essere sceso del 4% nel 2001. Complessivamente, l’economia argentina fece registrare tra il 1998 e il 2002 una contrazione del 18%, degna della Grande Depressione. Nei cinque anni successivi, l’Argentina ha avuto un grosso recupero, anche grazie a un accordo che consentiva al suo governo di rimborsare solo una trentina di cent per ogni dollaro di debito estero. (Uno dei titoli che ho trovato più brillanti in assoluto era quello di un rapporto della Reuters sulla rinegoziazione del debito: «L’Argentina ai creditori: e adesso fateci causa»). Ma è stata un’esperienza terrificante. E mentre questo libro andava in stampa, l’Argentina era nuovamente in crisi. La domanda più importante La maggior parte dei commentatori della crisi asiatica avrebbe facilmente da ridire sulla tesi di questo capitolo. Alcuni potrebbero affermare che il danno causato da prestiti troppo rischiosi era maggiore di quanto ritengo io; altri ancora potrebbero sostenere, al contrario, che le economie stavano vivendo una fase positiva e che la crisi era giunta del tutto inaspettata. Il meccanismo della crisi – i ruoli giocati dai fallimenti delle banche, dai prezzi immobiliari, dai tassi di cambio, dai tassi d’interesse e così via – sarà, forse per molti anni, oggetto di grandi discussioni. Nonostante tutto, credo che questa tesi possa meritare una certa accoglienza. Il punto realmente controverso – quello su cui ci si scalda di più, perché chi critica il modo in cui fu gestita la crisi critica anche quelli che l’hanno gestita – è politico. Perché i governi non sono riusciti a fare di più per limitare i danni? 5. PERVERSIONE POLITICA Nel dicembre del 1930, non appena fu evidente che la recessione in atto non era ordinaria, John Maynard Keynes cercò di spiegare all’opinione pubblica quanto stava avvenendo. «Abbiamo dei problemi al motorino d’avviamento», dichiarò. Si trattava, in un certo senso, di un’affermazione degna di un radicale, perché quanto dichiarato equivaleva a dire che il motore economico non sarebbe ripartito da solo, ma aveva bisogno di una spinta da parte del governo. In realtà Keynes si era comportato da conservatore: aveva affermato che il problema del motore non era così grave e che si poteva risolvere con alcuni accorgimenti tecnici. In un momento in cui nel mondo la maggior parte degli intellettuali era convinta che il capitalismo fosse destinato al fallimento, che solo passando a un’economia pianificata centralmente l’Occidente avrebbe potuto uscire dalla Grande Depressione, Keynes aveva invece detto che il capitalismo non era spacciato, che bastavano alcuni piccoli interventi – conservando la proprietà privata e la capacità decisionale dei privati – per far funzionare il sistema. In effetti, alla faccia degli scettici, il capitalismo sopravvisse, ma, anche se chi oggi si dichiara entusiasta del libero mercato fa fatica ad ammetterlo, la sopravvivenza la si deve in gran parte ai suggerimenti di Keynes. La Seconda guerra mondiale offrì l’occasione che Keynes stava aspettando da anni; ma il libero mercato sopravvisse non solo perché si riuscì a uscire dalla depressione, ma anche perché ci si convinse che le politiche macroeconomiche – tagliare i tassi d’interesse o aumentare il deficit statale per combattere le recessioni – potevano mantenere più o meno stabile un'economia di libero mercato in presenza di un tasso di quasi completa occupazione. In effetti il capitalismo e i suoi economisti avevano stretto una sorta di patto con l’opinione pubblica: d’ora in poi il libero mercato non ci creerà più problemi, perché ormai sappiamo abbastanza cose per evitarci ulteriori Grandi Depressioni. Questo implicito accordo ha anche un nome: negli anni Cinquanta Paul Samuelson, in un suo famoso libro, la chiamò «sintesi neoclassica». Io preferisco chiamarla «sintesi keynesiana». Negli Stati Uniti e in molti altri paesi industrializzati questa sintesi viene ancora oggi apprezzata. È vero, ci sono ancora recessioni qua e là. Tuttavia, quando queste ultime prendono forma, tutti si aspettano che la Federal Reserve faccia quello che ha fatto nel 1975, nel 1982 e nel 1991: tagliare i tassi d’interesse per far riprendere fiato all’economia. Ci aspettiamo anche che il Presidente e il Congresso, se necessario, taglino le tasse e aumentino la spesa per incentivare questo processo. Sicuramente non ci aspettiamo che una recessione possa essere gestita, come fece Herbert Hoover, aumentando le tasse, diminuendo la spesa e aumentando i tassi d’interesse. Ma quando il disastro finanziario colpì l’Asia, le politiche con cui risposero questi paesi furono quasi l’opposto di quelle adottate dagli Stati Uniti per fronteggiare la recessione. L’austerità fiscale era all’ordine del giorno, si aumentarono i tassi d’interesse, spesso a livelli assolutamente punitivi. Tutto ciò non avveniva perché i politici di questi paesi fossero stupidi o male informati. Al contrario, la maggior parte di loro conosceva molto bene la sintesi keynesiana, al punto che nel passato avevano anche cercato di aderire a questo filone di pensiero (ricordate l’elogio della Banca Mondiale per la loro «ortodossia pragmatica»). In ogni caso, una volta che la crisi aveva fatto la sua comparsa, le politiche dei paesi asiatici furono in gran parte dettate da Washington – vale a dire dal Fondo Monetario Internazionale e dal segretario al Tesoro statunitense. E alla testa di queste istituzioni c’erano persone molto preparate: si potrebbe dire che mai nella storia così tanti economisti di primo piano hanno ricoperto cariche così elevate. Ma allora come mai persone tanto intelligenti hanno potuto consigliare a economie di mercato emergenti delle politiche assolutamente perverse alla luce della dottrina economica tradizionale? (Se gli Stati Uniti avessero aumentato le imposte e i tassi d’interesse di fronte a una recessione, anche noi avremmo subito un tracollo economico.) In breve la risposta è: «per la paura degli speculatori». Ma questa sintetica risposta ha senso solo se inserita in un certo contesto – più precisamente se dedichiamo un po’ di tempo a capire i problemi del sistema monetario internazionale. La mancata evoluzione del sistema monetario internazionale Una volta il mondo aveva una sola valuta, il «globo». Era ben gestita: la Global Reserve Bank (chiamata amichevolmente Glob), sotto la direzione di Alan Globspan, fece un lavoro ragionevolmente buono aumentando l’offerta di moneta globale quando il mondo minacciava di cadere in recessione, e stabilizzando l’offerta quando cominciavano a esserci avvisaglie di inflazione. In seguito, alcuni si sarebbero ricordati del regno del globo come di un’età dell’oro. Soprattutto gli uomini d’affari apprezzavano questo sistema perché potevano comprare e vendere dappertutto con poche difficoltà. Tuttavia in questo paradiso c’era un problema. Sebbene un’attenta gestione del «globo» riuscisse a evitare al mondo nel suo complesso di restare in balìa di alti e bassi, lo stesso non si poteva dire per ogni singolo pezzo del puzzle. Spesso c’erano addirittura conflitti d’interesse riguardo alla politica monetaria. Qualche volta la Glob avrebbe allentato la sua politica monetaria perché l’Europa e l’Asia erano sull’orlo di una recessione; ma questa massa di denaro avrebbe innestato un boom speculativo in Nord America. In altri momenti la Glob si sarebbe sentita obbligata a limitare l’offerta di moneta per arrestare l’inflazione in Nord America, intensificando così una recessione in corso in Sud America. E poiché non c’erano singole valute per ogni continente, i governi continentali non potevano fare niente a questo riguardo. In seguito la frustrazione aumentò e il sistema entrò in crisi. Al posto del «globo» ogni continente introdusse una sua propria valuta e cominciò a studiare politiche economiche adatte alle proprie necessità. Quando l’economia europea era in fase espansiva, si poteva ridurre l’offerta di euro; quando l’America Latina entrava in recessione si poteva aumentare l’offerta di «latino». L’idea che una sola politica monetaria potesse servire a tutti gli scopi non era più valida. Tuttavia si scoprì presto che, dopo aver risolto un problema se ne presentava un altro, perché i tassi di cambio tra valute continentali presentavano ampie fluttuazioni. Per esempio si poteva pensare che il tasso di cambio tra l’euro e il «latino» sarebbe stato influenzato dal mercato: dai latinoamericani che scambiavano la loro valuta in euro, così da poter comprare prodotti europei, e viceversa. Diventò presto chiaro, però, che il mercato era dominato dagli investitori – gente che comprava e vendeva valute per comprare azioni e obbligazioni. E, visto che la domanda per questi investimenti era molto mutevole, e spesso anche molto speculativa, il valore delle valute si dimostrò altrettanto instabile. Infine anche la gente comune cominciò a speculare sul valore delle valute. Il risultato fu quello di rendere discontinui gli andamenti dei tassi di cambio, creando così un clima d’incertezza per le aziende, che non potevano mai essere sicure di quanto valessero le azioni e le obbligazioni che detenevano sui mercati esteri. Di conseguenza, alcuni continenti cercarono di stabilizzare i tassi di cambio – comprando e vendendo sul mercato internazionale così da mantenere costante il valore dell’euro espresso in «afros», o del «gringo» espresso in «latino». Tuttavia le banche centrali si riservarono il diritto, se necessario, di modificare il tasso di cambio che si erano poste come obiettivo – per esempio svalutando la propria valuta se si voleva ridurre la disoccupazione. Purtroppo si scoprì che questo sistema offriva agli speculatori bersagli troppo facili: quando un continente aveva difficoltà economiche e si pensava che stesse preparando una svalutazione, gli speculatori cominciavano a vendere in anticipo la valuta; questo costringeva le banche centrali del continente o ad alzare i tassi d’interesse, peggiorando così la situazione, oppure a svalutare immediatamente. L’alternativa – l’ultima a disposizione – era quella di combattere direttamente gli speculatori, ponendo vincoli ai movimenti di capitale. Di conseguenza i continenti del mondo furono costretti a scegliere uno dei tre «regimi valutari», ognuno dei quali aveva un grosso limite. Potevano scegliere di mantenere una politica monetaria indipendente, e lasciare dunque fluttuare indisturbato il tasso di cambio; questo li lasciava liberi di combattere la recessione, ma introduceva un fastidioso clima di incertezza nel mercato. Potevano fissare un valore del tasso di cambio e cercare di convincere i mercati che non avrebbero mai svalutato; tutto ciò avrebbe reso più semplici e sicure le trattative sui mercati, ma avrebbe riportato a galla il problema di una sola politica economica in grado di risolvere tutti i problemi. In alternativa, potevano continuare a mantenere un sistema flessibile, vale a dire fissare un tasso di cambio ma riservarsi la possibilità di modificarlo; questa soluzione era però attuabile solo se si controllavano i movimenti di capitale, un’operazione difficile nella pratica oltre che molto onerosa, e che – come ogni altro divieto su transazioni potenzialmente redditizie – rappresentava una grande fonte di corruzione. D’accordo, d’accordo, non è andata proprio così. Non è mai esistito il «globo»; la cosa che gli si è avvicinata di più è stato lo standard aureo degli anni antecedenti il 1930, che fortunatamente non fu concepito per evitare gli alti e i bassi dell’economia mondiale. Ma la nostra storia immaginaria serve a chiarire un po’ meglio la complessità del dilemma a tre punte, o «trilemma», che le economie nazionali si sono successivamente trovate di fronte nel sistema economico globale. Proviamo a immaginarla così. Ci sono tre cose che chi si occupa di macroeconomia desidera per il proprio sistema economico. La prima è la discrezionalità nella politica monetaria, così da poter combattere le recessioni e ridurre l’inflazione. La seconda è tassi di cambio stabili, così che i mercati possano operare in un clima contraddistinto da una non eccessiva incertezza. La terza, infine, è la liberalizzazione degli scambi internazionali – in particolare lasciare alla gente la possibilità di scambiare le valute a loro piacimento. Quello che ci insegna la storia del «globo» è che le nazioni non possono raggiungere contemporaneamente tutti e tre questi obiettivi; al massimo possono raggiungerne due. Possono abbandonare la stabilità del tasso di cambio, il che significa adottare un tasso di cambio variabile, come hanno fatto gli Stati Uniti o l’Australia. Possono abbandonare la politica monetaria discrezionale, il che significa fissare un tasso di cambio stabile, così come ha fatto l’Argentina negli anni Novanta, e arrivare persino a dire addio alla propria valuta, così come hanno fatto i paesi dell’Europa continentale. Oppure possono abbandonare il principio della libertà di mercato e imporre controlli sui capitali; è quello che hanno fatto molti paesi tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, ed è quello che la Cina sta facendo oggi. Quale tra queste tre risposte imperfette è la migliore? Ci sono persone che pensano che i benefici derivanti da tassi di cambio stabili siano parecchi, e che i benefici di una politica monetaria indipendente siano sopravvalutati. A queste persone piace puntualizzare che gli Stati Uniti, sebbene coprano quasi un intero continente, se la cavano molto bene con una sola valuta; circa 300 milioni di europei hanno da poco adottato una valuta comune; quindi perché non fare lo stesso prendendo a riferimento tutto il mondo? Molti economisti faranno però notare che gli Stati Uniti hanno caratteristiche molto particolari, che facilitano l’adozione di una sola valuta: i lavoratori si spostano più velocemente da regioni depresse a regioni più ricche, così che un’unica politica monetaria riesce, bene o male, a gestire il tutto. L’introduzione dell’euro, la nuova valuta europea, rappresenta in realtà una decisione piuttosto controversa, e molti economisti si chiedono se l’Europa è abbastanza simile agli Stati Uniti per adottare un’unica valuta. In realtà almeno le principali economie europee sono sufficientemente simili l’una all’altra, e collegate tra di loro in maniera abbastanza forte, così il più delle volte una politica che risulta giusta per la Francia lo è anche per la Germania, e viceversa. Tuttavia è difficile immaginare una politica monetaria che risulti adatta sia al Giappone sia agli Stati Uniti, se non addirittura all’Argentina e agli Stati Uniti. Di conseguenza, solo pochi economisti hanno ancora nostalgia per l’epoca dello standard aureo, o immaginano di poter introdurre il «globo»; l’indipendenza monetaria nazionale, o addirittura quella regionale, viene considerata tuttora un requisito indispensabile. D’altro canto i controlli sul capitale che, nell’immediato dopoguerra, hanno permesso alle economie industrializzate di combinare tassi di cambio fissi a politiche keynesiane, oggi non sono più di moda. Il problema fondamentale a proposito dei controlli è quello di saper distinguere tra transazioni internazionali «buone» e «cattive». Uno speculatore che ritira il suo denaro dalla Malesia perché vuole approfittare della svalutazione agisce contro gli interessi della società; un esportatore malese che si conquista i clienti esteri permettendo a questi ultimi di dilazionare i pagamenti per la merce acquistata, sta aiutando il proprio paese a farsi strada nell’economia mondiale. Ma immaginiamo che l’esportatore, sospettando che il ringgit venga presto svalutato, chieda ai propri clienti di pagare in dollari e li incoraggi a far passare un lungo periodo di tempo prima di saldare i conti. L’effetto è lo stesso di quello raggiunto acquistando dollari dietro pagamento di ringgit sul mercato nero. Ci sono molti altri modi con i quali si può spostare il confine tra attività economiche produttive e speculazioni valutarie. La conseguenza è che tutti i tentativi volti a controllare la speculazione possono essere facilmente raggirati e che il governo può limitare la speculazione solo imponendo onerosi vincoli alle transazioni ordinarie (per esempio, limitare il credito che gli esportatori possono concedere ai loro clienti). Cinquant’anni fa la maggior parte dei governi credeva che questi vincoli avessero un prezzo che valeva la pena di pagare. Oggi viviamo invece in un mondo che ha riscoperto le virtù del libero mercato, nutre sospetti riguardo a ogni possibile intervento dello stato, ed è particolarmente cosciente che più cose si proibiscono, maggiori sono le occasioni che si sviluppino forme di corruzione e nepotismo. Tutto ciò conduce ai tassi di cambio liberi di fluttuare che, a partire dalla metà degli anni Novanta, la maggior parie degli economisti ha cominciato a considerare il minore dei tre mali. È vero, i tassi di cambio, considerata la situazione economica generale, si sono ripetutamente rivelati più variabili di quanto avrebbero dovuto (negli ultimi cinque anni il tasso dollaro-yen è passato da 120 a 80, a quasi 150, per poi tornare sotto i 110, il tutto in assenza di cambiamenti di rilievo nei fondamentali economici); e anche coloro che optano per la libera oscillazione concordano che le regioni più integrate al loro interno, quelle che costituiscono «aree valutarie ottimali», dovrebbero adottare la forma più evoluta di tasso di cambio fisso, la valuta comune. (Il fatto che l’Europa rappresenti davvero un’area di questo tipo è tutto un altro discorso.) Ma, in linea di massima l’alternativa preferita da molti economisti – quella più coerente con la sintesi keynesiana, perché lascia liberi i paesi di adottare sia politiche di libero mercato sia di piena occupazione – è rappresentata dal tasso di cambio libero di fluttuare. Le virtù di un tale sistema, quando funziona, non sono difficili da dimostrare. Gli Stati Uniti traggono giovamento dal fatto che il cambio del dollaro sui mercati esteri sia lasciato libero di oscillare; mentre i tassi dollaro-yen e dollaro-euro possono subire preoccupanti andamenti a spirale, la preoccupazione passa sicuramente in secondo piano rispetto alla libertà d’azione che la mancanza di un preciso obiettivo di tasso di cambio offre alla Federal Reserve – l’abilità di tagliare immediatamente e velocemente i tassi d’interesse quando si avvicina una recessione o una crisi valutaria. Ancora meglio, consideriamo l’esempio dell’Australia durante la crisi asiatica. Nel 1996 un dollaro australiano valeva circa 80 centesimi di dollaro USA. Nell’estate del 1998 questo valore era sceso a poco meno di 60 centesimi di dollaro USA. La cosa non dovrebbe meravigliare: gran parte delle esportazioni australiane vanno in Giappone o verso le «tigri» in difficoltà. Ma l’Australia, eccetto che durante l’estate del 1998, quando sembrava oggetto di un attacco coordinato da parte degli hedge funds (ne parlerò più diffusamente nel prossimo capitolo), non cercò di stimolare la propria valuta, o acquistandola sui mercati internazionali o aumentando i tassi d’interesse. Al contrario, il deprezzamento della valuta non andò oltre una certa soglia; quando cadde il dollaro australiano, gli investitori considerarono la cosa come un’opportunità per investire a buon mercato in un’economia che continuavano a considerare solida. E questa fiducia era giustificata dal «miracolo australiano»: negli ultimi anni, nonostante la dipendenza dai mercati asiatici, l’Australia ha in realtà vissuto un momento di grande sviluppo in coincidenza con la crisi asiatica. Ma se l’Australia è riuscita così facilmente a evitare di restare intrappolata dalla catastrofe economica dei suoi vicini, perché non sono riusciti a fare altrettanto l’Indonesia o la Corea del Sud? La minaccia speculativa Immaginatevi un sistema economico imperfetto. (Quale sistema economico è perfetto?) Magari il governo ha un deficit di bilancio che, anche se non rappresenta una minaccia per la liquidità, si sta riducendo più lentamente di quanto dovrebbe, o magari le banche con le quali ha stretto collegamenti politici hanno concesso troppi prestiti a persone non molto affidabili. Ma, per quanto si possa affermare dando un’occhiata ai soli numeri, non esistono problemi che non possano essere affrontati con la buona volontà e attraversando un certo periodo di stabilità. In seguito, per un qualche motivo – forse una crisi economica sull’altra faccia del pianeta – gli investitori cominciano a innervosirsi e ritirano in massa il denaro. Improvvisamente il paese è in difficoltà, il suo mercato azionario crolla, i suoi tassi d’interesse aumentano. Si potrebbe pensare che gli investitori più saggi considerino questo momento quello giusto per acquistare. Dopo tutto, se la situazione economica non è cambiata, non vuole forse dire che le azioni sono ora sottovalutate? Ma, come abbiamo visto nel capitolo 4, la risposta è «non necessariamente». Il crollo del valore degli asset può portare al collasso di banche che in precedenza erano considerate sane; la recessione economica, gli elevati tassi d’interesse, e un tasso di cambio svalutato possono portare alla bancarotta società sane; peggio ancora, le difficoltà economiche possono portare instabilità politica. Probabilmente comprare proprio quando tutti stanno cercando il modo più veloce per uscire, non rappresenta dopo tutto un’idea così buona; forse è meglio seguire gli altri e affrettarsi all’uscita. In linea di principio, quindi, è possibile che la perdita di fiducia nei confronti di un paese produca una crisi economica in grado di giustificare la perdita di fiducia – che i paesi siano oggetto di quelli che gli economisti chiamano «attacchi speculativi che si autoalimentano». Mentre molti economisti si mostravano scettici riguardo all’importanza di queste crisi che si autoalimentano, l’esperienza degli anni Novanta in America Latina e in Asia ha definitivamente risolto questi dubbi, per lo meno dal punto di vista pratico. La cosa buffa è che, una volta presa in seria considerazione l’eventualità di una crisi che si autoalimenta, la psicologia del mercato diventa un fattore cruciale – talmente importante che, entro certi limiti, le aspettative e i pregiudizi degli investitori entrano a far parte della situazione economica generale – perché credere in qualcosa equivale a renderla reale. Immaginate, per esempio, che tutti siano convinti che l’Australia, nonostante la dipendenza dal capitale straniero (per decenni ha accumulato notevoli deficit di spese correnti, più del 4% del prodotto interno lordo), sia un paese fondamentalmente solido, dal quale ci si può aspettare stabilità politica ed economica. La risposta del mercato a un declino del dollaro australiano potrebbe dunque essere: «Bene, è finita, compriamo prodotti australiani», e l’economia trarrebbe giovamento da questa reazione. La buona immagine del mercato verrebbe di conseguenza confermata. Immaginiamo per contro che, nonostante vent’anni di continuo progresso, la gente non sia ancora convinta che l’Indonesia non è più il paese di Un anno vissuto pericolosamente. Di conseguenza, se la rupia dovesse cadere la gente potrebbe affermare: «Mio Dio, stanno tornando i brutti momenti di una volta»; la conseguente fuga di capitali porterebbe a una crisi finanziaria, economica e politica e la cattiva immagine del mercato subirebbe così una conferma. In altre parole sembra che la sintesi keynesiana sia una soluzione temporanea. L’opinione degli economisti che la miglior soluzione al trilemma monetario internazionale, anche se imperfetta, sia quella dei tassi d’interesse fluttuanti, si basa sull’esperienza di paesi quali il Canada, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Ma negli anni Novanta un paese del Terzo Mondo dopo l’altro – il Messico, la Thailandia, l’Indonesia, la Corea – hanno scoperto di essere soggetti a regole diverse. Sempre più spesso i tentativi di gestire piccole svalutazioni hanno portato a un improvviso crollo di fiducia. È proprio questo problema di fiducia che può spiegare perché la sintesi keynesiana sia andata in mille pezzi. La fiducia in gioco Nell’estate del 1998 il Brasile stava ancora vivendo una recessione economica; la disoccupazione stava aumentando, mentre all’inflazione – il tradizionale problema del Brasile – era seguita una maggiore stabilità dei prezzi, e alcuni cominciavano addirittura a parlare di deflazione. Poi il fallimento della riforma economica in Russia provocò un attacco al real brasiliano (per quale motivo? Vedi capitolo 6) e il paese andò a chiedere aiuto agli Stati Uniti e al Fondo Monetario Internazionale. Il Brasile voleva sia denaro – disponeva ancora di 40 miliardi di dollari di riserve in valuta estera, ma chiedeva in appoggio l’apertura di una linea di credito – sia, ancora di più, una sorta di certificato di buona condotta sulle sue politiche, che potesse servire a convincere gli investitori a interrompere la fuga di capitali. Prometteva in cambio di adottare un programma di «stabilizzazione» dell’economia. Quindi in che cosa consisteva il programma – studiato, ricordate bene, per un paese con un’economia in fase recessiva e un basso tasso d’inflazione? Tasse più elevate, una minore spesa pubblica e il mantenimento di tassi d’interesse estremamente alti (il Brasile aveva aumentato i tassi di circa il 50% quando era iniziata la crisi). In altre parole il governo brasiliano implementò una politica monetaria e fiscale estremamente rigida, che avrebbe portato il paese all’orribile momento di recessione del 1999. Il programma predisposto per il Brasile era veramente eccessivo; rappresentava quasi una caricatura delle politiche decise in Asia l’anno precedente. Ma, come le caricature, enfatizzava molte delle caratteristiche peculiari di queste politiche. Al cuore delle politiche imposte da Washington a tanti dei paesi in crisi, c’è una versione quasi opposta della sintesi keynesiana: in presenza di una crisi economica si chiedeva ai paesi di aumentare i tassi d’interesse, diminuire la spesa e aumentare le tasse. Per quale motivo, sessant’anni dopo Keynes, qualcuno avrebbe mai potuto pensare che fosse una buona idea ignorare completamente gli insegnamenti della sintesi keynesiana? La risposta sta nel doppio standard e nel bisogno di ottenere a tutti i costi la fiducia del mercato. Prima di tutto si scartò la soluzione australiana – lasciare che la valuta perdesse valore. Il tasso di cambio fisso tra il real brasiliano e il dollaro era stato il fulcro del programma di riforma del paese, che aveva portato la stabilità dei prezzi dopo un periodo di elevata inflazione. Sia il Brasile sia Washington temevano che abbandonare il tasso fisso avrebbe colpito la fiducia degli investitori. È vero, si sarebbe anche potuto pensare che il real era, per esempio, sopravvalutato del 20% e che una svalutazione del 20% avrebbe fatto più bene che male al paese. Ma nessuno credeva che una svalutazione del 20% fosse possibile: come aveva detto un rappresentante del governo degli Stati Uniti, «Per i paesi in via di sviluppo non sono possibili piccole svalutazioni». Come si poteva evitare una svalutazione del real Il Fondo Monetario Internazionale poteva fornire il denaro che, assieme alle riserve di valuta estera del paese, poteva essere utilizzato per sostenere il corso della valuta sui mercati. Ma il denaro sarebbe presto finito se non fosse stato fatto niente per bloccare la fuga di capitali. L’unica alternativa a portata di mano era quella di imporre tassi d’interesse molto alti, così da convincere la gente a tenere i propri soldi in Brasile anche se c’era il sospetto che la valuta potesse presto essere svalutata. Ma non è tutto. Quando i mercati decisero che il Brasile stava correndo rischi seri, decisero anche che il problema numero uno del paese era rappresentato dal suo grande deficit di bilancio. A questo punto potreste chiedervi il perché di questa decisione. A quell’epoca il governo brasiliano non aveva un debito così grande – molto più basso, in percentuale sul reddito nazionale, di quello di molti paesi europei o del Giappone. E gran parte del deficit era in realtà una conseguenza della crisi; gli alti tassi d’interesse avevano fatto aumentare i pagamenti di interessi da parte del governo, mentre l’economia in recessione faceva diminuire gli introiti fiscali. (Con un livello di disoccupazione e tassi d’interesse nella norma, il deficit di bilancio del Brasile sarebbe stato piuttosto modesto.) Ma qual era il motivo della discussione? Gli investitori credevano che il Brasile avrebbe avuto una crisi disastrosa se il deficit non fosse stato prontamente ridotto, e avevano ragione perché loro stessi avrebbero incentivato lo sviluppo di questa crisi. (Successe effettivamente così, nel gennaio 1999.) Il punto è che, poiché gli attacchi speculativi possono autoalimentarsi, non è più sufficiente ottenere la fiducia mercati con una politica che si basa solo sui fondamentali . Il bisogno di conquistare la fiducia può effettivamente impedire a un paese di seguire politiche altrimenti sensate, e obbligarlo a seguire strade che in altre condizioni verrebbero considerate sbagliate. Consideriamo ora la situazione dal punto di vista degli di Washington. Questi ultimi si trovarono ad avere a che fare con sistemi economici che godevano di poca fiducia presso gli investitori; quasi per definizione un paese che ha chiesto aiuto agli Stati Uniti o al Fondo Monetario internazionale ha già avuto problemi valutari o ha corso rischi simili. Il principale obiettivo degli economisti di Washington è quindi quello di ammorbidire il giudizio del mercato. Ma poiché le crisi possono autoalimentarsi, una sana politica economica non è sufficiente a riconquistare la fiducia del mercato; bisogna tenere in considerazione le aspettative, i pregiudizi, i capricci del mercato. Oppure si deve tener conto di quelle che potrebbero essere le aspettative del mercato. Ecco come la sintesi keynesiana ha finito per fare una brutta fine: oggi in effetti la politica economica internazionale ha poco a che fare con l’economia. È diventata più che altro un esercizio di psicologia dilettantistica, con il quale il Fondo Monetario Internazionale e il segretario al Tesoro hanno cercato di convincere i paesi a fare cose che speravano sarebbero state percepite dal mercato come rassicuranti. Nessuna meraviglia, quindi, che i libri d’economia non siano stati utili quando la crisi fece la sua comparsa. Sfortunatamente i libri di testo non sparirono del tutto dalla circolazione. Immaginate che Washington fosse nel giusto, che un paese minacciato dal panico degli investitori per evitare di essere colpito da una crisi devastante dovesse aumentare il suo tasso d’interesse, tagliare la spesa e difendere la sua valuta. Rimane pur vero che politiche monetarie e fiscali restrittive, in presenza di una valuta sopravvalutata, creano recessione. Che rimedio ha offerto Washington a questo proposito? Nessuno. Il ruolo che si pensava di dover svolgere nel conquistare la fiducia del mercato sostituì le normali attività di politica economica. Sembra assurdo, ma è proprio così. Siamo dunque riusciti a risolvere il mistero con il quale avevamo concluso il capitolo 4: perché la politica non è riuscita a contrastare il devastante circolo vizioso che ha fatto crollare un’economia dopo l’altra? La risposta è che le persone responsabili di queste politiche credevano di doversi concentrare sulla fiducia del mercato e ciò ha significato assecondare, piuttosto che contrastare, le politiche economiche che avevano aggravato i problemi. Ma era proprio necessario giocare questo gioco? Il Fondo Monetario Internazionale ha peggiorato la situazione? Nessuno ama in particolar modo il Fondo Monetario Internazionale: se qualcuno lo amasse sarebbe un cattivo segno. Il Fondo Monetario Internazionale è infatti per i governi nazionali un «prestatore di ultima istanza»: è il posto dove andare a chiedere soldi quando si hanno problemi. E i prestatori dell’ultima ora hanno un concetto di amore molto particolare: ti danno ciò di cui hai bisogno, piuttosto che quello che desideri, e ti obbligano a darti da fare attivamente nel processo di risanamento. Un Fondo Monetario materno e affettuoso non potrebbe svolgere bene il suo compito. Ma non è necessariamente vero il contrario: non è sufficiente che la gente odi il Fondo Monetario Internazionale per dire che quest’ultimo sta facendo bene il suo lavoro. E, da quando è scoppiata la crisi in Asia, le lamentele riguardo al molo del Fondo Monetario Internazionale non sono mancate. Sono poche le persone che credono che il Fondo Monetario Internazionale (e il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, che in realtà decide le politiche del Fondo Monetario Internazionale) abbia in realtà fatto nascere la crisi, o abbia gestito la crisi in maniera sbagliata, così da peggiorare le cose più di quanto fosse necessario. Hanno ragione? Cominciamo con la parte più facile: le due cose che il Fondo Monetario Internazionale ha chiaramente sbagliato. Prima di tutto, quando il Fondo Monetario Internazionale fu chiamato in causa dalla Thailandia, dall’Indonesia e dalla Corea, chiese subito che si predisponesse un piano di austerità fiscale – che si aumentassero le tasse e che si tagliasse la spesa, così da evitare che aumentasse il deficit di bilancio. Era difficile capire perché tutto ciò facesse parte del programma, visto che in Asia (a differenza del Brasile dell’anno successivo) nessuno tranne il Fondo Monetario Internazionale sembrava considerare i deficit di bilancio un problema rilevante. E il tentativo di raggiungere questi obiettivi di bilancio ebbe un doppio effetto su questi paesi: dove gli obiettivi furono soddisfatti, la recessione peggiorò e la domanda si ridusse; dove non lo furono, si esasperò in maniera gratuita la sensazione che le cose fossero fuori controllo, e di conseguenza si alimentò il panico. In secondo luogo il Fondo Monetario Internazionale chiese riforme «strutturali» – vale a dire cambiamenti che andassero ben oltre le politiche monetarie e fiscali – come condizione per concedere prestiti alle economie in difficoltà. Alcune di queste riforme, quale, per esempio, la chiusura delle banche il cui comportamento si era rivelato poco trasparente, si può dire siano state utili per gestire la crisi finanziaria. Altre ancora, come, per esempio, la richiesta all’Indonesia di smetterla con la concessione di monopoli redditizi alle persone vicine alla cerchia presidenziale, sembravano avere poco a che fare con il mandato ricevuto dal Fondo Monetario Internazionale. È vero, il monopolio sui chiodi di garofano (che gli indonesiani amano mettere nelle sigarette) era una cosa vergognosa, un evidente caso di nepotismo. Ma cosa c’entrava con il tentativo di tutelare la rupia? Se all’epoca aveste chiesto spiegazioni ai funzionari del Fondo Monetario Internazionale, avrebbero risposto che era un ennesimo tentativo di ridare fiducia al mercato. All’epoca i deficit di bilancio non erano ancora un problema, ma i funzionari pensavano che lo sarebbero presto diventati; ritenevano anche che fosse importante che i paesi dimostrassero con chiarezza che stavano combattendo il nepotismo e la corruzione, che convincessero i mercati di avere veramente cambiato il loro modo di operare. In altre parole si potrebbe dire che all’epoca i governi dovevano dimostrare la loro serietà infliggendosi punizioni – poco importa se queste punizioni avevano o meno un diretto collegamento con i problemi – perché solo così potevano riconquistare la fiducia dei mercati. Se questa era la teoria, in seguito si scoprì che era sbagliata. Gli obiettivi di bilancio furono successivamente ammorbiditi, e nessuno ci prestò attenzione; al momento in cui sto scrivendo i mercati sembrano una volta di più tendere al rialzo in Corea, anche se le riforme strutturali sono in ritardo. Nel frattempo la grande ampiezza di vedute delle richieste del Fondo Monetario Internazionale, oltre a far nascere i sospetti che gli Stati Uniti stessero cercando di utilizzare la crisi per imporre la propria visione ideologica sull’Asia, riuscì ad assicurare un lungo periodo di litigi tra i governi asiatici e i loro salvatori; in questo periodo la crisi di fiducia peggiorò progressivamente. In tal modo il Fondo Monetario Internazionale fece un po’ di confusione su due importanti capitoli del piano di salvataggio. Ma i capitoli veramente importanti riguardavano i tassi d’interesse e i tassi di cambio. Fu fatta confusione anche a questo proposito? Ecco quello che fece il Fondo Monetario Internazionale: in Asia (a differenza del Brasile che, come ho detto, era una specie di caricatura dei programmi asiatici) non disse ai paesi di difendere a tutti i costi il valore delle loro valute. Invece disse loro di aumentare i tassi d’interesse, nel tentativo di persuadere gli investitori a lasciare il loro denaro dove era. Alcuni critici del Fondo Monetario Internazionale – soprattutto Jeffrey Sachs di Harvard – dissero che questa era la cosa peggiore che si potesse fare. Sachs crede, in effetti, che i paesi asiatici avrebbero potuto e dovuto comportarsi come l’Australia, lasciando semplicemente svalutare la propria valuta finché quest’ultima fosse apparsa a buon mercato agli occhi degli investitori, e che se lo avessero fatto non ci sarebbe mai stata una grande recessione. Il Fondo Monetario Internazionale risponde che l’Asia non è l’Australia: che lasciare cadere le valute senza controllo avrebbe portato a una «ipersvalutazione», e che il risultato sarebbe stato una grande preoccupazione finanziaria (perché molte aziende avevano contratto debiti denominati in dollari) e una crescente inflazione. Il problema alla base di questa analisi è che, naturalmente, la grande preoccupazione finanziaria ci fu in ogni caso, aiutata dagli alti tassi d’interesse e dalla recessione; quindi, nella migliore delle ipotesi, si può dire che il Fondo Monetario Internazionale evitò un circolo vizioso solo facendone partire un altro. Questa stessa osservazione fa da comun denominatore a molte critiche che provengono da destra, che affermano che il Fondo Monetario Internazionale avrebbe dovuto invitare i paesi a difendere a tutti i costi i loro tassi di cambio. Tutto ciò avrebbe veramente potuto evitare la perdita di fiducia nelle valute asiatiche; ma non avrebbe potuto fare niente per evitare la perdita di fiducia nelle economie asiatiche e il disastro economico sarebbe comunque successo. Lasciare semplicemente cadere le valute sarebbe stata una soluzione migliore? Sachs afferma che non aumentando i tassi d’interesse i governi avrebbero evitato di alimentare il panico finanziario; il risultato sarebbe stato di poco conto, scarse svalutazioni e una produzione molto maggiore. Questa tesi, che all’epoca delle crisi asiatiche sembrava non plausibile a molte persone (me compreso), acquistò credibilità nel gennaio del 1999, quando Washington fece un chiaro errore nei confronti del Brasile; ma troverete una trattazione più estesa su questo argomento nel capitolo 7. Di sicuro, tuttavia, all’epoca non esistevano molte altre alternative valide. Sembrava che le regole del sistema finanziario internazionale non riuscissero a offrire più vie d’uscita a molti paesi in via di sviluppo. E dunque non era colpa di nessuno se le cose erano andate a finire così male. Il che non vuol dire che di questa storia non si sia mai approfittato nessuno. 6. I PADRONI DELL’UNIVERSO Nel passato, prima del trionfo del capitalismo, lo speculatore – il ricco criminale che manipola i mercati a discapito degli onesti lavoratori – rappresentava una figura di primo piano nella cultura popolare. Ora, con la caduta del comunismo, i successi della globalizzazione e il generale recupero di fiducia nei confronti del libero mercato, lo speculatore ha fatto la stessa fine delle streghe e degli stregoni. Oh, solo i più radicali difensori del laissez-faire negano che ci siano stati casi in cui la gente ha trattato sulla base di informazioni riservate e ha addirittura manipolato il prezzo di un’azione o di una materia prima. Ma si è trattato di crimini di poco conto; i grandi eventi finanziari, quelli che hanno plasmato il destino delle nazioni, si sviluppano su mercati di gran lunga troppo vasti perché sia plausibile la teoria del complotto. Nessuna persona, nessun gruppo di persone riuscirebbe a influenzare il valore di una valuta o addirittura di un’economia di medie dimensioni, non è vero? Be’, in realtà tutto ciò è possibile. Uno degli aspetti più originali delle crisi economiche degli anni Novanta è stato il ruolo svolto dagli hedge funds, in grado di acquisire un temporaneo controllo di azioni ben superiore al capitale versato dai loro proprietari. Senza alcun dubbio i fondi d’investimento, con i loro alti e bassi, hanno messo a soqquadro i mercati e, almeno in alcuni casi, la figura dello speculatore è ritornata. Il mostro Gli hedge funds non minimizzano i rischi. In realtà fanno più o meno l’opposto. Secondo il dizionario Webster il verbo «to hedge»{2} vuol dire cercare di evitare o di minimizzare la perdita decidendo investimenti o prendendo decisioni che si compensino tra di loro. Vale a dire minimizzare i rischi così da avere la certezza che le fluttuazioni del mercato non minaccino le proprie ricchezze. Al contrario, quello che fanno gli hedge funds è cercare di ottenere i maggiori vantaggi possibili dalle fluttuazioni del mercato. Il classico meccanismo degli hedge funds è quello di operare allo scoperto su alcune azioni – cioè promettere di acquistare queste ultime a un prezzo fisso e a una data futura – e a termine con altre ancora. Si genera profitto quando il prezzo delle prime si riduce (e in tal modo possono essere acquistate alla data prefissata in maniera più conveniente), e quando il prezzo delle seconde aumenta.{3} Il vantaggio di questo tipo di gestione finanziaria è che può dare buoni guadagni agli investitori degli hedge funds. Il fondo può infatti effettuare operazioni che vanno oltre la propria capacità finanziaria, in quanto gli acquisti a termine vengono effettuati in gran parte con il denaro che proviene dalle operazioni allo scoperto. In realtà l’unico motivo per cui l’hedge fund deve disporre di un capitale è che deve convincere la controparte delle operazioni allo scoperto di essere in grado di garantire quanto promesso. Gli hedge funds di migliore fama sono stati in grado di effettuare operazioni con un valore complessivo centinaia di volte più grande del capitale conferito dai risparmiatori; ciò significa che un punto percentuale di aumento nel prezzo delle proprie azioni, o di riduzione nelle proprie passività, raddoppia il valore del capitale. Lo svantaggio, naturalmente, è rappresentato dal fatto che gli hedge funds possono perdere denaro con molta facilità. Movimenti di capitale che non sarebbero in grado di destare preoccupazioni agli investitori ordinari possono invece far sparire velocemente un hedge fund, o per lo meno fargli perdere le opportunità di condurre a termine le operazioni allo scoperto – in altre parole possono spingere quelli che hanno prestato azioni o altri titoli a farsi restituire subito tutto. Quanto sono grandi gli hedge funds? In realtà nessuno lo sa, perché fino a poco tempo fa nessuno pensava che fosse necessario saperlo. Fino allo scorso autunno ai fondi d’investimento – come a molte altre istituzioni finanziarie – è stata concessa ampia libertà d’azione. Questo perché gli stessi investitori non sembravano avere bisogno di protezione: la maggior parte degli hedge funds stabiliva una soglia minima d’investimento molto elevata (talvolta anche di 10 milioni di dollari) e, di conseguenza, gli investitori erano normalmente gente molto ricca, che i governi ritenevano perfettamente in grado di badare a sé stessa. E gli hedge funds, al contrario delle banche, la cui solidità doveva essere controllata nell’interesse generale, non sembravano avere un ruolo chiave nei sistemi finanziari. Non ultimo il fatto che gli hedge funds – avendo solo bisogno di capitali limitati da parte di un ridotto numero di persone – potevano stabilire offshore la propria residenza legale, in cui operare senza fastidiose interferenze. Controllare le loro operazioni non sarebbe impossibile, ma sarebbe sicuramente difficile. Inoltre, per molto tempo, è stata opinione condivisa da tutti, per lo meno negli Stati Uniti, che non ce ne fosse bisogno. Ma in un certo senso si trattava di una reazione molto strana, perché già nel 1992 un famoso hedge fund aveva chiaramente dimostrato il peso che poteva avere un investitore con un elevato d’indebitamento. tasso La leggenda di George Soros George Soros, un ungherese rifugiatosi negli Stati Uniti e in seguito divenuto imprenditore, fondò il suo Quantum Fund nel 1969. Nel 1992 era già miliardario, considerato «il più grande investitore del mondo» e famoso per la generosità e la creatività dimostrate nelle sue attività filantropiche. Ma a Soros – profondamente ambizioso da un punto di vista sia finanziario sia intellettuale, che desiderava che le proprie dichiarazioni filosofiche fossero prese sul serio quanto quelle economiche – tutto ciò non era sufficiente. Come lui stesso ha affermato, cercò un’occasione che lo facesse diventare non solo ricco, ma anche famoso, così da permettergli di usare il proprio nome per promuovere le attività senza fini di lucro. L’opportunità la trovò in Inghilterra. Nel 1990 l'Inghilterra era entrata nell’European Monetary System’s Exchange Rate Mechanism (il Sistema monetario europeo, lo SME), un sistema di tassi di cambio fissi concepito come una fase intermedia che avrebbe successivamente portato al varo della valuta europea. Come era accaduto agli sfortunati continenti della nostra storia sul «globo», tuttavia, l’Inghilterra si accorse che la politica monetaria che era stata obbligata a seguire non era compatibile con i suoi obiettivi. A quell’epoca l’Europa non aveva una Banca Centrale Europea; mentre c’era una parvenza di simmetria monetaria tra i paesi, in realtà ognuno prendeva come esempio la politica della Bundesbank tedesca. E la Germania era in una situazione veramente peculiare rispetto al resto dell’Europa: dopo aver portato a termine la riunificazione, era costretta a spendere ingenti somme per ricostruire la Germania dell’Est. Con il timore che queste spese avrebbero creato inflazione, la Bundesbank manteneva elevati tassi d’interesse, per evitare il surriscaldamento della propria economia. Nel frattempo l’Inghilterra, che era probabilmente entrata nello SME a un tasso di cambio troppo alto, viveva un momento di profonda recessione, e il suo governo si trovava di fronte a una crescente insoddisfazione popolare. I funzionari governativi cercavano di nascondere la tentazione di uscire dallo SME; ma si diffondeva il dubbio che la realtà fosse diversa. Sembrava avvicinarsi una crisi valutaria e Soros decise non solo di scommettere su questa crisi, ma addirittura di provocarla. Concettualmente il meccanismo sul quale si basava questa scommessa è semplice, anche se i dettagli sono molto più complessi. Il primo passo fu compiuto quasi segretamente: senza dare nell’occhio il Quantum Fund aprì infatti linee di credito, che gli permisero di prendere in prestito circa 15 miliardi di dollari in sterline inglesi. Successivamente, una volta cambiate le sterline in dollari, l’operazione mostrò apertamente il suo vero volto: Soros rese il più possibile pubbliche le operazioni allo scoperto nei confronti della sterlina, concedendo interviste ai quotidiani finanziari e dichiarando di ritenere la sterlina prossima alla svalutazione. Se tutto fosse andato bene gli investitori si sarebbero precipitati a vendere le sterline e il governo inglese sarebbe stato costretto ad arrendersi e a svalutare la propria moneta. Il piano funzionò. Soros cominciò il suo assalto alla sterlina in agosto. Nel giro di poche settimane l’Inghilterra aveva speso 50 miliardi di dollari sui mercati internazionali per difendere la sterlina, senza alcun risultato. A metà settembre il governo aumentò i tassi d’interesse per difendere la valuta, ma la decisione si rivelò politicamente inaccettabile; dopo soli tre giorni l’Inghilterra uscì dallo SME, e la sterlina fu lasciata libera di fluttuare (lo è ancor oggi). In questo modo Soros non solo guadagnò in poco tempo circa un miliardo di dollari, ma si guadagnò anche la fama del più famoso speculatore di tutti i tempi. Ma che cosa fece in realtà Soros? Bisogna porsi tre domande. Innanzitutto, Soros mise in difficoltà una valuta che avrebbe in ogni caso conservato il suo valore? Probabilmente no. Il fatto è che da tempo la sterlina era oggetto di pressioni, e molti economisti (sebbene non molti operatori del mercato) avevano il sospetto che l’Inghilterra dovesse uscire dallo SME. Nessuno può provarlo con certezza, ma sono piuttosto sicuro che il tentativo inglese di unirsi al club monetario europeo era comunque destinato a fallire, con o senza Soros. Così facendo, Soros riuscì comunque ad accelerare i tempi, facendo svalutare la sterlina prima di quanto sarebbe successo? Quasi sicuramente sì, ma la vera domanda è chiedersi di quanto accorciò i tempi. Una volta di più non è possibile affermare una cosa con assoluta certezza, ma è mia opinione personale che nel breve periodo le condizioni economiche avrebbero in ogni caso portato l’Inghilterra fuori dallo SME, e che Soros abbia ridotto i tempi solo di alcune settimane. In conclusione, Soros ha fatto del male alle sue vittime? Il governo presieduto dal primo ministro John Major non si riprese mai più dall’umiliazione. Ma, dopotutto, si può affermare che nel complesso Soros abbia fatto un favore alla nazione. La perdita di valore della sterlina non causò una crisi economica: la valuta si stabilizzò spontaneamente circa un 15% più in basso rispetto al suo precedente valore. Senza più l’obbligo di dover sostenere la sterlina, il governo inglese fu in grado di ridurre i tassi d’interesse. (Norman Lamont, ministro del Tesoro britannico, dichiarò che «si era messo a cantare nella vasca da bagno» con sollievo quando venne meno una stabilità monetaria che, solo pochi giorni prima, aveva dichiarato assolutamente inviolabile. Il suo sollievo era prematuro: la maggior parte degli inglesi ci guadagnò dalla svalutazione, ma lui fu presto obbligato a dimettersi.) La combinazione tra minori tassi d’interesse e tassi di cambio più competitivi fece rapidamente migliorare l’economia inglese, che nel giro di pochi anni ha portato il suo tasso di disoccupazione a livelli che prima venivano ritenuti irraggiungibili. Per l’inglese medio l’attacco di Soros alla sterlina ha avuto conseguenze quasi esclusivamente positive. Dopo tutto, quindi, non è stata una storia così terribile. È vero, gli europei che avevano particolarmente a cuore l’unione monetaria considerarono gli eventi del 1992 una tragedia; i francesi, che contrastarono gli attacchi speculativi del 1992 e del 1993 (per un breve periodo lasciarono fluttuare il franco, ma presto lo riportarono all’interno della banda dello SME), consideravano ancora gli speculatori come emissari del diavolo. Ma nel mondo anglosassone la storia di Soros e della sterlina non venne mai interpretata come un presagio di futuri problemi. Tutto cambiò, invece, con la crisi asiatica e ci si rese conto che i risultati della speculazione potevano rivelarsi anche molto meno piacevoli. La pazzia del primo ministro Mahathir Provate a immaginarvi quel che deve avere provato. Era riuscito a gestire le difficili politiche e le etnie del suo paese con grande abilità: aveva tranquillizzato la maggioranza malay con il programma bumjputra («figlio della terra»), offrendole un trattamento economico preferenziale, riuscendo allo stesso tempo a non offendere la minoranza cinese, molto importante per la vita economica del paese. Aveva reso la Malesia una delle mete preferite dalle multinazionali, riuscendo allo stesso tempo a conservare una politica estera indipendente, in qualche modo anche antioccidentale, che gratificava una popolazione a maggioranza islamica. E, sotto la sua guida, il paese aveva approfittato pienamente del miracolo asiatico: l’economia aveva ripreso la sua corsa, gli uomini d’affari stranieri, da Bill Gates in giù, lo corteggiavano e nell’estate del 1997 «Time» lo dichiarò uno dei cento leader più significativi al mondo nel settore tecnologico. In realtà non fu tutto rose e fiori. Alcuni dei suoi amici e dei membri della sua famiglia si erano arricchiti con molta facilità; alcuni stranieri lo accusavano di avere atteggiamenti megalomani, di voler costruire gli edifici più alti del mondo, una nuova capitale e un’area dedicata alla produzione tecnologica. Ma, nel complesso, aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati raggiunti. In seguito, e molto in fretta, le cose cominciarono a peggiorare. Una crisi valutaria aveva colpito i paesi vicini – bene, questo era un problema loro. Di conseguenza, però, il denaro cominciò a defluire anche dal suo paese; e si trovò di fronte all’umiliante alternativa di lasciar cadere il valore della valuta o di aumentare i tassi d’interesse, e ognuna delle due soluzioni avrebbe creato problemi finanziari ai settori produttivi che sembravano così solidi. Come si era potuti arrivare a questo punto? In realtà dunque, Mahathir Mohamad, primo ministro malese, non dovrebbe essere accusato così severamente per avere dato ascolto a teorie cospirative. Dopotutto solo cinque anni prima George Soros aveva macchinato dietro le quinte per far svalutare la sterlina e il Quantum Fund aveva speculato sulle valute dell’Estremo Oriente nel corso degli ultimi anni. Cosa c’era di più ovvio che incolpare delle sue sventure il famoso speculatore? Nonostante tutto Mahathir avrebbe comunque dovuto tenere la bocca chiusa. In un momento in cui la fiducia nei confronti della sua economia stava già diminuendo, anche l’idea che farneticasse di una cospirazione americana contro l’Asia – alludendo al fatto che forse si trattava di una cospirazione ebrea – non era esattamente la giusta ricetta per una simile situazione. Tra l’altro fu chiaro che aveva torto. Il Quantum Fund aveva speculato contro la Thailandia, ma non era certamente stato l’unico. La fuga di capitali dalla Malesia fu sicuramente operata in gran parte degli stessi malesi – in particolare proprio da parte di qualche uomo d’affari arricchitosi grazie ai favori di Mahathir. Nonostante tutto Mahathir perseverò sulla sua strada, continuando ad attaccare Soros in occasione delle conferenze stampa e dei discorsi ufficiali. Solo dopo parecchi mesi, quando le condizioni dell’economia malese apparvero davvero allarmanti, si tranquillizzò, per paura di disturbare i mercati. Forse si rese anche conto del fatto che la maggior parte del mondo considerava infantili le sue lamentele; cospirazioni di questo tipo non succedono mai nel mondo reale. Una di queste, però, accadde veramente. L’attacco a Hong Kong Hong Kong ha per lungo tempo occupato un posto speciale nel cuore dei sostenitori del libero mercato. In un’epoca in cui la maggior parte dei paesi del Terzo Mondo credeva che il protezionismo e la pianificazione statale fossero gli unici strumenti di crescita, Hong Kong aveva un mercato libero e una politica che concedeva piena libertà agli uomini d’affari – dimostrando in tal modo che un’economia così aperta poteva crescere a tassi di sviluppo che i teorici non avrebbero mai ritenuto possibili. La città-stato aveva anche ripreso la moda del currency board, che alcuni conservatori pensavano fosse il primo passo verso il ritorno al gold standard. Anno dopo anno la Heritage Foundation, piuttosto conservatrice, aveva fatto salire Hong Kong ai primi posti della sua «classifica della libertà economica». Ma Hong Kong aveva sofferto in seguito alla crisi asiatica. È però difficile incolpare chi all’epoca si occupò di governare la città: la sua economia, più di ogni altra nella regione, era infatti gestita secondo la legge, con banche ben funzionanti e severe politiche di bilancio. C’erano stati pochi segnali di nepotismo rampante prima della crisi e, durante il primo anno, non si erano verificate neppure fughe di capitale a causa del panico. Tuttavia la città si trovava chiaramente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mentre i paesi confinanti vivevano un momento di recessione, l’attività economica cominciava a perdere colpi: i giapponesi avevano smesso di fare shopping, le aziende dell’Estremo Oriente non acquistavano più i servizi delle banche di Hong Kong. Ancora peggio, il severo sistema di Hong Kong, il currency board, imponeva che il tasso di cambio fosse fissato saldamente a 7,8 nei confronti del dollaro statunitense, anche se molti altri paesi asiatici avevano svalutato, rendendo improvvisamente Hong Kong molto più cara di Bangkok e persino di Tokyo. Il risultato fu una profonda recessione, la peggiore che si ricordi a memoria d’uomo. Inevitabilmente ci si cominciò a porre i dubbi più atroci. Hong Kong avrebbe veramente difeso a tutti i costi il tasso di cambio? Alcuni uomini d’affari di Hong Kong chiesero apertamente alla Monetary Authority di svalutare la moneta, per rendere di nuovo competitivi i propri prezzi. Queste richieste non furono accettate, e il governo dichiarò che il tasso non poteva essere modificato; ma aveva detto la stessa cosa anche il governo inglese nel 1992. E che cosa dire della Cina? Il gigante asiatico scampò per un pelo alla prima ondata di crisi, in gran parte grazie ai controlli valutari (vedi il capitolo 8), ma nell’estate del 1998 già si scorgevano i primi segnali di rallentamento economico e, contemporaneamente, cominciò a correre voce che anche la valuta cinese stesse per essere svalutata – il che avrebbe peggiorato ulteriormente i problemi di Hong Kong. La maggior parte delle persone considerò questo insieme di eventi una raffica di brutte notizie; ma alcuni hedge funds ci videro invece alcune opportunità da sfruttare. Non esistono, per ovvie ragioni, dati precisi su quello che successe tra l’agosto e il settembre del 1998, ma ecco la cronaca riportata da alcuni funzionari di Hong Kong e da alcuni operatori. Un limitato numero di fondi d’investimento – sicuramente tra questi c’era il Quantum Fund di Soros e il meno famoso ma ugualmente importante Tiger Fund Julian Robertson, più al massimo due o tre altri ancora – cominciarono a fare il doppio gioco nei confronti di Hong Kong. Vendettero a Hong Kong dei titoli allo scoperto – vale a dire che presero in prestito titoli dai loro proprietari, quindi li vendettero in cambio di dollari di Hong Kong (con la promessa a questi proprietari, naturalmente, di riacquistare i titoli e di restituirli – pagando un sovrapprezzo per il fatto di aver potuto disporre dei titoli per un certo periodo di tempo). Successivamente i dollari di Hong Kong furono cambiati in dollari statunitensi. Gli hedge funds stavano scommettendo che tra due eventi possibili, se ne sarebbe verificato uno. La prima alternativa era che il dollaro di Hong Kong sarebbe stato svalutato, e avrebbero così guadagnato dalla speculazione valutaria; la seconda alternativa era che l’autorità monetaria di Hong Kong avrebbe difeso la sua valuta aumentando i tassi d’interesse, il che avrebbe fatto scendere il mercato azionario locale, e gli hedge funds avrebbero così guadagnato sui titoli detenuti allo scoperto. Secondo i funzionari di Hong Kong i fondi d’investimento non si limitavano però a scommettere su questi due eventi: come Soros nel 1992, stavano facendo il possibile perché questi eventi si concretizzassero. Le vendite dei dollari di Hong Kong vennero ampiamente pubblicizzate, effettuate in grandi volumi, programmate con regolarità, così da essere sicuri che il tutto non passasse inosservato. Senza far nomi i funzionari di Hong Kong affermano anche che furono pagati i giornalisti e gli inviati perché scrivessero articoli dove dicevano che il dollaro di Hong Kong o il renminbi cinese, o entrambi, erano sul punto di essere svalutati. In altre parole, cercarono deliberatamente di far svalutare la valuta. I fondi d’investimento organizzarono il piano di comune accordo? È possibile: mentre un esplicito accordo teso a manipolare, per esempio, il prezzo di azioni Microsoft vi porterebbe direttamente in prigione, una simile cospirazione contro il mercato valutario di Hong Kong (che nel 1998 aveva all’incirca lo stesso valore di capitalizzazione) riuscì apparentemente a passare attraverso le maglie della legge. È comunque probabile che i protagonisti chiave abbiano cercato di coordinare il proprio operato con allusioni e strizzatine d’occhio, magari anche in maniera più esplicita su un campo da golf o attorno a una buona bottiglia di vino. Dopo tutto nell’operazione non erano coinvolte poi così tante persone e tutti conoscevano perfettamente le regole del gioco. In realtà alcuni osservatori intuirono che la storia potesse nascondere ancora altri risvolti. In quello stesso periodo i Quattro (o Cinque, o quello che erano) di Hong Kong stavano effettuando altre operazioni. Questi ultimi cominciarono a operare allo scoperto nei confronti dello yen – perché i tassi d’interesse in Giappone erano bassi e si pensava che lo yen sarebbe potuto crollare con il dollaro di Hong Kong – come nei confronti del dollaro australiano, del dollaro canadese e così via. Diventarono anche grandi venditori di alcune di queste valute. Potreste quindi considerare Hong Kong come epicentro di un’operazione contro gran parte della regione dell’Asia-Pacific, forse la più grande cospirazione di mercato di tutti i tempi. E non vi sbagliereste di molto. Dopo tutto che cosa poteva fare Hong Kong? Il suo mercato valutario era vasto in confronto a quello della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, ma era piccolo in confronto alle risorse di cui potevano disporre gli hedge funds; si diceva che, complessivamente, le operazioni allo scoperto di questi presunti cospiratori ammontavano a circa 30 miliardi di dollari, che equivalgono a 1,5 trilioni di dollari venduti allo scoperto sul mercato valutario statunitense. Inoltre l’accesso al mercato di Hong Kong era libero, e molto probabilmente lo sarebbe rimasto a lungo: una città la cui fama dipende in gran parte dal fatto di permettere alla gente di fare tutto quello che vuole con il proprio denaro, senza alcuna interferenza arbitraria da parte del governo, non avrebbe neanche osato accennare a eventuali controlli sui capitali. Dopo tutto sembrava un piano ben congegnato, con alte probabilità di successo. Inaspettatamente Hong Kong reagì. La reazione fu orchestrata utilizzando i fondi dell'Autorità monetaria di Hong Kong (HKMA). La HKMA disponeva all’epoca di vaste risorse. Ricordatevi che a Hong Kong vigeva il currency board, così che ogni 7,8 dollari di Hong Kong in circolazione erano garantiti da un dollaro statunitense; ma all’epoca la HKMA aveva messo da parte un numero di dollari ancora più alto. Come si poteva mobilitare questa ricchezza contro gli hedge funds? Utilizzandola per acquistare azioni sul mercato valutario locale – quindi aumentando i prezzi e facendo perdere denaro agli hedge funds – che avevano venduto allo scoperto queste azioni. Naturalmente, per poter raggiungere questo scopo, gli acquisti dovevano avvenire su larga scala, in modo da compensare almeno gli acquisti allo scoperto effettuati dagli hedge funds. Le autorità disponevano senza problemi delle risorse necessarie a effettuare tali acquisti. Perché gli hedge funds non avevano previsto una tale risposta? Perché non pensavano che il governo di Hong Kong avrebbe voluto rischiare l’inevitabile reazione da parte dei conservatori – delusi dal fatto che un libero mercato di tale fama avesse tentato di manipolare i prezzi di mercato. E la reazione non si fece aspettare. Le decisioni del governo erano «insensate», tuonò Milton Friedman; la Heritage Foundation cancellò formalmente la candidatura della città-stato a bastione della libertà economica; gli articoli dei giornali paragonavano Hong Kong alla Malesia, che aveva appena imposto severi controlli sul capitale. Il ministro delle Finanze Donald Tsang cominciò a girare per il mondo, cercando di spiegare le decisioni agli investitori e di rassicurarli che il suo governo era rimasto favorevole al capitalismo; ma era un compito difficile. Per un certo periodo gli hedge funds pensarono che, sull’onda di queste reazioni, le autorità di Hong Kong avrebbero fatto marcia indietro. Riacquistarono i titoli allo scoperto (vale a dire che pagarono ai precedenti proprietari dei titoli un sovrapprezzo per ottenere il diritto di posticipare la loro restituzione) e aspettarono le successive mosse del governo. Il quale, poi, aumentò la posta in gioco, istituendo nuove regole che limitavano la vendita allo scoperto, obbligando di conseguenza gli investitori di Hong Kong che avevano dato in prestito le loro azioni a farsele restituire; tutto ciò costrinse i fondi d’investimento a porre fine alle loro operazioni, e fece sorgere ulteriori lamentele. Dopo di che l’intera storia di Hong Kong passò in secondo piano, perché una curiosa serie di eventi mondiali obbligò gli stessi hedge funds a ridurre il loro ritmo d’attività. L’economia Potëmkin Nel 1787 l’imperatrice Caterina di Russia fece un viaggio nelle provincie meridionali del suo impero. Secondo la leggenda il suo primo ministro Grigorij Aleksandrovič Potëmkin la precedeva di un giorno di viaggio, allestiva false scenografie che facessero sembrare più accoglienti i villaggi disastrati e quindi le smantellava per ricostruirle alla tappa successiva. Da quel momento in poi l’espressione «villaggio Potëmkin» è stata utilizzata per riferirsi a scene apparentemente felici che in realtà non sono altro che vuote facciate, che nulla hanno a che vedere con quanto nascondono dietro di esse. Nella seconda metà del 1990 la stessa Russia divenne una sorta di sistema economico Potëmkin. La transizione dal socialismo al capitalismo non è stata facile per nessuno, ma per la Russia è stata ancora più difficile che per gli altri paesi. Dopo la caduta del comunismo la sua economia è stata per anni in una specie di limbo: non riceve più alcuna guida da parte del centro, e non è ancora riuscita a mettere in piedi un sistema di mercato efficiente. Perfino ciò che una volta funzionava, seppure in maniera approssimativa, ora non era più in grado di farlo: dalle industrie che producevano prodotti di bassa qualità non esce più niente, le fattorie collettivizzate sono diventate perfino meno produttive di quanto fossero prima, e i tetri anni di Breznev oggi vengono ricordati come un momento felice. Ci sono a disposizione centinaia di migliaia di esperti programmatori, ingegneri, scienziati, informatici, ma non si riesce a trovare loro un lavoro decente. Era una situazione spiacevole, ma la Russia aveva ancora una freccia al suo arco: in qualità di erede della defunta Unione Sovietica disponeva ancora di un grande arsenale di armi nucleari. Non aveva esplicitamente minacciato di vendere le testate nucleari al miglior offerente, ma il rischio che prima o poi la cosa potesse succedere ha certo condizionato la politica occidentale, obbligando il governo statunitense a non sottovalutare la faccenda. Dopo che persone ben informate avevano perso ogni speranza, gli Stati Uniti hanno continuato a sperare che i riformatori russi sarebbero in qualche modo riusciti a concludere la transizione interrotta, che gli oligarchi avrebbero smesso di mostrarsi così egoisti o, per lo meno, di avere una visione tanto miope; così il governo degli Stati Uniti ha spinto il Fondo Monetario Internazionale a dare denaro in prestito alla Russia in modo da guadagnare del tempo, in attesa di una stabilizzazione che non si è mai verificata. (Il «Medley Report», una newsletter economica internazionale, ha scritto che gli Stati Uniti non stavano, come ha detto qualcuno, gettando i soldi in una topaia; stavano gettando i soldi in un silos di missili nucleari.) L’apparente abilità della Russia nell’utilizzare le sue armi nucleari come strumento di minaccia ha a sua volta incoraggiato gli investitori stranieri a correre a loro volta dei rischi e a investire nel paese. Tutti sapevano che il rublo sarebbe presumibilmente stato svalutato, magari anche in maniera massiccia, o che il governo russo poteva semplicemente decidere di non onorare più i suoi debiti. Ma, prima di arrivare a tanto, ci si poteva facilmente aspettare che l’Occidente avrebbe concesso un ennesimo prestito d’emergenza in denaro. Visto che il debito del governo russo aveva tassi d’interesse molto alti, che in alcuni casi arrivavano addirittura al 150%, era una bella scommessa per gli investitori particolarmente propensi al rischio – soprattutto gli hedge funds. Tuttavia si scoprì che, dopotutto, la scommessa non era così bella come sembrava. Nell’estate del 1998 la situazione finanziaria della Russia si chiarì più velocemente di quanto non ci si aspettava. In agosto George Soros (!) affermò pubblicamente che la Russia avrebbe dovuto svalutare e adottare il currency board; il suo invito diede origine a un fenomeno di corsa alla valuta, a un’insufficiente svalutazione in stile messicano e, quindi, a una combinazione tra collasso valutario e moratoria sui debiti. In apparenza l’Occidente aveva fatto tutto il possibile: questa volta non c’era più nulla da fare. Improvvisamente i buoni del tesoro russi potevano essere venduti al massimo per una percentuale del loro valore nominale, e miliardi di dollari andarono in fumo. (Che cosa era successo nel frattempo all’arsenale nucleare? Buona domanda, ma è meglio non pensarci.) La quantità di denaro perso in Russia era insignificante – non più di quello che si perde quando, per esempio, il mercato azionario degli Stati Uniti cala di un paio di punti in percentuale, il che non accade poi così di rado. Ma queste perdite cadevano pesantemente sulle spalle di un ristretto numero di operatori finanziari molto indebitati, e questo significa che alla fine tutto ciò provocò effetti di grande portata anche in altre parti del mondo. Per un paio di settimane sembrò davvero che il crollo finanziario della Russia avrebbe trascinato tutta l’economia mondiale. Il panico del 1998 Nell’estate del 1998 le operazioni gestite dagli hedge funds nel mondo non erano solo rischiose, ma terribilmente complesse. C’era tuttavia un modello a cui ci si poteva rivolgere. Tipicamente questi fondi conducevano operazioni allo scoperto su titoli sicuri – il cui valore sarebbe difficilmente crollato – e su titoli facilmente liquidabili in caso di necessità. Allo stesso tempo conducevano operazioni a termine su titoli rischiosi e non liquidabili. In tal modo un hedge fund poteva condurre operazioni allo scoperto su titoli di stato tedeschi, che sono sicuri e facili da vendere, e allo stesso tempo condurre operazioni a termine su titoli danesi garantiti da ipoteche (su immobili), un poco più rischiosi e difficili da vendere nel breve periodo. Oppure condurre operazioni allo scoperto su buoni del tesoro giapponesi e a termine su quote del debito russo. In linea di principio i mercati hanno sempre storicamente stabilito un prezzo piuttosto alto per i titoli sicuri e facilmente liquidabili, perché i piccoli investitori non amano correre rischi e non sanno mai con precisione quando potranno avere bisogno di utilizzare i loro soldi. Tutto ciò rappresentava un’opportunità d’oro per gli hedge funds, che potevano minimizzare il rischio diversificando con attenzione il proprio portafoglio titoli (acquistando un mix di titoli diversi, così che i guadagni ottenuti su uno di questi dovevano teoricamente compensare le perdite subite su un altro), e che normalmente non si trovavano mai nella condizione di avere un urgente bisogno di denaro. È proprio servendosi di queste leve finanziarie che gli hedge funds sono riusciti, anno dopo anno, a fare così tanti soldi. Nel 1998, tuttavia, furono in molti a capire questi trucchi e l’elevata competizione tra hedge funds aveva reso sempre più difficile guadagnare su questo genere di operazioni. Successivamente alcuni hedge funds cominciarono a restituire il denaro agli investitori, dichiarando che non riuscivano a trovare un numero sufficiente di opportunità per utilizzarlo. Cercarono di prendere in considerazione anche nuove remote opportunità d’investimento, lasciandosi così coinvolgere in situazioni apparentemente molto rischiose. Quello che nessuno capì, se non quando la catastrofe si era ormai verificata, è che il tasso di competitività tra hedge funds, il cui obiettivo era approfittare delle più remote opportunità di guadagno esistenti sul mercato, aveva in realtà creato un meccanismo finanziario infernale. Ecco come funzionava. Immaginatevi che un hedge fund – chiamiamolo Relativity Fund – abbia acquistato una grande quantità di buoni del tesoro russi. Poi la Russia diventa inadempiente, e l’hedge fund perde un milione di dollari, o giù di lì. Questa perdita preoccupa le controparti dell’operazione allo scoperto – le persone che hanno dato in prestito le loro azioni e i loro titoli, affinché venissero restituiti in futuro – che finiscono per chiedere la restituzione anticipata. Tuttavia il Relativity Fund non dispone ancora di questi titoli; deve ricomprarli, il che vuole dire che deve vendere altri titoli per disporre dei contanti necessari. Poiché il Relativity Fund rappresenta un grande operatore sul mercato, quando comincia a vendere, i prezzi dei titoli sui quali ha investito scendono. Nel frattempo il rivale del Relativity Fund, il Pussycat Fund, ha anch’esso investito i suoi soldi in molti degli stessi titoli. Quindi nel momento in cui il Relativity Fund è obbligato a vendere rapidamente su vasta scala, anche il Pussycat Fund subisce pesanti perdite; anche quest’ultimo si trova obbligato a garantire le sue operazioni allo scoperto vendendo, facendo scendere i prezzi degli altri titoli. In tal modo crea problemi all’Elizabethan Fund… e così via. Se tutto ciò vi fa tornare alla mente la storia del disastro finanziario dell’Asia, che ho raccontato nel capitolo 4, avete ragione: in sostanza si tratta di un processo dello stesso tipo, che ha a che fare con un circolo vizioso di prezzi in calo e bilanci disastrati. Nessuno pensava che una cosa simile potesse succedere di nuovo nel mondo moderno, ma in realtà è capitata, e le conseguenze sono state allarmanti. Si scoprì che gli hedge funds si erano mostrati così assidui nell’effettuare operazioni di arbitraggio tra premi sulla liquidità e sul rischio, che per molti titoli loro erano il mercato; quando gli hedge funds provarono tutti assieme a vendere, sul mercato non si riuscivano a trovare altri acquirenti. E così, dopo anni in cui avevano continuato a diminuire, i premi sulla liquidità e sul rischio raggiunsero rapidamente livelli inimmaginabili perché gli hedge funds furono costretti a liquidare le proprie posizioni. I buoni del tesoro statunitensi a 29 anni – un titolo assolutamente sicuro, nel senso che se il governo statunitense fa una brutta fine, tutto il resto dell’economia lo segue – offrivano tassi d’interesse molto più alti dei buoni a trent’anni, che vengono negoziati su un mercato più grande e sono quindi più facili da vendere. Le obbligazioni emesse dalle società private devono normalmente offrire un rendimento più alto del debito del governo degli Stati Uniti, ma lo spread era improvvisamente aumentato di parecchi punti percentuali. E i titoli garantiti da ipoteche commerciali – gli strumenti finanziari che finanziano indirettamente gran parte degli investimenti immobiliari per uso non residenziale – non riuscivano assolutamente a essere piazzati. Nel corso di una riunione a cui ho preso parte, i partecipanti chiesero a un rappresentante della Federal Reserve che stava descrivendo la situazione che cosa fare per risolverla. «Pregare», fu la risposta. Nella realtà, fortunatamente, la Federal Reserve non si limitò a pregare. Prima di tutto organizzò il salvataggio dell’hedge fund che era stato più colpito: il Long Term Capital Management (LTCM), con sede nel Connecticut. La storia del LTCM è ancora più incredibile di quella di George Soros. Soros è una figura che appartiene a una lunga tradizione, quella dello spavaldo scalatore finanziario – non così diversa, in fondo, da quella di Jim Fisk o di Jay Gould. Chi dirigeva il Long Term Capital, tuttavia, erano personaggi tipicamente moderni: brave persone competenti, che utilizzavano formule e computer per mettere nel sacco il mercato. Il fondo aveva tra i suoi dipendenti due Nobel e alcuni tra i loro migliori allievi. Credevano che studiando attentamente le correlazioni storiche tra valori azionari avrebbero potuto gestire meglio i loro portafogli titoli – operare a termine su alcuni titoli e allo scoperto su altri – che garantivano alti ritorni con un rischio molto inferiore a quello che la gente avrebbe immaginato. E, anno dopo anno, i risultati arrivarono puntuali, tanto che la gente che prestava loro il denaro non si domandava più se la società aveva veramente abbastanza capitale da poter essere considerata sicura. Poi il mercato iniziò a perdere la bussola. Non è ancora ben chiaro se le perdite del LTCM furono il risultato di un disastro che normalmente accade una volta nella vita, e che quindi non poteva essere previsto, o se l’improvvisazione dei modelli statistici che venivano utilizzati non permetteva di considerare la comparsa di eventi fortuiti su così vasta scala. (Non è neppure chiaro se questa improvvisazione, se in realtà fu tale, sia stata deliberata – ancora una volta un rischio soggettivo.) Qualunque sia stata la causa, a settembre fu fatto un richiamo di margine di garanzia alla società – venne cioè chiesto di depositare più denaro contante in aggiunta a quello depositato dai clienti, oppure di rimborsare completamente questi ultimi – che non poteva essere soddisfatto. Divenne improvvisamente chiaro che l’LTCM era diventato un operatore così grande sui mercati che, se fosse fallito, e le sue posizioni finanziarie fossero state liquidate, avrebbe diffuso il panico su vasta scala. Perciò era indispensabile trovare una soluzione. Alla fine non fu necessario stanziare il denaro dei contribuenti: la New York Federal Reserve riuscì a convincere un gruppo di banche ad acquistare la maggioranza del capitale del LTCM in cambio di un’iniezione di contanti di cui quest’ultima aveva disperatamente bisogno; e, una volta che i mercati si calmarono di nuovo, le banche scoprirono alla fine di avere fatto un buon affare. Anche dopo questo salvataggio, tuttavia, non si poteva certamente pensare di avere superato la crisi. Quando la Federal Reserve tagliò i tassi d’interesse del solo 0,25% in occasione della sua tradizionale riunione di settembre, la decisione deluse i mercati e la situazione finanziaria, già parecchio disastrata, la gente fu presa dal panico e improvvisamente prese a fare confronti tra la crisi finanziaria e le corse allo sportello che avevano gettato gli Stati Uniti nella Grande Depressione; J.P. Morgan arrivò persino a prevedere una severa recessione nel 1999. Ma la Federal Reserve aveva un asso nella manica. Di norma i tassi d’interesse vengono modificati solo quando si riunisce il Federal Open Market Committee, all’incirca ogni sei settimane. Durante la riunione di quel settembre, tuttavia, il comitato aveva concesso ad Alan Greenspan il potere discrezionale di tagliare i tassi d’interesse di un ulteriore quarto di punto se fosse stato necessario. Il 15 ottobre Greenspan sorprese i mercati annunciando proprio quella riduzione – e, miracolosamente, i mercati si ripresero. Quando la Federal Reserve tagliò di nuovo i tassi nel corso della successiva riunione, il panico si trasformò in euforia. Alla fine del 1998 tutti gli inusuali premi sulla liquidità erano scomparsi e il mercato azionario stava ancora una volta stabilendo nuovi record. È importante riconoscere che i funzionari della Federal Reserve non sono così sicuri di sapere perché siano riusciti effettivamente a salvare la situazione. Nel momento peggiore della crisi sembrava che tagliare i tassi d’interesse non avrebbe sortito alcun effetto – dopo tutto, se nessuno può prendere a prestito, che differenza fa cambiare i tassi? E se ognuno avesse creduto che il mondo stava avvicinandosi alla fine, il panico avrebbe dato vita – come è successo in molti altri paesi – a una profezia che si autoalimenta. In retrospettiva Greenspan si comportò come un generale che passa in rassegna la sua armata demoralizzata, tira fuori la spada e la incoraggia, e in qualche modo riesce a cambiare il corso della battaglia: ben fatto, ma meglio non contarci troppo la prossima volta. In realtà alcuni funzionari della Federal Reserve si preoccuparono del fatto che la gente potesse aver sopravvalutato le loro capacità – una nuova forma di rischio morale, dice un consulente di Greenspan, convinto che la Federal possa tirar fuori da qualunque crisi l’economia e i mercati. Ma con la crisi del 2008 i limiti che condizionano il potere della FED sono apparsi in tutta la loro evidenza. Prima di arrivarci, però, parliamo della leggenda di Alan Greenspan, e spieghiamo perché è andato tutto per il verso sbagliato. 7. LE BOLLE DI GREENSPAN Per più di diciotto anni, dal maggio 1987 al gennaio 2006, Greenspan è stato presidente del Board of Governors della Federal Reserve. Quella posizione, di per sé, ne faceva uno dei banchieri centrali più potenti del mondo. Ma l’influenza di Greenspan andava molto al di là dei suoi poteri formali: era il Maestro, l’Oracolo, il membro più autorevole del Committee to Save the World, come si leggeva in un articolo di copertina pubblicato da «Time» nel 1999. Quando ha lasciato l’incarico, Greenspan lo ha fatto in piena gloria. Alan Blinder, della Princeton University, lo ha definito il più grande banchiere centrale della storia. In occasione di una delle sue ultime apparizioni al Congresso, è stato salutato come una sorta di messia monetario: «Lei ha guidato la politica monetaria attraverso crolli di Borsa, guerre, attacchi terroristici e calamità naturali», ha dichiarato un deputato. «Ha dato un grande contributo alla prosperità degli Stati Uniti e il paese le è profondamente grato». Poco meno di tre anni dopo, veniva additato alla pubblica esecrazione. La parabola di Alan Greenspan va ben oltre la sua moralità personale. Dimostra anche che i responsabili della politica economica si erano convinti di avere tutto quanto sotto controllo, per poi scoprire, con orrore – e con lo sconforto del paese – che non era così. L’era di Greenspan Come ha fatto Greenspan a diventare una vera e propria leggenda? In gran parte perché ha governato la Federal Reserve in un periodo di andamento generalmente positivo dell’economia. Gli anni Settanta e gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da gravi shock – da tassi di inflazione e di disoccupazione a due cifre, e dalle peggiori crisi economiche dai tempi della Grande Depressione. Per contro, l’era di Greenspan è stata relativamente serena. L’inflazione è sempre stata bassa e le due recessioni che si sono susseguite durante il suo mandato sono durate appena diciotto mesi, almeno secondo la cronologia ufficiale (vedi oltre). L’occupazione era relativamente elevata: alla fine degli anni Novanta e poi ancora a metà del decennio successivo, il tasso di disoccupazione è sceso a livelli che non si vedevano dagli anni Sessanta. E per gli investitori finanziari, gli anni di Greenspan sono stati fantastici: l’indice Dow-Jones ha superato i diecimila punti e il prezzo delle azioni è cresciuto mediamente di oltre il 10% l’anno. Quali sono effettivamente i meriti di Greenspan per questa eccellente performance dell’economia? Sicuramente meno di quelli attribuitigli. È stato il suo predecessore, Paul Volcker, a mettere sotto controllo l’inflazione, realizzando quell’obiettivo con drastiche politiche monetarie che hanno causato un forte rallentamento dell’economia ma hanno poi spezzato la schiena alla psicologia inflazionistica. Dopo il duro e impopolare lavoro di Volcker, Greenspan ha potuto godersi tutti i benefici. Il buon andamento dell’economia aveva anche poco a che fare con la politica monetaria. Negli anni di Greenspan le aziende americane hanno capito finalmente come usare efficacemente l’informatica. Quando si introduce una nuova tecnologia ci vuole spesso qualche tempo prima di vedere i benefici economici, perché le aziende devono riorganizzare la propria struttura per sfruttare adeguatamente l’innovazione. Il classico esempio è quello della corrente elettrica. Anche se negli anni Ottanta del 1800 le macchine elettriche erano ormai largamente disponibili, all’inizio le aziende continuavano a costruire le fabbriche con il vecchio sistema: edifici multipiano in cui le macchine venivano stipate in spazi ristretti, in base all’esigenza di avere nei sotterranei un grosso motore a vapore che azionasse le aste e le pulegge. Fu solo dopo la Prima guerra mondiale che le aziende si accorsero di non aver più bisogno di una fonte centralizzata di energia, e costruirono fabbriche a un solo piano dalla pianta aperta, con molto spazio per lo spostamento dei materiali. La stessa cosa è avvenuta per l’informatica. Il microprocessore è stato inventato nel 1971, e nei primi anni Ottanta i personal computer erano già molto diffusi. Ma per molto tempo ancora gli uffici sono stati gestiti nello stesso modo in cui lo erano all’epoca della carta carbone. Solo a metà degli anni Novanta le aziende hanno imparato realmente a sfruttare la nuova tecnologia per creare uffici in rete, aggiornamenti continui delle scorte, e così via. A quel punto si è verificata una fortissima accelerazione nel tasso di crescita della produttività degli Stati Uniti – ossia l’output che produce un lavoratore medio in un’ora. Questo incremento della produttività ha fatto lievitare i profitti e ha contribuito a mettere sotto controllo l’inflazione, favorendo il buon andamento dell’economia sotto Greenspan; ma il presidente della FED non c’entrava per niente. Pur non avendo sconfitto l’inflazione, né creato la rivoluzione della produttività, Greenspan ha avuto effettivamente un approccio particolare alla gestione della politica monetaria, che all’epoca sembrava funzionare bene. Qui bisognerebbe sottolineare la parola «sembrava», ma prima di arrivarci vediamo quali erano le caratteristiche distintive del suo operato alla presidenza della FED. Il guidatore designato dell’America Alan Greenspan non è stato il presidente più «longevo» della fed. Quell’onore spetta a William McChesney Martin Jr., che guidò la Federal Reserve dal 1951 al 1970. Le filosofie monetarie dei due uomini non avrebbero potuto essere più diverse. Martin dichiarò a suo tempo che il compito della FED era «portare via la coppa del punch quando la festa comincia a decollare». Intendeva dire che la fed dovrebbe alzare i tassi di interesse per impedire a un’economia in forte crescita di surriscaldarsi eccessivamente producendo inflazione. Ma quella frase veniva interpretata anche nel senso che la fed dovrebbe cercare di prevenire «l’esuberanza irrazionale» – una tipica espressione di Greenspan – nei mercati finanziari. Pur avendo segnalato il pericolo dell’eccessiva esuberanza, Greenspan non ha mai fatto molto per contenerla. Ha usato l’espressione «esuberanza irrazionale» in un discorso del 1996 in cui faceva capire, senza dirlo apertamente, che c’era in corso una bolla speculativa sui prezzi delle azioni. Ma non ha alzato i tassi di interesse per frenare l’eccessivo entusiasmo dei mercati. Non ha cercato neppure di imporre dei limiti sulle operazioni a riporto. Ha atteso invece che la bolla scoppiasse, nel 2000, per poi intervenire. Come spiega causticamente, ma correttamente, un articolo della Reuters, Greenspan ha agito come un genitore che ammonisce severamente degli adolescenti a non esagerare, ma non mette fine alla festa e rimane pronto a esercitare il suo ruolo di guidatore designato quando il divertimento è finito. Per correttezza nei confronti di Greenspan bisogna dire che molti economisti, di entrambi i partiti politici, hanno condiviso questa sua dottrina. E la verità è che la scelta di Greenspan di non interferire nell’andamento positivo dell’economia ha funzionato bene almeno sotto un aspetto: probabilmente, la spettacolare creazione di posti di lavoro registrata negli anni della presidenza Clinton non sarebbe stata così spettacolare se ci fosse stato qualcun altro al timone della FED. La figura sottostante, che mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti a partire dall’inizio del 1987, è molto eloquente. I dati ufficiali sulla recessione sono indicati dalle barre ombreggiate. La caratteristica dominante di questo grafico è il vistoso calo della disoccupazione tra il 1993 e il 2000, un declino che ha fatto scendere il tasso di disoccupazione al di sotto del 4% per la prima volta dal 1970. In effetti, non è stato Greenspan a causare questo declino; ma non l’ha minimamente contrastato. E questa benevola indifferenza nei confronti del calo della disoccupazione era eterodossa e costituiva al tempo stesso, come si è visto, anche l’atteggiamento giusto. Tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, la tesi convenzionale (che condividevo anch’io) – era che se il tasso di disoccupazione fosse sceso intorno al 5,5%, l’inflazione avrebbe cominciato ad accelerare. Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis 2008. I dati sul tasso di disoccupazione provengono dal Bureau of Labor Statistics dell’US Department of Labor; i dati sulle recessioni intervenute nell’economia USA provengono dal NBER. Sembrava quella la lezione dei due decenni precedenti. In effetti, l’inflazione aveva subito una forte accelerazione alla fine degli anni Ottanta, quando il tasso di disoccupazione si era avvicinato al 5%. A metà degli anni Novanta, quando il tasso di disoccupazione è sceso al di sotto di quella tradizionale soglia di pericolo, un gran numero di economisti hanno invitato Greenspan ad alzare i tassi di interesse per prevenire una ripresa dell’inflazione. Greenspan, tuttavia, si è rifiutato di agire prima di aver visto un’effettiva ripresa dell’inflazione. Ha detto pubblicamente che l’accelerazione intervenuta nella crescita della produttività avrebbe potuto modificare la storica relazione tra bassa disoccupazione e accelerazione dell’inflazione, e ha usato questa argomentazione per rinviare l’incremento dei tassi di interesse fino alla prova provata dell’effettivo aumento dell’inflazione. E si è visto che qualcosa, in realtà, era cambiato nell’economia. (Gli economisti devono ancora decidere che cosa.) La disoccupazione era scesa a livelli che non si vedevano da decenni, eppure l’inflazione restava ferma. E il paese avvertiva un senso di prosperità che non si ricordava dagli anni Sessanta. Quanto alla creazione di nuovi posti di lavoro, la decisione di lasciare sul tavolo la coppa del punch mentre impazzava la festa si è rivelata una mossa eccellente. Ma quanto all’esuberanza irrazionale dei mercati finanziari, la politica di Greenspan ha avuto meno successo. Solo dopo la sua uscita di scena si sarebbe capito veramente quanto era stato improvvido. Le bolle di Greenspan Come ho detto prima, Greenspan metteva in guardia contro l’esuberanza irrazionale, ma non ha mai agito concretamente per frenarla. E per la verità, l’ex presidente della FED detiene quello che io credo essere un record insuperato tra i banchieri centrali: durante la sua presidenza non c’è stata una sola bolla speculativa sugli asset, ma ce ne sono state due: la prima sulle azioni e la seconda sulle case. Il grafico riportato alla pagina seguente mostra la tempistica e l’entità di queste due bolle. Una linea mostra il rapporto tra prezzi delle azioni e utili aziendali, un indicatore comunemente usato per capire se le azioni hanno un prezzo ragionevole. L’altra mostra un indicatore comparabile per i prezzi delle case: il rapporto tra i prezzi delle abitazioni negli Stati Uniti e gli affitti medi, espresso sotto forma di indice in cui il 1987 è uguale a 100. Potete vedere chiaramente la bolla azionaria degli anni Novanta seguita dalla bolla degli immobili nel decennio successivo. Complessivamente, i prezzi delle case non si sono mai allontanati dalla norma storica quanto i prezzi delle azioni. Ma si tratta di un’indicazione fuorviante, sotto vari aspetti. Anzitutto, l’acquisto della casa è un’operazione molto più importante degli investimenti azionari, specie per le famiglie della classe media, per cui la casa costituisce di solito l’asset principale. In secondo luogo, il boom nei prezzi delle case è stato ineguale: nella parte centrale degli Stati Uniti, dove i terreni edificabili abbondano, i prezzi delle case non hanno mai superato di molto il tasso di inflazione; ma nelle zone costiere, specialmente in Florida e nella California meridionale, i prezzi sono saliti ben oltre il doppio del normale rapporto con gli affitti. Infine, il sistema finanziario si è dimostrato molto più vulnerabile agli effetti collaterali della caduta dei prezzi degli immobili che non agli effetti collaterali di un crollo azionario, per delle ragioni che spiegherò nel capitolo 9. Come si sono determinate queste bolle? La bolla azionaria degli anni Novanta rifletteva probabilmente due fattori. Uno di essi, un estremo ottimismo sul potenziale di profitto dell’information technology, ha ricevuto una grandissima attenzione. Il rapporto prezzo-utili evidenziato nella figura è stato calcolato da Robert Shiller della Yale University, che confronta i prezzi delle azioni con gli utili medi del decennio precedente – per eliminare le fluttuazioni di breve periodo dei profitti dovuti alle fasi di boom e alle fasi di crisi. L’indice dei prezzi delle abitazioni è l’indice nazionale Case-Shiller, mentre i dati relativi agli affitti provengono dal Bureau of Economie Analysis. L’altro, il crescente senso di sicurezza sull’andamento dell’economia, la convinzione che l’epoca delle pesanti recessioni fosse definitivamente alle spalle, non ha avuto altrettanta considerazione. Ma i due fattori hanno concorso a spingere i prezzi delle azioni a livelli stratosferici. Oggi tutti conoscono la bolla delle dot.com, simboleggiata probabilmente al meglio dal fenomeno Pets.com che ha trasformato un modello di business assai dubbio, accompagnato da un’abile campagna pubblicitaria, in una valutazione astronomica. Ma il problema non ha riguardato solo le dot.com. In quasi tutti i settori, le aziende dicevano che le nuove tecnologie avevano cambiato tutto, e che le vecchie regole sui limiti che si frapponevano al profitto e alla crescita non si applicavano più. In non pochi casi, abbiamo poi saputo, queste storie edificanti erano sostenute da frodi contabili. Ma il punto principale era che gli investitori, visti gli enormi guadagni conseguiti dai primi acquirenti di titoli Microsoft e da altri azionisti che avevano puntato sull’IT, erano disposti a credere che molte altre aziende fossero in grado di realizzare un analogo miracolo. In tutto ciò c’era naturalmente un equivoco di fondo: nell’economia non c’era posto per tutte le future Microsoft che la gente pensava di aver identificato. Ma la pubblicità ha una sua eterna efficacia, e la gente era disposta a sospendere le proprie facoltà razionali. Sembravano esserci anche delle ragioni più serie per acquistare azioni. Era ben noto agli economisti e agli esperti di finanza che le azioni erano sempre state un ottimo investimento, almeno per coloro che erano disposti a tenerle a lungo in portafoglio. In economia c’era una ricca letteratura sul mistero del «premio azionario»: le azioni facevano regolarmente tanto meglio di investimenti alternativi come le obbligazioni, che non si riusciva a capire perché la gente non ci mettesse tutti i suoi soldi. La risposta stava probabilmente nella paura: le grandi perdite azionarie degli anni Trenta e il ricordo più recente di come le azioni si erano volatilizzate in presenza della stagflazione degli anni Settanta – il valore reale delle azioni diminuì del 7% all’anno tra il 1968 e il 1978 – obbligavano gli investitori a un atteggiamento di cautela. Ma nonostante la persistenza della Grande Moderazione, con una bassa inflazione e l’assenza di gravi recessioni, la paura è venuta gradualmente meno. Libri come Dow 36.000, che si basava su una versione ingarbugliata della letteratura sul premio azionario (gli autori avevano completamente sbagliato i calcoli, ma chi sarebbe andato a controllare?), sono diventati autentici bestseller. E con l’incremento dei corsi azionari, la bolla ha cominciato ad autoalimentarsi. Indipendentemente dalle argomentazioni più o meno ragionevoli a favore degli investimenti azionari, intorno al 1998 la gente vedeva che chiunque avesse acquistato delle azioni aveva guadagnato un sacco di soldi, mentre chi stava prudentemente a guardare rimaneva a bocca asciutta. Perciò sempre più fondi hanno puntato sul mercato azionario, i prezzi sono cresciuti ancora e la bolla ha continuato a espandersi, apparentemente senza limiti. Ma naturalmente un limite c’era. Come ha osservato Robert Shiller, l’autore di Irrational Exuberance, una bolla speculativa sugli asset è una sorta di catena di Sant’Antonio in cui le persone continuano a fare soldi finché ci sono altri gonzi da sfruttare. Ma alla fine i gonzi finiscono, e l’intera piramide crolla. Nel caso delle azioni, il punto massimo è stato raggiunto nell’estate del 2000. Nei due anni successivi le azioni hanno perso in media il 40% del loro valore. Poco dopo ha cominciato a gonfiarsi la bolla successiva. La bolla immobiliare, in un certo senso, era ancora meno giustificata di quella azionaria del decennio precedente. Sì, era del tutto insensato esaltarsi per Pets.com e per tutte le altre imprese online, ma si stava comunque aprendo un nuovo ed eccitante universo tecnologico da sfruttare. Aggiungeteci il fatto che la performance macroeconomica era effettivamente migliorata – la stagflazione non era più una minaccia consistente, e le fluttuazioni del ciclo economico sembravano essersi attenuate – e c’erano tutti i presupposti per credere che certe regole del passato non si applicassero più. Ma che cosa giustificava una bolla speculativa sulle abitazioni? Sappiamo perché i prezzi delle case hanno cominciato ad aumentare: nei primi anni di questo decennio i tassi di interesse erano molto bassi, per ragioni che spiegherò tra poco, il che rendeva attraente la prospettiva di investire in immobili. E naturalmente ciò giustificava una certa lievitazione dei prezzi. Non giustificava, tuttavia, la convinzione che le vecchie regole non si applicassero più. Le case sono case: gli americani sono abituati da sempre ad acquistare la casa con il mutuo, ma è difficile capire perché intorno al 2003 qualcuno avrebbe dovuto credere che i princìpi fondamentali di questo sistema di finanziamento fossero venuti meno. In base a una lunga esperienza, sapevamo che chi compra casa non dovrebbe accollarsi dei mutui che non può permettersi di pagare, e che dovrebbe anticipare una somma sufficiente a sostenere un moderato calo dei prezzi pur mantenendo un valore positivo. I bassi tassi di interesse avrebbero dovuto tutt’al più modificare al ribasso l’entità delle rate di pagamento del mutuo. Abbiamo assistito invece a un completo abbandono dei princìpi tradizionali. Questo fenomeno era dovuto in qualche misura all’esuberanza irrazionale di singole famiglie che vedevano i prezzi degli immobili salire continuamente e stabilivano di dover entrare nel mercato, senza preoccuparsi di come rimborsare il mutuo. Ma era dovuto in misura maggiore a un sensibile mutamento delle pratiche di finanziamento. Agli acquirenti si concedevano mutui immobiliari senza anticipo o con un anticipo irrisorio, con rate mensili che andavano molto al di là della loro capacità di rimborso – o diventavano inaccessibili quando veniva rialzato il basso interesse iniziale. Gran parte di questi finanziamenti a rischio rientravano nella categoria dei cosiddetti «subprime», ma il fenomeno era molto più vasto. E non erano solo gli acquirenti a basso reddito, o appartenenti a minoranze svantaggiate, ad accendere mutui che non potevano ripagare; lo facevano tutti. Perché gli enti finanziatori hanno allentato i vincoli? Anzitutto, si erano convinti che i prezzi delle case avrebbero continuato a crescere all’infinito. E finché i prezzi salgono, al finanziatore non interessa più di tanto se il mutuatario è in grado di pagare le rate; se sono troppo alte, l’acquirente può iscrivere un’ipoteca sull’immobile per avere più liquidità o, nella peggiore delle ipotesi, può vendere la casa e rimborsare il mutuo. In secondo luogo, i finanziatori non si preoccupavano della qualità dei propri mutui perché non li tenevano in portafoglio. Li vendevano a degli investitori, che non capivano che cosa stavano comprando. La «cartolarizzazione» dei prestiti immobiliari – l’assemblaggio di un gran numero di mutui, seguito dalla vendita agli investitori di quote dei pagamenti ricevuti dai mutuatari – non è una pratica nuova. In effetti è stata avviata da Fannie Mae, l’agenzia di finanziamenti sponsorizzata dal governo che fu costituita negli anni Trenta. Ma fino alla grande bolla immobiliare, la cartolarizzazione era quasi completamente limitata ai mutui «prime»: quelli concessi a delle persone che erano in grado di anticipare una somma consistente e avevano un reddito sufficiente a rimborsare le rate. Di tanto in tanto andavano in default anche questi mutuatari, a seguito della perdita del lavoro o di una emergenza sanitaria; ma i tassi di insolvenza erano bassi e gli acquirenti di titoli basati sui mutui sapevano, a grandi linee, a che cosa potevano andare incontro. L’innovazione finanziaria che ha reso possibile la cartolarizzazione dei mutui subprime è stata la collateralizated debt obligation, o CDO. La CDO offriva quote dei pagamenti di un pool di mutui – ma non tutte le quote nascevano uguali. Alcune erano «senior», ossia godevano di un «privilegio» rispetto ai pagamenti effettuati dai mutuatari. Solo dopo la soddisfazione di questi crediti privilegiati, venivano liquidati i creditori di secondo e terzo grado. In linea di principio, questo meccanismo avrebbe dovuto fare delle quote senior un investimento oltremodo sicuro: anche se alcuni prestiti fossero andati in default, quanto era probabile che ne «saltassero» abbastanza da porre dei problemi per il cash flow delle quote privilegiate? (Era molto probabile, si è poi scoperto – ma all’epoca non si sapeva). Le agenzie di rating erano disposte perciò ad attribuire la tripla A alle quote «senior» delle CDO, anche se i mutui sottostanti erano a rischio. Questo atteggiamento ha aperto la strada al finanziamento su vasta scala dei mutui subprime, perché ci sono molti investitori istituzionali, come i fondi pensione, che vogliono solo titoli garantiti dalla tripla A ma erano dispostissimi ad acquistare degli asset finanziari classificati AAA che davano rendimenti notevolmente più elevati dei normali bond. Finché i prezzi degli immobili continuavano a salire, tutto sembrava andare per il verso giusto, e la piramide finanziaria continuava a crescere. C’erano poche insolvenze, i titoli basati sui mutui davano rendimenti elevati, e il mercato immobiliare continuava a crescere. Alcuni economisti, incluso per la verità il sottoscritto, avevano segnalato la formazione di una grande bolla speculativa sugli immobili, la cui implosione avrebbe creato gravi rischi per l’economia. Ma i numi tutelari del nostro sistema economico si sono dichiarati di tutt’altro avviso. Alan Greenspan, in particolare, ha dichiarato che un forte declino nei prezzi delle case appariva «del tutto improbabile». Ci poteva essere, al massimo, qualche «bollicina» nei mercati immobiliari locali, ma non c’era comunque una bolla nazionale. In realtà c’era, e ha cominciato a sgonfiarsi nel 2006 – prima lentamente e poi con sempre maggiore velocità. A quel punto Greenspan non era più presidente della FED, avendo lasciato il posto a Ben Bernanke. Ma Greenspan aveva ancora una fortissima influenza: la FED (e con lei l’amministrazione Bush) era convinta che gli effetti della crisi immobiliare si potessero «contenere»; che Bernanke, come Greenspan, potesse fungere da guidatore designato dell’America. Ma l’esperienza successiva all’implosione della bolla azionaria avrebbe dovuto far capire chiaramente che si trattava di una fiducia mal riposta. Quando le bolle scoppiano Ciò che è accaduto subito dopo l’implosione della bolla azionaria degli anni Novanta viene descritto di solito in questi termini: dopo l’implosione della bolla, l’economia Americana è entrata in recessione, ma Greenspan ha ridotto aggressivamente i tassi di interesse e ha rapidamente ribaltato la situazione. La recessione è stata modesta, in quanto non ha comportato grosse diminuzioni del PIL, e breve, in quanto è durata appena otto mesi. La vera storia è un’altra: ufficialmente la recessione è stata breve, ma il mercato del lavoro ha continuato a deteriorarsi per molto tempo dopo la fine ufficiale della recessione. Lo potete vedere nella figura di pagina 161: il tasso di disoccupazione (la barra ombreggiata) ha continuato a salire anche nei mesi successivi. La fase di decrescita dell'occupazione è durata in effetti due anni e mezzo, non otto mesi. Forse vi chiederete perché, in questo caso, la recessione è stata dichiarata conclusa tanto presto. Be’, negli Stati Uniti le date ufficiali di inizio e fine della recessione vengono determinate da un comitato indipendente di economisti, legati al National Bureau of Economie Research. Il comitato prende in esame tutta una serie di indicatori – occupazione, produzione industriale, consumi, PIL. Se tutti questi indicatori puntano al ribasso, si dichiara la recessione. Alla fine del 2001, la produzione industriale e il PIL erano in crescita, seppure lentamente; di qui la fine della recessione ufficiale. Ma come abbiamo visto, il mercato del lavoro era ancora in declino. E la FED era seriamente preoccupata per la debolezza del mercato del lavoro e per il rallentamento generale dell’economia, che sembrava ricordare fin troppo da vicino la situazione del Giappone negli anni Novanta. Greenspan avrebbe poi scritto di aver temuto una «deflazione corrosiva». Perciò ha continuato a tagliare i tassi di interesse, fino ad abbassare il tasso di sconto all’1%. Quando alla fine la politica monetaria ha fatto presa, è stato grazie al mercato delle abitazioni. Gli scettici dicono che Greenspan è riuscito a rilanciare l’economia solo sostituendo alla bolla azionaria una bolla immobiliare. E la domanda che tutti avrebbero dovuto porsi (ma pochi si sono posti) era: «Che cosa accadrà quando si sgonfierà la bolla immobiliare?» La FED era riuscita a malapena a tirar fuori l’economia dalla crisi ingenerata dalla bolla azionaria, e ci era riuscita solo perché aveva avuto la fortuna che si creasse un’altra bolla al momento giusto. Sarebbe riuscita a ripetere l’impresa? Alla fine, quando è scoppiata la bolla immobiliare, le conseguenze sono state peggiori di quanto si potesse immaginare. Perché? Perché il sistema era cambiato con modalità che nessuno aveva capito fino in fondo. 8. IL SISTEMA BANCARIO-OMBRA Le banche sono istituzioni meravigliose, quando funzionano. E di solito è così. Ma quando non funzionano, può scatenarsi un putiferio – come è avvenuto Fanno scorso negli Stati Uniti e in gran parte del mondo. Ma l’epoca delle crisi bancarie non era finita settantanni fa? Le banche non sono regolamentate, assicurate, stragarantite? Sì e no. Sì per le banche tradizionali; no per gran parte del sistema bancario moderno. Per capire il problema, conviene fare una breve storia dell’attività bancaria e della sua regolamentazione. Storia semplificata dell’attività bancaria Le banche moderne sono state create dagli orafi, che oltre a fabbricare gioielli (la loro attività principale), avevano sviluppato un redditizio business collaterale tenendo in custodia le monete di altre persone: avendo solide casseforti, le botteghe degli orafi offrivano più sicurezza ai ricchi rispetto, mettiamo, a un forziere nascosto sotto il letto. (Pensate a Silas Marner.) A un certo punto gli orafi scoprirono di poter rendere ancora più redditizio quel business collaterale prendendo una parte delle monete che avevano in deposito e prestandole a interesse. Forse penserete che così facendo si siano creati dei problemi: che cosa sarebbe successo se i legittimi proprietari delle monete date a prestito si fossero presentati e ne avessero preteso la consegna immediata? Ma gli orafi avevano capito che in base alla legge delle medie si trattava di un’ipotesi quanto mai improbabile: in un determinato giorno alcuni dei depositanti sarebbero venuti a pretendere indietro le loro monete, mentre gli altri non si sarebbero fatti vedere. Bastava perciò tenere di riserva solo una piccola parte delle monete in deposito; tutte le altre si potevano mettere a frutto. Nasceva così l’attività bancaria. Ogni tanto, tuttavia, le cose si mettevano terribilmente male. Si spargeva la voce – forse vera o forse falsa – che gli investimenti della banca erano andati male, per cui non aveva più fondi per rimborsare i depositanti. Bastava quella voce per indurre i depositanti a ritirare in fretta e furia i loro soldi prima che sparissero del tutto – quella che definiamo «corsa agli sportelli». E la corsa agli sportelli mandava spesso in fallimento la banca anche se la voce era falsa: per raccogliere rapidamente fondi, la banca doveva svendere i propri asset a prezzi di liquidazione; e a quei prezzi non avrebbe certamente avuto asset sufficienti a sanare le posizioni debitorie nei confronti dei depositanti. Poiché le corse agli sportelli, anche se basate su voci false, potevano mandare in fallimento istituzioni in ottima salute, questi eventi si sono trasformati in profezie autoavverantisi: una banca poteva fallire non perché giravano delle voci circa i suoi investimenti che sarebbero andati male, ma semplicemente perché si diceva che avrebbe subito una corsa agli sportelli. E a causare questo rumor poteva essere il fatto che altre banche avevano dovuto rimborsare in massa i depositanti. La storia del sistema finanziario degli Stati Uniti prima della Grande Depressione è costellata di «panici»: il panico del 1873, il panico del 1907, e così via. Questi panici erano quasi sempre contagiose serie di corse agli sportelli in cui il tracollo di ogni banca minava la fiducia in altre banche, e le istituzioni finanziarie crollavano come le tessere del domino. Detto per inciso, qualunque somiglianza tra questa descrizione dei panici anteDepressione e il contagio finanziario che ha travolto l’Asia alla fine degli anni Novanta non è per nulla casuale. Tutte le crisi finanziarie tendono fatalmente ad assomigliarsi. Il problema delle crisi bancarie dovute al panico ha ovviamente messo in moto la ricerca di una soluzione. Tra la guerra civile e la Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non avevano una banca centrale – la Federal Reserve fu creata nel 1913 – ma avevano un sistema di «banche nazionali» che erano soggette a una limitata regolamentazione. E in alcuni distretti i banchieri misero assieme le proprie risorse per creare «stanze di compensazione» locali che avrebbero garantito congiuntamente i depositi dei clienti nell’eventualità di una corsa agli sportelli; e alcuni governi statali cominciarono a offrire un’assicurazione sui depositi giacenti presso le banche. Il panico del 1907, tuttavia, mise in luce i limiti di questo sistema (e prefigurò sinistramente la crisi attuale). Quella crisi ebbe inizio nei «trust» di New York, istituzioni para-bancarie che accettavano depositi ma erano nate in origine per gestire solo grandi patrimoni. Poiché avrebbero dovuto impegnarsi unicamente in attività a basso rischio, i trust erano meno regolamentati e avevano meno vincoli di riserva, e meno riserve liquide, delle banche nazionali. Ma con il boom economico del primo decennio del XX secolo, i trust iniziarono a speculare nel mercato immobiliare e nel mercato azionario, da cui le banche nazionali erano escluse. Essendo meno regolamentati delle banche nazionali, i trust potevano corrispondere ai depositanti dei rendimenti più elevati. Nel frattempo sfruttavano la reputazione di solidità delle banche nazionali, e i depositanti li consideravano altrettanto sicuri. Di conseguenza, crebbero rapidamente: nel 1907 il valore totale degli asset posseduti dai trust di New York era uguale al totale degli asset posseduti dalle banche nazionali. Intanto, i trust avevano rifiutato di entrare a far parte della New York Clearinghouse, un consorzio di banche nazionali newyorkesi che garantivano l’una la solidità dell’altra, perché ciò avrebbe imposto loro di tenere riserve liquide più elevate, comprimendo i profitti. Il panico del 1907 iniziò con il fallimento del Knicker-bocker Trust, un grande trust newyorkese che fallì dopo aver finanziato una disastrosa speculazione azionaria su vasta scala. Gli altri trust di New York finirono immediatamente sotto pressione, mentre i depositanti terrorizzati facevano lunghe code per ritirare i propri fondi. La New York Clearinghouse si rifiutò di intervenire e di finanziare i trust, che si trovarono tutti quanti, anche i più sani, in gravissime difficoltà. Nel giro di due giorni, una dozzina di grandi trust andarono in fallimento. I mercati finanziari si bloccarono e la Borsa ebbe un tracollo perché gli investitori non riuscivano a ottenere credito; e la fiducia nelle imprese venne meno. Per fortuna, l’uomo più ricco di New York, un banchiere di nome J.P. Morgan, intervenne rapidamente per mettere fine al panico. Rendendosi conto che la crisi si stava diffondendo e che avrebbe inghiottito ben presto istituzioni in piena salute, non solo trust, ma anche banche, collaborò con altri banchieri, ricchi finanzieri come John D. Rockefeller, e il segretario al Tesoro degli Stati Uniti per sostenere le riserve delle banche e dei trust in modo che potessero reggere all’ondata di ritiri. Quando i depositanti ebbero la certezza di poter riavere tutti i loro soldi, il panico finì. Anche se durò poco più di una settimana, insieme al crollo del mercato azionario, esso decimò l’economia. Ne seguì una recessione durata quattro anni, che fece diminuire la produzione dell'11% e aumentare la disoccupazione dal 3% all’8%. Anche se il disastro era stato evitato per un pelo, aspettarsi che J.P. Morgan salvasse il mondo una seconda volta non sembrava una buona idea, neppure nella Gilded Age. Perciò al panico del 1907 seguì una riforma del sistema bancario. Nel 1913 il sistema delle banche nazionali fu eliminato e venne creato il Federal Reserve System con l’obiettivo di costringere tutte le istituzioni che raccoglievano depositi a tenere adeguate riserve e ad aprire i conti a periodiche ispezioni da parte degli enti regolatori. Pur avendo standardizzato e centralizzato la gestione delle riserve, il nuovo regime non eliminava la minaccia delle corse agli sportelli – e la crisi bancaria più drammatica della storia si determinò nei primi anni Trenta. Con il rallentamento dell’economia, i prezzi delle commodity precipitarono; questa situazione colpì duramente i già indebitati agricoltori americani, scatenando una serie di default sui prestiti, seguita da corse agli sportelli che si susseguirono nel 1930, nel 1931 e nel 1933, partendo in tutti e tre i casi da banche del Midwest per estendersi poi a tutto il paese. C’è un consenso pressoché unanime tra gli storici sul fatto che sia stata la crisi bancaria a trasformare una pesante recessione nella Grande Depressione. La risposta fu la creazione di un sistema molto più tutelato. Il Glass-Steagall Act separava le banche in due categorie: le banche commerciali, che accettavano depositi, e le banche d’investimenti, che non li accettavano. Le banche commerciali erano soggette a pesanti restrizioni sui rischi da assumere; in cambio avevano un immediato accesso al credito erogato dalla FED (la cosiddetta discount window); e cosa più importante in assoluto, i loro depositi erano garantiti dal contribuente. Le banche d’investimenti erano molto meno regolamentate, ma ciò era sopportato perché, in quanto istituzioni che non accettavano depositi, non erano esposte alle temutissime corse agli sportelli. Il nuovo sistema ha protetto l’economia dalle crisi finanziarie per quasi settant’anni. Ci sono stati spesso dei momenti difficili – soprattutto negli anni Ottanta, quando una combinazione di sfortuna e di politiche improprie portò al fallimento di molte savings & loans (casse di risparmio), una categoria di banche che avevano il predominio nei mutui immobiliari. Poiché i depositi giacenti presso le S&L erano assicurati a livello federale, sono stati i contribuenti a pagare il conto, nell’ordine del 5% del PIL (l’equivalente di oltre settecento miliardi di dollari di oggi). Il tracollo delle S&L ha causato una temporanea rarefazione del credito, una delle cause principali della recessione del 1990-1991, visibile nella figura di pagina 161. Ma è stata molto pesante. Ci hanno detto che l’epoca delle crisi bancarie era finita, ma non lo era. Il sistema bancario-ombra Che cos’è una banca? Può sembrare una domanda idiota. Sappiamo tutti che cos’è una banca: un grande edificio tutto marmi – ok, oggi potrebbe benissimo essere un microsportello all’interno di un centro commerciale – in cui i cassieri ritirano e danno soldi, ed espone sulla vetrina la scritta «FDIC insured». Dal punto di vista di un economista, tuttavia, le banche non vengono definite in base al loro aspetto esteriore, ma in base a ciò che fanno. Dall’epoca di quegli intraprendenti orafi al giorno d’oggi, la caratteristica essenziale dell’attività bancaria è la promessa di una pronta fornitura di liquidità a coloro che le affidano i propri soldi, anche se la banca investe gran parte di quei soldi in asset che non si possono liquidare da un momento all’altro. Qualunque istituzione o entità che svolga questo lavoro si considera una banca, anche se non risiede in un grande edificio tutto marmi. Considerate, per esempio uno strumento noto come «auction-rate security», che è stato inventato dalla Lehman Brothers nel 1984 ed è divenuto una fonte preferenziale di finanziamento per molte istituzioni, dalla Port Authority of New York and New Jersey al Metropolitan Museum of Art di New York. Lo strumento funzionava così: delle persone prestavano soldi a lungo termine all’istituzione finanziatrice; in termini giuridici, quei soldi si potevano vincolare fino a trent’anni. A intervalli frequenti, tuttavia, l’istituzione teneva una piccola asta in cui potenziali nuovi investitori si contendevano il diritto di sostituire gli investitori che volevano uscire. Il tasso di interesse determinato da questa competizione tra offerte si sarebbe applicato al titolo fino all’asta successiva e così via. Se l’asta falliva – perché non c’erano abbastanza offerenti da lasciare uscire tutti quelli che volevano uscire – il tasso di interesse sarebbe salito a un livello penalizzante, mettiamo, del 15%; ma era un’eventualità estremamente improbabile. L’idea alla base di un titolo il cui tasso veniva stabilito attraverso un’asta era riconciliare il desiderio dei finanziati di avere a disposizione fondi di lungo termine con il desiderio dei finanziatori di poter riavere prontamente i loro soldi. Ma è esattamente quello che fa una banca. Eppure le «auction-rate securities» sembravano offrire a tutti condizioni più favorevoli rispetto a quelle offerte dal rapporto bancario tradizionale. Coloro che investivano in questi titoli ottenevano dei tassi di interesse più elevati rispetto a quelli che avrebbero ottenuto sui depositi bancari, mentre le istituzioni emittenti pagavano tassi più bassi di quelli che avrebbero pagato sui prestiti a breve termine. Milton Friedman ci ha insegnato che i pasti gratuiti non esistono, eppure le auction-rate securities sembravano offrire proprio quello. Come facevano? Be’, la risposta appare ovvia, quantomeno in un’ottica retrospettiva: le banche sono fortemente regolamentate; devono tenere delle riserve liquide, mantenere un capitale elevato e contribuire al sistema di assicurazione dei depositi. Raccogliendo fondi attraverso quei titoli, il cui tasso di rendimento veniva determinato mediante un’asta, i clienti potevano aggirare queste disposizioni e i relativi costi. Ma le auction-rate securities non erano tutelate dalla rete di sicurezza del sistema bancario. Sta di fatto che il sistema delle auction-rate securities, che nel momento più favorevole valeva quattrocento miliardi di dollari, è crollato all’inizio del 2008. Una dopo l’altra, le aste fallivano perché i nuovi investitori che avrebbero dovuto sostituire gli investitori in uscita erano troppo pochi. Coloro che pensavano di poter riavere immediatamente indietro i propri soldi hanno scoperto così da un giorno all’altro che quei fondi erano immobilizzati in investimenti pluridecennali da cui non potevano uscire. E il fallimento di ogni asta causava il fallimento di un’altra asta. Dopo aver toccato con mano i pericoli di questi schemi di investimento fin troppo sofisticati, chi voleva più immettere denaro fresco nel sistema? Ciò che è accaduto alle auction-rate securities era, fatta eccezione per il nome, una contagiosa serie di corse agli sportelli. Il parallelismo con il panico del 1907 dovrebbe essere evidente. Nei primi anni del XX secolo i trust, le istituzioni parabancarie che sembravano offrire condizioni più favorevoli perché in grado di operare al di fuori del sistema regolamentativo, crebbero rapidamente, per poi diventare l’epicentro di una crisi finanziaria. Un secolo dopo, è accaduta la stessa cosa. Oggi, le istituzioni e gli enti che agiscono da «banche-non banche» vengono generalmente denominati «sistema bancario parallelo» o «sistema bancarioombra». Penso che questa seconda definizione sia più descrittiva, e anche più pittoresca. Le banche tradizionali, che ricevono i depositi e fanno parte del Federal Reserve System, operano più o meno alla luce del sole, con una contabilità trasparente e sotto la costante vigilanza degli enti regolatori. Le attività delle istituzioni che non accettano depositi ma sono banche di fatto, per contro, sono molto più opache. In effetti, fino all’arrivo della crisi pochi sembrano aver capito quanto era diventato importante il sistema bancario-ombra. Nel giugno 2008 Timothy Geithner, il presidente della New York Federal Reserve Bank, ha tenuto un discorso all’Economic Club di New York in cui ha cercato di spiegare perché la fine della bolla immobiliare avrebbe potuto causare dei gravissimi danni finanziari (Geithner non lo sapeva, ma il peggio doveva ancora arrivare). Anche se il discorso era necessariamente scritto nel linguaggio delle banche centrali, con una pesante dose di gergo tecnico, lo shock di Geithner per la misura in cui il sistema era sfuggito al controllo si percepisce chiaramente: La struttura del sistema finanziario si è modificata radicalmente durante il boom, con una fortissima crescita della quota di asset collocati al di fuori del sistema bancario tradizionale. Questo sistema finanziario nonbancario è diventato enorme, specie nei mercati del credito e dei finanziamenti. All’inizio del 2007, gli asset-backed commercial paper, sotto forma di veicoli strutturati di investimento, di auction-rate securities, di tender option bond e note di domanda a tasso variabile, valevano complessivamente circa 2,2 trilioni di dollari. Gli asset finanziati da un giorno all’altro in triangolazioni pronti contro termine sono saliti a 2,5 trilioni di dollari. Gli asset detenuti dai fondi speculativi sono saliti a circa 1,8 trilioni di dollari. Gli stati patrimoniali delle cinque principali banche di investimenti sono arrivati a totalizzare 4 trilioni di dollari. Per fare un confronto, nello stesso periodo, gli asset complessivi delle prime cinque banche degli Stati Uniti erano di poco superiori a 6 trilioni di dollari e gli asset complessivi dell’intero sistema bancario sfioravano i 10 trilioni di dollari. Dopodiché Geithner ha preso in considerazione tutta una serie di strumenti finanziari, non solo le auction-rate securities, che facevano parte del «sistema finanziario non bancario»: enti che non erano banche dal punto di vista regolamentativo, ma esercitavano comunque l’attività bancaria. E ha proseguito sottolineando l’estrema vulnerabilità del nuovo sistema: L’entità degli asset di lungo termine rischiosi e relativamente illiquidi, finanziati da passività di brevissimo termine, ha reso molti dei veicoli e delle istituzioni che operano in questo sistema finanziario parallelo vulnerabili alla classica corsa agli sportelli; ma senza le tutele, come l’assicurazione dei depositi, di cui dispone il sistema bancario per ridurre questi rischi. In effetti, parecchi dei settori descritti da Geithner sono già crollati: le auction-rate securities sono sparite, come ho già detto; l’asset-backed commercial paper (titoli di debito a breve termine emessi da fondi che hanno investito i soldi in asset di lungo termine, tra cui obbligazioni sorrette dai mutui) ha perso qualunque attrattiva; due delle cinque maggiori banche di investimento sono fallite e un’altra si è fusa con una banca tradizionale; e così via. Si scopre inoltre che Geithner non aveva individuato alcuni altri grossi punti di vulnerabilità: in effetti, il governo ha dovuto nazionalizzare l’AIG, la compagnia di assicurazioni più grande del mondo, e il carry trade – una pratica speculativa internazionale che trasferiva fondi dal Giappone e da altri paesi a bassi tassi di interesse a investimenti a più alto rendimento in altri paesi – è imploso mentre questa nuova edizione andava in stampa. Ma rinviamo l’analisi della crisi al prossimo capitolo, e interroghiamoci invece su ciò che l’ha determinata: perché si è permesso al sistema di diventare così vulnerabile? Indifferenza malevola La crisi finanziaria ha scatenato inevitabilmente la caccia ai colpevoli. Alcune accuse erano totalmente false, come la tesi, popolare nella destra, secondo cui tutti i nostri problemi sarebbero stati causati dal Community Reinvestment Act, che avrebbe obbligato le banche a prestare soldi ai membri delle minoranze che volevano comprare casa e poi non sono più stati in grado di rimborsare i mutui. In realtà, quella legge è stata approvata nel 1977, il che impedisce di capire come la si possa incolpare di una crisi che si è determinata ben tre decenni dopo. In ogni caso, il Community Reinvestment Act si applicava solo alle banche di deposito, che hanno avuto una quota minima di insolvenze durante la bolla immobiliare. Altre accuse contengono un briciolo di verità, ma sono più ingiuste che giuste. I conservatori puntano il dito su Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie sponsorizzate dal governo che hanno avviato la cartolarizzazione, incolpandole di aver causato la bolla immobiliare e la fragilità del sistema finanziario. Il briciolo di verità è che Fannie e Freddie, che erano enormemente cresciute tra il 1990 e il 2003 – soprattutto perché erano venute a riempire il vuoto creato dal tracollo di molte casse di risparmio – avevano erogato dei prestiti non adeguatamente garantiti, ed erano state al centro di scandali amministrativi. Ma l’attenzione pubblica che avevano attirato per effetto di quegli scandali ha tenuto Fannie e Freddie sostanzialmente ai margini durante il periodo più «caldo» della bolla immobiliare, tra il 2004 e il 2006. Di conseguenza, le due agenzie hanno avuto solo un ruolo secondario nell’epidemia di insolvenza sui prestiti. Nella sinistra si tende a dare la colpa della crisi alla deregolamentazione – e in particolare all’abrogazione, nel 1999, del Glass-Steagall Act, che ha consentito alle banche commerciali di entrare nell’investment banking e quindi di assumersi maggiori rischi. In un’ottica retrospettiva, si trattava sicuramente di una mossa nella direzione sbagliata e potrebbe aver contribuito indirettamente alla crisi: per esempio, alcune delle rischiose strutture finanziarie create negli anni del boom erano le operazioni «fuori bilancio» delle banche commerciali. Ma la crisi, in linea generale, non ha riguardato istituzioni deregolamentate che si sono assunte nuovi rischi. Ha riguardato i rischi assunti da istituzioni che non erano mai state regolamentate. E secondo me, è questo il nodo cruciale. Quando il sistema bancario-ombra si è espanso per rivaleggiare con il sistema bancario tradizionale o superarlo in importanza, i politici e i funzionari governativi avrebbero dovuto rendersi conto che stavamo ricreando quella vulnerabilità finanziaria che aveva reso possibile la Grande Depressione – e avrebbero dovuto reagire estendendo la regolamentazione e la rete di sicurezza finanziaria in modo da coprire queste nuove istituzioni. Dei personaggi influenti avrebbero dovuto fissare una regola molto semplice: qualunque entità che faccia quello che fa una banca, qualunque entità che dev’essere salvata nei momenti di crisi come vengono salvate le banche, dovrebbe essere regolamentata come una banca. In realtà, la crisi del fondo Long Term Capital Management, descritta nel capitolo 6, avrebbe dovuto costituire una preziosa lezione sui pericoli apportati dal sistema bancario-ombra. Certamente erano in tanti a sapere quanto si era avvicinato al collasso il sistema. Ma questo monito è stato ignorato, e non si è fatto alcunché per estendere la regolamentazione. Anzi, lo spirito dei tempi – e l’ideologia dell’amministrazione di George W. Bush – erano profondamente contrari alla regolamentazione. Questo atteggiamento era simboleggiato da una foto ufficiale scattata nel 2003, in cui i rappresentanti delle varie agenzie che partecipano alla supervisione sulle banche usavano forbici da giardino e una sega elettrica per «disboscare» in effigie la massa delle disposizioni regolatone. Più concretamente, l’amministrazione Bush ha usato il potere federale, inclusi gli oscuri poteri dell’Office of the Comptroller of the Currency, per bloccare i tentativi dei singoli stati di imporre una certa supervisione sull’erogazione dei mutui subprime. Nel frattempo, coloro che si sarebbero dovuti preoccupare della fragilità del sistema cantavano invece le lodi della «innovazione finanziaria». «Non solo le singole istituzioni finanziarie sono diventate meno vulnerabili a shock derivanti da fattori di rischio sottostanti», ha dichiarato Alan Greenspan nel 2004, «ma anche il sistema finanziario nel suo complesso è diventato più resiliente». Dunque, i rischi crescenti di una crisi per il sistema finanziario e per l’economia nella sua totalità sono stati ignorati o sottovalutati. E la crisi è arrivata. 9. LA SOMMA DI TUTTE LE PAURE Il 19 luglio 2007 il DowJones Average Industrial ha superato per la prima volta i 14.000 punti. Due settimane dopo, la Casa Bianca ha pubblicato un «fact sheet» in cui vantava la performance dell’economia sotto l’amministrazione Bush: «Le politiche a favore della crescita messe in atto dal presidente contribuiscono a mantenere la nostra economia forte, flessibile e dinamica», recitava il documento. E i problemi già visibili nel mercato immobiliare e nei mutui subprime? Erano «sostanzialmente contenuti», ha detto il segretario al Tesoro Henry Paulson in un discorso che ha tenuto il primo agosto a Beijing. Il 9 agosto la banca francese BNP Paribas ha sospeso i ritiri da tre dei suoi fondi – iniziava così la prima grande crisi finanziaria del XXI secolo. Mi verrebbe da dire che la crisi non ha alcun punto di contatto con ciò che abbiamo visto in precedenza. Ma sarebbe più esatto dire che è molto simile a tutto ciò che abbiamo visto in precedenza, però tutto insieme: l’implosione di una bolla immobiliare paragonabile a quella che si è creata in Giappone alla fine degli anni Ottanta; un’ondata di corse agli sportelli paragonabile a quelle dei primi anni Trenta (che ha coinvolto il sistema bancarioombra, anziché le banche convenzionali); un grosso problema di liquidità negli Stati Uniti, analogo a quello che si era già presentato in Giappone; e ultimamente una discontinuità dei flussi internazionali di capitale e un’ondata di crisi valutarie fin troppo simile a quella che si è avuta in Asia alla fine degli anni Novanta. Andiamo per ordine. La crisi immobiliare e la sua ricaduta La grande bolla immobiliare degli Stati Uniti ha cominciato a sgonfiarsi nell’autunno del 2005 – ma la gente ci ha messo un po’ di tempo ad accorgersene. Siccome i prezzi erano talmente saliti che acquistare una casa era diventato impossibile per molti americani – anche senza anticipo, e con dei mutui a tassi allettanti – le vendite hanno cominciato a rallentare. Come scrivevo all’epoca, si sentiva un sibilo, come se l’aria cominciasse a fuoriuscire dalla bolla. Ma i prezzi delle case hanno continuato a salire ancora per un po’. Ce lo si poteva aspettare. Le case non sono come le azioni, con un prezzo unico di apertura che cambia di minuto in minuto. Ogni casa è a sé, e i venditori mettono in conto di dover attendere qualche tempo prima di trovare un acquirente. Di conseguenza, i prezzi tendono a basarsi sul valore di analoghe compravendite concluse negli ultimi tempi: i venditori non cominciano a ridurre i prezzi, finché non diventa dolorosamente evidente che non riceveranno un’offerta in linea con la richiesta. Nel 2005, dopo un periodo prolungato in cui il prezzo delle case era salito costantemente di anno in anno, i venditori si aspettavano che il trend continuasse; perciò i prezzi richiesti hanno continuato effettivamente a salire, nonostante il calo delle vendite. Ma alla fine della primavera 2006, la debolezza del mercato cominciava a essere evidente. I prezzi hanno iniziato a scendere, prima lentamente e poi sempre più velocemente. Nel secondo trimestre del 2007, stando all’utilizzatissimo indice Case-Shiller, i prezzi delle abitazioni erano scesi di appena il 3% rispetto al picco massimo di un anno prima. Nell’anno successivo sono diminuiti di oltre il 15%. Naturalmente, il calo era molto più rilevante nelle regioni che avevano avuto le bolle più consistenti, come la parte costiera della Florida. Ma anche il graduale declino iniziale dei prezzi immobiliari ha fatto venir meno gli assunti su cui si basava il boom dei mutui subprime. Come forse ricorderete, il principale fondamento razionale di questi prestiti era la convinzione che, per il finanziatore, contava ben poco se il finanziato poteva effettivamente rimborsare le rate: finché i prezzi delle case continuavano a salire, i mutuatari in difficoltà potevano rifinanziare il prestito o saldare il mutuo vendendo la casa. Non appena i prezzi delle case hanno cominciato a scendere, anziché a salire, e gli immobili sono diventati pressoché invendibili, i tassi di insolvenza hanno cominciato a crescere. E a quel punto è venuta alla luce un’altra dolorosa verità: il pignoramento non è solo una tragedia per i proprietari di case, ma è anche un pessimo affare per il finanziatore. Tra il tempo che ci vuole per reimmettere sul mercato una casa pignorata, le spese legali, il degrado che si crea inevitabilmente negli alloggi vuoti, eccetera, i creditori che portano via la casa al debitore recuperano normalmente solo una parte, circa la metà, del valore originario del mutuo. Potreste domandarvi allora: perché non accordarsi con il proprietario dell’abitazione per ridurre le rate ed evitare i costi del pignoramento? Be’, tanto per cominciare, un’operazione di questo tipo costa, e richiede del personale. E i mutui subprime non venivano quasi mai stipulati da banche che li tenevano in portafoglio; venivano stipulati da altri soggetti, che li vendevano rapidamente a istituzioni finanziarie le quali, a loro volta, «impacchettavano» pool di mutui in collateralizated debt obligations (CDO) vendute agli investitori. La gestione dei mutui veniva lasciata ad apposite strutture, che non avevano né le risorse né, in generale, l’incentivo a provvedere alla ristrutturazione del prestito. C’è ancora un’altra considerazione: la complessità dell’engineering finanziario sottostante ai mutui subprime, che distribuiva la proprietà dei mutui tra un gran numero di investitori con diversi gradi di «privilegio», creava formidabili ostacoli giuridici a qualunque tipo di indulgenza sul debito. Dunque la ristrutturazione era sostanzialmente impensabile, il che comportava necessariamente l’esecuzione di costosi pignoramenti. Di conseguenza, i titoli di credito sorretti da mutui subprime si sono trasformati in pessimi investimenti non appena il boom immobiliare ha cominciato a sgonfiarsi. Il primo momento della verità è arrivato all’inizio del 2007, quando il problema dei mutui subprime è apparso per la prima volta in tutta la sua entità. Come forse ricorderete, le CDO prevedevano una graduazione nel livello di privilegio delle quote: i titolari delle quote più «senior», quelle a cui le agenzie di rating avevano attributo la tripla A, avevano la priorità sui pagamenti, mentre quelli che avevano le quote meno privilegiate, a cui era attribuito un rating inferiore, venivano pagati solo dopo la soddisfazione dei creditori privilegiati. Intorno al febbraio 2007 si è capito che le quote meno affidabili in termini di rating avrebbero probabilmente subito pesanti perdite, e il loro prezzo è crollato. A quel punto l’erogazione dei mutui subprime è praticamente cessata: siccome nessuno voleva più acquistare le quote meno privilegiate, non si potevano più riconfezionare e vendere i mutui subprime, e questa forma di finanziamento è venuta meno. Il che, a sua volta, eliminando una fonte importante di domanda immobiliare, ha peggiorato la crisi in atto. Ma per un lungo periodo gli investitori hanno continuato a credere che le quote «senior» di quelle CDO fossero ragionevolmente tutelate. Nell’ottobre 2007, le quote dei pool di mutui subprime che avevano avuto la tripla A si vendevano ancora a un valore molto vicino al nominale. Alla fine, tuttavia, si è capito che in tutto ciò che aveva a che fare con il mercato immobiliare non c’era più niente di sicuro – né le quote senior, né i mutui concessi a persone teoricamente solvibili che avevano versato cospicui anticipi. Perché? Per la dimensione stessa della bolla immobiliare. A livello nazionale, nell’estate del 2006, le case erano probabilmente sopravvalutate di oltre il 50% e quindi, per eliminare la sopravvalutazione, i prezzi dovevano diminuire di un terzo. In alcune aree metropolitane la sopravvalutazione era molto maggiore. A Miami, per esempio, i prezzi delle case erano circa il doppio rispetto a quanto avrebbero potuto giustificare i fondamentali. Dunque, in alcune aree ci si poteva aspettare che alcuni prezzi diminuissero almeno del 50%. In altre parole, praticamente chiunque avesse acquistato una casa negli anni più caldi della bolla immobiliare, anche se aveva versato un anticipo del 20%, si sarebbe trovato ad avere un valore negativo, nel senso che il mutuo valeva più della casa. In effetti, al momento in cui questo libro va in stampa, ci sono circa dodici milioni di americani che hanno comprato una casa e si sono trovati ad avere un valore negativo. E costoro sono i primi candidati all’insolvenza e al pignoramento, quale che sia la loro estrazione sociale. Tanto per cominciare, alcuni potrebbero decidere semplicemente di «uscire» – ossia non pagare più il mutuo, sapendo che saranno ancora in discrete condizioni finanziarie anche quando avranno perso la casa. Non si è mai capito quanto sia veramente importante il fenomeno della «uscita» dai mutui, ma ci sono tante altre strade che portano al default. La perdita del posto di lavoro, delle spese mediche inattese, il divorzio – tutte queste cose possono impedire a un neoproprietario di casa di pagare le rate del mutuo. E se la casa vale meno del finanziamento, non c’è modo di rimborsare il finanziatore. Quando la gravità della crisi immobiliare è emersa in tutta la sua evidenza, si è capito che i finanziatori avrebbero perso un sacco di soldi, come gli investitori che avevano acquistato titoli sorretti dai mutui. Ma perché dovremmo piangere per costoro, anziché per i poveri mutuatari che si sono trovati senza casa? Dopotutto, la fine della bolla immobiliare, a conti fatti, potrebbe avere distrutto ricchezza per otto trilioni di dollari. Di essi, quasi sette trilioni saranno usciti dalle tasche degli acquirenti di case, e solo un trilione sarà uscito dalle tasche degli investitori. Perché ossessionarsi per quel trilione? Perché ha innescato il tracollo del sistema bancarioombra. La crisi delle banche-non banche Come abbiamo visto, nella prima metà del 2007 c’erano dei seri tremori finanziari, ma all’inizio di agosto l’opinione ufficiale definiva ancora «contenuti» i problemi posti dalla crisi immobiliare e dai mutui subprime – e la forza del mercato azionario indicava che i mercati condividevano quella posizione. Poi, senza esagerare, si è scatenato l’inferno. Che cosa è successo? Nel capitolo 8 ho citato Tim Geithner della New York Federal Reserve Bank a proposito dei rischi causati dall’ascesa del sistema bancario-ombra: «L’entità degli asset di lungo termine rischiosi e relativamente illiquidi, finanziati da passività di brevissimo termine, ha reso molti dei veicoli e delle istituzioni che operano in questo sistema finanziario parallelo vulnerabili alla classica corsa agli sportelli; ma senza le tutele, come l’assicurazione dei depositi, di cui dispone il sistema bancario per ridurre questi rischi». In quello stesso discorso, pronunciato nel giugno 2008, Geithner ha spiegato – in un linguaggio sorprendentemente vivace per un banchiere centrale – come si era verificata effettivamente quella corsa agli sportelli. Era iniziata con le perdite legate ai mutui subprime, che avevano minato la fiducia nel sistema bancario-ombra, e questa perdita di fiducia ha avviato un circolo vizioso di deleveraging: Quando gli investitori che si erano affidati a questi strumenti finanziari – molti fondi gestiti in maniera conservativa – hanno ritirato, o minacciato di ritirare, i loro soldi dai mercati, il sistema è diventato vulnerabile a un ciclo autorinforzantesi di liquidazione forzata degli asset, che ha ulteriormente accresciuto la volatilità e ridotto i prezzi in tutta una serie di categorie di asset. Di conseguenza, i vincoli sulle operazioni a riporto sono stati intensificati, oppure sono stati completamente negati i finanziamenti ad alcuni clienti, creando un’ulteriore leva negativa. I margini di liquidità si sono ridotti perché gli asset venivano venduti in mercati che avevano perso la fiducia. La forza di questa dinamica è stata esacerbata dalla cattiva qualità di asset – specie quelli legati ai mutui immobiliari – che si erano ormai diffusi in tutto il sistema. Ciò contribuisce a spiegare come una quantità relativamente limitata di asset a rischio abbia potuto minare la fiducia degli investitori e di altri operatori di mercato su una gamma molto più estesa di asset e di mercati. Notate l’enfasi che pone Geithner su come il valore declinante degli asset abbia danneggiato i bilanci, promuovendo un’ulteriore liquidazione degli asset, in un processo che si autoalimentava. In sostanza, è la stessa logica di deleveraging che ha determinato le crisi finanziarie autoalimentate che si sono verificate in Asia nel 1997 e nel 1998, descritte nel capitolo 4. Gli operatori più indebitati hanno riportato delle perdite, che li hanno indotti a intraprendere delle azioni che hanno prodotto ulteriori perdite; e così via. In questo caso le perdite si sono determinate attraverso la svalutazione di rischiosi asset finanziari, anziché attraverso la svalutazione della moneta nazionale, com’era avvenuto in India o in Argentina; ma la dinamica era praticamente la stessa. E il risultato di questo processo autorinforzantesi è stato in effetti una massiccia corsa agli sportelli che ha costretto il sistema bancarioombra a ridimensionarsi, come aveva fatto il sistema bancario tradizionale all’inizio degli anni Trenta. Le auction-rate securities, un business da trecentotrenta miliardi di dollari, sono sparite dal mercato. Il valore dei crediti erogati attraverso l’asset-backed commercial paper, un’altra forma di attività bancaria di fatto, è sceso da 1,2 trilioni di dollari a soli settecento miliardi di dollari. E così per tutti gli altri strumenti. Nei mercati finanziari si sono cominciate a vedere cose strane. I tassi di interesse sui buoni del Tesoro USA — titoli di debito a breve termine – sono scesi quasi a zero. Questo perché gli investitori erano disperatamente a caccia di titoli sicuri e, come ha detto un commentatore, le uniche cose che erano disposti ad acquistare erano i buoni del Tesoro e l’acqua minerale (il debito del governo USA è il più sicuro del pianeta, non perché gli Stati Uniti siano il paese più responsabile della Terra, ma perché in un ipotetico scenario in cui il governo americano andasse in default, crollerebbero anche tutte le altre istituzioni – di qui la domanda di acqua minerale). In alcune occasioni i tassi di interesse sui bond USA sono stati addirittura negativi, perché erano l’unica cosa che i finanziatori accettavano in garanzia, e c’era una domanda enormemente superiore all’offerta. Alcuni mutuatari hanno contribuito al tracollo del sistema bancario-ombra rivolgendosi alle banche tradizionali. Uno degli aspetti apparentemente più perversi della crisi è l’espansione del credito bancario, che ha creato confusione in alcuni osservatori: dov’è il credit crunch (la strozzatura del credito, n.d.t.)? si chiedono. Ma l’espansione del finanziamento bancario tradizionale non ha compensato, se non in misura minima, il tracollo del sistema bancario-ombra. Il credito al consumo è stato l’ultimo a risentirne, ma nell’ottobre 2008 c’erano prove sempre più evidenti del fatto che anche le carte di credito stavano subendo una pesante contrazione, con la riduzione dei limiti di affidamento, una sempre maggiore selezione nella concessione e una crescente compressione della capacità di acquisto dei già nervosi consumatori americani. In tutti i settori dell’economia, alcune aziende e alcuni individui si vedevano negare l’accesso al credito, mentre altri si ritrovavano a pagare interessi più elevati, anche se la Federal Reserve cercava di far diminuire i tassi. Si stava profilando una trappola di tipo giapponese per la politica monetaria degli Stati Uniti. La FED perde efficacia Quando è scoppiata la crisi finanziaria, Alan Greenspan non era più a capo della Federal Reserve. Al suo posto – costretto a far fronte al caos che si era lasciato dietro – c’era Ben Bernanke, un ex professore di economia di Princeton. (Bernanke era il direttore del dipartimento di economia di Princeton prima di trasferirsi alla FED, e mi aveva assunto quando ero passato a Princeton dal MIT.) Dovendo scegliere una persona da mettere a capo della FED durante questa crisi, non c’era candidato migliore di Bernanke. È uno studioso della Grande Depressione. Le sue ricerche sul modo in cui la crisi bancaria intensificò la Depressione lo hanno portato a dare un importante contributo teoretico all’economia monetaria, focalizzato sul ruolo della disponibilità del credito e dei problemi di bilancio alla restrizione degli investimenti (mormorate le parole magiche «Bernanke-Gertler» a un gruppo di economisti che discutono preoccupatamene della crisi, e assentiranno in segno di apprezzamento). Inoltre, Bernanke ha fatto ampie ricerche sui problemi finanziari del Giappone negli anni Novanta. Nessuno era più preparato di lui, dal punto di vista intellettuale, a fronteggiare la drammatica situazione in cui ci troviamo. Ma con l’evolversi della crisi, la FED di Bernanke ha fatto un’enorme fatica a mettere sotto controllo i mercati finanziari o l’economia nel suo complesso. La FED deve fare due cose principali: gestire i tassi di interesse, e quando è necessario, fornire liquidità alle banche. Gestisce i tassi di interesse acquistando buoni del Tesoro dalle banche, e quindi incrementandone le riserve, o vendendo buoni del Tesoro alle banche, e quindi riducendone le riserve. Fornisce liquidità a determinate banche nei momenti di bisogno, prestando loro direttamente dei soldi. E fin dall’inizio della crisi ha usato aggressivamente questi strumenti. La FED ha tagliato il tasso di sconto federale – il tasso overnight a cui le banche si prestano vicendevolmente i fondi, che è il normale strumento della politica monetaria – dal 5,25% alla vigilia della crisi all’1% nel momento in cui scrivo. «Il totale dei prestiti ricevuti dalle istituzioni di deposito da parte della Federal Reserve», un indicatore dei finanziamenti diretti, è passato da poco più di zero prima della crisi, a oltre quattrocento miliardi di dollari. In tempi normali, queste mosse avrebbero portato a una ben maggiore agevolazione del credito. La diminuzione del tasso di sconto si traduce normalmente in una riduzione generalizzata dei tassi di interesse – tassi di interesse più bassi sul credito commerciale, tassi di interesse più bassi sui finanziamenti alle imprese, tassi di interesse più bassi sui mutui immobiliari. E i prestiti alle banche sono stati sempre sufficienti a coprire qualunque carenza di liquidità che si determinasse nel sistema finanziario. Ma questi non sono tempi normali, e i precedenti storici non hanno trovato applicazione. La perdita di efficacia della FED è particolarmente evidente per quanto riguarda i mutuatari più a rischio. Come abbiamo visto, oggi non si fanno più mutui subprime, tagliando fuori dal mercato immobiliare un’intera categoria di potenziali acquirenti. Le aziende che non hanno il rating più elevato in termini di affidabilità pagano tassi di interesse sul credito a breve termine più elevati di quelli che pagavano prima della crisi, anche se i tassi di interesse controllati dalla FED sono diminuiti di oltre quattro punti percentuali. Nel momento in cui scrivo, il tasso di interesse sulle obbligazioni aziendali classificate BAA è superiore al 9%, contro il 6,5% ante-crisi. Di conseguenza, i tassi di interesse che rilevano per le decisioni di spesa e di investimento sono saliti, o perlomeno non sono scesi, nonostante il tentativo della FED di spingerli verso il basso. Ne hanno risentito anche i mutuatari «prime» (quelli che godono di tassi più favorevoli per la loro affidabilità, n.d.t.): il tasso di interesse sui mutui trentennali è ancora più o meno lo stesso dell’estate 2007. Questo perché la crisi del sistema finanziario ha praticamente espulso dal mercato i finanziatori privati, lasciandovi solo Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie sponsorizzate dal governo. E anche Fannie e Freddie si sono trovate in pessime acque: non avevano concesso tanti prestiti insoluti quanto le banche private, ma ne avevano concessi alcuni, e avevano un capitale molto limitato. Nel settembre 2008 il governo federale ha assunto il controllo di Fannie e Freddie, un intervento che avrebbe dovuto ridurre le preoccupazioni per il loro indebitamento e fatto diminuire i tassi di interesse sui mutui. Ma l’amministrazione Bush ha negato recisamente che l’indebitamento di Fannie e Freddie fosse sorretto dalla piena fiducia del governo americano, per cui anche dopo la nazionalizzazione le due agenzie hanno avuto problemi nella raccolta di fondi. Che cosa dire dei prestiti erogati alle banche dalla Federal Reserve? Probabilmente hanno dato una mano, ma non nella misura attesa, perché le banche tradizionali non sono al centro della crisi. Ecco un esempio: se auction-rate securities avessero fatto parte del sistema bancario tradizionale, gli emittenti avrebbero potuto farsi prestare soldi dalla FED quando alle aste si presentavano troppo pochi investitori privati; di conseguenza, le aste non sarebbero fallite e il settore non sarebbe crollato. Ma siccome non facevano parte delle banche convenzionali, le aste sono fallite e il settore è crollato, e non c’erano prestiti della FED alla Citibank o alla Bank of America che potessero mettere fine al processo. La FED si è trovata così a fronteggiare una crisi di liquidità di tipo giapponese, in cui la politica monetaria convenzionale aveva perso ogni efficacia sull’economia reale. Certo, il tasso di sconto non è stato ridotto a zero, ma non c’erano ragioni di pensare che il taglio di un altro punto percentuale avrebbe avuto un impatto significativo. Che cos’altro poteva fare la FED? In uno studio accademico del 2004, Bernanke aveva affermato che la politica monetaria poteva essere efficace, anche in una crisi di liquidità se c’era la volontà di «modificare la composizione dello stato patrimoniale della banca centrale». Invece di limitarsi a tenere in portafoglio buoni del Tesoro e a prestare soldi alle banche tradizionali, la FED poteva concedere prestiti ad altri operatori: banche di investimenti, fondi, e forse anche imprese non finanziarie. E nel 2008 la FED ha istituito una serie di agenzie speciali preposte a questo compito: la TSLF, la PDCF, e così via. Nell’ottobre 2008 la FED ha annunciato la decisione di cominciare ad acquistare anche commercial paper, mettendosi praticamente in condizione di erogare i prestiti che il sistema finanziario privato non voleva o non poteva effettuare. Nel momento in cui scrivo è ancora possibile che questi schemi diano dei frutti. C’è da dire, peraltro, che finora i loro effetti sono stati deludenti. Perché? Io dico che è un problema di sostituzione e di scala. Quando la FED si attiva per incrementare il volume delle riserve bancarie, fa una cosa che nessun'altra istituzione può fare: solo la FED può creare base monetaria, che si può usare come liquidità corrente o tenere di riserva presso le banche. Inoltre, le sue azioni tendono a essere di vasta portata quanto alla dimensione delle categorie di asset coinvolte, perché la base monetaria è di «soli» ottocento miliardi di dollari. Per contro, quando la FED tenta di sostenere più ampiamente il mercato del credito, fa una cosa che fanno anche gli operatori privati – per cui il credito che inietta nel sistema potrebbe essere parzialmente compensato dai ritiri dei privati – e tenta anche di smuovere un mercato molto più vasto: quel mercato del credito che vale circa cinquanta trilioni di dollari. La FED di Bernanke ha avuto anche il problema di trovarsi costantemente a rincorrere gli eventi. La crisi finanziaria continua a sviluppare nuove dimensioni, che pochissimi – inclusi i superesperti della FED – vedono emergere. Il che mi porta ad analizzare la dimensione internazionale della crisi. La madre di tutte le crisi valutarie Dopo le crisi finanziarie del 1997 e del 1998, i paesi coinvolti hanno cercato di proteggersi da una nuova crisi. Hanno evitato di ricorrere a quei prestiti esteri che li avevano esposti a una potenziale riduzione dei finanziamenti over-seas. Hanno accumulato enormi riserve in dollari e in euro, che avrebbero dovuto proteggerli in caso di emergenza finanziaria. E nella logica convenzionale, i «mercati emergenti» – Brasile, Russia, India, Cina e tutta una serie di paesi più piccoli, tra cui le vittime della crisi del 1997, erano ormai «svincolati» dagli Stati Uniti, e quindi in grado di crescere nonostante la crisi in corso in America. «Lo sganciamento dagli Stati Uniti non è un mito», spiegava l’«Economist» ai suoi lettori nel mese di marzo. «Ma potrebbe salvare l’economia mondiale». Purtroppo non sembra probabile. Anzi, dice Stephen Jen, chief currency strategist della Morgan Stanley, «l’atterraggio violento» nei mercati emergenti potrebbe essere il «secondo epicentro» della crisi globale (i mercati finanziari degli Stati Uniti hanno costituito il primo epicentro). Che cosa è accaduto? Insieme alla crescita del sistema bancario-ombra, negli ultimi quindici anni c’è stata un’altra trasformazione strutturale nel sistema finanziario, determinatasi in gran parte dopo la crisi asiatica – mi riferisco all’ascesa della globalizzazione finanziaria, per cui gli investitori di ciascun paese detengono grosse partecipazioni finanziarie in altri paesi. Nel 1996, alla vigilia della crisi asiatica, gli Stati Uniti avevano asset esteri pari al 52% del PIL, e passività estere pari al 57% del PIL. Nel 2007, queste cifre erano salite, rispettivamente, al 128% e al 145% del PIL. Gli Stati Uniti erano diventati debitori netti; ma questo aspetto è meno impressionante dell’enorme incremento registrato nelle partecipazioni incrociate. Come gran parte di ciò che è accaduto nel sistema finanziario negli ultimi due decenni, questo cambiamento avrebbe dovuto ridurre il rischio: poiché gli investitori americani detenevano gran parte della propria ricchezza all’estero, erano teoricamente meno esposti a una crisi finanziaria in America; e siccome gli investitori esteri detenevano gran parte della propria ricchezza negli Stati Uniti, erano meno esposti a una crisi finanziaria in patria. Ma in realtà, la maggior parte dell’incremento della globalizzazione finanziaria veniva dagli investimenti di istituzioni fortemente indebitate, che stavano facendo varie scommesse rischiose su scala internazionale. E quando le cose si sono messe male negli Stati Uniti, questi investimenti internazionali hanno agito da «meccanismo di trasmissione», consentendo a una crisi che era iniziata nel mercato immobiliare americano di propagarsi a catena in altri paesi. L’inizio della crisi si identifica generalmente nel fallimento di alcuni fondi speculativi legati a una banca francese; nell’autunno del 2008, i problemi causati dai mutui immobiliari in posti come la Florida avevano distrutto il sistema bancario islandese. Nel caso dei mercati emergenti c’era un particolare elemento di vulnerabilità: il cosiddetto carry trade. Questo strumento permette di prendere a prestito soldi in paesi che applicano bassi tassi di interesse, soprattutto ma non solo il Giappone, e di prestarli in paesi che applicano elevati tassi di interesse, come il Brasile e la Russia. È stato un business altamente profittevole finché è andato tutto bene; ma alla fine c’è stato un intoppo. L’evento scatenante sarebbe stato il default della banca d’investimenti Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008. Nel marzo 2008, quando la Bear Stearns, un’altra delle cinque grandi banche d’investimento, è entrata in crisi, la FED e il Tesoro degli Stati Uniti sono intervenuti – non per salvare l’azienda, che è andata in liquidazione, ma per proteggerne le «controparti», ossia coloro a cui doveva dei soldi o con cui aveva concluso degli accordi di finanziamento. C’era la diffusa aspettativa che la Lehman ricevesse il medesimo trattamento. Ma il dipartimento del Tesoro ha stabilito che le conseguenze di un eventuale fallimento della Lehman non sarebbero state troppo pesanti, e l’ha lasciata affondare senza offrire alcuna protezione alle sue controparti. Di lì a qualche giorno era chiaro che si era trattato di una mossa disastrosa: la fiducia è diminuita ulteriormente, i prezzi degli asset sono scesi di più, e i pochi canali di credito rimasti ancora attivi si sono prosciugati. La nazionalizzazione di fatto della mega compagnia assicurativa AIG, decisa pochi giorni dopo, non è servita ad arrestare il panico. E una delle vittime dell'ultima ondata di panico è stata proprio il carry trade. Il travaso di fondi dal Giappone e da altri paesi a bassi tassi di interesse si era bloccato, causando una serie di effetti autorinforzantesi, ben noti fin dalla crisi del 1997. Siccome i capitali non uscivano più dal Giappone, il valore dello yen è aumentato; e siccome i capitali non entravano più nei mercati emergenti, il valore delle loro monete è diminuito. Ciò ha causato grandi perdite sul capitale per tutti coloro che si erano finanziati in una divisa e avevano concesso dei prestiti in un’altra. In alcuni casi, ha fatto sì che gli hedge funds – e più in generale il settore dei fondi speculativi – che avevano fatto meglio delle attese fino al tracollo della Lehman Brothers, cominciassero a ridursi rapidamente. In altri casi, ha fatto sì che le aziende dei mercati emergenti che si erano finanziate a basso costo all’estero, si trovassero improvvisamente a contabilizzare grosse perdite. Si è scoperto così che i tentativi messi in atto dai governi dei paesi emergenti per proteggersi da un’altra crisi erano stati vanificati dalla ingiustificata propensione al rischio del settore privato. In Russia, per esempio, banche e aziende sono andate in massa a finanziarsi all’estero perché i tassi di interesse erano inferiori a quelli praticati sul rublo. Perciò, mentre il governo russo accumulava riserve estere per ben 560 miliardi di dollari, le aziende e le banche russe accumulavano debiti esteri per la cifra, non meno impressionante, di 460 miliardi di dollari. Poi, tutt’a un tratto, queste aziende e queste banche si sono trovate con le linee di credito bloccate, mentre il valore in rubli dei loro debiti andava alle stelle. E nessuno era al sicuro: per esempio, le grandi banche brasiliane hanno evitato di assumere una forte esposizione all’estero, ma si sono trovate ugualmente in difficoltà perché i loro clienti nazionali non erano stati altrettanto prudenti. Tutto questo aveva molti punti in comune con precedenti crisi valutarie – quella dell’Indonesia nel 1997 e quella dell’Argentina nel 2002. Ma la dimensione era molto più vasta. Si tratta certamente della madre di tutte le crisi valutarie, e rappresenta un disastro senza precedenti per il sistema finanziario mondiale. Una crisi globale La maggior parte di questo capitolo è stata dedicata agli aspetti finanziari della crisi. Che cosa fa presagire tutto questo per la «economia reale», l’economia dei posti di lavoro, dei salari e della produzione? Non fa presagire niente di buono. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Spagna e diversi altri paesi avrebbero probabilmente avuto delle recessioni con l’esplosione della bolla immobiliare anche se il sistema finanziario non fosse andato in crisi. La caduta dei prezzi delle abitazioni ha un effetto negativo diretto sull’occupazione attraverso il rallentamento dell’edilizia, e tende a ridurre i consumi perché i consumatori si sentono più poveri e non possono più accedere ai prestiti ipotecari; questi aspetti negativi hanno un effetto moltiplicatore perché il calo dell’occupazione fa diminuire ulteriormente i consumi. Ciò detto, l’economia americana ha retto abbastanza bene alla crisi immobiliare, soprattutto perché la debolezza del dollaro ha favorito le esportazioni, il che ha contribuito a compensare il rallentamento dell’edilizia. Ma il tracollo finanziario trasformerà certamente quella che poteva essere una recessione «normale» – il tasso di occupazione degli Stati Uniti ha cominciato a diminuire alla fine del 2007, ma fino a settembre del 2008 il declino è stato piuttosto modesto – in qualcosa di molto, molto peggio. L’intensificazione della crisi del credito dopo il fallimento della Lehman Brothers, l’improvvisa crisi che ha colpito i mercati emergenti, il crollo intervenuto nella fiducia dei consumatori quando la dimensione della crisi finanziaria è arrivata sulle prime pagine dei giornali, sembrano indicare tutte quante la peggior recessione mai vista negli Stati Uniti, e in tutto il mondo, dai primi anni Ottanta. E molti economisti si sentirebbero sollevati se restasse entro quei limiti. La cosa che preoccupa di più è l’inefficacia della politica monetaria. La recessione del 1981-1982, che ha spinto il tasso di disoccupazione sopra il 10%, è stata pesantissima; ma era più o meno frutto di una scelta deliberata: la FED perseguiva una politica monetaria molto rigida per disinnescare l’inflazione, e nel momento in cui ha stabilito che l’economia aveva sofferto abbastanza, il suo presidente, Paul Volcker, ha allentato la stretta e l’economia è tornata a correre. La devastazione economica si è trasformata in una «nuova alba» per l’America con una rapidità impressionante. Questa volta, per contro, l’economia ristagna nonostante i ripetuti sforzi messi in atto dalle autorità monetarie per farla ripartire. Questa impotenza della politica monetaria ricorda da vicino ciò che è avvenuto in Giappone negli anni Novanta. Ma ricorda anche le vicende degli anni Trenta. In questo momento non siamo ancora in depressione, e nonostante tutto io non credo che andremo incontro a una depressione (anche se non ne sono del tutto sicuro). Siamo però in presenza di una tipica economia della depressione. 10. IL RITORNO DELL’ECONOMIA DELLA DEPRESSIONE L’economia mondiale non sta vivendo un momento di depressione; e, probabilmente, non è destinata a viverlo nell’immediato futuro. Ma, se la depressione non è tornata, l’economia della depressione – quel particolare tipo di fenomeni che hanno caratterizzato gran parte dell’economia mondiale negli anni Trenta, e che da allora non si erano più fatti vedere – è ricomparsa sulla scena. Cinque anni fa quasi nessuno pensava che le nazioni moderne avrebbero potuto essere costrette a sopportare terribili recessioni per difendersi dalle speculazioni valutarie; che un grande paese industrializzato non sarebbe riuscito a investire abbastanza per mantenere occupati lavoratori e industrie; che anche la Federal Reserve avrebbe messo in discussione la propria abilità di fronte al panico dei mercati finanziari. Abbiamo scoperto che l’economia mondiale è molto meno rassicurante di quanto potessimo immaginare. Come ha fatto il mondo a diventare un posto così poco sicuro? Meglio ancora, cosa possiamo fare per renderlo più sicuro? In questo libro vi ho raccontato molte cose; è arrivato ora il momento di trarre una conclusione. Che cosa è l’economia della depressione? Che cosa vuol dire che è ritornata l’economia della depressione? Essenzialmente vuol dire che, per la prima volta da due generazioni, la scarsità della domanda – una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva che abbiamo a disposizione – è ormai diventata un chiaro ostacolo al benessere di gran parte del mondo. Noi – e con questo mi riferisco agli economisti, ma anche ai politici e in generale a tutti quelli che hanno un buon livello d’istruzione – non ce l’aspettavamo. Quell’insieme di nozioni che prende il nome di «economia dell’offerta» costituisce una teoria che funziona male, e che avrebbe avuto poco successo se non avesse fatto presa sui preconcetti della gente; ciò nonostante, negli ultimi anni, il pensiero economico si è sempre più spinto a enfatizzare il ruolo dell’offerta, piuttosto che quello della domanda. Questo fenomeno è in gran parte frutto di dispute teoriche tra gli economisti, che – come succede spesso – filtrano gradualmente all’esterno, in forma confusa, ed entrano a far parte dei discorsi di tutti i giorni. In breve, la radice delle dispute teoriche è questa: tutte le riduzioni della domanda potrebbero andare a posto da sole, se solo i salari e i prezzi fossero in grado di adeguarsi all’aumento della disoccupazione. Nella storia della cooperativa di baby-sitter uno dei modi in cui la situazione poteva andare a posto da sola era che il prezzo in buoni di un’ora di baby-sitter diminuisse, così da far aumentare il potere d’acquisto dei buoni in circolazione, e da far tornare la cooperativa alla piena occupazione. Nella realtà di tutti i giorni questo non succede o, se succede, impiega molto tempo, anche se gli economisti non hanno ancora capito esattamente il perché. Di conseguenza c’è stata una lunga serie di discussioni accademiche che ha fatto del dibattito sulla recessione e sulle sue cause un vero e proprio campo di battaglia, nel quale sempre meno economisti osano avventurarsi; alla fine la gente è arrivata alla conclusione che, o gli economisti non capiscono le recessioni, oppure i rimedi economici che si concentrano sulla domanda non sono attendibili. La verità è che la buona vecchia macroeconomia che si concentra sulla domanda ha ancora molto da dirci – ma i suoi sostenitori, a differenza dei suoi critici, non risultano più convincenti. Paradossalmente, se le debolezze dell’economia che si basa sulla domanda sono uno dei motivi per cui eravamo impreparati al ritorno dell’economia della depressione, lo stesso si può dire a proposito dei suoi successi. Mentre gli economisti discutevano tra di loro se la politica monetaria dovesse essere utilizzata per tirare fuori un’economia dalla recessione, le banche centrali avevano tagliato corto e si erano semplicemente messe a farlo – e lo avevano fatto così bene che sembrava improponibile l’idea che una prolungata recessione economica potesse essere motivata da una scarsità di domanda. La Federal Reserve e le banche centrali degli altri paesi potevano sempre tagliare i tassi d’interesse in modo da mantenere elevata la spesa; quindi, a eccezione che nel brevissimo periodo, l’unico compito di un sistema economico era quello di produrre. Ancora oggi molti economisti continuano a considerare le recessioni come un problema di secondo piano, un oggetto di studio poco degno d’attenzione; attualmente le ricerche si concentrano su argomenti quali il progresso tecnologico e la crescita di lungo periodo. Sono argomenti interessanti, problemi importanti, e nel lungo periodo sono quelli che conteranno di più – ma, come ha sottolineato Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti. Nel frattempo, nel breve periodo, il mondo sta passando da una crisi all’altra, e ognuna di queste indica che il problema più importante è oggi quello di mantenere abbastanza elevato il livello della domanda. Il Giappone sta scoprendo che le tradizionali politiche monetarie e fiscali non bastano più; se è capitato al Giappone, come possiamo essere sicuri che un’economia europea, o addirittura un’economia in crescita come quella degli Stati Uniti, non possa cadere a sua volta nella stessa trappola? Il Messico, la Thailandia, la Malesia, l’Indonesia, la Corea, il Brasile: un paese in via di sviluppo dopo l’altro è passato attraverso una recessione che, almeno temporaneamente, ha distrutto anni di progresso economico, e ha scoperto che le ricette economiche tradizionali servono solo a peggiorare le cose. Una volta di più il vero interrogativo è come mantenere il livello della domanda abbastanza elevato per utilizzare appieno la capacità produttiva disponibile. L’economia della depressione è tornata. Che cosa c’è in gioco? Il rischio più immediato che si corre in seguito al ritorno dell’economia della depressione è, naturalmente, che il danno si possa diffondere – che l’Argentina, o il Sud Africa, la Turchia, o (Dio ci aiuti) la Cina aggiungano il proprio nome alla lista dei paesi colpiti; che la deflazione in Europa o il crollo del mercato azionario negli Stati Uniti creino condizioni simili a quelle del Giappone in tutto il mondo industrializzato. Anche se tutto ciò rappresenta un’eventualità piuttosto remota, il progresso economico corre oggi un rischio più insidioso, perché è difficile che i liberi mercati riescano a sopravvivere in un mondo dove la scarsità di domanda rappresenta una minaccia continua. Ricordatevi della sintesi keynesiana. Quelli che hanno fiducia nel libero mercato tendono a considerare le cosiddette politiche keynesiane – gli sforzi del governo volti a stimolare la domanda – come il loro nemico numero uno. Ma si sbagliano, perché in un mondo dove la domanda è spesso insufficiente, la libertà dei mercati risulta essere un argomento difficile da sostenere. Cerchiamo di essere concreti e facciamo il caso dell’Argentina. Immaginiamo che il currency board dell’Argentina sopravviva, o addirittura che il paese abbandoni il peso in favore del dollaro – ma che, ipotesi alquanto realistica, attraversi una severa recessione e si trovi di fronte alla prospettiva di anni a elevata disoccupazione. Ora immaginatevi che un potente sindacato, o un gruppo di imprenditori, chieda al governo argentino di proteggere i posti di lavoro introducendo dazi doganali o quote d’importazione. La risposta più ovvia a una domanda di questo tipo è che, così facendo, non si creano posti di lavoro, ma si mantiene la situazione così come è: un dazio doganale può aumentare l’occupazione in un settore, ma almeno altrettanti lavori verranno persi altrove. Tutto ciò è sicuramente vero negli Stati Uniti, dove la pressione inflazionistica creata dal protezionismo su alcuni settori economici potrebbe portare la Federal Reserve ad aumentare i tassi d’interesse, e di conseguenza a tagliare un numero forse anche maggiore di posti di lavoro in altri settori. Ma, per un paese con un elevato tasso di disoccupazione, incapace di far aumentare la domanda per timore di incentivare la fuga di capitali, questo modo di affrontare il problema è semplicemente sbagliato. In questo preciso momento un dazio doganale aumenterebbe l’occupazione in Argentina, e sostenere il contrario sarebbe intellettualmente disonesto. Questo non vuol dire che l’Argentina – o Israele, o Hong Kong, o una delle tante economie che si trovano in una condizione simile – dovrebbe diventare protezionista, ma significa che dovremmo cominciare a pensare a come aumentare l’occupazione in queste economie, o il libero mercato è destinato a perdere progressivamente la sua ragione d’essere. Ancora una volta il giusto modo per cominciare ad affrontare il problema è quello di capire che il libero mercato, e in particolare la globalizzazione, hanno fatto molto per la razza umana; è dunque importante proteggere e incrementare i successi finora ottenuti. Oggi come negli anni Trenta, tuttavia, non ci si può difendere dalla globalizzazione solo ripetendo i mantra del libero mercato, mentre un sistema economico dopo l’altro sta crollando. Se vogliamo che i miracoli economici si moltiplichino, che sempre più nazioni passino dalla povertà più infima a una vita decente, faremmo meglio a trovare risposte ai problemi dell’economia depressione. della Accusare le vittime Ancor oggi molti non accettano l’idea che le recenti crisi economiche abbiano messo in evidenza l’esistenza di un problema interno al sistema. Al contrario, puntano il dito sulle debolezze dei singoli paesi e sugli errori commessi dai loro leader. Le banche giapponesi sono state eccessivamente prive di scrupoli, il padrone dell’Indonesia ha esagerato con la corruzione, i deficit di bilancio del Brasile hanno superato ogni limite. Seguite le giuste politiche e finirete per stare bene. Indubbiamente, per ogni nazione che ha sofferto i tipici problemi dell’economia della depressione, a un esame più attento si possono oggi riscontrare grossi limiti, anche se prima che le cose fossero cominciate ad andare male il paese era elogiato da tutti. Ma bisogna stare attenti a non trarre conclusioni affrettate. Immaginatevi un pezzo di autostrada che di recente è stato teatro di un inusuale numero di incidenti. Gli investigatori esaminano attentamente le cause di ogni incidente e praticamente in ogni caso trovano una spiegazione evidente: il guidatore ha bevuto troppo, i pneumatici sono troppo consumati, ha reagito male a una sbandata, e così via. La conclusione a cui giungono gli investigatori è che non è la strada ad avere problemi, ma i guidatori. Questa conclusione è assai poco obiettiva. Prima di tutto, se si osserva qualunque guidatore con sufficiente attenzione, si scopre che ha commesso una qualche imprudenza; questi guidatori sono forse peggiori della media? In secondo luogo, anche se si tratta di guidatori particolarmente imprudenti, questo non significa necessariamente che la strada non abbia avuto una parte di colpa: i buoni guidatori di solito subiscono meno incidenti su qualsiasi strada, ma alle buone strade non si chiede la perfezione. Allo stesso modo non si chiedono politiche perfette a un buon sistema economico. È incredibile osservare quante delle nazioni che più hanno sofferto in questi ultimi anni, dal Giappone alla Corea, erano state messe sul piedistallo non molto tempo fa; dato per assodato che i loro ammiratori si erano lasciati prendere eccessivamente la mano, queste nazioni erano veramente così mal gestite come la gente oggi è portata a pensare? O si tratta semplicemente di un fenomeno di «razionalizzazione ex post»? Mettiamola così: se gli Stati Uniti, che fino a oggi sono rimasti assolutamente al riparo dalla crisi di Asia e Sud America, dovessero barcollare, dopo un po’ di tempo ci sarebbe di sicuro qualcuno che ci spiega perché si siano meritati questa fine. Naturalmente gli hedge funds senza scrupoli, l’entrata sul mercato di piccoli investitori poco competenti, l’eccessiva offerta di credito al consumo, e il conseguente azzeramento del tasso di risparmio rappresentano tutti potenziali disastri. Quello che colpisce delle crisi economiche degli ultimi due anni è che i paesi coinvolti stavano applicando politiche in gran parte migliori di quelle del passato. Come ha affermato un brasiliano particolarmente scoraggiato, «il Brasile non ha mai avuto un governo così responsabile; lo scenario non è mai stato così favorevole al mondo degli affari; per quale motivo ci sta capitando tutto ciò?». E questa frase era precedente alla catastrofe di gennaio. Questo desiderio di accusare le vittime prende forme diverse. C’è quella che chiamo «teoria del pericolo incombente», secondo la quale le recessioni rappresentano una punizione meritata, persino necessaria, per errori commessi in precedenza. Il Giappone sta pagando ora (otto anni dopo!) il prezzo per gli eccessi speculativi della sua «economia gonfiata», e l’Asia per il boom «prendi in prestito e spendi» degli anni Novanta; e non c’è nient’altro da fare se non, come ha detto Schumpeter negli anni Trenta, lasciare che la depressione faccia il suo corso. La teoria del pericolo incombente è particolarmente allettante non perché offre facili risposte, ma proprio perché non le offre; chi fa ricorso a questa teoria ha la piacevole sensazione di avere la coscienza a posto, e di fronte agli altri, in fondo, può anche vantarsi di avere un cuore. Ma questa teoria è completamente sbagliata. Ci sono stati senza dubbio degli eccessi; molti investimenti andranno persi, anche se le economie alla fine si riprenderanno. Tutto ciò non rappresenta comunque un buon motivo per affermare che incauti investimenti fatti nel passato debbano per forza lasciare lavoratori esperti senza lavoro e far chiudere fabbriche perfettamente funzionanti. Se il mercato azionario degli Stati Uniti dovesse crollare domani, nessuno si aspetta che Alan Greenspan faccia qualcosa per evitare perdite ai risparmiatori; ma di certo lo accuseremmo di disonestà se non facesse il possibile per evitare che le perdite azionarie provochino disoccupazione di massa. Una tentazione simile è quella di considerare una recessione come la prova che l’economia ha problemi strutturali che vanno risolti prima che quest’ultima possa riprendersi – il che equivale ad affermare che sarebbe sbagliato cercare di stimolare la domanda e stimolare la ripresa, perché tutto ciò finirebbe per indebolire la spinta al cambiamento. Il modello economico del Giappone, ci hanno detto, è fallito: i suoi manager hanno una mente troppo ristretta, le sue aziende sono troppo poco orientate ai risultati, le sue banche sono troppo poco indipendenti dai clienti. Non ci si deve dunque meravigliare che l’economia sia stagnante; una severa recessione, che finirà per dare un bello scossone al sistema, alla fine si rivelerà un toccasana per il futuro del Giappone. (Un economista giapponese mi ha detto: «La tua proposta darebbe solo la possibilità a queste persone di continuare a fare affari come hanno sempre fatto, proprio quando le cose stanno finalmente cominciando a cambiare».) Ma non tutti i grandi problemi sono strutturali – qualche volta quello di cui ha bisogno una macchina in panne è solo di una bella spinta – e, poiché noi tutti abbiamo problemi strutturali, sappiamo bene che il miglior modo per curarli è con il benessere piuttosto che con la depressione. Inoltre stiamo attenti a non parlare troppo presto di successo. Poco prima del crollo del Brasile a gennaio, i funzionari di Washington e di altri paesi stavano cominciando a mostrarsi particolarmente soddisfatti. La Corea sembrava aver superato il peggio; il Giappone cominciava a mostrare alcuni segni di crescita; le loro politiche stavano funzionando. Tutto ciò equivale a dire che il programma di sicurezza delle autostrade funziona perché la maggior parte delle vittime degli incidenti sopravvive e, addirittura, cerca di camminare di nuovo. Dovrà passare ancora un bel po’ di tempo prima di poter dire di aver messo definitivamente fine al ritorno dell’economia della depressione. Proteggere i ricchi Il mondo è un posto dove la giustizia non è di casa. Di solito i paesi ricchi sono fortunati da ogni punto di vista. Non solo sono ricchi ma, di solito, hanno anche governi stabili ed efficienti. E di norma gli investitori e i mercati tendono a concedere loro il beneficio del dubbio. Tutto ciò dà loro una grande libertà d’azione, una capacità di far fronte ai problemi economici, che le nazioni più povere possono solo invidiare. Ciò nonostante, il Giappone ci ha mostrato che perfino una nazione industrializzata può rimanere vittima di una recessione; i paurosi eventi dello scorso autunno suggeriscono che anche i paesi industrializzati continuano a correre il rischio di vivere una crisi finanziaria. Che cosa possono fare per proteggersi? Ho già spiegato quello che dovrebbe fare il Giappone (capitolo 4): dopo essere rimasto bloccato nella sua trappola della liquidità – incapace di riprendersi usando i tradizionali strumenti di politica monetaria, perché anche un tasso d’interesse pari a zero non è abbastanza basso – e dopo avere esaurito le possibilità di cavarsela con i deficit di bilancio, il Giappone deve ora aumentare radicalmente la sua offerta di denaro, allo scopo di convincere i risparmiatori e gli investitori che l’attuale deflazione si trasformerà in un’inflazione prolungata, ma non eccessiva. Quando i giapponesi decideranno di perseguire questa strada, il risultato li sorprenderà; ma ci vorrà del tempo prima che si convincano che una decisione così radicale rappresenta l’unico modo per uscire da questa situazione. Gli Stati Uniti e l’Europa non sono caduti nelle trappole della liquidità, quindi il loro principale compito dovrebbe essere quello di evitare di caderci. La misura precauzionale più ovvia è quella di assicurarsi che l’inflazione non si abbassi troppo quando la situazione economica è buona: si deve fissare un tasso di riferimento almeno del 2%, così che i tassi d’interesse reali possano scendere sotto questa soglia, o anche arrivare a zero se la situazione lo richiede. In base a questi criteri gli Stati Uniti, al momento in cui sto scrivendo, stanno facendo più o meno la cosa giusta; invece la politica monetaria europea è ancora di stampo troppo conservatore: la crescita sta rallentando, l’inflazione è a meno dell’1% e sta ancora calando e il tasso d’interesse al 3% è troppo basso per poter servire a contrastare future recessioni. Mi auguro che, quando questo libro verrà pubblicato, la Banca Centrale Europea si sarà mossa in maniera aggressiva per tagliare i tassi e incentivare la crescita; se non lo avrà fatto, la trappola della liquidità potrebbe nel frattempo avere mietuto un’altra vittima. Nel lungo periodo sarebbe una buona idea cercare di limitare alcune delle debolezze messe a nudo dai recenti episodi avvenuti sul mercato. Il timore nei confronti degli hedge funds ha mostrato che i mercati finanziari, che creano molte istituzioni con funzioni simili a quelle delle banche ma prive dei loro sistemi di sicurezza, hanno fatto tornare d’attualità il problema del panico finanziario. Cerchiamo di capire chi deve cosa a chi, e costruiamo nuove porte a tenuta stagna, prima che la crisi ritorni. Infine, se la crisi dovesse comunque arrivare, la regola da seguire è semplice: tagliare i tassi d’interesse in maniera drastica, senza esitazione. Sebbene Greenspan creda che i titoli azionari statunitensi siano sopravvalutati, ritengo che non farà lo stesso errore che hanno fatto i giapponesi quando la loro economia è crollata a picco, vale a dire aspettare a tagliare i tassi d’interesse quando ormai è troppo tardi. Ho meno fiducia della Banca Centrale Europea, ma speriamo che i suoi responsabili possano capire. Nel complesso sento di avere la coscienza pulita riguardo ai paesi industrializzati. Quel che voglio dire è che le soluzioni a questi problemi non sembrano necessitare di operazioni troppo dolorose. In particolare non esiste nessuno specifico motivo che indichi che l’inflazione al 2% in Europa e negli Stati Uniti, o l’obiettivo del 4% in Giappone, possa creare problemi a qualcuno; per contrastare l’economia della depressione i paesi industrializzati non devono comunque scendere a compromessi sul tema del libero mercato. Il compito che si trovano davanti i paesi in via di sviluppo, al contrario, sembra più difficile. Aiutare i poveri Mentre stavo finendo questo capitolo, a Davos l’élite economica mondiale, invece di congratularsi a vicenda come era solita fare, stava combinando il diavolo a quattro. Ognuno accusava il Fondo Monetario Internazionale del disastro avvenuto in Brasile, chiedendo le dimissioni del direttore e anche l’abolizione di questa stessa istituzione. Ma i critici sembravano più in disaccordo tra di loro di quanto non lo fossero nei confronti delle politiche del Fondo Monetario Internazionale. Alcuni affermavano che il Brasile avrebbe dovuto fissare in maniera permanente il valore del real, una volta per tutte, istituendo un currency board di tipo argentino. Altri ancora sostenevano che la valuta doveva essere lasciata libera di fluttuare e che l’errore più grande era stato quello di aumentare i tassi d’interesse per sostenerla. Altri ancora, naturalmente, dicevano che il Brasile avrebbe dovuto stabilire controlli sui capitali per limitare i fenomeni speculativi. La cosa strana è che tutte queste critiche erano, fino a un certo punto, corrette. Forse la politica del Fondo Monetario Internazionale – che difende il tasso di cambio a un costo enorme, ma che non riesce né a garantire il successo delle sue decisioni, né a imporre limiti alle speculazioni in caso di fallimento – ha creato il peggiore di tutti i mondi possibili. A questo punto potrebbe essere meglio, piuttosto che rimanere a metà strada, fare una scelta precisa – un tasso di cambio libero di fluttuare, un currency board o un regime di controlli sul capitale. Detto ciò, rimango scettico sulla possibilità di ritornare al currency board. Per ripetere ciò che ho già scritto nel capitolo 6, il currency board protegge un paese dalle speculazioni contro la sua valuta, ma non dalle speculazioni contro la sua economia; forse si diminuiscono i rischi, ma non è detto. E se un currency board fallisce – cosa probabile, a meno che le condizioni politiche siano molto favorevoli al suo successo – il risultato sarà una terribile catastrofe, che lascia il governo senza credibilità alcuna. L’altra possibilità è quella di provare con la svalutazione: lasciare cadere il valore della valuta, senza alzare i tassi d’interesse. Tutto ciò funziona per i paesi industrializzati; forse anche in alcuni paesi in via di sviluppo. Ma alla luce di quello che è avvenuto in Brasile appare assai chiaro che la strategia opposta, quella di aumentare i tassi d’interesse nel tentativo di evitare che il denaro esca dal paese, è perdente da tutti i punti di vista. Non solo comporta conseguenze negative sull’economia reale; alimentando il pessimismo degli investitori spesso non riesce neanche a stabilizzare il tasso di cambio. Si potrebbe dunque concludere che, se il Brasile non avesse aumentato i tassi d’interesse per difendere il real, la valuta avrebbe evitato di continuare a perdere valore. È altrettanto vero che alcuni paesi asiatici che hanno seguito la politica degli alti tassi d’interesse stanno cominciando a riprendersi; per fortuna non tutti gli incidenti si rivelano mortali. Ma che cosa succede se la svalutazione non è praticabile, perché le aziende hanno molti debiti in valuta estera o perché la gente perde troppo facilmente fiducia nella valuta? In questo caso è difficile immaginare come evitare il controllo sui movimenti di capitali, una sorta di coprifuoco alla fuga di capitali che facilita il ritorno alla calma. Molti difensori del libero mercato reagiranno con orrore a quest’idea: per loro investire il denaro dove vogliono è un sacrosanto diritto. Ma, così come il diritto alla libera espressione non necessariamente include il diritto a gridare «Al fuoco!» in un teatro affollato, il principio del libero mercato non necessariamente comporta che gli investitori possano calpestarsi l’un l’altro in preda al panico. Perché questo è proprio quello che succede nel corso di una crisi. Il Brasile sarebbe un posto piuttosto sicuro dove investire, se non fosse per il rischio della crisi – vale a dire, sarebbe sicuro se ogni investitore fosse certo che gli altri investitori non sono in procinto di portare all’estero i loro capitali. Ma gli investitori non hanno fiducia l’uno nell’altro, e la crisi inizia puntualmente. Il fatto è che, quando la crisi minaccia di esplodere, sarebbe nell’interesse non solo del paese, ma degli stessi investitori, imporre controlli d’emergenza sui capitali – come è nell’interesse di tutti se la popolazione di una città colpita dal terremoto ottiene il coprifuoco dal governo. Avere la certezza che, se necessario, i controlli verranno imposti, potrebbe addirittura rassicurare, e non scoraggiare, gli investitori di lungo periodo, una volta che questi ultimi si fossero abituati all’idea. Forse un modo facile per riassumere questo concetto è il vecchio invito ad andare a messa se si vuole, ma ad andarci, dannazione. In una crisi finanziaria un governo deve avere un ruolo determinante. Tuttavia la cosa migliore sarebbe quella di prevenire la crisi ancor prima che nasca. È possibile? Al giorno d’oggi ognuno è favorevole a ricevere più informazioni su banche e aziende, al fatto che i rischi finanziari siano oggetto di controlli più attenti, e così via. A questo punto non resta che trasformare tutto ciò in realtà. Abbiamo inoltre bisogno di trovare il modo per ridurre l’intensità dei circoli viziosi descritti nel capitolo 5. Visto che stiamo parlando di provvedimenti di lungo periodo, c’è ancora un po’ di tempo per discutere; il mio personale suggerimento è che i governi tentino di scoraggiare le aziende nazionali a chiedere prestiti in valuta estera e, forse, anche a fare eccessivo affidamento sul denaro preso a prestito in generale. Il miglior modo per raggiungere questo scopo è probabilmente quello di tassare le aziende che chiedono prestiti in valuta estera. I paesi potrebbero così far cadere le valute senza provocare collassi finanziari e, di conseguenza, prevenire possibili crisi finanziarie. Non mi piace l’idea che le nazioni abbiano bisogno di interferire sull’andamento dei mercati – che debbano porre dei limiti al libero mercato, in modo da proteggerlo. Ma è difficile immaginare che si possa continuare a fare a meno di questi provvedimenti, e a credere che i mercati finanziari ricompensino sempre la virtù e puniscano il vizio. Orgoglio e pregiudizio Pochi giorni prima che scrivessi queste pagine, il presidente Cardoso rifiutò l’idea dei controlli sul capitale, affermando che imporli avrebbe voluto dire mettere fine alle speranze del Brasile di poter mai diventare uno stato di prim’ordine. Tutto ciò avvenne mentre le newsletter finanziarie speculavano sul fatto che il Brasile avrebbe potuto dichiararsi inadempiente, addirittura decidere la chiusura delle banche, e mentre gli analisti facevano la gara a chi aumentava di più la sua stima di calo della produzione. Non si poteva fare a meno di sentirsi dispiaciuti per Cardoso, che aveva fatto del suo meglio, ma che non era stato ricompensato per i suoi sforzi. Aver scoperto che il Brasile non era pronto per nuotare nel mercato mondiale dei capitali senza un salvagente rappresentava un’umiliazione terribile. Tuttavia il suo paese non poteva permettersi un’eccessiva dose di orgoglio. Aveva bisogno di risolvere la situazione, e se l’unico modo per farlo era imporre i controlli sul capitale, che questi fossero i benvenuti. Dopo tutto, anche la maggior parte dei paesi oggi industrializzati aveva imposto controlli sui capitali per molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale; questi ultimi diventarono ricchi e, solo in un secondo tempo, si aprirono ai movimenti del libero capitale, non viceversa. In verità l’orgoglio è un lusso che al giorno d’oggi nessuno di noi può permettersi. Se, come dice qualcuno, in Giappone il movimento d’opposizione all’espansione monetaria nasce in parte da funzionari che si sentono sminuiti da uno yen debole, che temono che la loro valuta scompaia ora che l’euro è il principale antagonista del dollaro, questi ultimi dovrebbero vergognarsi. A questo proposito rappresenta invece un ottimo segnale il fatto che i funzionari europei, che fino a poco tempo fa sembravano considerare un euro forte il più importante obiettivo della nuova Unione Monetaria, stiano ora dando priorità al mantenimento dell’occupazione e alla lotta alla deflazione. Un altro modo con cui l’orgoglio può ostacolare la capacità di prendere le decisioni giuste è rappresentato dal pregiudizio – e con questo termine intendo il fatto che molte persone influenti aderiscano a visioni economiche ortodosse che non hanno più rilevanza in un mondo come quello attuale. Vent’anni fa, anche quando i paesi industrializzati avevano un tasso d’inflazione a due cifre, quando i controlli sugli scambi con l’estero erano fonte di grandi distorsioni economiche e di una diffusa corruzione, predicare le virtù della stabilità dei prezzi e della convertibilità valutaria voleva dire far andare il mondo nella direzione giusta. Ma oggi non viviamo più in un mondo che ha le stesse caratteristiche di allora, e quelli che ieri erano gridi di guerra sono ora diventati dottrine pericolose. Non volersi chiedere se l’inflazione a tasso zero rappresenti una situazione auspicabile quando il vostro paese sta per cadere nella trappola della liquidità, rifiutare di prendere in considerazione l’eventualità di controllare i movimenti di capitale quando i timori degli investitori cominciano a farsi realtà, significa dare più valore del dovuto alle politiche economiche del passato. Chiunque cerchi di discutere di economia fuori dai confini accademici acquista rapidamente una visione un po’ cinica. Tuttavia c’è qualcosa di incredibile a proposito della rigidità mentale di persone così importanti, non solo funzionari governativi, ma anche giornalisti ed economisti di professione. L’analisi economica non è, o in ogni caso non dovrebbe essere, un insieme di regole valide in tutte le occasioni; dovrebbe invece essere un modo di pensare, qualcosa che permetta di adattare le risposte a un mondo in continua evoluzione. Quello che continua a dare valore all’economia è proprio il fatto che dai vecchi modelli si possono imparare nuove soluzioni – capire come si sviluppano le recessioni può essere utile per uscire da una situazione che non si riesce a curare con gli strumenti tradizionali. Ma l’anno passato sono rimasto colpito nell'osservare quanta gente continui a rifiutare questo modo di pensare, e si ostini a mettere assieme nuovi modelli solo per giustificare le vecchie soluzioni. Quelli che si preoccupavano di portare in pareggio i bilanci quando il problema numero uno era quello dei deficit fuori controllo, oggi insistono nell'affermare che aumentare le tasse e tagliare la spesa può aiutare a prevenire una recessione, perché aumenta il livello di fiducia. Quelli che volevano prezzi stabili quando l’inflazione era il rischio principale, ora affermano che «la gestione dell’inflazione» avrà un futuro, perché in Giappone – ma in nessun altro posto al mondo – una valuta più debole e tassi d’interesse reali più bassi hanno finito per ridurre la domanda. Se queste affermazioni si fossero basate su politiche non ortodosse, allora sarebbero giustamente state giudicate prive di senso; insistere nel difendere l’ortodossia, invece, sembra che al giorno d’oggi non rappresenti un reato. Tutto ciò ci riporta al senso più profondo che ha accompagnato il ritorno dell’economia della depressione. Si potrebbe riassumere la situazione economica attuale con la frase «Non si può mangiare senza pagare»; vale a dire che ci sono risorse limitate, che per avere più di una cosa devi accettare di averne meno di un’altra, che non si può continuare a non soffrire. L’economia della depressione, tuttavia, si occupa di studiare situazioni in cui, se solo riuscissimo ad approfittarne, si potrebbe effettivamente mangiare senza pagare, perché ci sono risorse non sfruttate che aspettano solo di esserlo. Nel 1930 John Maynard Keynes scrisse che «ci siamo ficcati in un bel pasticcio, abbiamo dovuto cominciare a guidare una macchina estremamente sensibile di cui non conosciamo il funzionamento». Nel suo mondo – e nel nostro – non sono le risorse, o le virtù, a mancare, ma la capacità di comprensione. Non riusciremo mai a imparare quanto dovremmo, tuttavia, se non iniziamo ad affrontare lucidamente i nostri problemi e a seguire i nostri pensieri, ovunque ci conducano. Alcuni affermano che i problemi del Giappone, o dei paesi emergenti dell’Asia, o del Brasile sono strutturali e che non esiste alcuna cura disponibile nell’immediato; credo invece che gli unici veri ostacoli strutturali al benessere del mondo siano le dottrine obsolete che annebbiano la mente degli uomini. {1} Si tratta di un orientamento interventista della politica economica di ispirazione keynesiana, secondo il quale l’autorità di governo può e deve calibrare i propri interventi sulla domanda complessiva per una regolazione precisa del livello dell’attività produttiva e dell’occupazione, [n.d.t.] {2} Il verbo «to hedge», da cui deriva «hedge funds» (fondi d’investimento), vuol dire «limitare», [n.d.t.] {3} La terminologia «allo scoperto» e «a termine» è tecnica, ma si rivela troppo utile per non essere usata in questo libro. In linea di massima «a termine» significa mettersi in una posizione per cui si guadagna se i prezzi aumentano – la classica situazione che hanno di fronte gli investitori quando acquistano azioni, immobili o altro. «Allo scoperto» significa invece mettersi in una posizione per cui si guadagna se i prezzi diminuiscono. Per vendere un’azione in questo modo, la si deve chiedere in prestito dal suo proprietario, con la promessa di restituirla successivamente – e quindi la si vende. L’azione deve essere riacquistata prima della data di restituzione; l’operazione si basa tutta sulla previsione che il prezzo, entro quella data, scenderà. Chi vende l’azione entra in possesso di denaro liquido, che può essere investito in qualcosa d’altro – in altre parole sarà possibile effettuare un’operazione allo scoperto su qualche altra azione. Naturalmente i proprietari delle azioni prese a prestito devono essere sicuri che chi effettua l’operazione allo scoperto disponga di un sufficiente ammontare di denaro liquido per ricomprare successivamente le azioni, quindi possono eventualmente chiedere in cambio una qualche forma di garanzia. Quando un investitore che si impegna in un’operazione allo scoperto va incontro a pesanti perdite, di solito si rende conto di non essere più in grado di prendere a prestito come prima. A questo punto, quando questi investitori cominciano ad avere un certo peso sul mercato, le conseguenze, come vedremo tra breve, possono essere molto particolari.