International Journal of Psychoanalysis and Education, 2014 Vol. VI, No. 2, 19-28 Patologie sociali, resistenze e difese degli insegnanti nell’istituzione scolastica: Considerazioni cliniche e pedagogiche Social pathologies, resistances and defenses in scholastic institutions: Clinical and pedagogical considerations Tommaso Fratini1 Riassunto L‟articolo prende in esame il tema di alcune resistenze e difese degli insegnanti all‟interno dell‟istituzione scolastica. Partendo dall‟attuale condizione di emergenza della scuola italiana e rifacendosi al concetto di patologia sociale di Giuseppe Di Chiara, viene argomentato come tali resistenze coprano le angosce persecutorie degli insegnanti nel loro lavoro scolastico quotidiano nel rapporto con gli allievi. L‟articolo, tra le varie forme di patologia istituzionale, affronta principalmente il tema di quelle che presiedono alle resistenze degli insegnanti al lavoro introspettivo con il proprio mondo interno, conseguenza e ulteriore cagione di sensi di colpa nel rapporto con gli allievi e di fenomeni di burnout lavorativo degli stessi insegnanti. Tali fenomeni vanno nella direzione del rinforzo sia di un atteggiamento di chiusura verso la collaborazione con professionisti esterni all‟istituzione scolastica, sia di un atteggiamento di minore empatia e vicinanza emotiva con la realtà interna degli allievi. Parole chiave: insegnanti; patologie sociali; meccanismi di difesa; pedagogia. Abstract This article exams the theme of certain resistances and defenses of teachers within the educational institution. Starting with the current state of emergency in Italian schools and referring to Giuseppe Di Chiara‟s concept of social pathology, it is argued that such resistances cover up the persecutory anxieties of teachers in their daily educational work and in the relationships with their students. The article, among the various forms of institutional pathology, primarily deals with the issues of those who govern the resistance of teachers towards introspective work within their inner world, as a consequence and further cause of guilt in the relationship with students and the phenomenon of burnout within the same teachers. These phenomena are working in the direction of the reinforcement of a closed attitude towards collaboration with external professionals within the educational institution and an attitude of minor empathy and emotional closeness with the internal reality of the students. Key words: teachers; social pathologies; defense mechanisms; pedagogy. 1 Dottore di Ricerca, Socio APRE, Italia. (Per la corrispondenza e-mail: [email protected]) © 2014 IJPE. This is an Open Access article. Non-commercial re-use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original work is properly attributed, cited, and is not altered, transformed, or built upon in any way, is permitted. The moral rights of the named author(s) have been asserted. P a g . | 20 Introduzione Un tema destinato ad avere un‟influenza notevole, sia sugli stati mentali dell‟insegnante, sia sulla sua gestione della classe e sul clima delle relazioni da lui instaurate con gli allievi, è quello delle patologie sociali1 operanti nell‟istituzione scolastica. Gli insegnanti quasi sempre conoscono bene, sulla propria pelle, la natura di queste patologie. La questione di fondo è che, pur essendone da una parte consapevoli, dall‟altra tendono talvolta fortemente a negarle, proprio per il loro carattere pervasivo e quello che a tutti gli effetti è un vissuto di impotenza, nell‟impossibilità di modificare determinate situazioni che si vengono a creare, per conseguenza di tali patologie. Inoltre, come tutte le patologie sociali, anche quelle all‟interno della classe e della scuola possiedono un tornaconto secondario, in termini di perversione e di piacere perverso nell‟aderirvi e metterle in atto, che in un certo modo funziona da rinforzo del meccanismo patologico, da parte di chi lo agisce più o meno intenzionalmente o meccanicamente. La questione si complica ulteriormente perché quelle che sono vecchie dinamiche patologiche, tipicamente proprie della scuola 1 Il termine di patologia sociale è utilizzato qui nell‟accezione di Giuseppe Di Chiara (1999). Nella sua definizione, le patologie sociali o sindromi psicosociali sono «quei comportamenti collettivi generatori di disagi immediati o futuri evidenziabili o ragionevolmente prevedibili, senza che per questo tali comportamenti cessino di avere luogo, pur non esistendo per essi motivazioni non rimovibili» (Di Chiara, 1999, pp. 3-4). Una patologia sociale in quest‟ottica è data da un insieme di persone, in interazione e in rete tra di loro, che contemporaneamente scelgono di mettere in atto i medesimi meccanismi di difesa dall‟angoscia, dando luogo così a una vera e propria patologia istituzionale all‟interno di un‟organizzazione; nei confronti della quale sarà molto difficile per il singolo ribellarsi, proprio per il contributo di rinforzo attivo dato dalla maggior parte degli altri membri dell‟istituzione al proliferare di detta patologia, ricavandone un tornaconto secondario e anche un piacere perverso nell‟aderirvi. IJPE 2014, vol. VI(2) italiana da decenni, si scontrano oggi e si intersecano con nuovi problemi, nuove emergenze educative tipiche del nostro tempo e delle nuove generazioni di studenti in questi ultimi anni a noi più vicini. Tra tali fattori di emergenza dobbiamo considerare l‟incremento degli allievi problematici, in parte provenienti anche da famiglie immigrate, ma non solo; il calo degli stipendi e delle retribuzioni economiche degli insegnanti rispetto al costo della vita; la diffusa precarizzazione del corpo docente; un atteggiamento diffuso nella società a tratti perfino canzonatorio, volto a svalutare la figura dell‟insegnante, specie di scuola media superiore, nell‟immaginario sociale, spesso rappresentata e raffigurata come persona inadeguata e invidiosa dell‟estro e della giovinezza dei propri allievi. Tutto ciò si iscrive poi nella tragica situazione della scuola italiana, caratterizzata da due essenziali determinanti di fondo: la grave carenza di fondi per realizzare quelle iniziative che a diversi livelli sarebbero vitali per tutti i membri dell‟istituzione e un aggiornamento degli stessi insegnanti, e il sostanziale peggioramento del livello non solo di istruzione ma anche di competenza sociale e di funzionamento cognitivo e affettivo della maggior parte degli allievi. Chiariti questi aspetti in premessa, non devono tuttavia essere trascurate determinate forme di difesa e di vera e propria patologia, o di cultura affettiva patologica, presenti da sempre nella scuola italiana, e che in parte ne hanno caratterizzato anche la peculiarità rispetto alle istituzioni scolastiche di altri paesi occidentali. Eccesso di severità e forme di tirannia nell’insegnamento Una tipica patologia sociale della scuola italiana è quella che, specialmente nei licei classici, derivava alla radice da un eccesso di severità. Si tratta di una patologia forse oggi non più così diffusa come una volta, ma da ISSN 2035-4630 21 | P a g . sempre comunque esistente in linea teorica e di principio. Un grado di severità moderato è a ben vedere indispensabile per l‟insegnamento e l‟apprendimento. Esso esprime contatto con la realtà e sta a ricordare all‟allievo l‟impegno che egli deve mettere in atto nello sforzo di imparare. Tale impegno non solo è necessario all‟apprendimento, ma anche sta a simboleggiare una rappresentazione della scuola come metafora della vita e della società stessa, all‟interno della quale ogni cittadino è chiamato a un‟assunzione di responsabilità, nel cammino per divenire adulto e far fronte ai compiti evolutivi dei diversi stadi del ciclo vita. Se tutto ciò è vero in linea generale, diverso è il caso di quando la severità diventa eccessiva. Una severità eccessiva, ammesso che sia funzionale all‟apprendimento da un punto di vista quantitativo, limita la creatività, aumenta il malcontento nei discenti, e rivela di fatto una componente di tirannia da parte di chi la esercita; nella fattispecie del contesto scolastico da parte degli insegnanti a contatto con gli allievi. Spostando la questione su un altro piano, un esempio che potremmo fare è quello delle politiche di austerità, che stanno mettendo a dura prova la capacità di resistere della popolazione di diversi stati europei. Un certo grado di austerità, potremmo dire, è indispensabile per rimettere in ordine i conti pubblici di quei paesi, nei quali soprattutto la corruzione e il malgoverno, ma anche fenomeni di deresponsabilizzazione nella popolazione, hanno fatto troppo crescere e lievitare il debito pubblico. Ma un‟austerità eccessiva di fatto frena anziché favorire la ripresa economica, aumenta le diseguaglianze sociali, e riflette, dietro gradi più o meno elevati di ipocrisia, una mancanza di solidarietà tra i governi e gli stati, se non addirittura nuove volontà di egemonia, di appropriazione e di dominio. Un discorso analogo potrebbe essere riferito, fuor di metafora, al comportamento e allo IJPE 2014, vol. VI(2) stile di condotta degli insegnanti. Un insegnante moderatamente severo è di aiuto agli allievi nell‟esprimere a contatto con loro un ruolo paterno, che implica e simboleggia senso del limite e assunzione di responsabilità. Una severità in eccesso è invece controproducente, perché mette in luce e libera aspetti sadici del carattere dell‟insegnante, con le conseguenze che ciò viene a incarnare per gli allievi. Un grado notevole, forse eccessivo, di severità è quello che di norma ha espresso per generazioni una parte del corpo docente nella scuola italiana. Nei licei classici specialmente, questa severità era funzionale a un scopo che si poneva nei termini di un mito della cultura istituzionale di quella scuola stessa: il mito dell‟eccellenza. Tale mito è stato a tratti talmente radicato nella cultura istituzionale dei licei classici da simboleggiare un monito per tutti gli insegnanti che di quell‟istituzione facevano parte e quella cultura organizzativa respiravano, senza potere porre opposizione ad essa se non al prezzo di un costo psichico non trascurabile. Nel momento in cui gli insegnanti aderivano al mito della scuola di eccellenza, ciò partoriva l‟effetto immediato di una serie di ripercussioni a catena. Anzitutto, v‟è da dire che esso era funzionale a un altro aspetto attiguo a quello del rapporto con gli allievi, che era la relazione degli insegnanti con i propri colleghi, la quale esacerbava in un certo qual modo la competizione stessa tra i docenti, invece di un clima di cooperazione tra di loro. Mentre in ambito universitario la competizione tra colleghi si esprime soprattutto nel confronto dei prodotti della ricerca scientifica, nella scuola sono i risultati alla fine raggiunti dai propri allievi, ma anche il grado di severità, quasi di inflessibilità degli insegnanti a contatto con loro, ad avere da sempre caratterizzato l‟impronta della competizione tra colleghi insegnanti. In secondo luogo una severità eccessiva produce un effetto immediato nella relazione ISSN 2035-4630 P a g . | 22 con gli allievi: quello di elevare il grado di angosce persecutorie reciproche intorno alle dinamiche dell‟insegnamento e dell‟apprendimento, a tutto svantaggio del benessere e del clima della scuola stessa come istituzione. La severità eccessiva infatti genera la conseguenza immediato di guastare il clima di amicizia se non di collaborazione tra insegnanti e allievi. Come è possibile per un allievo volere bene a livello profondo a un insegnante che è sadico nel pretendere dall‟allievo un impegno eccessivo. In terzo luogo, non si deve trascurare un aspetto saliente e fondamentale della relazione allievo-insegnante. Essa da sempre è solo falsamente asimmetrica. È vero che esistono delle differenze notevoli tra i due poli della relazione, ma è anche vero che la capacità di giudicare si esprime egualmente da ambo le parti. L‟insegnante ha il compito di valutare e di giudicare l‟apprendimento e i risultati dell‟allievo, ma anche l‟allievo fin dall‟inizio è spontaneamente e naturalmente predisposto a giudicare e a valutare l‟operato e la personalità dell‟insegnante. Di norma, a livello profondo, gli allievi da sempre sono molto critici nel giudicare l‟operato degli insegnanti. Essi costitutivamente sono portati ad averne timore, proiettando sull‟immagine e sulla figura dell‟insegnante angosce persecutorie di vario tipo: prima di tutto la paura di non farcela, che si trasforma nella paura di un giudizio severo da parte dell‟insegnante. Allo stesso modo, molti allievi sono portati a difendersi da tali angosce, fisiologiche nell‟apprendimento, mettendo in atto determinate difese, non tutte le quali sono incentrate sulla svalutazione, anzi. Spesso la figura dell‟insegnante viene idealizzata e ingigantita, proprio per negare a livello profondo una quantità più o meno modica di angosce persecutorie proiettate su di lui e sulla sua capacità di giudizio e di valutazione. Veniamo a questo punto a un nodo di fondo. L‟allievo, più o meno rendendosi conto ed essendo consapevole di questa dinamica, è IJPE 2014, vol. VI(2) portato ad accettare la severità dell‟insegnante a una sola condizione: che l‟insegnante sia molto bravo. Un insegnante, come si usa dire, autorevole, che conosce bene la materia che insegna ed è in grado di infondere nell‟allievo l‟amore per il sapere, può essere più facilmente accettato dall‟allievo anche per una certa sua severità. È questa infatti che si viene a creare come la condizione ottimale per un rapporto di tipo adulto, fondamentale prerequisito per una corretta posizione, da ambo le parti in gioco, per potere insegnare e apprendere: per apprendere da parte dell‟allievo ma anche per apprendere parte dell‟insegnante, nel momento stesso in cui si insegna (Calamandrei, 2007). La questione è destinata purtroppo a prendere una piega diversa quando il docente non è all‟altezza della sua severità. In generale, un insegnante scarsamente preparato da un punto di vista disciplinare è portato comunque a prestare il fianco alle critiche degli allievi, indipendentemente da quale sia il suo atteggiamento. Se egli si difenderà dall‟angoscia di non sapere, sorretto dalla fantasia che gli studenti possano accorgersene, assumendo un atteggiamento troppo permissivo, commetterà l‟errore di incoraggiare fenomeni di deresponsabilizzazione negli allievi, lasciandoli di fatto da soli di fronte alla fatica di imparare e all‟angoscia di non riuscire (Salzberger-Wittenberg, 1983). Ma, diversamente, proprio la severità eccessiva è sempre stata la difesa più diffusa, quasi automatica, dell‟insegnante a contatto con l‟angoscia di non sapere e di non essere in grado di trasmettere un sapere agli allievi; di non essere dunque loro di aiuto. Di fatto in una parte della scuola italiana si è concretizzata, a poco a poco, questo tipo di patologia: una condizione in cui insegnanti scarsamente preparati sul piano curriculare pretendevano molto dai propri allievi, determinando una situazione di rapporto ingiusta e iniqua, a detrimento sia dell‟apprendimento che della creatività degli allievi e del benes- ISSN 2035-4630 23 | P a g . sere emotivo della comunità scolastica nel suo insieme. Facendo un passo indietro, è molto semplice da capire, se ci riflettiamo, l‟intrico di problematiche che si viene a creare. Supponiamo che un insegnante di filosofia non sia sufficientemente preparato sul piano curriculare, e che di fatto, impaurito dal peso della responsabilità del suo ruolo, imponga ai suoi allievi carichi di lavoro anche troppo onerosi, per le loro possibilità di apprendimento quotidiane. Tutto ciò non potrà altro che incoraggiare il nozionismo. Se io come insegnante mi limito a conoscere a memoria il solo manuale che adotto per insegnare, e nello stesso tempo, cocciutamente, pretendo di essere molto severo con i miei allievi, la conseguenza sarà di non pretendere altro da loro che, come me, imparino a memoria il manuale sul quale fondo il mio insegnamento. Questa condizione produce, come accennato, una serie di effetti negativi a catena. Limita le potenzialità di apprendimento degli allievi, incoraggiando il nozionismo e ponendo a freno la loro creatività e il loro amore per il sapere, che molto si gioverebbe di ben diversa apertura da parte del docente. Nello stesso tempo una simile condotta viene fin da subito a guastare il rapporto umano tra insegnante e allievo, perché di fatto, anche quando non sarà del tutto in grado di rappresentarsi tale conflitto e di darsi le spiegazioni fino in fondo corrette, l‟allievo sarà inconsciamente premonitore di questa dinamica in gioco. Una dinamica disonesta, nella quale l‟insegnante viene a pretendere molto di più di quanto, in termini di sapere, egli stesso conosce ed è in grado di trasmettere. Tutto questo in ultima analisi non potrà che favorire l‟odio verso l‟insegnante da parte degli allievi, e un esubero di stress e di sensi di colpa da ambo le parti, potenziale causa sia di disagio scolastico per gli allievi che di burnout per l‟insegnante (Fratini, 2009; Blandino, 2007). IJPE 2014, vol. VI(2) Come è possibile per un insegnante mostrare un interesse sincero per un allievo, un‟attenzione per il suo mondo interno e le sue esigenze affettive a livello profondo, quando egli si trincera dietro una maschera in cui deve recitare i panni del cattivo, per coprire in realtà la sua inadeguatezza a trasmettere il sapere, oltre che a comprendere le esigenze cognitive e affettive dei propri allievi. Ecco che questo tipo di severità diventa di fatto nemica non solo della creatività, ma anche dell‟apprendimento in senso più ampio. È qui che arriviamo al nocciolo della questione, dell‟essenza di un‟importante patologia sociale presente nella scuola. L‟insegnante, anche quando lo nega, è consapevole di non fare fino in fondo il proprio dovere, non solo quando non possiede le basi di conoscenza per insegnare al meglio delle sue potenzialità, ma anche quando non è in grado di svolgere fino in fondo il proprio ruolo di presa in carico nel rapporto con gli allievi. È questa la fondamentale spiegazione di un grado non indifferente di paranoia e di angosce persecutorie che da sempre circola all‟interno dei rapporti nell‟istituzione scolastica. La scuola, come gli ospedali e le istituzioni sanitarie, sono luoghi dove risulta fondamentale il concetto di presa in carico globale, anche quando si vorrebbe far passare il compito dell‟istruzione o della cura e l‟assistenza al malato come qualcosa di altamente specialistico e settoriale. Così non è e non è mai stato. La scuola è un‟istituzione che presiede a un compito ben preciso e nobilissimo: quello della formazione delle giovani generazioni, attraverso cui la società stessa pone le basi per la trasmissione della propria eredità generazionale (Recalcati, 2010) e la costruzione del proprio futuro. Questo compito è in verità di una responsabilità e una difficoltà notevolissime, specie quando, come nel tempo attuale, gli insegnanti sono sempre più abbandonati a se stessi, umiliati nel loro ruolo professionale, e oggetto di critiche sempre più aspre e sprez- ISSN 2035-4630 P a g . | 24 zanti in vario modo provenienti dalla società e dal mondo delle famiglie degli allievi. È ormai un luogo comune il fatto che una società che vuole porre davvero le basi per edificare il proprio futuro dovrebbe investire molto, molto di più nell‟istruzione e nella formazione. Solo così gli allievi potrebbero giovarsi di condizioni migliori per apprendere, e solo così gli insegnanti potrebbero sentirsi un po‟ alleggeriti dal peso di un‟immane responsabilità. Assistiamo invece a una situazione opposta, in cui scarsi investimenti nella scuola indirizzano verso questa professione insegnanti non sempre al meglio preparati, e di fatto lasciati soli di fronte alle loro notevoli responsabilità cui dovere fare fronte. Il tema del controllo nelle relazioni scolastiche e la questione delle conseguenze affettive della valutazione Facendo un passo ulteriore, se abbiamo individuato il motore delle patologie sociali nell‟istituzione scolastica nell‟angoscia degli insegnanti di fronte alla responsabilità di prendere in carico il destino dei propri allievi, e se sosteniamo che la questione si complichi ulteriormente per i sensi di colpa degli insegnanti di fronte all‟incapacità di far fronte a questo compito, sia pure in diversi modi negata, è il tema del controllo la problematica che viene a porsi con più forza a livello di ulteriori meccanismi di difesa da parte degli insegnanti. Il controllo a ben vedere domina l‟istituzione scolastica da sempre. Esso per prima cosa lavora nella direzione di una chiusura dell‟istituzione scolastica stessa verso l‟esterno. Chiunque da esterno abbia lavorato dentro la scuola è a conoscenza di quanto difficile sia entrare a pieno titolo all‟interno di questa istituzione. La spiegazione è evidente: le angosce e i sensi di colpa degli insegnanti lavorano nella direzione di una chiusura verso agenti esterni, visti come potenziali giudici del loro operato, più o meno deficitario. IJPE 2014, vol. VI(2) Secondariamente, il controllo agisce nel rapporto degli insegnanti tra di loro. Anche quando i rapporti di conoscenza sono di lunga data, sappiamo quanto complicate siano le relazioni di amicizia e di collaborazione tra insegnanti all‟interno del medesimo istituto. A guastare questo tipo di relazioni non lavora solo una sottile competizione, ma un gioco a rimpiattino di sensi di colpa, in virtù dei quali ogni docente si guarda bene dal rendere troppo partecipe un collega del proprio operato, per il rischio di prestare fianco alla critica e alla svalutazione, con la conseguenza ultima di aumentare il proprio stress e il proprio senso di colpa. È questa la ragione sostanziale per cui gli insegnanti non hanno mai lavorato troppo bene in collaborazione tra di loro, laddove a questa condizione ne fa da contraltare un‟altra. Quella in cui gli insegnanti tendono a darsi manforte reciprocamente quando si sentono attaccati dall‟esterno. È quando troppa paranoia e angoscia persecutoria salgono in circolo che gli insegnanti paradossalmente ritrovano un‟unità come gruppo e come categoria, quando si devono difendere dagli attacchi e dalle critiche di chi, come gli allievi o i loro genitori, avanzano dubbi nei confronti del loro operato. Arriviamo a questo punto a un altro nodo da considerare: il problema affettivo e non solo cognitivo della conoscenza. Tutti noi non possiamo che essere concordi con l‟affermazione secondo cui la conoscenza non sia semplicemente quella che si trova nei libri di testo scolastici. La questione è che purtroppo a volte o più spesso gli insegnanti sembrano dimenticarsene. Se un insegnante è molto rigido e severo, e al contempo il suo livello di conoscenza è limitato, il risultato sarà un porre freno alla curiosità di imparare degli allievi, per la paura implicita che le loro potenzialità di apprendimento mettano in crisi il suo sapere precostituito. Se l‟insegnante finisce per aderire a una patologia sociale del contesto scolastico basata sul controllo, i primi a farne le spese saranno ISSN 2035-4630 25 | P a g . proprio gli allievi. È in quest‟ottica che si spiega il sostanziale fallimento scolastico di quegli allievi che a volte, nonostante possiedano un‟intelligenza per alcuni versi geniale, non ottengono i risultati sperati. La loro intelligenza esce dai binari precostituiti e dagli schemi già strutturati dell‟insegnante (Galimberti, 2009), e per questo non viene valorizzata, o peggio ancora deve essere svalutata. Il risultato finale non può essere che una sorta di burnout dello studente, in termini di una matrice importante del suo disagio scolastico (Fratini, 2009). Un senso di rabbia e di sconcerto prima, forse di incredulità, a cui potranno seguire poi l‟apatia e una sostanziale perdita della motivazione all‟apprendimento. Quella motivazione che si nutre del desiderio di conoscere, come fondamentale motore dell‟apprendere, e che non può che emergere e crescere in un clima di rapporti sufficientemente buoni, nel quale vi sia un sufficiente spazio per la tolleranza della separatezza e della diversità. Il ragionamento fin qui svolto porta a considerare un altro nodo ineludibile per l‟insegnante: la gestione del senso di colpa di fronte alla valutazione. Nonostante sia un aspetto di routine, a volte dato per scontato, e nonostante molti insegnanti ci prendano quasi gusto nel valutare anche negativamente i loro allievi, quello del giudizio di valutazione rimane un nodo spinoso perché inevitabilmente foriero di sensi di colpa. Paradigmatico è l‟esempio letterario descritto nel romanzo de Il giovane Holden di Salinger (1951), quando il protagonista, un adolescente di fatto mandato via dal collegio per il suo fallimento scolastico, si reca a trovare a casa il suo anziano professore di lettere. Dietro l‟atteggiamento severo e paternalistico del vecchio professore, che non può fare di meglio che rimproverare ancora una volta Holden per il suo fallimento scolastico, quale mancata assunzione di responsabilità verso se stesso e il proprio futuro, si scorge in verità tutta la negazione per un senso di IJPE 2014, vol. VI(2) colpa riferito a un complesso di cose molto più spinose e profonde da rivelare, traducendole con le parole. Holden infatti è come se avesse deciso di essere respinto dalla scuola e di non studiare più, non perché non ami il sapere o non riesca nei compiti scolastici, ma perché è troppo il dolore della depressione, lo scempio di sé perpetrato e l‟incapacità dell‟ambiente sociale in cui vive a dare una risposta sincera e idonea alle reali difficoltà emotive di ciascuno, perché egli lo possa ancora tollerare. Dal primo college Holden se ne era andato perché era un ambiente di „palloni gonfiati‟, come lui definisce i suoi vecchi compagni. Dal secondo college è costretto ad andarsene per il suo fallimento scolastico e perché egli ha deciso di non studiare più. Non ce la fa più a studiare di fronte alla depressione, per un ambiente sociale percepito come inadeguato e inidoneo a far fronte ai bisogni degli allievi. La questione della valutazione e ancor più la responsabilità della bocciatura costituiscono un problema assai spinoso per gli insegnanti. Tutto questo infatti ha il potere di mettere loro a confronto con i sensi di colpa. I sensi di colpa di essere impotenti di fronte a un risultato negativo dell‟allievo, che in verità è come se sbattesse loro in faccia i propri problemi emozionali e l‟ingiustizia sociale di una società che è inequipaggiata a farvi fronte. Il problema della valutazione, diversamente da ciò che si potrebbe erroneamente pensare, impone un‟esigenza di un vero e proprio lavoro psichico da parte dell‟insegnante. Certo, sarebbe abbastanza facile lavarsene le mani. Limitarsi a dare un cattivo voto, con obiettività e presunto distacco. E nella maggior parte dei casi da sempre le cose funzionano anche così. Ma a livello profondo la dinamica è più complessa. Il giudizio negativo chiama in causa il toccare con mano il problema emotivo sottostante dell‟allievo, e l‟incapacità dell‟istituzione scolastica a farvi fronte. Solo l‟insegnante relativamente in pace con se stesso, perché ha svolto un la- ISSN 2035-4630 P a g . | 26 voro psichico dentro di sé e in modo autorevole accompagna il cammino della formazione degli allievi, è sufficientemente separato e libero dai sensi di colpa da tollerare di poter dare un voto negativo a uno studente, perché egli ha compiuto a sua volta il proprio dovere ed è a quel punto relativamente autonomo per decidere, scegliere e poi separarsi in un ruolo adulto e più distanziato emotivamente. Ora, nel corso della mia esperienza di lavoro nelle scuole, ho potuto constatare come specifiche e dure resistenze lavorino spesso contro la collaborazione con professionisti esterni alla scuola stessa. A parer mio queste resistenze hanno a che vedere con difese ben precise: quelle contro lo svolgimento di un lavoro psichico da parte dell‟insegnante sul proprio mondo interno e sulle dinamiche in gioco nel rapporto con i propri allievi. È questo un tema talmente trascurato, per non dire misconosciuto da molti insegnanti, tale da attivare in automatico in loro forti angosce di natura persecutoria: paura di essere giudicati inadeguati, peggio ancora tirannici nei confronti dei propri allievi; paura di avere fatto e di continuare a fare loro del male; il che attiva alla radice forti sensi di colpa che si riflettono in un atteggiamento fobico e paranoico verso l‟interlocutore esterno alla scuola. Un esempio: La signora A., insegnante di scuola media inferiore, da me contattata previa accordo con il dirigente scolastico, alla proposta che le sottopongo di farsi promotrice dell‟organizzazione di un gruppo di discussione tra insegnanti sui problemi della scuola, mi risponde in prima istanza che la programmazione è già stata organizzata per l‟anno accademico in corso. Alla richiesta avanzata di nuovo riguardo al fatto di divulgare la proposta ad altri suoi colleghi, mi sento rispondere in modo secco e perentorio che «Noi insegnanti siamo già fin troppo abituati a discutere tra di noi, da non avere bisogno IJPE 2014, vol. VI(2) di estranei con cui parlare. Arrivederci. Buona giornata». Diverse sono le considerazioni che si possono fare su un episodio di questo tipo, se pure in presenza di limitati elementi di valutazione, data la brevità dell‟interazione telefonica. Per quale motivo un insegnante, delegato dal dirigente scolastico come responsabile di iniziative sul disagio scolastico, dovrebbe mostrare con facilità tutta questa reticenza al confronto con uno psicologo e pedagogista sul tema di discussione del rapporto con i propri allievi. È evidente il clima di persecuzione, la paura di una valutazione da parte di professionisti esterni alla scuola. Come certi genitori di pazienti psichiatrici hanno il terrore di rivolgersi a uno psicologo, e possono tollerare al limite, sia pure controvoglia, delle cure farmacologiche somministrate ai propri figli, molti insegnanti sono completamente sordi al dialogo con professionisti esterni alla scuola, che chiamino in causa la proposta di un lavoro introspettivo sui propri vissuti nella relazione con l‟allievo. La spiegazione di ciò sembra risiedere nella portata d‟impatto dei sensi di colpa. Se un insegnante che lavora da cinque, dieci o anche vent‟anni con gli allievi non ha mai pensato di prendere in considerazione la riflessione su aspetti che chiamino in causa la dimensione affettivo-relazionale nel rapporto con loro, è evidente che avrà molta paura di esporsi a mostrare quello che potrà apparire come un atteggiamento reticente, foriero potenzialmente di molti sensi di colpa. Una contraddizione di fondo si trova, come già accennato, nell‟immane compito degli insegnanti. La società delega loro un compito di difficoltà niente affatto trascurabile. A fronte di retribuzioni economiche pressoché insufficienti, la società e lo stato chiedono agli insegnanti di fatto di svolgere un compito molto più arduo di quello che si configura sulla carta. La funzione dell‟insegnante infatti esula dai meri contenuti di trasmis- ISSN 2035-4630 27 | P a g . sione del sapere (Salzberger, 1983) e chiama in causa aspetti e funzioni delle relazioni di aiuto. Questo elemento è inevitabile, e la sua negazione non fa che accrescere i sensi di colpa degli insegnanti e i fenomeni di burnout lavorativo. Ecco che una difesa automatica verso questa angoscia diventa un circolo vizioso, che riflette il condensato massiccio di diverse questioni irrisolte tra loro intrecciate. L‟insegnante che nega il contatto introspettivo con il proprio mondo interno e il monitoraggio riflessivo con i propri vissuti rischia di non essere per nulla di aiuto sincero per i propri allievi. La negazione di ciò non fa che alimentare un atteggiamento di chiusura, rinforzando un circolo vizioso sempre più persecutorio. Se l‟insegnante riduce la dimensione del rapporto con gli allievi alla mera trasmissione della conoscenza, è evidente che taglia fuori tutto un ordine di problematiche: quelle che chiamano in causa il mondo interno degli allievi e le sue proprie reazioni transferali e controtransferali a contatto con loro. È quando i processi d‟insegnamento e di apprendimento si iscrivono in tali modalità di rapporto insoddisfacenti, perché inclini a negare la sua dimensione problematica, che cominciano i guai più seri. Come già detto, un insegnante, sia pure arroccato su questa posizione, spesso desidera due cose più di ogni altra: farsi amare dai propri allievi e che i propri allievi risultino molto bravi (Recalcati, 20104). Ma se egli non si dispone in un assetto di funzionamento mentale diverso, il grave rischio è di negare il dolore psichico degli allievi a contatto con il processo di apprendimento. Quando la negazione diventa eccessiva, la dinamica di rapporto prende a quel punto una curvatura paranoica e il cerchio della patologia istituzionale si chiude. A quel punto il controllo e la negazione devono essere perpetrati all‟infinito, pena il rischio che si scoperchi una pentola ricolma di problemi. IJPE 2014, vol. VI(2) A ben vedere due atteggiamenti difensivi degli insegnanti predominano in genere nel contatto con adulti esterni alla scuola, siano essi genitori degli allievi o professionisti di corsi di formazione nel campo delle relazioni di aiuto. Vi è un atteggiamento falsamente regressivo, in cui l‟insegnante retrocede a un ruolo simile a quello di uno studente, e pretende che un sapere gli sia impartito, come se la dimensione affettivo-relazionale si riducesse a un fascio di tecniche da imparare. Ma vi è per contro un atteggiamento tirannico, di chi si sente padrone in casa propria e non soltanto non accetta critiche, ma in modo intransigente si chiude a qualsiasi possibilità di scambio o di dialogo. Quando quest‟ultimo atteggiamento risulta predominante, nessun tipo di lavoro psichico sui vissuti emotivi può essere svolto, e ciò che l‟insegnante chiede in ultima analisi è che altri non entrino nel merito dei suoi problemi, i quali molto spesso ricadranno sulle spalle dei propri allievi. È per questo che lavorare da professionisti esterni alla scuola può essere più o meno facile, se non in verità difficilissimo. Le difficoltà sono direttamente proporzionali alla misura in cui il lavoro proposto e portato avanti si inoltra nel mondo interno degli insegnanti, con il rischio che ciò venga a toccare il nodo conflittuale dei loro sentimenti ambivalenti e problematici verso i propri allievi. A quel punto le risposte possono essere di negazione, aperta chiusura, se non addirittura reazioni di attacco violento all‟interlocutore, di un genere francamente paranoico. Molto più facile sembra per l‟insegnante accettare di collaborare, specie quando può avere un tornaconto vantaggioso, ad esempio d‟immagine o di avanzamento di carriera, a progetti più superficiali: dalle attività di tipo ricreativo all‟apprendimento di tecniche di gestione del rapporto con gli allievi. Tutto ciò che possa arricchire il proprio bagaglio, senza toccare il nodo più spinoso e insidioso del contatto con il proprio mondo interno, ISSN 2035-4630 P a g . | 28 con la realtà psichica con tutti i conflitti che ciò viene a scatenare in termini di sensi di colpa non elaborati. Conclusioni In sintesi, credo che emerga da tutto il discorso sviluppato in queste pagine quanto dolore mentale negato, rimosso o represso vi sia nell‟istituzione scolastica; quanto forte sarebbe in verità il bisogno da parte di tutto il personale della scuola di portare avanti un lavoro psichico sui propri vissuti, così da metabolizzare un carico non indifferente di angosce; ma quanto forti e potenti siano per contro le difese che l‟istituzione scolastica e i suoi membri adulti erigono nell‟opporsi a questo compito, minando la possibilità di al- leggerire il proprio carico di stress emotivo, in un compito di elaborazione che risulterebbe proficuo per il benessere di tutto l‟ambiente della scuola. È tempo che gli insegnanti comincino a mettersi maggiormente in gioco, riconoscendo le radici emotive del loro rapporto con gli allievi e la misura in cui tutto questo si riflette sulle dinamiche dell‟insegnamento e dell‟apprendimento. Solo così essi potranno assolvere fino in fondo al loro mandato, e solo in tal modo sarà possibile per loro evitare quegli agiti di aspetti di sé aggressivi nel rapporto con gli allievi, che costituiscono, come chiarito, una causa fondamentale sia di disagio scolastico degli allievi, sia di burnout degli stessi insegnanti. Bibliografia Blandino, G., (2008). Quando insegnare non è più un piacere. La scuola difficile, proposte per insegnanti e formatori. Milano: Raffaello Cortina. Calamandrei, S. (2007). Uno psicoanalista va a scuola. Interazioni, 2, 77-92. Di Chiara,G. (1999). Sindromi psicosociali. La psicoanalisi e le patologie sociali. Milano: RaffaelloCortina. Fratini, T. (2009). Il disagio scolastico: una lettura clinica. Milano: QuattroVenti. Fratini, T. (2012). Gli “errori” degli insegnanti: Problemi di psicopedagogia. In S., Ulivieri (Ed.), Insegnare nella scuola secondaria. Per una declinazione della professionalità docente (pp. 225247). Pisa: Edizioni ETS. Galimberti, U. (2009). I miti del nostro tempo. Milano: Feltrinelli. Recalcati, M. (2010). Cosa resta del padre. Milano: Raffaello Cortina. Recalcati, M. (2014). L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Torino: Einaudi. Salinger J. (1951), The Catcher in the Rye. Boston: Little, Brown and Company. (trad. it. Il giovane Holden. Torino: Einaudi, 1961). Salzberger-Wittenberg, I. (1993). Aspetti del rapporto dell‟insegnante con gli studenti. In I., SalzbergerWittenberg, G. Polacco Williams, & E. Osborne. L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento, (pp. 71-90). Napoli: Liguori. IJPE 2014, vol. VI(2) ISSN 2035-4630