L’infinito nella luce
Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una retrospettiva ad Antonio
Calderara
/ 19.12.2016
di Alessia Brughera
«Sono autodidatta, isolato, interessato soltanto al mio problema, al mio lavoro. Vado avanti sorretto
dalla certezza che un giorno mi sarà svelato quel grande mistero che è la pittura. Per ora quello che
mi pare importante è dipingere, è non rifiutare di accettare e affrontare con serena umiltà i sempre
nuovi problemi». Così scriveva di se stesso e della propria arte Antonio Calderara, forte di una
perseveranza che non gli ha mai permesso di ripiegare su facili soluzioni e di una solitudine che ha
saputo conferire alla sua pittura quell’autonomia necessaria al raggiungimento di esiti peculiari.
Artista poco conosciuto ai più, nato nel 1903 ad Abbiategrasso, Calderara ha difatti portato avanti
una ricerca molto singolare se si pensa all’ambito in cui è maturata, esempio più unico che raro nel
panorama italiano novecentesco e vicina per sensibilità alle innovative esperienze internazionali.
Piuttosto anomala è stata anche la sua parabola artistica, che lo ha visto convertirsi all’astrazione
molto tardi, dopo trent’anni di militanza nelle fila dei figurativi. Un lento approdo, questo, che
rispecchia l’indole riflessiva del pittore e il suo bisogno di una graduale elaborazione per giungere a
maturare un nuovo linguaggio.
Nella sua vita per lo più trascorsa in disparte nel piccolo paese di Vacciago di Ameno, affacciato
sulla sponda orientale del lago d’Orta, Calderara non ha però mancato di confrontarsi con gli artisti
a lui coevi, soprattutto nella fervida Milano, uscendo di tanto in tanto dal suo isolamento per trarre
stimoli con cui alimentare la propria indagine pittorica.
Il Museo d’arte della Svizzera italiana dedica una retrospettiva a questo maestro caparbio e solitario,
le cui opere mancavano in territorio elvetico dal 1969, anno in cui lo storico dell’arte JeanChristophe Ammann le aveva raccolte in una grande esposizione al Kunstmuseum di Lucerna.
La rassegna luganese ci illustra attraverso quasi duecento lavori disposti in ordine cronologico il
complesso percorso di Calderara, sorretto da una costante tensione verso l’assoluto che lo ha
condotto nel corso dei decenni a una pittura capace di farsi pura essenzialità.
Si parte dai dipinti figurativi degli anni Venti e Trenta in cui si coglie la vicinanza ad alcune delle
esperienze che in quel periodo animavano la scena artistica lombarda. Sono opere terse e minuziose,
dalle forme semplificate e dalle atmosfere pacate che sfociano in una visione attonita della realtà.
Nella scelta iconografica, nella resa cromatica e nell’effetto straniante richiamano gli stilemi del
movimento milanese Novecento, espressione di quel «ritorno all’ordine» che si fondava sul
predominio dei valori volumetrici e sul trattamento di una luce ben definita. Calderara però sembra
non dimenticare nemmeno la lezione degli artisti del passato, primo fra tutti Piero della Francesca,
con il suo chiarore che sa intridere i colori, il suo rigore compositivo e la plastica monumentalità
delle sue figure.
I brani di vita famigliare e gli scorci naturalistici che Calderara realizza in questi anni hanno un forte
impianto geometrico e sono avvolti da una luminosità omogenea che li proietta in una dimensione
metafisica. Tra questi, L’isola di San Giulio, del 1935, è un bel paesaggio lacustre in cui l’isolotto e le
montagne sullo sfondo paiono già dissiparsi in quella luce rarefatta che il pittore inseguirà per tutta
la sua esistenza.
Il passaggio all’astrazione, difatti, non è altro che la naturale conseguenza dell’assecondare la sua
esigenza di luce, quella luce che, scrive Calderara, «nel tempo si è man mano chiarita a me stesso e
a se stessa, fino a diventare l’unica cosciente e responsabile protagonista della mia pittura».
È così che nei dipinti eseguiti negli anni Quaranta e Cinquanta si assiste a un lento abbandono della
figura. I soggetti cari all’artista popolano adesso superfici di piccolo formato, prendendo vita da
leggeri strati di colore sovrapposti che sciolgono i contorni del reale nelle vibrazioni luministiche. È
il progressivo accostarsi di Calderara al nulla dell’assenza, all’uomo e al suo essere finito
nell’infinito.
Complice l’incontro con la pittura di Mondrian, le opere di Calderara immergono via via le forme in
una limpidezza diafana che quasi le cancella: i profili degli oggetti e delle persone si perdono in una
luce abbagliante e in una stilizzazione grafica che li riduce a poche linee appena percettibili.
L’approdo definitivo all’astrazione ha per Calderara una data precisa, il 1959. Si tratta però di
un’astrazione del tutto individuale, che non ambisce a essere pittura geometrica bensì a farsi
«rappresentazione della misura umana in uno spazio di luce». Per questo è stata giustamente
paragonata alle ricerche che negli stessi anni vengono attuate da artisti americani quali Mark
Rothko, Barnett Newman o Ad Reinhardt, in una condivisa aspirazione a fare della superficie
pittorica un’estensione mentale, spirituale.
I titoli delle opere sono adesso «contrappunti di ritmi», «opposizioni cromatiche», «espansioni
organizzate», «attrazioni in tensione», «pesi ottici» e «costellazioni». Lavori governati da una luce
iridescente e densa in cui le poche e semplici forme emergono caute dai contrasti minimi delle
tonalità cromatiche.
Calderara riesce in questo modo a portare piano piano la sua pittura fino al confine ultimo del
visibile. Negli Epigrammi, dipinti su tavola realizzati nel 1978, anno della sua morte, i tratti
sembrano volatilizzarsi nell’estrema delicatezza dei colori, in una geometria ridotta a pura essenza
che diventa poetico annuncio della lenta dissoluzione della vita.
Concludono il percorso di mostra alcune opere provenienti dalla collezione del pittore (custodita
nella sua casa-atelier di Vacciago), nata dagli scambi con i colleghi più stimati e vicini alla sua
vicenda artistica – Lucio Fontana, Piero Manzoni e Josef Albers, solo per citarne alcuni – e preziosa
testimonianza della visione del mondo del suo creatore.