Tentazioni naturalistiche
Allorché Benedetti ci fornisce Le linee essenziali del quadro relativo alle Attuali
conoscenze sui meccanismi basilari della percezione (in Wp 142) ritiene opportuno,
en passant, muovere due appunti critici nei confronti della Scuola Operativa Italiana. Il
primo – di cui dovremmo dire grazie alle “attuali conoscenze in materia di neurobiologia e
psicologia cognitiva della percezione visiva” – concernerebbe la nota distinzione fra
processi seriali e processi in parallelo. L’analisi del “contorno” di un “percepito visivo”, per
esempio, sarebbe stata condotta dalla S.O.I., erroneamente, in termini dei primi e non dei
secondi. L’intero “modello della percezione” proposto da Ceccato, poi, sarebbe segnato
dal medesimo errore.
Il secondo – di cui dovremmo dire grazie ai medesimi benefattori di prima con l’aggiunta di
Benedetti medesimo – concernerebbe la “concezione dell’attenzione”. Per la S.O.I.
l’attenzione sarebbe una “funzione relativamente semplice che può essere supportata da
reti di neuroni piuttosto limitate come estensione e complessità”, mentre più correttamente
la funzione attenzionale dovrebbe essere considerata come “qualcosa di così complesso
che noi oggi non riusciamo nemmeno lontanamente ad immaginare”.
Questi due appunti, come sa bene chi ha bazzicato la letteratura metodologico-operativa,
non sono nuovi, ma non per questo – nel frattempo, come fossero vino imbottigliato –
sono diventati più buoni.
Al Convegno del Centro di Filosofia Italiana organizzato in Andalo nel 1989, Bruno
Cermignani, fra l’altro, fece notare che, a suo avviso, la S.O.I. peccava di “linearismo” (cfr.
B. Cermignani, Intervento in Tavola Rotonda, in AAVV., Informatica e metodologia
filosofica, Roma 1990) e dovetti allora sottolineare come Ceccato avesse proposto analisi
“in parallelo” già a partire da Il modello unificato dell’uomo (1981). Si confronti, in
proposito, il mio L’individuazione e la designazione dell’attività mentale (Roma 1994,
pp. 79-81). Le consapevolezze relative, d’altronde, erano radicate già da tempo, perché
nota, a Ceccato come al sottoscritto, era sia la cibernetica classica che quel settore della
biologia in cui si individuava questa modalità processuale. Un caso per tutti può essere
quello di John Z. Young e dei suoi studi sul cervello dei polpi (cfr. La fabbrica della
certezza scientifica, opera del 1951, che è stata presentata da Somenzi nell’edizione
italiana pubblicata dalla Boringhieri, a Torino, nel 1966).
Il fatto che Ceccato non ne avesse accennato in precedenza non ha peraltro alcunché a
che fare con carenze di ordine teorico, ma bensì con le dimensioni tecniche in cui
giocoforza si doveva destreggiare nel suo periodo cibernetico. Come un Wiener o come
un McCulloch, infatti, Ceccato era “costretto “ alla serialità dalla tecnologia disponibile nel
momento in cui compiva le analisi. E’ anche per questo ordine di ragioni che poteva
accontentarsi di analisi ingenue come, per esempio, quelle dei “contorni”; così come
doveva accontentarsi di simulare l’occhio umano tramite un numero “ridicolo” di
fotoricettori ben sapendo quanto il modello risultasse carente rispetto a ciò che era
chiamato a rappresentare.
Una volta che la prospettiva di applicazioni cibernetiche viene meno, va da sé che
Ceccato può cercare soluzioni analitiche diverse e più confacenti rispetto ai modelli fisici di
cui è a conoscenza.
Perché, pur essendo questa letteratura disponibilissima, Benedetti preferisca ignorarla mi
sfugge. Come mi sfugge il perché Benedetti tenga per buone (o ignori) altre affermazioni
di Ceccato che, almeno apparentemente, sembrerebbero contraddittorie rispetto alle
nozioni neurobiofisiologiche che lui ritiene tanto rilevanti.
Per esempio, quando capitava che il neurobiofisiologo di turno annunciasse al mondo di
aver scoperto singoli neuroni specializzati a questa o a quest’altra percezione, Ceccato
rideva a crepapelle. D’altronde, Ceccato aveva letto (poco e male, ma a sufficienza per la
bisogna) Lichtenberg (“il microscopio serve soltanto a confonderci ulteriormente”, in Lo
scandaglio dell’anima, Milano 2002, pag. 306) e sosteneva esplicitamente che “nel
cervello, più metti di microscopio, e meno trovi di mente”. Lo diceva nel 1981 nella
fondamentale Tavola di Silvio, ma ribadiva con ciò convinzioni ormai sedimentate – tanto
è vero che, già nel 1965, diceva che “noi pensiamo sì con le operazioni del cervello, ma
non con quelle percepibili sul cervello” (in La meccanizzazione dei processi di pensiero
e di linguaggio) e, nel 1972, continuava a combattere contro “l’interpretazione
naturalistica della percezione” (cfr. La mente vista da un cibernetico, pag. 35). Non a
caso l’argomento risultò cruciale al Terzo Intrattenimento Metodologico-Operativo di
Pineto degli Abruzzi nel 1991 (cfr. il mio Dialogo sulla mente e sull’analizzabilità delle
operazioni mentali).
Se a tutto ciò aggiungo l’altra considerazione critica di Benedetti – quella relativa alla
complessità del supporto della funzione attenzionale -, prende sempre più consistenza
l’ipotesi che egli sia rimasto vittima di un equivoco. Stiamo parlando della medesima
“attenzione” ? E’ proprio sicuro del fatto che le sue osservazioni abbiano qualcosa a che
fare con la metodologia operativa ?
Felice Accame