Mantikhv e deisidaimoniva nella coppia NiciaCrasso (prima parte) Nella Vita di Nicia di Plutarco sono, da tempo, ampiamente dimostrate le modalità secondo le quali è stato utilizzato Tucidide1, mentre il risalto dato ai particolari rivela il desiderio di approfondire non solo il racconto tucidideo ma anche quello degli storici sicelioti Filisto e Timeo2; dalla storia del politico e del militare viene così preso in considerazione quello che riguarda direttamente l’uomo, in rapporto alle sue imprese e al modo in cui queste possono contribuire ad un ritratto preciso ma selettivo. 1 La rassegna più interessante rimane quella di Luigi Piccirilli in M. G. Angeli Bertinelli, C. Carena, M. Manfredini e L. Piccirilli, Le vite di Nicia e di Crasso, Milano 1993, XVI-XXV, ma ritengo, comunque necessario riassumere, in breve, la storia di una lunga querelle non ancora risolta. I primi studiosi che si sono occupati delle fonti di questa vita ritengono che Plutarco abbia utilizzato sia Filisto che Timeo ma non Tucidide. Per W. Fricke, Untersuchungen über die Quellen des Plutarchos im Nikias und Alkibiades, Leipzig 1869, part.32 s.47., l’autore avrebbe usato Timeo nei cc.12-16, Filisto dal c.17 alla fine; il problema è affrontato in maniera nuova da A. Holm, Storia della Sicilia nell’antichità II, Torino 1901, che in una analisi in polemica con il Fricke rileva che la narrazione non risulta, salvo in casi di scarsa importanza, in contraddizione con quella di Tucidide: Plutarco, egli dice, ha comunque utilizzato direttamente anche Filisteo e Timeo. G. Busolt, Plutarch “Nikias” und Philistos, «Hermes», 34 (1899), 280-97, ritiene che Plutarco abbia usato come fonte principale Tucidide e che abbia integrato, per la parte relativa alla spedizione ateniese in Sicilia, con notizie tratte da Filisto, mentre l’uso di Timeo sarebbe limitato agli elementi superstiziosi. A questa impostazione si rifanno A.W. Gomme, A historical Commentary on Thucydides I, Oxford 1945, e R. Lauritano, Ricerche su Filisto, «Kokalos» 3 (1957), 104ss.; per M. A. Levi, Plutarco e il V secolo, Milano-Varese 1955, 159-95, non avrebbe usato direttamente Tucidide ma si sarebbe servito di una fonte intermedia; R. Laquer, s. v. Philistos, in R. E. XIX 2, 1938, col. 2422, ritiene che Filisto sarebbe confluito in Plutarco attraverso Timeo mentre P. Pédech, Philistos et l’expédition athénienne en Sicile, in filÄa⁄ x„rin. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni V, Roma 1980, 1709-34, sottolinea che il primo ha un indirizzo siracusano ed enfatizza eventi interni a Siracusa. U. Laffi, La tradizione storiografica siracusana relativa alla spedizione ateniese in Sicilia, 415-413 a. C., «Kokalos» XX (1974), 18-45, individua, invece, attraverso la tradizione parallela e complementare a quella tucididea, relativa alla spedizione ateniese in Sicilia (Diodoro, il Nicia di Plutarco, Polieno) quegli elementi storiografici che sembrano riducibili ad un filone siracusano. 2 Come, del resto, viene ampiamente indicato da Plutarco in Nic.1,5. La deisidaimoniva di Nicia, che assume diverse forme e mina non solo l’esistenza privata dell’uomo ma anche lo stato e le istituzioni ateniesi, appare, subito, come motivo di forte richiamo. Plutarco considera, infatti, l’eujsevbeia come il giusto mezzo fra l’ateismo e la superstizione3, mentre la deisidaimoniva come polupavqeia kako;n to; ajgaqo;n ujponou`san4, un pavqoı5, una paura immotivata della divinità6; il rispetto per gli dei è un dovere, ma quando si trasforma in sconsiderata paura allora è una viltà7, un gunaikismovn8. La superstizione è, dunque, paura del divino e se il deisidaivmwn è colui che ha rinunciato alla razionalità9, Nicia diviene esempio paradigmatico di questo difetto10. Atene è andata incontro ad una catastrofe annunciata, e Plutarco organizza il materiale di questa biografia in modo da trovare una spiegazione alla condotta irrazionale degli Ateniesi precedentemente alla disfatta del 413 a. C; emerge così un caso clinico in cui si intrecciano le vicende degli indovini, pagati da Alcibiade, e quelle dei sacerdoti, in un clima di irrazionalità collettiva. Nicia rappresenta un momento cruciale della parabola negativa percorsa dai greci come popolo e da un grande generale come responsabile supremo della sconfitta, tanto che il confronto tra un greco ed un romano ha valore solo in quanto i due protagonisti hanno in comune un insuccesso in terre lontane dalle loro; il vero confronto è, invece, quello con le “vite greche” in cui è possibile ritrovare un diverso atteggiamento verso lo stato, la collettività, la religione. La biografia ha, comunque, un aspetto unitario che si fonda sul ritmo dei periodi che convergono tutti nel triste epilogo della vicenda siciliana; la composizione a blocchi dei capitoli ne mette in rilievo solo alcuni, ed è questo il motivo per il quale risulta necessario ripercorrere con ordine la struttura della biografia che, a parte il primo capitolo, con funzione metodologica11, contiene quattro parti (capp. 2-5) che fungono da 3 Cfr. G. Lozza, De superstitione, Milano 1980, 11-38. De superst.167 E. 5 De superst. 165 C. 6 Cfr. H. Erbse, Plutarch Schrift, «Hermes», 1952, 296-314 7 De superst. 170 E-F. 8 Caes.3,11. 9 De superst. 168 D-F 10 Cfr. A.G. Nikolaidis, Is Plutarch Fair to Nikias?, «Illinois Classical Studies» XIII 1988, 319-33. e L.Piccirilli 1993, op.cit., XV. 11 La premessa storiografica è chiaramente contraria ad ogni tipo di superstizione. Prova evidente è l’attacco contro Timeo in Nic. 1,2: «(Timeo) Infatti incorre spesso nelle caratteristiche di Senarco, ad esempio quando dice di ritenere che fu un brutto presagio per gli Ateniesi il fatto che lo stratego che portava il nome della vittoria, Nicia, si opponesse alla spedizione; e che la mutilazione delle erme fu un avvertimento divino agli stessi Ateniesi, per cui durante la guerra avrebbero subito la 4 introduzione, priva di notizie sul gevnoı e sulla paideiva di Nicia. Anche quando le azioni di Nicia sono legate ad un avvenimento religioso importante, come le cerimonie di Delo, di cui è stato in prima persona l’artefice, dopo una nota suggestiva12in cui vengono descritti il sacrificio, la gara e i banchetti, l’apparente armonia si rompe e il suo agire è vanificato. Egli pianta una palma di bronzo, come offerta al dio: «Però la palma fu spezzata dai venti e cadde sulla grande statua eretta dai Nassi, e la rovesciò»13; poco dopo tenta14, quindi, di accattivarsi il popolo con l’allestimento di spettacoli teatrali, e altre simili prodigalità, che rivelano il suo atteggiamento mosso da ambizione politica. La superstizione, però, appare subito come forte aggravante: «Nicia infatti era di quegli uomini che temono fortemente la divinità (tav daimovnia), “dedito alla superstizione (qeiasmw`)” come dice Tucidide»15. Anche la testimonianza di Pasifonte16 a proposito dell’indovino tenuto in casa con l’incarico di scrutare le faccende pubbliche, mentre in realtà indagava sugli affari privati del padrone, ci porta ad una riflessione che in parte contraddice quello che avverrà in Sicilia: l’apparente ansia superstiziosa maschera solo l’avidità di Nicia, preoccupato per le rendite delle miniere d’argento. Il capitolo quinto conclude questa prima sezione con una narrazione quasi comica o caricaturale. Nicia è guardingo verso i sicofanti e conduce una vita ritirata, non avendo, del resto, tempo per gli svaghi; è zelante nel campo militare come in quello civile, ma questa fama viene creata e incentivata da Ierone, cresciuto nella sua casa e da lui stesso educato; un personaggio squallido e simile al nostro portaborse: è l’ombra dell’uomo politico che non trascura di diffondere nel popolo notizie concernenti la vita faticosa e travagliata che il suo mecenate conduceva per il bene della città. Dopo un’annotazione, nel cap. 6, che appare quasi pedante e ormai estranea alla parte proemiale17, vengono illustrate alcune tappe fondamentali nella carriera del militare, fino all’undicesimo capitolo, particolarmente interessante perché svolge il ruolo di lunga digressione di carattere didascalico su un problema storico-giuridico caro a Plutarco: l’ostracismo. Nel contrasto fra Nicia e Alcibiade sembra che maggior parte dei loro rovesci ad opera di Ermocrate figlio di Ermone». Le traduzioni del Nicia sono di C. Carena, op. cit., 1993. 12 Nic. 3,6: «Allo spuntar del giorno passò il ponte alla testa della processione diretta al tempio, e del coro che, sfarzosamente vestito, cantava». 13 ibid.. 3,8. 14 Si tratta di un aspetto che ritroviamo anche in Cras.3,2, nel cenno sui banchetti da lui offerti, semplici e composti. 15 Nic.4,1. 16 ibid..4,2. 17 ibid. 6,2: «Egli non riferiva le sue imprese a qualche capacità, abilità o virtù propria, ma li attribuiva alla fortuna (t t xh+) e ricorreva alla protezione della divinità (t⁄ yeõon)» l’ostracismo debba colpire uno dei due, in una lotta che ha giovani e anziani come protagonisti, alla ricerca gli uni della guerra, gli altri della pace; il popolo, da parte sua, dà modo di affermarsi ad un uomo privo di qualità eccetto quella di essere un agitatore di folle: Iperbolo. Egli, che si sente al sicuro dall’ostracismo, è felice del dissenso fra i due e aizza la massa, sottovalutando i potenti e scaltri avversari, tanto potenti da mettersi d’accordo per fare ostracizzare proprio lui. Ciò porta ad una riflessione: se possiamo sorridere sulla vicenda del demagogo rozzo ed ignorante, sfuggito alla pena capitale con il semplice allontanamento dalla città, dobbiamo anche ammettere che questo destino lo unisce a quello dei migliori cittadini cui è toccata questa pena, come Tucidide e Aristide, per esempio. Iperbolo è quindi l’ultimo cittadino ad essere ostracizzato, ma Plutarco si mostra, nelle Vite parallele, particolarmente interessato al provvedimento giudiziario18 e il caso in questione è narrato anche in altre due biografie, quella di Alcibiade e quella di Aristide19. In quest’ultima se ne trova incidentalmente notizia, senza una data; in Alcibiade se ne parla prima della campagna di Lachete e Nicostrato in Argolide, che ha avuto luogo nell’estate del 418, e in Nicia, al contrario, tra questa campagna e la spedizione in Sicilia, dopo l’estate 418 e prima dell’estate 415; si tratta, quindi, di un episodio di difficile lettura per gli stessi contemporanei, perché svoltosi in trattative private, e le fonti del nostro autore avrebbero raccolto voci differenti e tali da determinare l’incertezza della notizia. Il capitolo dodicesimo, dedicato alla Sicilia, serve quasi da introduzione al tredicesimo, che potrebbe essere così intitolato: I presagi precedenti la spedizione in Sicilia; una parte che non ha corrispondenze in Tucidide e che diviene un momento fondamentale, di verifica sul “laboratorio plutarcheo”, soprattutto se pensiamo che tutto quello che non trova riscontro nella tradizione storiografica è, per molti, indizio inequivocabile dell’amore per quel tipo di aneddoto, che non dovrebbe trovare spazio in un’opera storica. La risposta ci viene dal paragrafo iniziale grazie al quale veniamo a conoscenza del fatto che Plutarco ha di fronte a sé una o più fonti concernenti quella querelle fra oracoli di opposte fazioni; si cerca, così, di dare una motivazione religiosa sia a coloro che vogliono ad ogni costo l’intervento in Sicilia, che a coloro che sono contrari alla spedizione. Mentre i sacerdoti della città, infatti, si oppongono alla spedizione, giungono messaggeri con un oracolo da parte di Ammone20, secondo il quale gli Ateniesi avrebbero catturato tutti i 18 Cfr. il caso di Damone in Nic.6; quello di Aristide in Arist.7; quello di Temistocle in Tem.22; quello di Cimone in Cim.17 e Per.9; quello di Tucidide, figlio di Melesia, in Nic.6 e Per.16. 19 Alc.13,4-9 e Arist.7,3-4. 20 E’ l’oracolo di Zeus Ammone che, come scrive L.Piccirilli 1993, op.cit., 279, «l’oracolo di Ammone era frequentato soprattutto dai Lacedemoni e quindi il filolaconismo potrebbe chiarire il motivo per il quale Alcibiade e, prima di lui, Siracusani; non dicono il vero, aggiunge Plutarco, e nascondono profezie avverse. I presagi precedenti la spedizione sono, del resto, assenti dalla narrazione di Tucidide ed eventuali collegamenti con l’opera di Filisto o di Timeo lasciano seri dubbi e incertezze; è preferibile ipotizzare un’altra fonte che offre al biografo la possibilità di scrivere un capitolo denso di quei prodigi che potevano interessare, colpire e richiamare l’attenzione di un lettore comune dell’epoca, in consonanza con le motivazioni generali che ci rivelano, come dicevamo, perché Plutarco inserisca, in un discorso storico, tutto quello che Tucidide non avrebbe mai inserito nella sua opera21. Dal terzo paragrafo inizia una vera e propria rassegna di fenomeni religiosi che, come spesso accade in Plutarco, assumono ora un valore nuovo e si inseriscono in una climax ascendente che caratterizza l’intera biografia: il fatto accaduto presso l’altare dei dodici dei, quando un tale vi saltò su e si evirò 22; la statua d’oro di Pallade Atena, in Delfi, e i corvi che beccarono il frutto della palma finché lo recisero e lo fecero cadere (è una notizia riferita anche altrove da Plutarco23, che la derivò dall’attidografo Clitodemo24 citato come fonte da Pausania25); la chiamata, da Clazomene, della sacerdotessa di Atena, Tranquillità, e il giuoco di parole cui questo termine, ÔHsuciva (Pace) si presta. La rassegna assume così un carattere contraddittorio e tale da condannare un atteggiamento irrazionale, recidivo rispetto ad una spedizione militare che si presenta fortemente connotata dall’uomo che la compie e che muore in balia di avvenimenti che non avrebbe voluto vivere. Ciò che è usuale, nelle biografie plutarchee, diviene qui divagazione psicanalitica; si tratta di un momento interno alla biografia che, soprattutto, tende a dare una impostazione globale al Nicia. Gli oracoli sono corrotti o corruttibili, e la sfera della razionalità viene preservata con cenni complessivamente negativi di fronte all’esito della missione. I paragrafi 7-11, l’ultima parte Cimone (Cim. 18,7) lo avessero preferito agli altri: entrambi erano prosseni degli Spartani. Tuttavia, la frequentazione lacedemone dell’oracolo poteva favorire sì Alcibiade, ma non certo eliminare il pericolo di un eventuale accordo segreto fra i sacerdoti del tempio, Siracusa e le altre città doriche. E ciò avrebbe comportato una pronunzia del dio contro la spedizione in Sicilia». 21 Cfr. L. Canfora, nella sua introduzione alla Vita di Nicia, Milano 1987, Gli affari del pio Nicia, 80: «Sembrerebbe, a seguire il racconto tucidideo, che gli ateniesi inopinatamente “impazzissero” di tanto in tanto. Al contrario il quadro che risulta dalle biografie plutarchee ci aiuta a capire la non eccezionalità di tali esplosioni. Il diretto intervento nella politica di indovini e ciarlatani di vario tipo fa capire quanto questo torbido aspetto religioso-emozionale facesse parte della quotidianità della politica ateniese: la quale, per essere intesa, non può essere depurata – come si sforza di fare Tucidide- di tale inquietante e arcaico fattore». 22 Nic. 13,3 – 4. 23 cfr. Mor.397 f e 724b. 24 cfr. FGrHist. 323 F 10. 25 cfr. Paus. X, 15, 4-6. del capitolo, contengono un meditato riassunto della situazione ateniese; il primo racconto26 ricorda un semplice aneddoto che, in un ambito legato alla superstizione, narra la storia di Metone, astrologo, assegnato ad un comando militare che come qualsiasi altro soldato, cerca di passare per matto, dopo aver dato fuoco alla propria casa. Viene qui rappresentata la posizione dell’uomo comune di fronte alla guerra, ma, un uomo comunque legato agli astri, un ajstrolovgoı. Un dev iniziale, al paragrafo nono, introduce il caso di Socrate, il sapiente, avvertito dal suo Genio che quella impresa sarebbe stata una catastrofe; è una breve divagazione in cui si vuole semplicemente dimostrare che l’uomo che ascolta davvero il suo dio non poteva avere da esso altra rivelazione-denuncia se non quella che non corrispondesse a ciò che in realtà avvenne. Anche questa considerazione prepara l’atteggiamento di Plutarco sacerdote che concede alle manifestazioni esteriori una considerazione finale: in quei giorni le donne celebravano la festa di Adone, con riti funebri e kopetoiv che, se non altro, creavano una atmosfera non certo allegra, in un momento in cui era imminente la partenza.27 Dal capitolo 14 al 22 la narrazione prosegue con quelle vicende che sono una rivisitazione della spedizione siciliana sino all’eclisse di luna, descritta all’inizio del ventitreesimo; Nicia, sottolinea Plutarco, rimane contrario alla spedizione in Sicilia, e il suo comportamento non solo ostacola le iniziative militari ma le rende vane perché scoraggia i colleghi : egli si comporta come un bambino capriccioso che guarda indietro nella speranza di non affrontare un viaggio28. Poco dopo l’insorgere dei contrasti fra i generali ateniesi, Alcibiade è richiamato in patria per essere sottoposto a processo; contemporaneamente viene catturata una nave nemica con a bordo delle tavolette sulle quali i Siracusani iscrivevano i propri nomi divisi per tribù29. Gli strateghi vi trovarono un ingente numero di nomi nemici, forse con tale sbigottimento e preoccupazione che gli indovini che avevano predetto la cattura di tutti i siracusani, si allarmarono, o meglio furono contrariati nel vedere che le loro parole 26 Nic.13,7. ibid. 13,11: «Le donne celebravano allora la festa di Adone e sue immagini erano esposte un po’dovunque in città; intorno a esse si celebravano riti funebri e le donne si battevano il petto». 28 ibid.14,3. 29 ibid. 14,6-7: «Riescono anche a catturare una nave nemica con a bordo alcune tavolette, sulle quali i Siracusani iscrivevano i propri nomi divisi per tribù…Cadute nelle mani degli Ateniesi e portate agli strateghi, si vide l’ingente numero dei nomi dei nemici. Gli indovini poi ne furono contrariati, per timore che appunto in quel momento si compisse la predizione dell’oracolo secondo cui gli Ateniesi avrebbero catturato tutti i Siracusani. Tuttavia altri scrittori annotano che in realtà l’oracolo si compì per gli Ateniesi nel momento in cui l’ateniese Callippo, ucciso Dione, s’impadronì di Siracusa». 27 coincidevano con un dato di fatto che avrebbe portato ben pochi risultati militari, e che, anzi, arrecava ancora più timore, ora che si poteva essere certi almeno del numero degli iscritti alle tribù di Siracusa. Una nota che induce al sorriso ma che viene subito accompagnata da una zelante precisazione: altri scrittori ritengono che l’oracolo si compì quando Callippo (ateniese), ucciso Dione, si impadronì di Siracusa. Si tratta di un episodio riportato dal solo Plutarco ed è quindi necessario pensare ad una fonte siceliota, che potrebbe essere Timeo, incline a citare oracoli30; del resto la notizia dell’uccisione di Dione (354 a.C.), non può che farci escludere Filisto, morto nel 356/5 a.C. Il potere rimane nelle mani di Nicia (cap.15) che tiene Lamaco in sottordine; l’ azione più importante da lui compiuta è un imbroglio: egli invia, in segreto, un uomo di Catania con un messaggio, per i siracusani, affinché escano dalla città e giungano a Katane con un gran numero di soldati31. I nemici escono in forze, Nicia si impadronisce dei porti e occupa una buona posizione per l’accampamento. La battaglia, comunque, non produce effetti particolarmente positivi proprio per l’incredibile tattica temporeggiatrice del generale ateniese, e la nota più interessante riguarda il comportamento di Nicia, sempre immerso nel timore di compiere un sacrilegio (cosa sicura nel caso che gli ateniesi avessero conquistato il tempio di Zeus Olimpico, che si trovava vicino al loro campo)32. Dopo che Siracusa è stata circondata con un muro, muoiono, in duello, sia Lamaco che Callicratide (capitolo 18), ma tutto sembra andare per il meglio, al punto che i siracusani decidono di accordarsi per la pace. La narrazione è sommaria perché priva degli antefatti, precedenti all’intervento spartano in loro favore e l’arrivo di Gilippo, infatti, cambia repentinamente la situazione, a causa della superficialità degli ateniesi che non sono stati capaci di presagire quanto fosse pericolosa la sua presenza in Sicilia. Anche l’arrivo di Demostene, con alterne vicende, non risolve l’occupazione a favore degli ateniesi, anzi, come spiega Plutarco, in una sintesi magistrale, per immagini e essenzialità descrittiva, prepara solo la fine: In quel frangente compare, di fronte al porto, Demostene […] Conduceva settantatré navi con cinquemila opliti, non meno di tremila fra lanciatori di giavellotto, arcieri e frombolieri[…] I Siracusani […] ripiombarono dunque nella peggiore paura […] Al primo consiglio di guerra Demostene sollecitò un attacco immediato e uno scontro decisivo con il nemico […] Nicia pregò Demostene di non far nulla di precipitoso e di sconsiderato […] (ma) diede ai colleghi un’impressione di viltà. Demostene, prese le truppe di terra, le portò di notte all’attacco delle Epipole; uccise una parte dei nemici 30 Cfr. G. Busolt, Plutarch “Nikias” und Philistos, «Hermes» 34 (1899), p. 296. Nic.16,3: «Questa fu la maggiore azione strategica di Nicia in Sicilia». 32 Nic. 16,7. 31 prima che si accorgessero del suo arrivo33 Tutto questo avviene fino a quando egli incontra i Beoti che reagiscono e creano uno stato di forte confusione: La confusione disordinata nello stesso luogo, congiunta a paura (f“bou) e ignoranza (ÈgnnoÄaw), la fallacia della vista in una notte né di fitta tenebra né di luce sicura, precipitarono gli Ateniesi in atroci difficoltà e peripezie; una notte immaginabile, quando la luna era ormai bassa (kataferom∞nhw sel∆nhw) e parzialmente oscurata dal fitto movimento di armi e di corpi attraverso la sua luce, per cui non lasciava distinguere chiaramente le sagome per la paura dei nemici e rendeva sospetti i compagni. Inoltre, per fatalità, gli Ateniesi avevano anche la luna alle spalle (tÿn sel∆nhn àpisyen), per cui si facevano ombra da soli e nascondevano la moltitudine e il fulgore delle loro armi, mentre il riflesso della luna sugli scudi (˝ pr⁄w tÿn sel∆nhn tìn ÈspÄdvn Èntifvtism⁄⁄) dei loro avversari li rendeva alla vista più numerosi e fulgidi. Alla fine gli Ateniesi cedettero34 È l’inizio della fine di un’avventura in cui la sorte ha operato per mezzo della luna; Plutarco ha preparato con grande efficacia stilistica l’episodio della eclisse per mezzo di continui richiami, in tutto il capitolo ventunesimo, all’astro che diventa essenza negativa per un intero popolo. Dal momento che dovrà essere forte la condanna dell’atteggiamento superstizioso, causato dall’eclissi di luna, subdolamente anche la sconfitta di Demostene è legata a questo pianeta; è come se si dicesse: ci sono tante casualità legate ad un certo fenomeno naturale, ma l’uomo cui è affidato l’interesse dello stato non permetterà mai che prenda il sopravvento un sentimento che rimane irrazionale. Nel capitolo ventiduesimo viene così descritta la situazione degli Ateniesi dopo la sconfitta delle Epipole, quando ormai l’esercito ha l’ultima chance di salvarsi; una notte (cap. 23) ha luogo una eclisse di luna che provoca grande timore in Nicia e in quanti, per ignoranza (ÈpeirÄa⁄) o superstizione (deisidaimonÄa⁄), si lasciano 35 impressionare . Mentre alcune fonti hanno spiegato il modo di agire di Nicia come inevitabile conseguenza della sua indole incline alla divinazione36, Polibio accusa lo stratego di essere completamente digiuno 33 ibid. 21,1-7, passim ibid. 21,9-11. 35 ibid.23,1. 36 Cfr. Tuc. VII, 50, 4: «E mentre essi stavano per salpare, quando tutto fu pronto, avvenne un’eclisse di luna: era il plenilunio. La maggior parte degli Ateniesi, presa da timore religioso, esortava gli strateghi a sospendere la partenza, e Nicia (che era un po’ troppo dedito alla divinazione e alle pratiche di questo genere) dichiarò che non avrebbe più potuto decidere sui movimenti da darsi prima che, come prescrivevano gli indovini, non si fosse aspettato per tre volte nove giorni. Così era avvenuto che gli Ateniesi, dopo aver ritardato la partenza per questo motivo, erano rimasti sul posto» e 34 di astronomia e di non aver capito il significato del fenomeno37; questa tesi, che trova ancora oggi autorevoli sostenitori38 serve, fondamentalmente, a dimostrare che dal De superstitione al Nicia c’è una forte evoluzione del pensiero plutarcheo che, invece, rimane saldamente ancorato ad una massima inequivocabile: « Dio è per l’uomo speranza di dimostrare il suo valore, non un pretesto per essere vile» la (Èret ⁄ gÂr ßlpã⁄ o ye“⁄ ßstin, o» deilÄa⁄ pr“fasi⁄)39 divinità rappresenta, quindi, un incitamento al valore, non un motivo per essere vili (come vedremo anche nella s gkrisi⁄ finale). Il capitolo è diviso in due parti; la prima contiene riferimenti di carattere erudito che consentono a Plutarco di passare in rassegna gli studi di alcuni filosofi sulle fasi di luce e di ombra della luna (Anassagora e Protagora), con un vago riferimento a Socrate40 e Platone. Al sesto paragrafo, invece, goÀn in posizione enfatica introduce il vero termine di paragone, Dione, che attaccò Dionigi proprio quando la luna si eclissò41, come leggiamo in Quintiliano42. Dione, lo stratego allievo di Platone, fa apparire ancora più meschino Nicia, privo, aggiunge lo scrittore, anche di un individuo che potesse spazzare via dalla sua mente ogni forma di superstizione. Sia Piccirilli43 che Bodéüs44 ricordano che il Lachete platonico è una fonte del pensiero qui espresso ed è forse il motivo che potrebbe aver influenzato tutta la biografia, non tanto perché nel dialogo in cui viene discusso il coraggio (ajndreiva) uno dei personaggi sia Nicia, quanto per Diod. XIII, 12,6: «ma, quando scese la notte, la luna si eclissò. Nicia era superstizioso per natura […] mandò a chiamare gli indovini. Il responso di questi fu che era necessario differire la partenza per i consueti tre giorni». 37 Polib. IX, 19, 1 e 3: «Inoltre Nicia, lo stratego ateniese, pur potendo mettere in salvo l’esercito a Siracusa e approfittare del momento giusto della notte per sfuggire ai nemici, ritirandosi in una posizione sicura, ebbe una paura superstiziosa (deisidaimon∆sa⁄) a causa di un’eclisse di luna, come se questa volesse annunciare un presagio funesto, e arrestò la partenza dell’esercito […] Eppure, se solo avesse chiesto spiegazione a chi si intendeva di questi fenomeni celesti, avrebbe potuto non solo non perdere la sua occasione per una ragione del genere, ma addirittura avrebbe potuto utilizzarla favorevolmente a causa dell’ignoranza dei nemici». 38 Cfr. per ultimo L. Piccirilli 1993, op. cit.,, 299. 39 Plut. De superst. 169 C. 40 Nic. 23,4: «pur essendo alieno da questi problemi, tuttavia perì a causa della sua filosofia». 41 ibid. 23,6: «Dunque il suo amico Dione, anche se al momento di muovere da Zacinto contro Dionigi la luna si eclissò, non ne fu minimamente turbato, salpò, approdò a Siracusa e cacciò il tiranno». 42 Quint. Inst., I, 48. 43 vd. L. Piccirilli, op. cit., 1993, 303. 44 vd. R. Bodéüs, Un aspect du platonisme de Plutarque, «Les Études Classiques» XLII (1974), 362-74. un periodo che sembra rappresentare il primo impulso alle biografie in questione: (Socrate) e senz’altro per le cose della guerra proprio voi potreste testimoniare che la strategia si preoccupa in maniera eccellente, oltre al resto, anche di ciò che deve accadere, né ritiene di dover obbedire alla mantica, ma intende piuttosto dirigerla, dal momento che conosce meglio le cose della guerra, sia quelle che accadono sia quelle che accadranno. E la legge dispone in questo modo, che non l’indovino dirige lo stratega, ma lo stratega l’indovino45. Le parole di Socrate riflettono il pensiero di Plutarco e diventano paradossali in rapporto a quanto viene testimoniato dalla biografia di Nicia. Se questo non sembrasse sufficiente, ancora più evidente la condanna del superstizioso nell’ultimo periodo del capitolo46: Plutarco aggiunge, quindi, che non c’era neppure bisogno di conoscenze astrologiche, visto che la luna era tornata subito limpida, e qualsiasi ulteriore attesa rappresentava solo una inutile perdita di tempo. Dopo questa cesura, in cui è evidente che la mantica può, al massimo, avere un ruolo riparatore, non preventivo, nei confronti della superstizione, l’inizio del capitolo 24 ribadisce ed enfatizza la condanna di un uomo che «dimentico quasi di tutto il resto, cominciò a fare sacrifici e a consultare indovini (diemante eto), inattivo, finché vennero all’assalto i nemici»47. Questo preambolo è, fra l’altro, in corresponsione con l’inizio del capitolo 25, in cui, invece, gli indovini dei Siracusani annunciano i presagi della vittoria, in un giuoco delle parti che dal pio Nicia viene condotto con lucidità spietata al fine di togliere la minima credibilità a tutti i ciarlatani che attorniavano i militari, come abbiamo visto espresso con estrema chiarezza nel Lachete platonico. I sacrifici diventano efficaci quando Ermocrate manda a dire a Nicia di non muoversi di notte, dal momento che i passaggi verso l’interno erano stati già occupati48: questo tranello provoca la rovina totale dell’esercito ateniese che è perseguitato da un destino legato all’indugio del suo generale, sempre pronto ad ascoltare chi gli proponeva di non muoversi. Il ritratto, “paradossale”, di colui al quale erano state affidate le sorti di Atene in Sicilia, è legato ad una sorte (t xh+) molto più clemente con coloro che non avevano avuto 45 Plat. Lach., 198e-199a. La traduzione è di B. Centrone, in Platone, Lachete, Milano 1997. 46 Nic. 23, 9: «In ogni caso, per un prodigio solare o lunare allora si restava in guardia per tre giorni, come ha precisato Autoclide nelle sue Spiegazioni. Nicia invece indusse gli Ateniesi ad attendere un altro ciclo lunare, quasi non avesse visto la luna tornare subito limpida, una volta superata la zona in ombra per l’opposizione della terra». 47 ibid. 24,1. 48 ibid. 26,1. zelo religioso, o meglio, con i peggiori membri dell’esercito49. Il capitolo ventinovesimo ha, ancora, diversi punti di contatto con la narrazione di Tucidide e la descrizione della sorte dei prigionieri nelle Latomie corrisponde al più esteso racconto tucidideo; le notizie, invece, su ciò che rappresenta Euripide per gli Ateniesi e l’episodio della nave di Cauno rifugiatasi in Sicilia non derivano da Tucidide. La T xh tramite un forestiero opera un’ultima beffa: un barbiere del Pireo, per primo, viene a sapere qual è stato l’epilogo della spedizione e la sorte di Nicia passa di bocca in bocca, con un epilogo tragicomico. Un esito vicino, per struttura e messaggio, a quello di Crasso, che aveva sì voluto tenacemente la spedizione conclusasi a Carre, ma che mai avrebbe immaginato di poter servire, egli stesso, con la sua testa, alla rappresentazione delle Baccanti di Euripide. Risulta quindi evidente che un’attenta lettura di questa biografia smentisce, ancora una volta, i luoghi comuni accumulatisi nei secoli: dalla storia del politico e del generale viene preso in considerazione quello che riguarda direttamente l’uomo, a seconda dell’interesse suscitato dalle sue imprese e di quanto queste possono contribuire al ritratto del protagonista; la chiave di lettura generale per l’intero corpus si trova invece nel proemio della Vita di Alessandro: Plutarco premette un capitolo50 nel quale ammette che ciò che egli dice può essere criticato, dal punto di vista dell’informazione storica: «mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese»; le caratteristiche del lavoro indicano poca attenzione per la cronologia e la geografia: digressioni non sempre logiche ed omissioni che, in parte, compromettono l’andamento cronologico51. Le peculiarità di un eroe a volte permangono, a volte (come in Alessandro) si accentuano, ma sempre un elemento prevale sugli altri, anche quando pensiamo di trovarci di fronte a molteplici fattori, uno soltanto è l’elemento catalizzatore. La deisidaimonãa di Nicia è il fulcro fin dai primi sei capitoli; tutto concorre a dimostrare che un difetto, multiforme nella esistenza dello stratega, mina lo stato ateniese in quanto uno dei suoi più alti rappresentanti ne è divenuto preda. Nicia da sempre succube della superstizione non riesce più a capire i segni degli dei; l’eclisse che avrebbe potuto salvare l’esercito ateniese e che, anche dal punto di vista laico, appare un segnale positivo, viene considerata un motivo per rimandare la partenza, quasi che gli dei fossero adirati con qualcuno o con tutti i soldati. La biografia fornisce solo un esempio da 49 ibid.26,6. Alex. 1, 3. 51 Sul valore storico di questa biografia vd. J. R. Hamilton, Plutarch, Alexander: a commentary, Oxford 1969, L e sgg. 50 evitare, un modello negativo di religiosità e il contrasto, superstizionedisprezzo per le pratiche religiose, è peculiare della coppia NiciaCrasso52 dove l’isolamento dell’Ateniese rispetto al Romano rende il primo un “eroe nero”, isolato da tutti perché ottenebrato, nel momento del pericolo, dal suo credo, che in passato tanto gli era servito nei suoi interessi privati. Anche nella Vita di Crasso troviamo richiami al mondo dei presagi e dei prodigi, ma è diverso, per certi aspetti, il motivo dominante (se così lo dobbiamo chiamare), la filoploutÄa; nei primi capitoli (1-3) Plutarco presenta il personaggio, ne descrive la famiglia, il sistema di vita, la cultura e l’avidità. Crasso è prodigo verso gli dei e verso gli uomini, quando consacra, come Nicia, la decima parte dei suoi averi a Ercole, o quando offre banchetti al popolo53, con una serie di riferimenti alla sfera sacrale, utili soprattutto per comprendere il sistema che regola la coppia. La più forte corresponsione antitetica fra Nicia e Crasso è definita, però, dalla differente reazione dei due di fronte ai fenomeni sovrannaturali; anche se le vicende del romano sono contrassegnate da una visione fenomenica e asettica del divino, che appare solo sfiorare la sua vita, in preda ad una tale casualità che, in fondo, giustifica un atteggiamento laico e incredulo. Lo stesso Plutarco non riesce a riferire alcuni episodi con il fervore dello storico o del biografo, ma si serve della forma verbale l∞gousin, (raccontano), per confinare nell’ambito del leggendario notizie che rimangono cronachistiche54. Un esempio significativo è quello di un serpente che gli si avvolse, mentre dormiva, attorno al collo55, così come la visione di Giove, apparsa in sogno al cittadino romano Gaio Aurelio che lo porta a tentare di riconciliare Crasso e Pompeo, allora consoli in carica56. Infauste premonizioni scandiranno il susseguirsi degli eventi nella campagna d’oriente, il cui inizio era già stato stigmatizzato dalle maledizioni di Gaio Ateio Capitone, ma forse il momento più vicino alla vicenda di Nicia (nella prima parte della biografia) è legato all’indugio di Crasso in Siria che avrebbe concesso al nemico il tempo di prepararsi: 52 Vd. Nic.Cras., comp.5,4: «Nicia […] per una vergognosa e ingloriosa speranza di salvezza si gettò ai piedi del nemico, e rese la sua morte ancor più disonorante». 53 Cras.2, 3. 54 I passi in questione si trovano in Nic. 2,1; 3,4; 3,6; 6,5; 6,8; 6,9; 8,4; 13,2; 21,5; 25,3; 26,6; 31,7; 31,8. 55 Cras.8,4: “Di lui si racconta che quando la prima volta fu portato a Roma per essere venduto, mentre dormiva, sbucò un serpente e gli si avvolse intorno alla faccia; una donna della sua stessa tribù, indovina e invasata nelle orge di Dioniso, annunciò ch’era presagio di una sua potenza grande e temibile, destinata a una fine sfortunata”. Le traduzioni della Vita di Crasso sono quelle di C. Carena, op. cit. Milano 1993. 56 ibid.12,4. Dopo aver stabilito guarnigioni nelle città passate dalla sua parte […] si ritirò a svernare in Siria, ad attendervi il figlio […] Questo fu considerato il primo errore di Crasso -dopo quello di aver intrapreso la stessa spedizione- e il più grosso, perché mentre avrebbe dovuto spingersi oltre e raggiungere Babilonia e Seleucia, città che erano sempre state ostili ai Parti, lasciò ai nemici il tempo di prepararsi. In secondo luogo gli fu rinfacciato di aver sostato in Siria più a scopo di lucro che per ragioni militari: infatti non fece il computo delle truppe e degli armamenti e nemmeno organizzò gare ginniche, ma piuttosto calcolò le entrate delle città e impiegò parecchi giorni a misurare meticolosamente con pesi e bilance i tesori della dea di Ierapoli, registrò elenchi di reclutamento per i popoli e i principi (esentando poi chi gli dava denaro); così perse prestigio e si guadagnò il disprezzo. Il primo segno di sventura gli venne da questa dea, che taluni identificano con Afrodite, altri con Era, altri invece considerano la causa naturale che dall’umidità produce i principi e i semi di tutte le cose e ha mostrato agli uomini l’origine di tutti i beni. Difatti, mentre uscivano dal tempio, sulla soglia scivolò per primo il giovane Crasso e il padre cadde su di lui57. Per F. Smith58 la sospensione delle operazioni sarebbe dovuta all’esiguo numero di cavalieri, mentre per F. Stark59 potrebbe essere stata necessaria una pausa in coincidenza con la stagione invernale; del resto abbiamo già sottolineato che anche Nicia non indugia soltanto per compiere pratiche divinatorie e sacrifici, ma per attendere ulteriori e proficui abboccamenti con il nemico. In questa forte corresponsione possiamo però ritrovare una indubbia volontà plutarchea di collegare vicende di carattere religioso con presagi funesti per Crasso. La campagna partica, così come quella siciliana è contrassegnata da insuccessi militari che appaiono, in certi momenti, inferiori agli errori dei due strateghi nei confronti della sfera divina. Le due biografie raccolgono, quindi, nella prima parte, il ricordo di tutte quelle imprese che hanno fatto affermare i due uomini politici; questo avviene, in termini generali, senza episodi di rilievo. Il sorteggio (oJ kl ro⁄) delle province, all’inizio del c.16, affida a Crasso la ventura o la sventura di Roma in Oriente (come era accaduto a Nicia per Atene in Occidente), mentre al paragrafo 7 le maledizioni del tribuno Ateio gettano un’ombra oscura su tutta la spedizione60. Ci troviamo di fronte ad uno schema che si ripete61 e che rivela l’influenza negativa della superstizione, non del divino, su ogni uomo che ricopre cariche pubbliche di rilievo. Ciò significa anche la condanna dell’ateo e del superstizioso, in un contesto che ammette solo 57 ibid. 17, 7-9 passim. F. Smith, Die Schlacht bei Carrhae, «Historische Zeitschrift» CXV (1915), 242. 59 F. Stark, Rome on the Euphrates, Londra 1966, 115. 60 Cras. 16,7: «Ateio si lanciò di corsa prima di lui verso la porta della città e vi pose un braciere ardente; quando Crasso vi giunse, versò incenso e libagioni, lanciando maledizioni terribili e raccapriccianti per sé stesse, e inoltre invocando per nome certe divinità terribili (deino¡⁄) e strane (Èllok“tou⁄)». 61 In un secondo intervento cercherò di dimostrare questa struttura in altre biografie. 58 l’etica dello stato62. Il riferimento ad eventi, che si possono leggere in chiave superstiziosa, o agli indovini che, cautamente insistono nell’indicare che tutti i presagi erano sfavorevoli, ma che non vengono ascoltati da Crasso, delineano più la pertinacia del personaggio che un vero riferimento alla religione. Questo vale anche per tutte quelle manifestazioni come i fulmini o i sacrifici imperfetti63, che sembrano finalizzati più a rendere vivace il racconto che ad una reale dimostrazione storica. La seconda parte di entrambe le biografie è, invece, caratterizzata dalla presenza del divino che, nei momenti di più grande tensione, sembra accompagnare l’uomo e le sue azioni; Nicia viene distrutto dalla sua ansia e dal suo bigottismo, Crasso dall’atteggiamento opposto, come quando gli auguri traggono, dalle vittime sacrificali ripetuti e funesti segnali64. Al passaggio dell’Eufrate scoppiano tuoni violenti e balenano fitti lampi, mentre un vento tempestoso e carico di nubi investe e in parte distrugge il ponte di barche; il luogo dell’accampamento viene colpito da due fulmini e uno dei cavalli del comandante scompare con lo scudiero nella corrente del fiume; una delle aquile, sovrastanti le insegne romane, sollevata in aria, si gira all’indietro e dopo l’attraversamento del fiume, durante la distribuzione dei viveri, vengono dati ai soldati lenticchie e pane d’orzo, di solito offerti ai defunti e simbolo di lutto per i Romani. Nel discorso alle truppe Crasso si lascia sfuggire una frase di malaugurio e durante il sacrificio di purificazione fa cadere le viscere della vittima che l’indovino gli porge65; in questa seconda climax ascendente che giunge a un parossismo tale da far ridere lo stesso Crasso, nell’imminenza della battaglia decisiva il proconsole non si presenta vestito di porpora, secondo l’uso dei generali romani, ma con un mantello nero e i portinsegna, a stento, riescono ad estrarre dal suolo le insegne saldamente piantate a terra. La scena appare, anche in questo caso, quasi caricaturale, a causa delle immagini ricercatamente negative che si susseguono in un brevissimo arco di tempo. L’artificio retorico del confronto tra due eroi o antieroi viene, però ricercato nella s gkrisi⁄ finale, mentre è vero invece che Plutarco riesce a creare dei parallelismi, interni alle stesse biografie, che si corrispondono per argomento e per posizione strutturale: Nic. 26, 3-4 (passim) Ed ecco che gli Ateniesi, dopo esser rimasti fermi per quel giorno e per la 62 Cras. 27, 5-6 (passim) La fuga si presentava impossi= bile, sia che avessero atteso il Come è ampiamente attestato dallo stesso Plutarco nei Praecepta gerendae reipublicae. 63 Cfr. Cras. 18,5 e 19,5. 64 ibid. 18,5. 65 ibid.19, 4-8. notte seguente, si mettono in cammino fra pianti e gemiti, come se stessero abbandonando la patria, non una terra nemica, sia perché mancavano del necessario, sia perché abbandonavano gli amici e i compagni invalidi…(4) Molte erano dunque le scene orrende nell’accampamento, ma nessuna più pietosa della vista di Nicia stesso, spossato dalla malattia, ridotto nonostante il suo rango, a un’alimenta= zione insufficiente e al minimo delle razioni, rispetto alle molte esigenze del corpo malato giorno sul posto, sia che si fossero avventurati di notte su una pianura sconfinata. Poi i feriti creavano una grande difficoltà…(6) Quanto a Crasso che pur consideravano respon= sabile di tutto quanto, deside= ravano tuttavia vederlo, sentirlo. Egli giaceva solo, in un canto, avvolto dalla tenebra esempio per la massa del capriccio della fortuna, ma per persone ragionevoli di ambizione dissennata. Siamo all’epilogo finale quando, la solitudine si accompagna ad un degradamento fisico che deve indicare le caratteristiche dell’uomo che ricopre, ormai indegnamente, una carica pubblica vitale per l’onore dello stato; l’aspetto più importante è quello relativo alla scelta linguistica adatta ad un contesto negativo. Nel Nicia l’esercito si mette in marcia fra pianti (klauymì) e gemiti (Ÿlofurmì), l’accampamento si presenta come un luogo in cui accadono cose orrende (deinìn) (ma Plutarco non specifica quale esse siano), inferiori comunque allo stato di prostrazione dello stratego (kekakvm∞nvn m∞n Õp⁄ t w ÈsyeneÄaw), ipostasi di quello che saranno poi gli Ateniesi, prigionieri nelle Latomie; nel Crasso la fuga ha le stesse caratteristiche disperate di quelle precedenti, e i feriti devono, ugualmente, essere abbandonati per non rivelare con le loro grida di dolore la posizione dell’esercito. L’immagine più bella rimane, comunque, quella di Crasso che diviene, nel vero senso del termine, paradigma (par„deigma) di ciò che può la sorte sull’uomo: anche qui Plutarco ferma l’immagine con un chiaroscuro pittorico difficile da dimenticare: “oJ d¢ kay… ïaut⁄n ßgkekalumm∞no⁄ Õp⁄ sk“to⁄ ∂keito”; l’ombra in cui si trova rappresenta l’oscurità di una prefigurata vita nell’aldilà, privo ormai di quella gloria che ha invano ricercato. In un confronto di tale portata, che gioca sia sull’aspetto linguistico sia su quello iconografico66, ci aspetteremmo che lo scrittore, sacerdote delfico, assolvesse Nicia, ligio, almeno, nei confronti di tutti gli dei; Plutarco, invece, costruisce un giudizio perfettamente scisso: Constatando che ambedue perirono allo stesso modo, l’uno non trascurando nessuna delle pratiche divinatorie, l’altro disprezzandole tutte, è difficile discernere dove sia la 66 Non dimentichiamo mai, a questo proposito, il primo capitolo di Alessandro. sicurezza in questo campo; comunque è più conveniente sbagliare seguendo con prudenza un’antica e tradizionale opinione, che per presuntuoso disprezzo delle consuetudini. Circa la loro morte infine, Crasso è esente da biasimo, lui che non si arrese ai Parti, non si lasciò mettere in catene né ingannare, ma cedette alle insistenze degli amici e fu vittima della slealtà dei nemici. Nicia invece, che per una vergognosa e ingloriosa speranza di salvezza si gettò ai piedi del nemico, rese la sua morte ancora più disonorevole67 A differenza di quanto sostiene Nikolaidis, cioè che Plutarco ha voluto bilanciare le due vite colpevolizzando la morte dell’ateniese, pur nella certezza che fra i due è superiore Nicia68, ritengo che la vita dello stratega ateniese assurga a condanna morale di chi si serve, in politica, delle pratiche divinatorie e della superstizione, nella giustapposizione di chi ha sbagliato per un eccessivo zelo religioso (Nicia) e chi ha sbagliato deridendo i presagi ma è morto con maggior onore (Crasso). Il personaggio di Nicia viene decostruito proprio nel confronto con Crasso; tutti quegli aspetti che potrebbero, in fondo, apparire positivi, ricevono un ulteriore deprezzamento da parte di Plutarco, costretto ad ammettere che non si tratta di virtù bensì di vizi. Rimane semmai un aspetto fuorviante di questa coppia: la volontà di far apparire superiore il greco al romano libera l’autore da alcune remore e permette uno sfogo nazionalista che non è indirizzato al personaggio in questione, ma sfrutta semplicemente la pusillanimità del romano, uomo banale e vanaglorioso69. Si tratta, dunque, di una tipologia paradossale che, come negli altri gruppi negativi70, scritti alla fine del suo lavoro, trova una giustificazione 67 Nic. Cras. Comp., 5,3-4. Scrive A. G. Nikolaidis 1988, op. cit. 332-333: “At this point, it seems to me, Plutarch felt obliged to write something distinctly in favor of Crassus and against Nikias, but the only thing left for comparison was the two men died. So Plutarch proceeds to enhance Crassus and belittle Nikias by straining the evidence and even contradicting himself. The Comparison closes with the statement that Crassus’ death was less reproachable and that of Nikias more disgraceful, because the latter surrendered himself to the enemy, whereas the former did not (5,4). The factual evidence is, as we have seen (p. 330 f.), totally against this interpretation, but the desired balance between the two men has somehow been restored”. 69 Nic. Cras. Comp. 2,7: “Veramente l’amore per la pace in Nicia aveva del divino, e l’aver composto la guerra fu un atto politico più che greco. Per questa operazione di Nicia, Crasso non gli è nemmeno paragonabile, quand’anche avesse portato i confini dell’impero romano fino al mar Caspio o all’Oceano Indiano”. 70 Cfr. L. Piccirilli, La tradizione “nera” nelle biografie plutarchee degli Ateniesi del sesto e del quinto secolo, in A. Ceresa-Gastaldo (a cura di), Gerolamo e la biografia letteraria, Genova 1989, 15 con nt. 25. Sono le Coppie scritte verso la fine di tutto il corpus, in modo tale che il lettore potesse avere di fronte a sé degli esempi sferzanti in negativo, come leggiamo in Demetr. 1,6: «Così mi sembra che anche noi, una volta venuti a conoscenza delle vite prive di valore (fa lvn) e degne di biasimo (cegom∞nvn), saremo più pronti a guardare ed imitare le migliori fra esse». Si tratta 68 metodologica precisa: le diverse fonti presentano aspetti che potrebbero rappresentare la spiegazione credibile di un determinato modo di agire. Plutarco le riferisce ma, allo stesso tempo, tende a privarle di qualsiasi ruolo risolutivo. Dal paradosso e dal contraddittorio il personaggio perde, così, agli occhi del lettore, la propria valenza e il suo operato, in toto, diviene privo di valore paradigmatico positivo. Questo rispecchia, in fondo, l’atteggiamento di un grande maestro che vuole sì intrattenere i propri lettori ma al contempo vuole anche lasciar filtrare un messaggio esente da ogni forma di ambiguità; Nicia e Crasso, al di là dei singoli momenti di gloria militare e di evergetismo politico, rimarranno per sempre due uomini politici il cui comportamento deve essere evitato a causa di un singolo difetto: la superstizione in un caso, l’ateismo in un altro. Tanto più importante diventa l’errore nei confronti dell’archetipo (il vero sentimento religioso, forse quello impersonato dall’autore stesso e dalle sue responsabilità sacerdotali), perché permette di estendere ad un pubblico più vasto l’intero corpus delle Vite parallele; la reductio ad unum di un difetto speculare permette così a Plutarco di rivolgersi a tutti quei giovani che volevano intraprendere la carriera politica, senza trascurare quei lettori che cercavano solo qualche pillola di saggezza inserita in un racconto storico edificante. I primi sono senza dubbio i giovani greci, i secondi potrebbero essere tutti i lettori romani, in un complesso di biografie che divise dalle vicende di due popoli ritroverebbero, nel rispetto di un messaggio deliberatamente differenziato, una sostanziale unità nella scelta del vizio o del pregio da trattare e non solo, quindi, nella tipologia dell’eroe. Francesco Carpanelli (Università di Torino) di Demetrio-Antonio, Alcibiade-Coriolano e Pirro-Mario. Queste vite, insieme a Nicia-Crasso, se accettiamo la cronologia di C. P. Jones, Towards a Chronology of Plutarch’s Works, «Journal of Roman studies» 56 (1966), 68, sono tra le ultime biografie plutarchee.