sintesi proteica_1 - Diego Di Bernardo.

Sintesi proteica
Sintesi proteica - 1
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La chiave per comprendere i complessi meccanismi della regolazione
del metabolismo cellulare consiste nell’interpretare il flusso delle
informazioni che hanno luogo secondo regole comuni alla maggior parte
degli organismi viventi.
Le informazioni sono conservate all’interno della molecola del DNA e
possono essere sia riprodotte per duplicazione che utilizzate per
produrre un vero e proprio messaggio, che ha come obiettivo finale una
ben determinata azione chimica.
Alla base di questo processo, che appare semplice ma semplice non è,
si pone il cosiddetto dogma centrale della biologia molecolare:
l’informazione è immagazzinata nel DNA, che può sia replicarsi per
formare una seconda molecola identica che dare luogo al processo di
trascrizione che conduce ad una molecola di RNA a sua volta utilizzata
come modello per la sintesi di una specifica proteina (traduzione).
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Dogma centrale
della biologia molecolare
replicazione
DNA
trascrizione
trascrizione inversa
mRNA
traduzione
proteina
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La caratteristica fondamentale del dogma è la sua applicabilità
universale, dagli organismi più semplici (virus) a quelli più complessi
(eucarioti superiori).
Tra i primi sono riscontrabili, d’altro canto, importanti variazioni rispetto
allo schema riportato: esistono infatti virus la cui informazione genetica
è inscritta nell’RNA anzichè nel DNA.
Oltre a ciò, alcuni virus, detti retrovirus, all’interno della cellula ospite
infettata convertono il proprio patromonio genetico da RNA nella
corrispondente controparte di DNA in virtù dell’azione di un enzima
caratteristico, la trascrittasi inversa.
Un importante esempio di retrovirus è rappresentato dal virus HIV,
responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, meglio nota
come AIDS.
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La natura ha messo a punto un opportuno linguaggio per conservare e
scambiare le informazioni genetiche: si tratta di un linguaggio basato su
di un alfabeto a quattro lettere, tante quante sono le basi presenti nella
molecola del DNA.
Tutte le parole di questo linguaggio sono costituite da tre lettere e
vengono chiamate codoni; ogni codone identifica o uno specifico
amminoacido da utilizzare nella sintesi proteica o un segnale di
interruzione della sintesi stessa.
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Il processo di espressione del gene
Nessuna molecola è tanto importante quanto quella del DNA: essa
contiene infatti sia informazioni che presiedono ai processi di sintesi
proteica che sequenze preposte al loro controllo.
E’ proprio attraverso i meccanismi di espressione genica, e quindi di
sintesi proteica, che viene regolato il metabolismo cellulare e, in stadi
diversi della vita della cellula, vengono controllati la crescita ed il
differenziamento.
Il DNA è dunque il responsabile di tutti i fenomeni di evoluzione e
differenziazione di ogni essere vivente, dalla sua comparsa sulla terra.
Non solo, ma alla capacità del DNA di modificarsi per dare origine a
forme di vita nuove, con migliori caratteristiche di adattabilità
all’ambiente esterno, è legata la progressiva comparsa di nuove specie
viventi.
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Un clamoroso passo in avanti nelle conoscenze relative ai processi
genetici è legato alla determinazione della particolare struttura a doppia
elica della molecola di DNA: essa svolge una funzione essenziale nei
meccanismi di conservazione e di trasferimento delle informazioni
contenute nelle sequenze di nucleotidi che compongono le catene
lineari della doppia elica.
Dal momento che le basi G e C e
le basi A e T sono in grado di
stabilire reciproche selettive
interazioni, i due filamenti del DNA
devono essere complementari
affinché la struttura del DNA non
ne risulti distorta e le basi siano
correttamente accoppiate.
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Dal momento che tutta l’informazione genetica della cellula è depositata
nel DNA e poiché il DNA è una molecola lineare a doppio filamento, si
rende necessario un riarrangiamento strutturale che ne garantisca un
più agevole controllo sia sulle attività di replicazione e trascrizione, sia
sulla sua stessa ripartizione fisica al momento della divisione cellulare.
I cromosomi sono dunque
riorganizzazioni strutturali e funzionali
di DNA, RNA e proteine: in
particolare, accanto al DNA, nei
cromosomi eucariotici è stata
riconosciuta anche una classe di
piccole proteine basiche (istoni ) che
neutralizzano l’acido del DNA stesso e,
al contempo, lo compattano fino a
generare la struttura cromosomica
finale, contribuendo inoltre alla
regolazione dell’espressione genica.
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L’unità fondamentale dell’ereditarietà, il gene, è un frammento di DNA
in grado di codificare un prodotto specifico o, in generale, una o più
funzioni correlate: il processo di espressione genica per assemblare la
struttura amminoacidica di una proteina avviene in due fasi,
coinvolgendo una molecola di RNA messaggero (mRNA) quale
intermedio.
Nella prima fase del processo di espressione del gene (trascrizione) un
enzima detto RNA polimerasi catalizza la sintesi di una molecola di
mRNA usando il gene come modello; nella seconda fase, le informazioni
contenute nella sequenza dell’mRNA determinano la sintesi di uno
specifico polipeptide (traduzione).
Questa seconda fase richiede l’intervento dei ribosomi, in
corrispondenza dei quali avviene la sintesi proteica, e di diverse
molecole di RNA transfer (tRNA), che hanno il compito di guidare gli
amminoacidi nel processo di sintesi secondo la sequenza imposta
dall’mRNA.
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Volendo apprezzare con maggiore dettaglio il processo di espressione
genica, va anzitutto ricordato che la fase di trascrizione ha inizio
quando l’enzima RNA polimerasi si lega ad una regione del DNA
(promoter).
In prossimità del complesso formato da RNA polimerasi e DNA
promoter, la doppia elica del DNA si srotola parzialmente e l’enzima può
muoversi lungo il filamento modello nella direzione 3’→5’,
polimerizzando nella direzione opposta.
Ora, dal momento che il promoter impone alla polimerasi l’orientamento
sul DNA e che la polimerizzazione può avvenire in una sola direzione
(5’→3’), la polimerasi è obbligata a scegliere come modello uno solo dei
due filamenti complementari. Se da un lato deve essere scelto un unico
filamento di DNA, dall’altro non è detto che la scelta ricada sempre sullo
stesso: ciò dipende dal gene.
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Rispettando le regole di accoppiamento delle basi tra DNA ed RNA
DNA
A
↓
mRNA U
T
↓
A
C
↓
G
G
↓
C
la sequenza del DNA modello permette di identificare la sequenza di basi
nella molecola complementare di mRNA che scorre in senso antiparallelo
rispetto al filamento modello, ovvero in direzione 5’→3’.
La sintesi della molecola di mRNA ha termine quando l’enzima RNA
polimerasi incontra una sequenza particolare nel filamento di DNA modello
che segnala la fine del processo.
La lunghezza delle molecole di mRNA può variare da 300 a 3000 unità
nucleotidiche, anche se in generale ogni molecola di mRNA corrisponde ad
un gene del DNA modello negli eucarioti (messaggero monocistronico ), a
più di un gene nei procarioti (messaggero policistronico).
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E’ opportuno evidenziare una importante differenza tra procarioti ed
eucarioti:
• i procarioti sono privi di un involucro nucleare che separi il DNA dal
citoplasma; di conseguenza, man mano che il DNA viene trascritto, il
messaggio è già disponibile per la sintesi proteica, che dunque ha inizio
ancor prima che il messaggio stesso, non sottoposto ad ulteriori
maneggiamenti, sia ultimato.
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• per gli eucarioti, dotati invece di un compartimento nucleare distinto che
separa il DNA dal citoplasma, la situazione è più complessa: man mano
che avviene la trascrizione, la porzione 5’ del RNA è fornita di una
protezione (7-metilguanosina).
A trascrizione ultimata, l’estremo 3’ è poliadenilato e successivamente
l’RNA trascritto è sottoposto a splicing, cioè all’eliminazione di sequenze
interne non codificanti ( introni) e alla ricongiunzione, alle estremità, dei
tratti rimanenti codificanti (esoni).
Questo prodotto, ottenuto a livello del nucleo per processamento del RNA
trascritto primario, è il messaggero maturo, o mRNA, che fuoriesce nel
citoplasma attraverso i pori nucleari, per divenire disponibile alla sintesi
proteica; questo messaggero risulta dunque più corto rispetto alla
sequenza originaria del gene.
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Nella successiva fase di traduzione, le molecole di tRNA trasportano
ciascuna uno specifico amminoacido attivato: la specificità del trasporto è
dovuta al fatto che la molecola di tRNA possiede un enzima in grado di
riconoscere selettivamente l’amminoacido richiesto e non altri.
Oltre a ciò, la molecola di tRNA possiede
una sequenza di tre nucleotidi
(anticodone) che risulta complementare
ad una sequenza di altrettanti nucleotidi
(codone) della molecola di mRNA.
Nel linguaggio genetico ciascun codone
rappresenta una parola specifica per ogni
singolo amminoacido, necessario a
decifrare completamente il codice
genetico di qualunque organismo
vivente.
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Il DNA è costituito di quattro basi (lettere) e le possibili parole frutto della
combinazione di tre lettere alla volta sono 64: se si sottraggono le triplette
specifiche della terminazione della sintesi proteica, rimangono 61 possibili
triplette per i 20 amminoacidi da codificare.
C’è dunque una evidente ridondanza di codoni che viene dapprima risolta
sapendo che esistono 31 molecole di tRNA disponibili al trasporto dei 20
amminoacidi: quindi, alcuni amminoacidi sono trasportati da più di una
molecola di tRNA.
Inoltre, il passaggio dai 31 anticodoni di altrettante molecole di tRNA ai 61
codoni è garantito dal fatto che uno stesso tRNA può adattare il proprio
anticodone a più codoni diversi.
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Per dare avvio al processo di traduzione, la più piccola delle due subunità
del ribosoma si lega alla molecola di mRNA in corrispondenza di uno
specifico sito di legame localizzato ad una specifica distanza (diversa tra
procarioti e eucarioti) dal codone AUG che, assai spesso, dà inizio alla
sintesi: a partire dal codone AUG e procedendo in direzione 5’→3’ si segue
la sequenza di codoni che specificano la sequenza di amminoacidi del
polipeptide da sintetizzare.
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Una volta che si è stabilito il complesso tra mRNA e ribosoma, le molecole
di tRNA che portano i primi due amminoacidi si legano al complesso: a
questo punto si ha la formazione del legame peptidico.
Allora il ribosoma trasla verso il successivo codone ed avviene il rilascio del
tRNA del primo amminoacido ed il contemporaneo attacco del terzo.
Questo processo si ripete fino ad incontrare il codone che segnala il
termine della sintesi: a questo punto la molecola di mRNA si separa dal
ribosoma.
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Il codice genetico: ogni codone è identificato da tre basi, la cui diversa
combinazione indica diversi amminoacidi;
tre codoni segnalano la fine della sintesi.
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Sito di ancoraggio
al ribosoma
Promoter
Codone
di inizio
Codone
di terminazione
Terminatore
DNA
Trascrizione
RNA
Traduzione
proteina
Il processo di espressione genica: il DNA deve possedere le informazioni
relative al controllo della traduzione (sito di ancoraggio del ribosoma,
codoni di inizio e di terminazione), così da poterle trascrivere nella
molecola di mRNA.
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Spesso, nel processo di traduzione intervengono più ribosomi per volta,
opportunamente ancorati al filamento di mRNA: si parla allora di polisoma
che, al microscopio elettronico, appare come un filo ( mRNA) di perle
(ribosomi) e in questo modo, con meccanismi di elevata organizzazione e
di efficiente controllo, si può rendere assai più rapida la sintesi proteica.
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Modificazioni post-traduzionali
Il polipeptide ottenuto per traduzione dell’mRNA solitamente non è il
prodotto finale nella forma biologicamente attiva. In alcuni casi viene
rimossa la metionina N-terminale, oppure le coppie di cisteina vengono
ossidate per dare un ponte disolfuro, determinante ai fini della struttura
della proteina. In altri casi, ai gruppi laterali di alcuni amminoacidi
vengono legati gruppi funzionali carboidrati per dare origine alle
glicoproteine.
Alcuni peptidi presentano, in corrispondenza del terminale amminico, una
breve sequenza di residui idrofobici (sequenza segnale), che svolge un
ruolo importante nel trasporto attraverso la membrana cellulare quando le
proteine vengano secrete; una volta superata la membrana, queste
sequenze idrofobiche sono rimosse per dare la forma finale della proteina.
Con prefisso “pre-” si indica la proteina che supporta la coda idrofobica,
per distinguerla dalla proteina nella sua forma finale.
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L’espediente di legare alla proteina una sequenza di amminoacidi da
rimuovere prima dell’utilizzo finale, consente alla cellula di provvedere alla
sintesi proteica in una medesima regione, per poi dirigere ed “attivare” le
diverse proteine ove ne sia richiesta la presenza, sia all’interno che
all’esterno della cellula stessa.
Un esempio di come questo meccanismo venga applicato è dato dalla preproinsulina.
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Induzione e repressione della sintesi proteica
I meccanismi di induzione e di repressione rappresentano gli strumenti di
controllo utilizzati nella sintesi delle proteine a livello cellulare, responsabili
della velocità con cui gli enzimi vengono prodotti e, di conseguenza, della
loro concentrazione.
In realtà, questi meccanismi sono stati completamente investigati e
compresi solo per gli organismi più semplici, quali i batteri; per quelli più
evoluti, si suppongono meccanismi di controllo più sofisticati.
I batteri sono organismi semplici dal punto di vista evolutivo, in grado di
adeguarsi alle mutevoli condizioni dell’ambiente esterno per la loro
sopravvivenza. In particolare, i batteri devono sintetizzare enzimi diversi in
funzione dei diversi nutrienti che sono di volta in volta disponibili: un
esempio eclatante di versatilità è fornito dal batterio Pseudomonas
multivorans che può utilizzare fino a 90 diverse fonti di carbonio (!) dai
carboidrati agli acidi organici, dai composti azotati al fenolo.
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Dal momento che per ogni nutriente è richiesta la sintesi di più enzimi, il
batterio deve possedere nel suo patrimonio genetico le informazioni utili
alla sintesi di moltissimi enzimi.
Si indica con il nome di genotipo il complesso di informazioni contenute
nel DNA, mentre il fenotipo rappresenta l’insieme di informazioni di volta
in volta espresse.
Il fenotipo deriva dalla combinazione del genotipo e delle caratteristiche
dell’ambiente esterno che evidentemente influenzano la velocità di sintesi
degli enzimi.
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Secondo il modello biochimico previsto da Monod, induzione e repressione
hanno luogo secondo processi analoghi, che regolano l’espressione del
gene a livello di trascrizione.
La gamma di proteine sintetizzate dalla cellula e le corrispondenti funzioni
biologiche ed attività catalitiche, possono variare in funzione di come
cambiano le caratteristiche dell’ambiente esterno.
Questo fatto rende difficile la modellazione cinetica delle reazioni coinvolte
nel metabolismo cellulare e, conseguentemente, ostacola la progettazione
dei bioreattori .
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Dogma centrale
della biologia molecolare
replicazione
DNA
trascrizione
trascrizione inversa
mRNA
traduzione
proteina
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Duplicazione del DNA
Dal momento che il DNA contiene tutte le informazione necessarie allo
sviluppo ed al funzionamento delle cellule viventi, è fondamentale che il
processo di “copiatura” del DNA sia garantito contro ogni possibile errore.
Quando la cellula si riproduce, ciascuna cellula figlia riceve lo stesso
identico patrimonio genetico: avviene infatti che la doppia elica del DNA
contenuto nella cellula madre si srotola, dando origine ai due filamenti
complementari separati, ciascuno dei quali apparterrà a ciascuna delle
cellule figlie assieme al proprio complementare di cui ha diretto, fungendo
da modello, la sintesi.
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In realtà, la duplicazione del DNA
procede secondo un meccanismo
più complesso, che coinvolge un enzima
detto DNA polimerasi.
Questo enzima dirige la sintesi dei
filamenti figli complementari,
appoggiandosi ai filamenti madre
in direzione 5’→3’.
L’enzima DNA ligasi
è poi responsabile dell’accoppiamento
fra i diversi frammenti.
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Esistono alcune diversità nella conservazione e nella duplicazione del DNA
tra cellule eucariotiche e procariotiche.
Le cellule procariotiche possiedono un singolo cromosoma, trasportatore
delle informazioni genetiche, costituito da una molecola circolare a doppia
elica di DNA. Questa molecola misura 1.2 millimetri di lunghezza, ha uno
spessore di circa 20 Å e conserva informazioni utili a codificare oltre 2000
proteine.
Nelle cellule eucariotiche, dotate di un compartimento nucleare distinto,
un cromosoma è costituito da una molecola di DNA associata a diverse
proteine e anche ad alcune molecole di RNA, ed ogni cellula è fornita di
più cromosomi; alcuni organismi eucariotici possono essere sia aploidi
(ogni cromosoma presente una sola volta) che diploidi (lo stesso
cromosoma presente due volte).
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Si indica con il termine mutazione ogni variazione nella sequenza
nucleotidica del DNA che venga poi trasferita alle generazioni successive.
In una certa misura, la mutazione rappresenta un fenomeno spontaneo
che ha comunemente luogo con una incidenza estremamente bassa,
dell’ordine di un errore ogni 106 duplicazioni geniche, secondo i seguenti
modelli.
Nel caso dell’anemia, questo fatto provoca cambiamenti nelle
caratteristiche della molecola di emoglobina dal momento che
l’amminoacido Glu viene sostituito da Val: il primo viene codificato dai
codoni GAA e GAG, mentre il secondo dai codoni GUA e GUG.
Appare evidente che anche la sola variazione di un paio di basi in un
cromosoma può causare problemi genetici gravissimi; in altri casi, la
mutazione del codone può provocare la produzione anticipata di segnali di
terminazione della sintesi proteica.
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Gene wild-type
A
T
T
C
C
G
A
C
T
T
A
A
G
G
C
T
G
A
Inserzione
A
T
T
C
C
T
G
A
C
T
T
A
A
G
G
A
C
T
G
A
A
T
T
C
C
A
C
T
T
A
A
G
G
T
G
A
Transizione
A
T
T
C
T
G
A
C
T
T
A
A
G
A
C
T
G
A
T
T
C
G
G
A
C
T
A
A
G
C
C
T
G
A
Delezione
Transversione
A
T
Esempi di mutazioni genetiche
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Le mutazioni spontanee possono avere luogo secondo meccanismi diversi.
Innanzitutto, la mutazione può essere dovuta all’errato accoppiamento fra
le basi nucleotidiche, quando queste non siano presenti nella loro forma
predominante ma in forme tautomeriche.
Un’altra possibile causa di mutazione spontanea è legata alle interferenze
con gli enzimi responsabili della sintesi del DNA.
Infine, alcuni composti intermedi del normale metabolismo cellulare
(perossidi, acido nitroso, formaldeide) risultano mutageni e possono
provocare alterazioni nella struttura del DNA.
L’azione degli agenti chimici mutageni è stata ampiamente studiata
osservando la crescita di colture cellulari in ambienti opportunamente
arricchiti con questi composti.
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Agente mutante
Effetto provocato
Basi analoghe
Inserimento nel DNA al posto delle basi
naturali
Acido nitroso
Deamminazione di purina e pirimidina
Proflavina, acridina arancio
Intercalazione fra la sequenza di basi nel
DNA
Agenti di alchilazione
Depurinazione del DNA
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Una ulteriore causa di mutazione è rappresentata dalle radiazioni: i raggi
UV, in particolare, vengono fortemente assorbiti dal DNA al punto che
molte cellule ne vengono uccise e quelle che sopravvivono manifestano
una elevata velocità di mutazione.
Va osservato che tutte le cellule possiedono enzimi in grado di riparare i
frammenti di DNA eventualmente danneggiati dai raggi UV.
In molti casi, le mutazioni conducono alla comparsa di specie mutanti che,
dal punto di vista dei processi biotecnologici, risultano più interessanti
della specie originale; in questa prospettiva, risulta vantaggioso provocare
mutazioni selettive e controllate di alcuni ceppi di cellule per ottenerne
altre, mutate, con caratteristiche migliori in termini di produttività.
Diventano dunque essenziali, a questi fini, i metodi necessari
all’isolamento delle specie mutanti.
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Tecnologia del DNA ricombinante
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La tecnologia del DNA ricombinante consiste in un insieme di tecniche di
manipolazione del DNA attraverso cui è possibile:
• isolare una qualsivoglia sequenza genica eucariotica, virale o
batterica;
• definirne il messaggio in termini di sequenza nucleotidica ed
eventualmente alterarlo inserendo modifiche mirate.
Il frammento di DNA così ottenuto (od eventualmente anche sintetizzato
artificialmente) viene clonato, ovvero amplificato previa introduzione in un
ospite unicellulare (procariotico od eucariotico): l’ospite, oltre a produrre
svariate copie identiche del frammento di DNA, può anche essere indotto
a tradurne il messaggio in un prodotto proteico, isolabile e purificabile.
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Il materiale genetico può essere estratto dalle cellule sottoponendo queste
ultime a shock osmotico o frammentazione meccanica o sonicazione: si
interrompe così la continuità della membrana plasmatica, il materiale
intracellulare fuoriesce ed è frazionabile per centrifugazione, consentendo
di isolare il DNA, l’RNA totale e gli altri componenti cellulari.
Il DNA è quindi sottoposto a frammentazione per idrolisi enzimatica del
legame fosfoestereo dello scheletro zucchero-fosfato: gli enzimi impiegati
sono di origine batterica e prendono il nome di endonucleasi (enzimi che
introducono dei tagli per idrolisi negli acidi nucleici) di restrizione (perché
riconoscono sequenze specifiche di 4-8 nucleotidi, dette siti di restrizione,
diverse ed esclusive per ciascuna delle 150 nucleasi scoperte).
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I tagli introdotti dai suddetti enzimi nel DNA possono essere perpendicolari
ai due filamenti generando quindi estremità tronche o, cosa estremamente
utile per la tecnologia del DNA ricombinante, sfalsati: prendono origine in
questo caso estremità a singolo filamento complementari e riassociabili
C T C G A C
G A A T T C
C A G C T G
C T T A A G
Infatti, frammenti di DNA, anche di origine diversa, ottenuti tramite una
stessa endonucleasi, possiedono gli estremi atti a riconoscersi
reciprocamente per appaiamento di basi complementari consentendo la
formazione di DNA ibrido.
La continuità dello scheletro zucchero-fosfato è assicurata dall’intervento
di un altro enzima, la DNA ligasi, che ricostituisce il ponte fosfoestereo.
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Elettroforesi e autoradiografia
I frammenti di DNA possono essere separati gli uni dagli altri deponendo
la miscela che li contiene all’estremità superiore di un gel (di agarosio o
poliacrilamide) e sottoponendoli ad un campo elettrico: i frammenti,
carichi negativamente, migrano facendosi strada attraverso le maglie del
gel (la cui composizione può essere variata in funzione delle dimensioni
dei frammenti da separare), distribuendosi in relazione al peso molecolare.
La risoluzione della miscela può essere tale da consentire la separazione di
frammenti che differiscono di un solo nucleotide.
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Al termine, la serie dei frammenti separati è visualizzabile come pattern di
bande colorando il gel con bromuro di etidio, colorante dotato di affinità
per le molecole di DNA; in alternativa, se il DNA da risolvere è marcato
radiattivamente, le bande sono evidenziabili apponendo al gel una lastra
fotografica, lasciandola impressionare e sviluppandola: una volta
identificata, ciascuna bandina presente nel gel è ritagliabile ed eluibile
consentendo il recupero del materiale separato.
Questa tecnica, attraverso cui è visualizzabile un preparato radiattivo , è
denominata autoradiografia.
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Sequenziamento enzimatico o metodo di Sanger
Il campione di DNA (composto dal tratto da sequenziare congiunto ad una
sequenza nota) a singolo filamento, è posto in quattro distinte provette.
A ciascuna sono aggiunti:
• un piccolo primer oligonucleotidico (marcato e quindi
riconoscibile) complementare alla sequenza nota: esso,
associandovisi, crea un breve tratto a doppia elica che funge da
innesco per la DNA polimerasi, l’enzima che copia il DNA stampo
nella controparte complementare;
• DNA polimerasi e i precursori del DNA, i deossinucleosidi
trifosfato delle quattro basi;
• quantità mirate di dideossinucleosidi trifosfato, sintetici,
caratterizzati da una base diversa per ciascuna delle quattro
provette; i dideossinucleotidi, essendo privi della funzione OH in
posizione 3’, fungono, se utilizzati nella polimerizzazione, da
terminatori della catena, essendo impossibilitati a stabilire il ponte
fosfoestereo con la funzione OH in 5’ del deossinucleotide
successivo.
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La DNA polimerasi , sfruttando l’innesco, inizia a polimerizzare il filamento
complementare a quello da sequenziare. Quando la base da introdurre è
disponibile anche sotto forma di terminatore, se la polimerasi sceglie
quest’ultima la polimerizzazione si arresta, altrimenti prosegue sino al
successivo punto in cui si ripropone la scelta.
Nelle quattro provette si avranno dunque frammenti interrotti a diversi
stadi di polimerizzazione e dunque riproducenti in forma più o meno
estesa il tratto di DNA da sequenziare.
Inoltre, nell’ambito di ciascuno dei quattro gruppi, i tratti terminano tutti
con la stessa base, una delle quattro (A, T, C, G) per gruppo.
Le quattro miscele sono quindi risolte in elettroforesi e i frammenti di
neosintesi di ciascun gruppo sono evidenziati tramite autoradiografia in
quanto tutti dotati dell’innesco marcato.
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La sequenza del tratto di
DNA di partenza è
ricavabile, in quanto
complementare, a quelle
ottenibili leggendo in
successione le bande del
gel, dal basso (frammento
più corto generato
dall’incorporazione, dopo
l’innesco marcato, di una
sola base) verso l’alto
(frammenti che sono via via
cresciuti prima di
incorporare il terminatore).
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Sonde geniche
Come precedentemente accennato, dalla cellula è possibile anche estrarre
l’RNA totale, comprendente sia l’mRNA (utilizzato dalla cellula nella
traduzione per la sintesi proteica), che l’rRNA e il tRNA.
Sottoponendo questa miscela a cromatografia di affinità su una matrice
inerte funzionalizzata con oligonucleotidi omopolimerici della
deossitimidina, è possibile purificare l’mRNA eucariotico (che, solo tra tutti
gli RNA, riconosce per complementarietà gli oligo-dT in virtù della coda
che lo caratterizza di adenosina fosfato).
L’mRNA totale quindi, trattenuto dalla colonna, è eluibile separatamente:
rappresenta quella frazione dei geni cellulari espressi, cioè destinati ad
essere tradotti in proteine.
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I geni espressi costituiscono solo una parte dei geni presenti nel DNA
cellulare: due cellule specializzate appartenenti allo stesso organismo
pluricellulare, pur possedendo lo stesso patrimonio genetico, differiscono
nel corredo dei geni espressi da cui attingono le peculiari caratteristiche
morfologiche e funzionali.
L’mRNA estratto, inoltre, riporta tutta la porzione codificante del gene
della quale è copia, essendo priva, negli eucarioti, delle sequenze interne
non codificanti (introni).
La sequenza dell’mRNA può essere convertita in vitro nella corrispondente
sequenza di DNA a doppio filamento.
L’mRNA dapprima funge da stampo per l’enzima trascrittasi inversa virale:
questi costruisce il filamento di DNA complementare sfruttando un breve
innesco a doppia elica, realizzato ibridando un oligo-dT sintetico in
corrispondenza della coda poliA del messaggero.
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L’mRNA è quindi degradato selettivamente con alcali; il cDNA (DNA
complementare) a singolo filamento rimanente appare dotato di
un’estremità a guisa di uncino (lasciata dalla trascrittasi inversa) che funge
da innesco per la DNA polimerasi responsabile della sua duplicazione.
Ad avvenuta polimerizzazione interviene una nucleasi specifica a recidere il
tratto di congiunzione residuante tra i due filamenti: si ha ora la copia
dell’mRNA di partenza in DNA a doppia elica (cDNA a doppio filamento).
Un mRNA di sequenza nota, o il suo corrispondente cDNA a singolo
filamento, marcati, possono essere impiegati come sonde geniche per
individuare il gene loro complementare.
Ad esempio, negli esperimenti di ibridazione in situ, la sonda radioattiva,
incubata con un preparato cellulare nel quale i cromosomi sono stati
opportunamente fissati e denaturati, consente, dopo autoradiografia, di
visualizzare in maniera precisa la localizzazione del gene in seno ai
cromosomi.
cromosomi
Sintesi proteica - 1
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Sintesi proteica - 1
50
La sonda marcata può anche essere utilizzata per individuare tra i
frammenti di restrizione la sequenza di un particolare gene (Southern
blotting).
Il pattern dei frammenti, separati per via elettroforetica, è trasferito su un
foglio di carta speciale.
Dopo denaturazione del DNA in essi contenuto, si procede incubando la
sonda marcata e successivamente operando lavaggi onde rimuoverne
l’eccesso non legato.
Lo sviluppo autoradiografico localizza, sotto forma di bande discrete, i
frammenti ibridatisi con la sonda, recanti quindi l’informazione ad essa
complementare.
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Estrarre il DNA
e tagliare con
enzimi di restrizione
Separare i frammenti
con elettroforesi
Trasferire i frammenti
su filtro di cellulosa
Incubare il filtro
con sonda
radioattiva
Autoradiografare
per localizzare
il DNA marcato
Tecnica del Southern blotting
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Plasmidi
I plasmidi sono piccoli elementi di DNA circolare, a doppia elica, reperibili
in più copie nel citoplasma delle cellule batteriche, fisicamente distinte dal
cromosoma principale e a replicazione autonoma (ovvero indipendente dai
ritmi di crescita cellulare).
Dotati di geni che conferiscono resistenza a specifici antibiotici, sono
isolabili ed impiegabili nella tecnologia del DNA ricombinante quali vettori
per introdurre un frammento di DNA delle dimensioni di un gene in un
organismo unicellulare.
A tal scopo, la molecola plasmidica viene dapprima linearizzata utilizzando
un enzima di restrizione per il quale essa contiene il sito specifico di taglio;
un tratto qualsiasi di DNA, trattato col medesimo enzima, presenta
estremità complementari e riassociabili a quelle del plasmide e dunque tali
da consentire la creazione di un costrutto ibrido , stabilizzato dalla DNA
ligasi, detto plasmide ricombinante.
Sintesi proteica - 1
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Il vettore ricombinante viene successivamente introdotto nel citoplasma di
cellule batteriche sottoposte a temporanea permeabilizzazione; a questo
punto si selezionano le cellule che hanno incorporato il plasmide perché
recanti la resistenza ad uno specifico antibiotico che viene addizionato, per
consentirne la selezione, al terreno di coltura.
Volendo inoltre selezionare tra le cellule che hanno introdotto il plasmide
quelle dotate del costrutto ricombinante, si sfrutta il fatto che in queste
ultime, come diretta conseguenza della presenza del vettore ibrido, è
assente un enzima responsabile di una reazione colorimetrica.
Sintesi proteica - 1
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Ciascun batterio recante il plasmide ricombinante a questo punto, per
duplicazione cellulare, origina un clone di cellule geneticamente identiche,
tutte recanti nel proprio citoplasma più copie del costrutto gene-vettore.
Oltre a garantire un’amplificazione del gene, l’ospite unicellulare offre
anche l’apparato biosintetico necessario per consentirne l’espressione,
ovvero la sintesi del prodotto proteico che questi codifica.
È così possibile utilizzare questi microorganismi come bioreattori,
inducendoli a sintetizzare grandi quantità di proteine esogene utilizzabili
da un punto di vista terapeutico, industriale e diagnostico.
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Rottura
Plasmide
+
Fusione
DNA estraneo
DNA ricombinante
Introduzione
nella cellula
ospite
crescita dei cloni
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Virus
Accanto ai plasmidi esiste un’altra classe di vettori: i virus.
I virus sono organismi difettivi: non essendo in grado di riprodursi
autonomamente, parassitano le cellule sfruttandone l’apparato
biosintetico.
Essi introducono il proprio genoma all’interno dell’ospite, trasportando così
anche eventuali geni esogeni che abbiano sostituito parte della loro
informazione genetica.
Difatti il DNA virale, estratto, può essere ricombinato in vitro con DNA di
origine diversa, tramite gli estremi creati da un opportuno enzima di
restrizione.
Sintesi proteica - 1
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I virus ricostituiti in vitro , recanti genomi virali ricombinanti, vengono
utilizzati per infettare una cultura di cellule, in modo che queste ricevano
col DNA virale anche il gene esogeno.
Un tipico esempio di virus batterico impiegato negli esperimenti con il DNA
ricombinante è rappresentato dal fago T4. Come diretta conseguenza della
moltiplicazione del virus nella cellula, anche il gene che esso trasporta
viene amplificato; la progenie virale, originatasi dall’infezione perpetrata
dal fago ai danni dell’ospite batterico, fuoriesce al termine della
replicazione lisando la cellula ed è evidenziabile in coltura come area
definita, denominata placca di lisi.
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Genoteca genomica e genoteca cDNA
Una prima fonte di DNA è reperibile frammentando con enzimi di
restrizione il genoma cellulare; i singoli frammenti di DNA così ottenuti
possono essere singolarmente clonati negli ospiti unicellulari e
successivamente sottoposti a screening, per giungere all’individuazione del
particolare frammento oggetto di ricerca.
Non necessariamente questo riporta per esteso tutta la sequenza
codificante di un gene: infatti negli eucarioti tratti di DNA non codificante
intervallano i geni e ne inframezzano la sequenza.
Una seconda fonte di DNA è costituita dal cDNA, DNA a doppia elica
complementare all’mRNA cellulare.
In genere si converte in cDNA la totalità dei messaggeri estratti e li si
clona separatamente in coltura cellulare.
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Quali sono le differenze riscontrabili tra l’amplificazione dei frammenti del
DNA cellulare (genoteca genomica) e dei cDNA (genoteca cDNA)?
La composizione dei cloni di una genoteca cDNA è diversa per ogni
campione di cellule di uno stesso organismo riflettendo essa il grado di
differenziazione (corredo di geni specifici espressi) delle cellule stesse.
Ciò non vale nel caso della genoteca genomica, i cui cloni corrispondenti
sono un “flash” della composizione del genoma dell’organismo,
costantemente uguale in tutte le sue cellule.
I cloni cDNA risultano arricchiti in quanto recanti solo determinati geni e
dunque la loro purificazione risulta più agevole.
I prodotti dei cloni cDNA, anche se fatti esprimere in cellule batteriche o di
lievito incapaci di modificare l’RNA trascritto primario per rimozione degli
introni, derivando l’informazione da mRNA già maturi originano comunque
proteine funzionali.
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Screening delle genoteche
Lo screening delle genoteche, alla ricerca del gene prescelto può essere
condotto seguendo diverse strategie.
Utilizzando una sonda genica, ovvero un tratto di DNA marcato, a singola
elica, riproducente parte della sequenza del gene cercato.
Il procedimento prevede che una replica su carta speciale del pattern di
colonie, che hanno ciascuna amplificato un tratto di DNA ignoto, sia
sottoposta ad esposizione (per denaturazione) dei filamenti complementari
di DNA: la sonda individua, per ibridazione, le colonie recanti il gene
prescelto, le quali, grazie alla marcatura, sono individuabili per
autoradiografia ed isolabili dalla piastra principale.
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Potrebbe non essere nota la sequenza del gene (presupposto per la
progettazione di una sonda genica secondo quanto appena visto) ma
essere stata purificata una proteina cellulare della quale si vorrebbe ora
isolare il gene.
Stabilita parte della sequenza amminoacidica della proteina, ed individuate
in seno ad essa le regioni a livello delle quali la corrispondenza in
nucleotidi è meno ambigua, si costruiscono pool di sonde marcate in grado
di coprire, da un punto di vista combinatorio, tutte le possibili sequenze
nucleotidiche corrispondenti alle regioni amminoacidiche stesse.
Le colonie recanti il gene oggetto di ricerca saranno in grado di legare una
sonda (quella recante la parziale sequenza genica corretta) per ciascun
pool.
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Si supponga ora di voler stabilire quale informazione caratterizzi un gene
clonato ignoto; si potrebbe:
• indurre l’ospite batterico ad utilizzare l’informazione contenuta nel
gene per tradurla nel prodotto proteico corrispondente, isolabile e
caratterizzabile;
• tradurre in vitro l’informazione contenuta nel gene in modo tale da
ottenere anche un breve polipeptide; gli anticorpi specifici contro
quest’ultimo, ottenibili immunizzando un animale, se opportunamente
marcati, possono essere impiegati per localizzare la proteina
direttamente nel contesto cellulare;
• utilizzare l’informazione contenuta nel gene per selezionare tra
l’mRNA totale cellulare, attraverso l’ibridazione tra filamenti
complementari, la copia del gene stesso. L’mRNA complementare è
così individuato e tradotto in vitro .
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Ingegneria genetica
Geni isolati e purificati possono essere modificati in maniera
estremamente mirata e, successivamente, inseriti in un ospite adatto in
grado di tradurre il messaggio nel corrispondente prodotto proteico;
quest’ultimo può essere quindi raccolto e caratterizzato.
Alterazioni estese del tratto codificante consentono di far luce sulle
caratteristiche funzionali dei diversi domini costituenti una proteina.
Viceversa modifiche più puntuali, quali sostituzioni di singoli nucleotidi,
consentono di operare studi sull’assetto tridimensionale di una proteina
(interazioni con eventuali ligandi, effetti sulla catalisi enzimatica) o sulla
funzione di un particolare gene.
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Il plasmide ricombinante, recante il gene da modificare, viene ottenuto
come preparazione a singolo filamento.
In condizioni particolari, un oligonucleotide di sintesi, riproducente parte
della sequenza del gene e recante rispetto a questo un’alterazione
nucleotidica, è in grado di riconoscere quest’ultimo per complementarietà
ed associarvisi, purché la regione ad appaiamento corretto sia
sufficientemente estesa rispetto a quella, alterata, ad appaiamento errato.
La DNA polimerasi , in presenza dei quattro precursori
deossiribonucleosidici trifosfato, ripristina per polimerizzazione il plasmide
ricombinante a doppio filamento: un filamento riproduce la sequenza
corretta del gene, l’altro quella provvista della base errata.
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Il costrutto viene quindi sottoposto a clonazione: nella coltura cellulare
trasformata coesisteranno cloni di cellule a livello delle quali la mutazione
si è fissata (in quanto, per duplicazione, ora ambedue i filamenti recano
l’informazione del gene errata) e cloni recanti, a livello dei plasmidi, solo
copie a doppio filamento, normali, del gene.
I cloni mutanti sono selezionabili, e quindi caratterizzabili, utilizzando,
come sonda, il tratto oligonucleotidico impiegato inizialmente per
introdurre la sostituzione nucleotidica nel gene.
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La tecnica PCR
È attualmente di grande attualità la tecnica PCR (Polimerase Chain
Reaction, ovvero Reazione a Catena dell’enzima DNA Polimerasi), che
consente l’amplificazione di specifiche sequenze nucleotidiche del DNA,
che possono essere poi oggetto di successiva clonazione.
La sequenza bersaglio è generalmente rappresentata da un gene di cui
devono essere note due sequenze nucleotidiche - una per ciascun
filamento complementare e poste alle estremità del tratto da amplificare in grado di individuare lungo l’intera catena del DNA il gene medesimo.
Riscaldando il DNA (95°C per 5 minuti) si separano i filamenti; riducendo
la temperatura (30÷65°C), si permette a due oligonucleotidi (detti primer),
complementari rispetto alle sequenze che identificano il gene, di legarsi ai
filamenti corrispondenti.
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Aggiungendo alla miscela di reazione l’enzima polimerasi e le quattro basi
in eccesso, si consente ora la sintesi dei filamenti complementari a partire
dai primer, utilizzando come modelli i filamenti originari (65°C per
2÷5minuti).
Con un ulteriore aumento della temperatura (94°C) si provoca la
separazione dei filamenti sintetizzati, che diventano a loro volta modelli
per un nuovo ciclo di sintesi.
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5’
3’
3’
5’
DNA a doppio filamento
94°C - 5 minuti
5’
3’
3’
5’
I filamenti di DNA
si separano
30/60°C - 30 secondi
5’
3’
3’
5’
I filamenti di DNA
si appaiano ai primer
65°C - 2/5 minuti
5’
3’
I primer si estendono
secondo sequenze complementari
94°C - 5 minuti
3’
5’
5’
3’
Sintesi proteica - 1
I nuovi filamenti
si separano
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È evidente che l’enzima utilizzato deve essere termostabile, per consentire
la sintesi dei filamenti di DNA a temperature superiori ai 60°C: si
preferisce ricorrere all’enzima Taq polimerasi, isolato dal batterio Thermus
aquaticus che, una volta aggiunto al sistema di reazione, rimane attivo per
una serie completa di cicli di amplificazione.
Questo consente di condurre i cicli di amplificazione in modo automatico,
con l’impiego di blocchi termostatati alle diverse temperature
programmate.
Al termine di n cicli si ottiene un numero massimo teorico di 2n molecole di
DNA a doppia elica; tra queste sarà necessario isolare quelle sintetizzate
correttamente da quelle cresciute in modo non specifico a causa di
possibili errori di appaiamento dei primer.
Va detto che l’impiego del Taq polimerasi, consentendo l’amplificazione a
temperature più elevate (e quindi in condizioni di maggiore specificità di
appaiamento) di quanto non permettano altri analoghi enzimi, ha di molto
ridotto l’insorgere di eventuali errori.
Sintesi proteica - 1
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La tecnica PCR può essere utilizzata anche nell’amplificazione di DNA
umano: quando cellule dell’uomo vengono fuse con cellule animali
(roditori), ne risultano cellule ibride dalle quali tendenzialmente vengono
rilasciati i cromosomi umani.
Si ottengono in tal modo linee cellulari contenenti, accanto a quelli dei
topi, un unico cromosoma umano (o anche solo una sua parte), fonte di
DNA idoneo alla clonazione, se il cromosoma residuo contiene il gene di
interesse.
In questo caso si ricorre alla cosiddetta Alu-PCR, semplice metodo di
amplificazione e caratterizzazione del DNA umano.
Il metodo impiega dei primer per le sequenze ripetute in zone diverse del
genoma umano: in particolare, la sequenza Alu (di 300 coppie di basi) è
presente in un numero che arriva fino a 900.000 copie, di composizione
variabile tranne che per una particolare sequenza costante tipica
dell’uomo.
Sintesi proteica - 1
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I primer sintetizzati permettono l’amplificazione di frammenti del DNA
umano compresi fra due sequenze Alu orientate in direzioni opposte. A
seconda della lunghezza del DNA contenuto nelle linee cellulari di
partenza, si producono frammenti di DNA umano di numero e lunghezza
variabili. Allo stesso modo si può isolare il DNA umano in mezzo ad altri
DNA.
La tecnica PCR si è rilevata di enorme utilità nello studio di malattie
ereditarie o di malattie che, come il cancro, sono prodotte da mutazioni
nel materiale genetico.
La PCR permette infatti di compiere lo screening di particolari geni alla cui
mutazione sia imputabile la malattia in esame.
Per quanto riguarda il cancro, è ormai accertato che la sua insorgenza è
dovuta a mutazioni specifiche e riproducibili: la PCR ha infatti consentito di
vagliare velocemente i campioni prelevati da numerosi pazienti giungendo
alla conclusione che esiste una relazione stretta tra la natura della
mutazione ed il tipo di tumore.
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In modo analogo, si può seguire il decorso della malattia, per poter
interrompere il trattamento chemioterapico non appena il cancro sia
scomparso o, in caso contrario, per poterlo tempestivamente riprendere.
Altre applicazioni della tecnica PCR riguardano la determinazione del sesso
nelle cellule fetali e negli studi sull’evoluzione molecolare.
Un aspetto di non trascurabile rilievo è rappresentato dal fatto che la
minima contaminazione del materiale genetico di partenza può portare a
conseguenze gravissime: si potrebbe amplificare, oltre al materiale in
esame, anche materiale genetico estraneo con il rischio di giungere a
conclusioni assolutamente indesiderate.
Operando con le opportune e necessarie cautele, la tecnica PCR fornisce
uno strumento rivoluzionario per la genetica molecolare.
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Applicazioni
La tecnologia del DNA ricombinante si presta ad innumerevoli applicazioni,
raggruppabili fondamentalmente nei seguenti settori:
• farmaceutico
• medico
• agricolo-vegetale
• igienico ambientale e industriale
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Settore farmaceutico
La tecnologia del DNA ricombinante consente di ottenere, in quantità
sufficienti in vista di un impiego terapeutico, nonché sicuri in quanto esenti
da agenti contaminanti ed identici nella sequenza alla sostanza naturale, le
molecole di seguito elencate:
Ormoni e proteine umane da somministrarsi nella cura di patologie
derivanti da carenze congenite degli stessi (p. es., insulina nel diabete,
ormone della crescita nel nanismo, fattore VIII della coagulazione
nell’emofilia).
L’insulina, ad esempio, è un ormone peptidico costituito da due catene, A
e B, caratterizzate da ponti disolfuro inter- ed intra-catena. È responsabile
del controllo del metabolismo glucidico e la sua carenza si manifesta
patologicamente nel diabete. Viene sintetizzata come catena polipeptidica
unica, denominata preproinsulina. La sequenza “pre”, necessaria alla
secrezione dell’ormone, è rimossa dalle proteasi cellulari, e, con essa,
viene eliminata successivamente anche la sequenza “pro”, responsabile
dell’assunzione, da parte dell’ormone, della corretta conformazione
spaziale.
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Fattori di crescita specifici tissutali.
Enzimi ad attività terapeutica (p. es., attivatore del plasminogeno per
sciogliere i trombi), di interesse diagnostico e di impiego industriale.
Modulatori della risposta immunitaria: queste sostanze, presenti
normalmente nell’organismo, mettono in relazione le cellule deputate alla
difesa immunitaria concertandone l’azione. La somministrazione
d’interferone, ad esempio, ha effetti antivirali ed in certi casi antitumorali .
Subunità vacciniche, ovvero porzioni antigeniche dell’agente infettante
microbico, virale o parassitario, sufficienti a sensibilizzare l’organismo (cioè
ad indurre una risposta immunitaria che “prepara e rende più agguerrito”
l’ospite in vista del possibile incontro con l’agente integro e virulento) e più
sicure del vaccino tradizionale costituito dall’intero microrganismo
inattivato od attenuato (p. es., vaccino contro il virus dell’epatite B,
costituito da aggregati proteici immunogenici simili a quelli rinvenibili
naturalmente nel sangue di pazienti infettati: viene prodotto nel lievito ed
iniettato al posto del virus).
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Anticorpi catalitici, ovvero in grado di riconoscere analoghi di stati di
transizione di determinate reazioni enzimatiche, che dai dati preliminari
pare esplichino attività catalitiche.
Proteine utilizzabili come immunogeni (antigeni) per ottenere anticorpi
monoclonali, anch’essi ingegnerizzabili ed impiegabili:
• nel settore diagnostico, per accertare la presenza di alcune malattie
grazie al riconoscimento, mediato dall’anticorpo, di marcatori
caratteristici e specifici del microrganismo (p. es., sifilide) o della
cellula (p. es., cancro);
• per la determinazione degli antigeni di gruppo tissutali od ematici,
per stabilire eventuali compatibilità nei trapianti o nelle trasfusioni;
• a scopo terapeutico nei tumori, utilizzando l’anticorpo come
proiettile magico capace d’individuare la cellula tumorale (dotata, in
certi casi più fortunati, di marker specifici) anche a livello delle
metastasi e veicolarvi una tossina letale.
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Settore medico
In questo campo ci si avvale della tecnologia del DNA ricombinante:
• per la diagnosi prenatale di malattie ereditarie: il DNA estratto dalle
cellule fetali viene sottoposto a frammentazione con enzimi di
restrizione; certune mutazioni si identificano proprio con la perdita di
un particolare sito di restrizione e la conseguente alterazione, rispetto
ad un individuo sano, del pattern di bande ottenibile per separazione
elettroforetica dei frammenti di DNA.
La mutazione però può non interessare un sito di restrizione: in questo
caso viene individuata grazie al riconoscimento per ibridazione,
mediato da una sonda genica recante la mutazione, del frammento di
restrizione alterato;
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• in medicina legale nella risoluzione di enigmi e dispute giudiziarie:
sono state individuate nel genoma umano delle sequenze che si
ripetono, a livello di diverse regioni del DNA cromosomico, un numero
di volte variabile e caratteristico per ciascun individuo.
Il DNA estratto da campioni anche vecchi o quantitativamente esigui,
viene frammentato con enzimi di restrizione; i vari frammenti, risolti in
elettroforesi ed incubati con sonde geniche riproducenti le sequenze
ripetitive, disegnano un pattern di bande unico ed individuale,
equiparabile ad una impronta digitale.
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Settore agricolo-vegetale
La tecnologia del DNA ricombinante consente anche di introdurre un gene
purificato in un organismo pluricellulare, animale o vegetale, sicché esso
entri a far parte del patrimonio genetico di ogni cellula costituente
l’organismo stesso e possa essere trasmesso alla progenie.
Un organismo così manipolato è definito transgenico.
Animale transgenico
All’atto della fecondazione, il patrimonio genetico aploide maschile
(pronucleo) penetra nella cellula uovo e si fonde col pronucleo femminile.
La cellula uovo fecondata, diploide (zigote), costituisce il capostipite di
tutte le cellule, somatiche e germinali, dell’individuo originantesi attraverso
successive divisioni cellulari. Tutte le cellule dell’organismo, pertanto,
condividono la medesima informazione genetica, quella parentale.
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Per ottenere un animale transgenico (p. es., un topo), il gene esogeno
prescelto viene introdotto in uno dei due pronuclei, coesistenti prima della
fusione nel citoplasma della cellula uovo fecondata.
Gli zigoti così manipolati vengono quindi impiantati nell’utero di femmine
pseudogravide (cioè predisposte artificialmente - previo trattamento
ormonale - alla gravidanza).
Alla nascita, i topolini sono sottoposti a screening per stabilire se siano
portatori del gene tramite PCR su biopsia tissutale: gli animali positivi sono
sottoposti ad ulteriori accertamenti atti a stabilire la presenza nella linea
germinale e dunque la sua ereditabilità.
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Pianta transgenica
Cellule vegetali differenziate, private della parete cellulare (protoplasti) e
poste in cultura, possono, dietro stimolazioni ormonali adeguate,
sdifferenziarsi e tornare totipotenti, ovvero capaci di moltiplicarsi e di
riorganizzarsi in una piantina completa.
Non è però facile ottenere piante intere a partire dai protoplasti per cui si
preferisce partire da porzioni circolari ritagliate dalle foglie (dischi fogliari):
questa tecnica è particolarmente importante perché fornisce anche i
presupposti necessari alla creazione dei vegetali transgenici.
Le cellule incise ai margini dei dischi fogliari, infatti, oltre ad avere
proprietà rigeneranti, inviano segnali che favoriscono l’infezione, a loro
danno, del batterio A. Tumefaciens. Questa prevede il trasferimento da
parte del microrganismo, di una porzione denominata T-DNA che egli
rigenera, del proprio plasmide Ti. La sostituzione in vitro di parte della
sequenza T-DNA, oggetto di trasferimento dal batterio alla cellula
vegetale, con un gene esogeno, crea i presupposti per l’ingresso del gene
stesso nella cellula e il suo inserimento nel DNA vegetale.
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I dischi fogliari sono quindi
selezionati per la presenza del
T-DNA e posti in coltura sotto
adeguate stimolazioni ormonali
attraverso le quali, con la
rigenerazione dei germogli
prima e delle radici poi, si
ottiene la piantina completa,
mentre A. Tumefaciens viene
ucciso selettivamente con
antibiotici specifici.
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Gli obbiettivi nella creazione di un animale o vegetale transgenico sono
essenzialmente due:
• creazione di specie con migliori caratteristiche di sopravvivenza e
resistenza alle infezioni e che, a parità di condizioni di allevamento o
coltura, consentano di ottenere derivati più abbondanti e di qualità
migliore;
• trasformazione dell’animale o del vegetale in un bioreattore, capace
di produrre quantità significative di proteine umane d’interesse
terapeutico facilmente isolabili e purificabili.
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Settore igienico-ambientale ed industriale
Sonde geniche riproducenti sequenze caratteristiche ed esclusive di un
dato microrganismo, possono rilevarne la presenza quale contaminante
alimentare o ambientale.
L’attuale ricerca sta inoltre procedendo alla messa a punto di:
• microrganismi capaci di convertire scarti della produzione agricola in
biomassa proteica per l’alimentazione umana ed animale;
• ceppi microbici capaci di operare con rese migliori le fermentazioni
tradizionali (ceppi resistenti all’alcool), e ceppi ingegnerizzati in grado
di fermentare anche la cellulosa;
• ceppi microbici in grado di concentrare o modificare metalli (per
favorirne l’estrazione) o sostanze tossiche (per consentirne la
biodegradazione);
• enzimi da utilizzarsi nelle varie fasi di lavorazione industriale.
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