IL PARADOSSO “DE PRINCIPATIBUS” DI MACHIAVELLI
O LO SMONTAGGIO DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO ONESTO
“E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani;
perché tocca a vedere a ognuno, pochi sentono quello che tu se’;
e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti
che abbino la maestà dello stato che gli difenda;
e nelle azioni di tutti li uomini,e massime de’ principi,
dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine.”
Machiavelli, “Il Principe”, XVIII,6.
Machiavelli nel XIX capitolo del Principe descrive le azioni di Settimio
Severo, mostrando “quanto e’ seppe bene usare la persona del lione e della
golpe, le quali nature io dico di sopra essere necessarie imitare a un
principe”. Di sopra, cioè nel capitolo precedente, aveva trattato di “Come i
principi debbano rispettare i patti”, di come dovrebbe essere, ma che
viceversa ai suoi tempi non era. Infatti, osserva Machiavelli, i principi le cui
azioni non si sono fondate sulla lealtà, bensì “hanno saputo con l’astuzia
aggirare e’ cervelli degli uomini” hanno “fatto gran cose”, ottenendo
risultati migliori di chiunque altro. Per un principe ӏ necessario sapere
bene usare la bestia e lo uomo” e, tra le bestie, deve scegliere quelle della
“golpe” e del “lione”. L’astuzia della volpe e la forza del leone, dunque, con
l’aggiunta di un’istruzione per l’uso: “ma è necessario questa natura
saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore”.
Dalla formulazione di questa ricetta, che si trova a metà del XVIII capitolo,
alla fine dello stesso capitolo il verbo parere ricorre per ben sette volte.
L’accento viene posto fortemente sul come apparire, dal latino parĕre, nel
senso di come costruire il proprio aspetto, cioè sul come comportarsi per
sembrare altra persona da quella privata. In altre parole, fingere, simulare
appunto, rappresentare artificialmente i sentimenti in modo che sembrino
veramente sentiti e dissimulare, nascondere sotto diversa apparenza sia i
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sentimenti realmente vissuti che gli obiettivi effettivamente perseguiti. Ma
per il principe è necessario, suggerisce Machiavelli,
colorire di
comportamenti nobili e condivisi l’esercizio della natura bestiale, passarvi
sopra una sapiente mano di colore – colōrem, dalla stessa radice di celāre,
perché il colore nasconde le cose –, insomma deve mettersi la maschera –
dall’etrusco phersu da cui il latino persōna(m) – ed esercitarsi attraverso
l’imitazione a saperla usare bene.
Nell’ambito semantico del verbo “apparire”, così come in tutte le altre
parole sopra citate, è posto l’accento sulla necessità da parte del soggetto
che compie l’azione di doversi mostrare. Mostrare di essere,
semplicemente o di essere in un certo modo, poiché l’azione avviene
davanti a un pubblico. Ma questa non è l’unica frontalità, in qualsiasi
performance la prima frontalità è quella con se stessi. Naturalmente, si può
fuggire di fronte all’abisso – alcune volte si è tentati di farlo quando la
comunicazione crudele di quell’opusculo, asciugato come un osso di seppia
che è il Principe, raggiunge livelli abissali senza via d’uscita –, però noi
“contemporanei” di Machiavelli ormai sappiamo che non si elimina il
problema rimuovendolo. L’unica uscita di sicurezza che possiamo costituire
passa attraverso l’accettazione del mondo così com’è, soltanto
l’elaborazione del lutto ci porterà fuori a riveder le stelle. Cosicché, la via
d’uscita passa attraverso la trasformazione. Trasformati finalmente in
soggetti responsabili di progetto per un futuro sostenibile, potremmo
riconsiderare l’importanza di aver compiute quelle azioni, coniugate nel
progetto stesso al tempo futuro anteriore e che ne sono state la necessaria
premessa effettuale.
Tutte le frasi dal Principe sopra citate, richiamano l’aspetto performativo
non soltanto perché presuppongono la rappresentazione di azioni per il
pubblico, ma anche per l’implicito richiamo alla capacità progettuale
necessaria per mettere queste ultime in vita, cioè trasformarle in azioni
compiute fino in fondo. In altre parole, per doverosa sintesi e brevità, ciò
che mi preme sottolineare è il fatto che Machiavelli, per trattare dei
comportamenti adeguati al principe, attiva il paradigma teatrale e ce li
presenta come eventi teatrali.
Ancora ai nostri giorni, una serie di opposizioni linguistiche esemplificano a
livello del senso comune il rapporto tra “teatro” e “vita”. Esse si fondano
sul presupposto che le due sfere partecipino di differenti status di realtà: la
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“vita” è generalmente “vera”, mentre il “teatro” è “finto”, l’una è
“autentica” mentre l’altro è “falso”, la prima costituisce una sorta di
“originale” di cui il secondo è la “copia”. Machiavelli usa
programmaticamente la forma espressiva metaforica per creare una
similarità fra il teatro e la vita politico-sociale, rende due pensieri di cose
differenti contemporaneamente attivi, affinché proprio dalla loro
interazione derivi la produzione di nuovo senso. La metafora è usata non
come un semplice abbellimento linguistico, ma come strumento euristico e
conoscitivo.
Il paradigma teatrale è rafforzato dalla prospettiva drammaturgica di
Machiavelli, espressa in tutte le sue opere attraverso il tema della
propensione umana alla conflittualità e dalla conseguente analisi della
funzione del conflitto nell’organizzazione della vita politico-sociale. Nei suoi
scritti l’analisi delle forme di governo è strettamente connessa con il
conflitto distributivo tra le classi sociali. Per Machiavelli – contrariamente a
quanto è stato sostenuto in questi nostri ultimi decenni da intellettuali ed
economisti di ispirazione neo-liberista che attribuiscono all’autore del
Principe la difesa della “ragion di mercatura” – occorre una regola che
stabilisca i modi di accesso alle risorse economiche, nonché la distribuzione
del prodotto finale tra i membri della società. Questa regola non esiste in
natura, essa è una costruzione artificiale, la cui efficacia poggia in ultima
istanza sull’esistenza di un soggetto capace di farla rispettare.
Machiavelli svolge la sua analisi delle realtà socio-politiche, che di volta in
volta va prendendo in esame nei suoi scritti, usando il modello della
performance teatrale per smontare sistematicamente l’ideologia dell’uomo
onesto. Decostruisce nella sua narrazione la convinzione che la vita sociale
ordinaria sia il regno delle rappresentazioni dirette, vere e sincere – tranne
il riprovevole fenomeno degli imbroglioni e dei truffatori , da considerarsi
però come un accidente statisticamente irrilevante
–, mentre il
palcoscenico è l’esclusivo dominio delle rappresentazioni false,
accuratamente messe in scena, finte. Istituendo la totale commutabilità dei
significati dimostra, viceversa, come una grande quantità di atteggiamenti
e comportamenti quotidiani sia composta e permeata da giochi,
contrattazioni, simulazioni, messe in scena, facciate, lavori in definitiva da
attori professionisti. Questo grande lavoro di scavo è condotto da
Machiavelli senza mai entrare nel merito di uno specifico modello teatrale,
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egli propone semplicemente la metafora teatrale, ma noi sappiamo che
capire una metafora è come decifrare un codice. Come abbiamo detto
sopra, la metafora non è un semplice abbellimento letterario, essa è
potente e della sua potenza si compiace l’Autore, che con il sottile sorriso
del grande uomo di Teatro sembra scegliere la buca del suggeritore per
soffiare nel nostro orecchio l’invito a riflettere che il lavoro dell’attore non
consiste nel mostrare una faccia finta, separata e che nasconde quella
vera; al contrario il lavoro dell’attore è lo sforzo di dare vita e “verità” a
quello che si potrebbe apparentemente credere una pura finzione.
Dal punto di vista delle convinzioni accademiche occidentali, perdura
ancora, sebbene sempre più debolmente, l’interpretazione che “recitare”
significhi finzione, illusione, menzogna. Una simile visione deriva da Platone
e dal suo allievo Aristotele. Il primo stabilisce una gerarchia della realtà,
dove l’evento più reale è quello più lontano dall’esperienza, il secondo
considera l’arte come l’imitazione di un riflesso. Ma dal punto di vista delle
convenzioni indiane, soltanto per fare uno degli esempi possibili, il recitare
è una giocosa illusione così come il mondo stesso, ragione per cui in India
recitare è sia falso che vero. In effetti, “in Asia spesso si crede che la
maschera sia più vicina alla realtà di quanto non possa esserlo la faccia
dietro la maschera: recitare non è inventare qualche specie di bugia, ma un
mezzo per arrivare alla verità”. Dopo Stanislavskij e le avanguardie storiche
del Novecento, questa è divenuta anche una delle pratiche del Teatro
occidentale.
Considerato che nei testi di Machiavelli sono assolutamente assenti
elementi che possano essere interpretati a favore di una visione dialettica
della storia, riscontrato che nella lotta non c’è possibilità di conciliazione e
che la stessa politica non è possibile mediarla con l’istanza etica, poiché
insomma non esistono elementi che possano indurci a leggerli in maniera
consolatoria, dobbiamo prendere atto che essi sono stati composti per
stabilire un rapporto tête-a-tête con i lettori. Costretti in questa frontalità,
alla fine, se decidessimo di ingaggiare come vuole l’Autore un vero corpo a
corpo, dovremmo inevitabilmente prendere posizione. Delle due l’una, o
questi testi li abbandoniamo al giudizio di Bertrand Russell, che giudica il
Principe “un manuale per gangster”, o li
consideriamo, viceversa,
l’incubatrice per un pensiero apicale, che nel suo definitivo sviluppo lungo
l’arco di cinque secoli, ci ha portato a considerare la lotta per impadronirsi
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del potere, sia pure non per sé ma a vantaggio del Popolo e della Nazione,
la più colpevole delle colpe.
Quando terrorizzati avvertiamo la vertigine dell’abisso, spalancatosi
davanti ai nostri occhi per aver assistito allo smontaggio di un intero
sistema ideologico – che qui per sintesi abbiamo chiamato dell’uomo
onesto, citando la definizione di Erving Goffman –, nel mentre stiamo per
sprofondare, troviamo proprio in questa mise en abyme la chiave di lettura
che ci salva dalla follia. Su questa soglia, prende concretezza la figura
mitica del centauro, evocata da Machiavelli come guida per il principe. Il
Centauro, metà natura e metà ragione, l’altalena liminare per montare
sulla quale è necessario il radicale allenamento alla complessità della
“verità”. E chi meglio dell’autentico uomo di teatro sa riconoscere in questa
complessità l’unico canale di comunicazione possibile? Chi meglio di questi
sa che attraverso l’esercizio della complessa ricerca della “verità” possiamo
trovare la via della trasformazione e della “redenzione”?
Machiavelli, dicevo sopra, usa il paradigma teatrale – noi suoi
contemporanei allargheremmo la focale parlando, oggi, di teoria della
performance –, per offrirci la possibilità di conquistare una visione più
complessa e concreta della realtà. Il Segretario fiorentino ci suggerisce,
sornione, che se volessimo anche noi centrare sul tirassegno semantico il
senso della “verità”, dovremmo alzare il tiro, così come fanno i bravi arcieri
che vogliono veramente colpire il bersaglio. Dovremmo spingere la nostra
indagine proprio sul terreno liminale caratteristico del teatro e, più in
generale, delle arti performative.
La valenza politico-sociale della funzione di trasformazione insita nell’arte
performativa, mi spinge, in conclusione, a formulare una modesta proposta.
Ai cittadini che volessero intraprendere la carriera politica – così come a
tutto l’attuale e futuro ceto dirigente, per i primi con funzione rieducativa e
per i secondi formativa – lo Stato dovrebbe impartire, sin dalle prime classi
della scuola dell’obbligo, Elementi di pratiche teatrali. Corsi istituzionali di
Teatro e obbligatori per qualsivoglia curriculum scolastico, condotti dai
migliori Maestri di questa disciplina, ma non per insegnare la buona dizione
o come essere più spigliati nel comportamento, bensì per educare alla
ricerca della “verità”, che è sempre concreta. Naturalmente, in buona pace
con chi ritiene che con la cultura non si mangi.
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Domenico Polidoro
p
t
cell. 39.347.3300664
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BREVE BIBLIOGRAFIA
-
Niccolò Machiavelli, Il Principe, BUR
[Si rimanda a questo libro per la bibliografia relativa alle Opere di
Machiavelli e aglii studi critici su di esse.]
-
Il Principe. Di Niccolò Machiavelli, annotato da Napoleone Buonaparte,
Silvio Berlusconi Editore, 1993 [Presentazione di Silvio Berlusconi e
introduzione “Machiavelli e la tradizione mercantesca” di Vittore
Branca.]
-
Louis Althusser, Machiavelli e noi, Manifesto libri, 1999
-
Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino
1969
-
Richard Schechner, La teoria della performance [a cura di Valentina
Valentini], Bulzoni, 1984
-
Fabrizio Deriu, Il paradigma teatrale, Bulzoni, 1988
-
Victor Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, 1993
-
Pier Paolo Pasolini, Pilade, Garzanti
Domenico Polidoro
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t
cell. 39.347.3300664
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