Decrescita come risposta - Laboratorio Cittadinanza Attiva

LA CRISI GLOBALE E LA RISPOSTA DELLA DECRESCITA
Giornata di riflessione/laboratorio tra piu’ attori politico-sociali
31 maggio 2009 - Firenze Fortezza da Basso - presso Terra Futura
Documento di sintesi/verbale dei lavori della giornata
La giornata e’ stata introdotta da due relazioni:
- di Mauro Bonaiuti, sulle connessioni tra le diverse dimensioni della crisi (economica, sociale,
ecologica).
- di Marco Deriu, sul nesso tra le forme ed i contenuti della politica, che in particolare ha presentato
una proposta specifica volta a dare vita ad un nuovo soggetto politico a livello nazionale.
Nella giornata si sono svolte anche le relazioni d
- Gianni Tamino
- Ugo Bardi
- Edoardo Salzano
- Andrea Masullo
L’incontro si e’ concluso con una tavola rotonda condotta da Andrea di Stefano (Valori), Pietro
Raitano (Altreconomia), Gigi Sullo (Carta).
La discussione si e’ sviluppata lungo due binari: l’approfondimento di problematiche connesse alla
crisi economica ed alle sue origini e l’esplorazione a piu’ voci sul cosa fare, qui ed ora, per
individuare strategie ed azioni concrete di medio e lungo termine, per accompagnare/favorire un
processo di transizione verso la societa’ equa e sostenibile ipotizzata dalle politiche della decrescita
Il documento che segue corrisponde ad una estrema sintesi delle problematiche affrontate,
riorganizzate per grandi aree a partire dalle due relazioni introduttive, arricchite dai principali
contributi emersi dalle altre relazioni e dal dibattito, come indicato di seguito :
1. CRISI MULTIDIMENSIONALE E PROCESSI DI LUNGO PERIODO
a. Crescita economica e crisi ambientale
b. Crescita ed ingiustizia sociale
c. Dissoluzione dei legami sociali e frammentazione dell’immaginario collettivo
d. La colonizzazione mediatica
2. LA CRISI ATTUALE E L’IPOTESI DEL COLLASSO
a. La crisi economica in atto e i rimedi tradizionali
b. La teoria del collasso
3. COSA FARE QUI ED ORA PER AVVIARE IL PROCESSO DI TRANSIZIONE
a. Inadeguatezza delle forze politiche e nuovi conflitti sociali non ancora rappresentati
b. Crisi ciclica o crisi di sistema?
c. Quale decrescita?
d. Citta’ e territorio: beni comuni
e. Verso un nuovo progetto di societa’ a partire dalla riconversione energetica
4. PERCHE’ DOTARSI DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO
a. Accelerare il processo di transizione verso una societa’ equa e sostenibile
b. Quale soggetto politico
c. Una nuova immagine/identita’ verso un immaginario collettivo condivisibile
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d. Perplessita’ emerse
5. PROPOSTE OPERATIVE A TEMPI BREVI
1. CRISI MULTIDIMENSIONALE E PROCESSI DI LUNGO PERIODO
Per quanto gli economisti e gli esperti delle istituzioni internazionali non abbiano saputo dire nulla
sull’avvento della crisi in atto, la loro ricetta per uscirne e’ unanime: ritornare alla crescita
economica. E’ questa la risposta adeguata? Per comprendere la crisi attuale occorre tentare di
inserirla nel contesto di alcuni processi fondamentali di tempo lungo che comprendono almeno
quattro dimensioni: economica, ecologica, sociale e culturale (o immaginaria).
Emerge con chiarezza che e’ proprio la crescita economica all’origine dei processi degenerativi
individuati a questi diversi livelli. Quella crescita economica avutasi a partire dal processo di
industrializzazione (1820) caratterizzata da una velocita’ di espansione ignota ai periodi precedenti
e che ha portato ad una progressiva diffusione del mercato come modello dominante di scambio
sociale.
Crescita economica e crisi ambientale
La crescita economica e’ alla radice della crisi ambientale. Le attivita’ umane stanno cambiando
l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. In soli due secoli
l’uomo ha radicalmente modificato il flusso di energia sul pianeta, bruciando combustibili fossili
accumulati nel corso di molti milioni di anni e accumulando quantita’ crescenti di rifiuti e di
inquinanti incompatibili con i cicli biogeochimici. Stime attendibili dicono che con un limitato
aumento dei consumi del 2% annuo, tutte le risorse energetiche gia’ accertate si esaurirebbero nel
2050. Abbiamo ormai raggiunto il picco nella produzione di petrolio (vedi dati Aspo) inoltre, con la
riduzione della disponibilita’ delle materie prime fondamentali, i prezzi aumenteranno, mettendo in
discussione le stesse capacita’ accumulative del sistema.
Crescita ed ingiustizia sociale
Il processo di crescita/accumulazione/innovazione segue una logica auto-accrescitiva che aumenta il
livello della produttivita’ e premia operatori e contesti socioeconomici piu’ efficienti e competitivi,
concentrando una ricchezza straordinaria nelle parti piu’ sviluppate del mondo. I dati in nostro
possesso confermano che e’ questo modello di sviluppo accelerato e a macchia di leopardo, che
destina il pianeta ad una polarizzazione crescente tra paesi ed aree sempre piu’ ricche (quelle ad alto
sviluppo economico) e paesi ed aree sempre piu’ povere (quelle a basso sviluppo).
La polarizzazione dei redditi (1% piu’ ricco possiede piu’ del 57% piu’ povero), fonte di ingiustizia
globale, genera - sopratutto nel Sud del mondo - conflitti che si vanno a sommare a quelli legati allo
sfruttamento delle risorse. Nel Nord del pianeta tuttavia, nonostante la forte crisi economica,
paragonabile a quella degli anni Trenta, la reazione della societa’ appare per il momento molto al di
sotto di quella che ci si potrebbe aspettare, quantomeno sulla base di una lettura di tipo marxista.
Una prima motivazione la possiamo trovare nel fatto che nel nord ricco il calo dei redditi e’ in parte
compensato dai risparmi accumulati, che fungono da ammortizzatore sociale. Tuttavia per capire la
scarsa reattivita’ sociale dobbiamo volgere la nostra attenzione sopratutto alle trasformazioni della
societa’ e dell’immaginario collettivo.
La dissoluzione dei legami sociali e la frammentazione dell’immaginario collettivo
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La modernita’ ha comportato l’estensione della logica di mercato, centrata su relazioni di tipo
impersonale e mercificato. Questo ha comportato l’avvio di un processo di progressiva dissoluzione
dei legami sociali (ben argomentato dalla linea di ricerca Mauss, Malinowski, Polanyi) che si
esprime oggi sotto forma di liquidita’ sociale (Bauman).
Con l’avvento della societa’ post-moderna e la fine delle “grandi narrazioni” si assiste inoltre ad un
processo di progressiva frammentazione dell’immaginario collettivo, sostenuto - oltre che dalla
dissoluzione dei legami sociali - da altri processi:
- il passaggio ad un sistema di produzione post-fordista (D. Harvey); in particolare la scomparsa
della fabbrica (come luogo di produzione/relazione) la progressiva finanziarizzazione
dell’economia , la flessibilita’ del mercato del lavoro, il precariato, ecc.
- il moltiplicarsi del numero e della varieta’ degli oggetti che ci circondano che consente la
moltiplicazione all’infinito dei possibili universi di senso, incomunicanti e frammentati, sottraendo
tempo/attenzione/intelligenza/risorse alle relazioni interpersonali necessarie alla costruzione di
rappresentazioni condivise.
La graduale perdita di un orizzonte di senso condiviso - ad oggi - risulta l’ostacolo piu’ evidente al
coagularsi di un progetto alternativo al sistema dominante.
La colonizzazione mediatica
Da questo possiamo forse concludere che non esiste un immaginario dominante? La risposta e’
senz’altro negativa. Nel contesto della societa’ liquida pochi attori economici si sono impossessati
del controllo del sistema mediatico, sfruttandone la sua potente capacita’ di colonizzazione, creando
cosi’ un immaginario collettivo funzionale alla accumulazione capitalistica: l’immaginario
consumista, unico collante condiviso, di fronte ad una miriade di stimoli/occasioni/miraggi/ricatti,
offerti dal sistema dominante.
2. LA CRISI ATTUALE E L’IPOTESI DEL COLLASSO
La crisi economica in atto e i rimedi tradizionali
Quanto detto ci aiuta a comprendere la crisi attuale? La crisi ecologica, in particolare l’aumento
della domanda di energia, ha portato il prezzo del barile a superare i 140 $ nel Luglio 2008.
L’elevato prezzo del petrolio avrebbe, secondo alcune attendibili analisi, innescato la riduzione
delle aspettative di profitto nel mercato americano, facendo esplodere la bolla speculativa. La crisi
finanziaria si e’ presto tramutata nella crisi economica (reale) che abbiamo sotto gli occhi
(disoccupazione, riduzione dei redditi, ecc.).
Come la societa’ ha reagito alla crisi? Le reazioni alla crisi si rivelano in genere simili a quelle che
si ebbero alla fine del XIX secolo al termine del primo grande processo di globalizzazione descritto
da Polanyi (tensioni protezionistiche, difesa delle banche e dei grandi gruppi e soprattutto intervento
protettivo dello Stato nazione), anche in questo caso, in modo largamente indipendentemente dalle
ideologie di riferimento dei singoli governi.
La capacita’ di risposta autonoma della societa’ appare oggi ulteriormente indebolita dai processi di
dissoluzione dei legami sociali e di frammentazione dell’immaginario collettivo. Si comprendono in
questa prospettiva le spinte a demandare l’intervento unicamente all’autorita’ degli Stati e delle
Banche Centrali e, nel contesto italiano, la crescente legittimazione che incontrano prassi di
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governo di tipo carismatico e autoritario. Ma e’ possibile una lettura in qualche modo unitaria delle
varie dimensioni della crisi?
La teoria del collasso
Interessante, in questa chiave, la teoria del collasso delle societa’ complesse di J. Tainter. Nata
dall’osservazione del declino delle piu’ importanti civilta’ della storia (Impero romano, civilta’
Maja, isola di Pasqua ed altre) sostiene che quando le strutture economico sociali superano una
certa soglia di complessita’, i benefici della complessita’ iniziano a decrescere rapidamente e
vengono ben presto ad essere superati dai costi, portando la societa’ stessa al collasso.
Tale ipotesi sembra confermata in particolare in un contesto caratterizzato da risorse limitate. Il
sistema cerca di rimanere per quanto possibile in omeostasi, senza cambiare. Il sistema politico in
particolare, cerca di bloccare le trasformazioni per mantenere gli equilibri attuali, ma anche
l’omeostasi ha dei limiti fisici precisi, superati i quali il sistema crolla (U. Bardi). Alla luce dei trend
descritti il collasso sembra lo scenario piu’ probabile, , anche se non disponiamo di evidenze
empiriche sufficienti a trarre conclusioni, anche per la mancanza di ricerche in merito.
Tuttavia e’ possibile concludere che le risposte tradizionali basate sul rilancio della crescita - in
particolare attraverso l’intervento della Stato, puo’ costituire nella migliore delle ipotesi (il
keynesismo verde della obamaeconomics), una risposta di emergenza. Nel tempo lungo ogni
modello basato sul rilancio della crescita non puo’ che condurre ad aggravare ulteriormente le cause
profonde della crisi.
3. COSA FARE “QUI E ORA” PER AVVIARE Il PROCESSO DI TRANSIZIONE
Inadeguatezza delle forze politiche e nuovi conflitti sociali non ancora rappresentati
Viene presentata una chiave di lettura sul perche’ le attuali formazioni politiche non siano in grado
di rappresentare le problematiche attuali. Le strutture dei partiti si sono storicamente formate
intorno a conflitti centrati su quattro tipi di opposizione: centro/periferia; stato/chiesa;
citta’/campagna; capitale/lavoro. Queste dinamiche sociali non spiegano i conflitti attuali, centrati
invece su di una nuova frattura, legata alla globalizzazione, alle forme dei mercati ed alla
molteplicita’ delle realta’ culturali e territoriali: movimenti migratori, societa’ interculturale,
differenze culturali, non rientrano infatti nelle proposte dei partiti, ne’ nelle azioni dei governi. Un
dato di rilievo che allontana la presa di coscienza dei fenomeni in corso, e’ che la nuova frattura
taglia trasversalmente tutte le strutture economico/sociali e le stesse forze politiche, che sono quindi
in difficolta’ a leggere ed interpretare queste nuove realta’, da cui loro stesse sono attraversate.
Crisi ciclica o crisi di sistema?
Resta aperta la domanda se il sistema capitalistico sia o no in grado di rilanciare una ripresa
dell’economia a tempi lunghi, oppure ci troviamo di fronte ad un primo segnale di crisi di sistema.
E’ probabile che la ripresa nel lungo periodo (prossimi 20-30 anni) non sia possibile, proprio per il
sensibile aumento dei costi necessari per alimentare il processo di produzione (essenzialmente:
costo del lavoro, delle materie prime/energia e dell’apparato statal-militare e dunque delle tasse)
determinando cosi’ la fine del modo di produzione capitalistico (Wallerstein).
Quale decrescita?
Per chi segue queste tematiche e’ ormai chiaro che parlare di decrescita non significa ipotizzare una
riduzione dell’occupazione o tantomeno del benessere, quanto piuttosto pensare ad un nuovo
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progetto di societa’, ad un nuovo immaginario, cimentandosi al tempo stesso con nuovi modi del
vivere e del lavorare, dotandosi di uno sguardo di insieme che riparta dal bene comune. In altre
parole, cio’ che caratterizza il progetto di societa’ della decrescita e’ il desiderio di costruire un
nuovo orizzonte di senso condiviso attorno alle parole chiave della sostenibilita’, dell’equita’, e
dell’autonomia.
Citta’ e territorio: beni comuni
Si rileva che sia stato un errore grave avere dimenticato che il conflitto tra interesse comune ed
interessi meramente economici sia fondamentale. In questo quadro sia il territorio che la
pianificazione territoriale sono beni comuni; quest’ultima come strumento per
immaginare/orientare/qualificare/accogliere lo sviluppo della societa’, attraverso un lavoro di
coordinamento complessivo tra le varie esigenze sociali. Cosi’ l’organizzazione della citta’ e del
territorio, rientrano tra i beni comuni, in quanto condizionano pesantemente costi, tempi e relazioni,
della vita quotidiana.
Verso un nuovo progetto di societa’ a partire dalla riconversione energetica
Esistono gia’ dei mattoni comuni di analisi condivisa e sono gia’ state sperimentate una grande
quantita’ di singole azioni, buone pratiche e progetti, che non sono piu’ solo di “nicchia” (anche se
politica continua ad ignorarle). Il problema e’ come valorizzarle e come riuscire a farle circolare,
mettendole in rete. Forse oggi e’ realistico pensare di fare un lavoro di riconversione energetica
consapevole, coinvolgendo le realta’ locali, per costruire concretamente sul territorio proposte
alternative, centrate su problemi di interesse generale. Un lavoro che permetta di tenere insieme le
molte esperienze positive autoreferenziali emerse e coinvolgere l’azione di quei potenziali milioni
di persone che svolgono il ruolo di gruppo dirigente del nostro paese e di quelle centinaia di
migliaia di piccoli investitori che operano sul territorio.
Alcune indicazioni emerse dal dibattito, per evitare il collasso:
- Ridurre il consumo di materia, riciclandola, ed utilizzare come fonte di energia il Sole o comunque
fonti di energia rinnovabili derivate dal Sole: acqua, vento, ecc.; utilizzare processi produttivi
ciclici, senza produzione di rifiuti; evitare le combustioni (G. Tamino). Una ampia
dematerializzazione dell’economia sembra tecnologicamente alla portata dell’umanita’ moderna,
ma le comunita’ non dispongono di alcun controllo sulla tecnologia.
- Indicare un processo complessivo di trasformazione (a partire dalla valutazione dell’insieme delle
risorse presenti nel pianeta in rapporto al consumo attuale) che precisi un tetto complessivo
sostenibile, a livello mondiale e regionale, ed un una quota personale di riferimento; in questo modo
si riuscirebbe anche a recuperare una visione politica in cui l’individuo faccia parte del collettivo.
- Passare da una pianificazione grigia (generalizzata) ad una pianificazione a mosaico regionale,
riconoscendo le esigenze della comunita’, ma rapportandole alle risorse reali, trovando le soluzioni
piu’ adatte a raccordare comunita’/territorio/risorse/cultura.
- Affrontare il problema dell’alimentazione. Nel mondo c’e’ mezzo milione di persone che
mangiano in eccesso, con punte di obesita’ abbastanza diffuse, e un miliardo di altre persone che
non si nutrono a sufficienza, tanto da morirne in anticipo. Se non si fa qualcosa, avremo delle
carestie spaventose. Da compiere -a livello planetario- un lavoro conoscitivo di approfondimento/
valorizzazione delle risorse alimentari territoriali, tanto da favorire in ogni regione l’autosufficienza
alimentare, nell’intenzione di liberare le differenti realta’ socio/economiche dai ricatti delle
multinazionali.
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- Non dimenticare che la vera causa della fame e’ la poverta’, la produzione globale di cibo sarebbe
oggi sufficiente per oltre i sei miliardi di abitanti della Terra, ma il cibo e’ distribuito in modo non
equo. La sicurezza alimentare non si puo’ raggiungere se poche multinazionali hanno il controllo
mondiale del settore agroalimentare.
- L’aggressivita’ commerciale di queste aziende, prima concentrata sul controllo delle sostanze
chimiche impiegate in agricoltura, e’ ora rivolta al controllo delle risorse genetiche e delle sementi,
grazie anche ai prodotti transgenici e ai brevetti biotecnologici, per controllare buona parte della
produzione mondiale, riducendo quella biodiversita’ agricola che garantiva il cibo ai paesi in via di
sviluppo.
4. PERCHE’ DOTARSI DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO
La pericolosita’ del momento e’ grande. E’ necessario tenere sotto controllo i tempi della azione
politica, perche’ la crisi ecologica e climatica non ci danno molto tempo (si pensi al riscaldamento
globale, all’esaurimento delle risorse, alla perdita di biodiversita’ ecc.) e le scelte che compiamo
oggi avranno profonde ricadute per tempi assai lunghi.
Accelerare il processo di transizione verso una societa’ equa e sostenibile
Per uscire dalla crisi e’ necessario dar vita a nuove forme sociali e reinventare lo spazio pubblico e
le istituzioni politiche che lo regolano. Non si tratta semplicemente di imporre nuovi temi e istanze
alle forze politiche attuali e nemmeno di aggiungere una nuova forza politica allo spazio politico
esistente. Come e’ stato notato da Stein Rokkan, l’attuale sistema politico in Europa come in Italia
si e’ strutturato storicamente attorno a cleavages (o fratture politiche) determinate, sorte prima dai
processi di unificazione nazionale (il conflitto centro/periferia e quello stato/chiesa) e di
industrializzazione (il conflitto citta’/campagna e quello imprenditori/classe operaia). Oggi queste
rigide opposizioni sono inadatte a dar conto del mutamento sociale, mentre i nuovi conflitti emersi
nella seconda modernita’, con i processi di globalizzazione e con la crisi ecologica (il conflitto tra
globale e locale, tra flussi e luoghi, tra crescita e sostenibilita’ solo per citarne alcuni) non trovano
adeguata rappresentazione nello spazio politico attuale.
Si tratta dunque di articolare uno sguardo che ci aiuti a intravvedere una nuova configurazione dello
spazio politico, mirando ad una riconfigurazione della struttura complessiva del sistema. Si tratta
dunque di sollecitare un processo di transizione, con azioni volte a:
- Costruire uno nuovo spazio pubblico socio-ambientale capace di porre il tema dell’equita’ e della
sostenibilita’ in una prospettiva piu’ ampia.
- Promuovere un’idea di cittadinanza piu’ ampia e inclusiva.
- Promuovere un cambiamento istituzionale che promuova forme costituzionali, giuridiche e forme
di partecipazione piu’ adeguate alle sfide che ci attendono.
- Sperimentare nuovi spazi e strumenti partecipativi che promuovano forme di autorganizzazione
locale.
Quale soggetto politico
L’idea e’ di dar vita ad un nuovo soggetto politico che si dia un terreno di azione sia locale che
nazionale ma che non sia un partito elettorale. Uno spazio pubblico che favorisca la partecipazione
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e la condivisione fra quanti siano interessati al processo di transizione del sistema attuale verso una
societa’ equa e sostenibile. Una nuova sede politica, organizzata a livello nazionale, che:
- non si ponga l’obiettivo di partecipare alla competizione istituzionale, ovvero non miri
all’occupazione dei posti di potere quanto ad forme di azione politica autorganizzata e senza
mediazioni, pur mirando ad influenzare le istituzioni politiche esistenti su singoli aspetti o decisioni.
- sia di tipo trasversale, che cioe’ coinvolga competenze e provenienze sociali e politiche
differenziate, purche’ alternative al sistema;
- costituisca uno spazio di relazione mirata che si attivi in particolare la’ dove si trovino condizioni
locali gia’ mature, e sia in grado di convogliare le necessarie competenze ove necessario, per
sostenere uno sforzo di connessione/progettazione, funzionale alla nascita di una rete ampia di punti
di eccellenza politico-sociale attraverso campagne tematiche specifiche che diffondano le buone
pratiche raggiunte;
- si conquisti il proprio alone di visibilita’ sul campo, attraverso azioni e relazioni interpersonali e
collettive mirate, per innescare un processo di radicamento sociale e territoriale;
- sia in grado di dare un contributo significativo alla narrazione della nuova societa’ equa e solidale,
essenziale per la ricostruzione di un immaginario collettivo condivisibile.
- privilegiare forme di iniziativa pubblica che assumano come necessario il bisogno di produrre
forme nuove dotate di una loro eccentricita’, capaci cioe’ di dare delle risposte sufficienti ai bisogni
del contesto, ma anche in grado di produrre un cambiamento sistemico;
Una nuova immagine/identita’ verso un immaginario collettivo condivisibile
Nel dibattito e’ emersa la consapevolezza che per la ricostruzione di un immaginario collettivo non
puo’ bastare il consumo critico, ne’ il prodotto biologco, ne’ le buone pratiche individuali; per
accompagnare la transizione e’ necessaria una descrizione del mondo in cui viviamo che parli di
questa crisi sistemica; una narrazione in grado di raccontare un altro modo di fare economia, di
immaginare una societa’ desiderabile; che descriva e distingua l’economia proposta dalla politica
attuale. Un possibile soggetto politico dovrebbe
della decrescita dall’economia “canagliaâ€
dunque mirare a mostrare che e’ possibile un altro tipo di economia; che si possono contenere gli
sprechi, utilizzando meglio le strutture esistenti; che si possa riscoprire l’autoproduzione, la
solidarieta’ collettiva, la regolamentazione del mercato e anche la ribellione contro leggi che
consideriamo ingiuste. Che permetta dunque al contempo di riappropriarsi della politica, dei propri
diritti e promuovere un senso piu’ consapevole dell’abitare su un unico e fragile pianeta.
Perplessita’ emerse
Le uniche perplessita’ presenti sulla proposta fatta, non sono tanto connesse alla necessita’ di un
nuovo soggetto politico (necessita’ ormai ampiamente riconosciuta) quanto alle difficolta’
incontrate nelle esperienze degli ultimi decenni quando si sia tentato di mettere insieme soggetti
diversi con l’obiettivo di federali intorno ad un unico progetto politico, tanto piu’ se si sceglie di
muoversi al di fuori della forma partito (come nel caso dell’esperienza zapatista).
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5. PROPOSTE OPERATIVE A TEMPI BREVI
Al termine della giornata (peraltro rivelatasi molto utile per costruire relazioni e verificare la
concreta possibilita’ di acquisire ulteriori energie da coinvolgere nel progetto) sono stati indicati
alcuni appuntamenti/percorsi:
- relativamente alla costruzione del nuovo progetto politico si considera opportuno la produzione di
un testo scritto (su cui avviare un dibattito dapprima interno ai partecipanti) che affronti anche gli
aspetti organizzativi e che parli dei grandi temi su cui lavorare;
- si propone - intanto - di creare un punto di coagulo fra tutti quelli che sono intervenuti oggi e fra
chi altro sia interessato, per condividere contatti, documenti e letture fondanti, comunque utili per
attivare un dibattito pubblico su questi temi, nella consapevolezza dell’urgenza della crisi;
- aprire all’interno delle riviste coinvolte in questo seminario, uno spazio di discussione sulle
tematiche piu’ significative affrontate nel seminario, a seguito del quale convocare un eventuale
secondo incontro, anche con finalita’ costituenti.
Marco Deriu
Marco Deriu è membro dell’Associazione per la decrescita e docente di
Sociologia della comunicazione all’università di Parma. Da anni si occupa
di critica allo sviluppo, oltre che di cooperazione internazionale. È stato
direttore della rivista Alfazeta dal 1996 al 1999; è autore di diversi saggi,
tra cui il Dizionario critico delle nuove guerre (2005, Emi) e Acqua e conflitti (2007, Emi).
La crisi? Anzichè pagarla, preferiamo affrontarla, prendendola come un’occasione per rimettere in
discussione il nostro attuale modello di crescita e i nostri consumi. Le alternative alla crisi ci sono e
risiedono in un’altra economia possibile, un’economia dei beni comuni, dove ogni merce è
sostituita da un bene da condividere. A partire dall’esperienza dei Gruppi d’acquisto solidale,
discutiamo delle risposte “dal basso” per uscire dalla crisi in compagnia di Monica Di Sisto,
giornalista che si occupa di altreconomia e Marco Deriu, sociologo della Rete per la decrescita.
La decrescita dell'immaginario - Marco Deriu [26-09-2005]
Per ragionare delle alternative alla crescita, o meglio alla società della crescita, la domanda centrale
non è “Che cosa?”, ma piuttosto “In che modo?”. Le categorie economiche della crescita e dello
sviluppo hanno messo radici nel nostro immaginario in maniera molto più profonda di quanto
crediamo. Per cui è molto difficile riuscire veramente ad uscire dalle cornici in cui siamo rinchiusi.
Una fiducia mal riposta
Alcuni fautori della decrescita, insistono ingenuamente sulla “semplicità volontaria”. Il nostro
rapporto con il consumo ha radici profonde che abbiamo ereditato e interiorizzato, dunque non si
tratta semplicemente di educare il comportamento o di colpevolizzare la corsa all’acquisto. Noi
dipendiamo dal consumo in termini materiali, politici, psicologici e identitari. L’eccessiva fiducia
nell’autocontrollo è un elemento del problema – della nostra patologia culturale – piuttosto che un
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aspetto della sua soluzione. Più ci si illude di controllare il consumo e la dipendenza dai prodotti
della nostra società di mercato e più si ricade nella dipendenza. Ogni volta che mettiamo avanti una
mentalità o un modo di ragionare che insiste sulla nostra capacità di porci razionalmente dei limiti,
finiamo in realtà per riconfermare un dualismo tra una mente pensante buona, innocente ed
ecologica, ed un’abitudine del nostro corpo o della nostra società a sfruttare, a produrre, a
consumare qualcosa.
La strada verso un rapporto più equilibrato con le cose e il consumo è molto più simile ad un
processo di disapprendimento e di disintossicazione. Il cambiamento di cui abbiamo bisogno non è
semplicemente soggettivo, nel senso che non avviene semplicemente nella mente del singolo
individuo. È piuttosto qualcosa che avviene nelle relazioni e nelle interazioni tra più persone o
soggetti. Il problema mi sembra dunque quello di ricreare forme di socialità che indeboliscano la
coazione del consumo, rafforzando altre fonti d’identità e di sicurezza. Dobbiamo costruire un
senso del limite e della misura incorporato, intrinseco nel nostro modo di vivere, di relazionarci, di
definirci socialmente e culturalmente. Come ha giustamente sottolineato Wolfgang Sachs, “Una
"rivoluzione della sufficienza” non può essere programmata né pianificata; per realizzarla abbiamo
bisogno di cambiamenti rapidi e sottili nel pensiero culturale e nell’organizzazione istituzionale
della società". Dunque la nostra riflessione sulla sostenibilità deve concentrarsi sui valori e sugli
schermi istituzionali e, quindi, sull’universo simbolico della società, più che sui processi energeticomateriali e sul mondo delle quantità materiali.
La logica dell’austerità
La seconda questione richiama il tema dell’austerità e della riduzione dei consumi all’essenziale.
Ma che cosa è superfluo e che cosa è essenziale per delle persone e per una società umana? Molte
delle società tradizionali hanno proibito o limitato l’accumulazione individuale, ma hanno favorito
le forme di dispendio sociale dei beni. Non esiste società tradizionale per quanto “povera” che si sia
privata di forme di dono e controdono, di momenti di festa e di ostentazione sontuosa. Il consumo
legato alla vita sociale per le società tradizionali è l’essenziale, mentre l’utile e il tornaconto
individuale sono secondari. Le nuove forme di austerità e di semplicità volontaria proposte dalla
cultura alternativa sembrano riportarci alla direzione contraria: il calcolo dell’essenziale per
l’individuo e la singola unità famigliare e il discredito di ogni forma di consumo e dispendio
sociale. Coloro, tra gli stessi fautori della decrescita, che invitano per esempio a non regalarsi nulla
per Natale per contrastare il consumismo, senza rendersene conto fanno un’operazione di
riduzionismo economico utilitarista. Stabiliscono che quello che basta alla loro sopravvivenza
individuale e famigliare è l’essenziale, mentre ciò che appartiene allo sperpero, al consumo
sontuoso è superfluo.
Così essi gettano discredito su uno dei pochi riti sociali rimasti di dono e controdono che, per
quanto sfruttato commercialmente, rappresenta ancora un modo per creare, rinnovare, rinsaldare
legami familiari, d’amicizia e d’amore. Rinunciare alla logica sontuosa del dispendio, che si
accompagna ai rituali di dono, senz’altro ci fa risparmiare e ridurre gli sprechi ma ci rinchiude in
un’austerità e in un’autosufficienza beata e in fondo deprimente. La logica antiutilitaria del dono si
oppone alla valutazione ponderata dei filosofi dell’austerità. Anziché attaccare il dispendio
irrazionale tipico del dono si dovrebbe piuttosto attaccare la razionalità, apparentemente
inscalfibile, del quotidiano calcolo individuale. L’ideologia dei bisogni essenziali è in fondo
asociale: così notava lucidamente Ivan Illich già molti anni fa: “Incitando la gente ad accettare una
limitazione volontaria della produzione senza mettere in questione la struttura-base della società
industriale, non si farebbe che conferire maggior potere ai burocrati che ottimizzano lo sviluppo, e
ci consegnerebbe come ostaggi nelle loro mani. La produzione stabilizzata di beni e servizi ultrarazionalizzati e standardizzati allontanerebbe dalla produzione conviviale ancor più, se possibile, di
quanto non faccia la società industriale di sviluppo”.
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Per mostrare i limiti dell’etica dell’austerità suggerisco di tornare al lavoro di Max Weber sulle
origini del capitalismo. La lezione di Weber è che il capitalismo, lungi dal nascere da una brama
smodata di guadagno, dal punto di vista dei valori morali trae origine al contrario dallo spirito di
ascesi tipico dell’etica puritana. Almeno alle sue origini, sottolinea Weber, “l’avidità smodata di
guadagno non si identifica minimamente col capitalismo e meno ancora con il suo "spirito”. Il
capitalismo può addirittura identificarsi con l’inibizione di questo impulso irrazionale, o almeno con
la sua attenuazione razionale. Piuttosto il capitalismo si identifica con la ricerca continua, razionale,
nell’impresa capitalistica, di un guadagno sempre rinnovato: ossia della "redditività"". Questo non
significa sostenere che tra i capitalisti odierni non abbia un ruolo anche l’avidità, ma ricordare che
la spinta originaria e ancor oggi fondamentale del capitalismo non è la brama ma il calcolo, ovvero
nelle parole di Weber “l’uso pianificatorio di prestazioni reali o personali al fine di conseguire un
profitto”. Anche di fronte al capitalismo speculativo di oggi ci si può chiedere come uscire da
questa folle danza di una ricerca della ricchezza virtuale. Ma dubito che si possa andar lontano
semplicemente con un richiamo moralistico ad un’economia più sobria e concreta, anche quando sia
ancorata ai territori e ai reali bisogni della gente. Il punto non può essere quello di contrapporre ad
un’economia speculativa, basata sulla moltiplicazione infinita dei desideri, un’economia più
giudiziosa e un’immagine di essere umano più ascetica e distaccata; ridando nuovo fiato a quella
coscienza “enormemente buona” o “farisaicamente buona” che, secondo Weber, accompagnava
l’attività lucrativa alle origini del capitalismo. La questione centrale rimane invece quella del senso,
della vita che desideriamo.
Nuovi scenari sociali
In questa prospettiva appare più chiaro quindi il rischio che la proposta della decrescita, come
quella dell’economia alternativa, finiscano col concentrarsi ancora sulle dimensioni economiche e
materiali della nostra condizione, anziché liberare nuovi immaginari sociali. “Paradossalmente –
notava Ivan Illich – la dimostrazione economica della controproduttività della crescita conferma la
credenza che, per gli esseri umani, ciò che conta possa essere espresso in termini economici”.
Se lottiamo per uscire dalla società di crescita non è principalmente perché la crescita è dannosa o
perché abbiamo paura delle conseguenze ecologiche del nostro sistema di vita. Al contrario se ha un
qualche senso parlare di antiutilitarismo, di decrescita, di convivialità, è perché vogliamo
ricollocare il conflitto sul piano dei sistemi simbolici, sul piano della lettura antropologica della
società e dell’essere umano, dei suoi valori e desideri. Perché vogliamo contrapporre al desiderio
illimitato di una ricchezza economica e di status, un desiderio altrettanto forte di una ricchezza della
propria esistenza, delle nostre relazioni, dei nostri affetti, del piacere di vivere assieme e non in
competizione con gli altri.
Da questo punto di vista, lo stesso termine “decrescita”, costruito aggiungendo un “de” privativo al
concetto di crescita, rischia di prestarsi ad un fraintendimento continuo. Costringe a chiarire ogni
volta che la decrescita non è la crescita stazionaria o negativa, ovvero non è il suo semplice opposto
ma allude ad un’altra società possibile. A chiarire che la decrescita non è privazione o depressione,
ma convivialità o addirittura una vita festiva e dionisiaca. Che non è una questione puramente di
quantità ma di qualità della vita. E soprattutto che non è l’ultima ricetta dell’Occidente per il sud del
mondo. Insomma ci sono molti malintesi, molte ambiguità per un concetto che aspira niente meno
che a fondare un altro immaginario. Per questo motivo, dunque, sarebbe probabilmente un errore
ridurre il dibattito solo a fautori o critici della decrescita: non siamo ancora approdati ad un altro
paradigma, anzi a dir la verità temo che non siamo ancora nemmeno usciti da quello vecchio.
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Il dono in una società di mercato - Marco Deriu [19 Agosto 2005]
Il dono, in una società moderna che sottolinea l’utile e l’economico, sembra essere un residuo di
una mentalità del passato. Invece, è presente in varie forme. Anzi, niente può crescere e funzionare
se non nutrito da esso. C’è il dono in amore, in amicizia, il dono agli ospiti e agli stranieri. C’è il
dono perfino nello spazio del lavoro, nel tempo e nel sostegno che si rivolge ai colleghi. Il dono è
alla base della nostra società moderna, molto di più e di quanto non pensiamo.
Marco Deriu, sociologo, è docente all’Università Cattolica di Piacenza e si è occupato recentemente
della crisi delle società democratiche.
L’antropologo Louis Dumont era solito sottolineare che la differenza fondamentale tra le società
tradizionali e la società moderna sta nel fatto che nelle prime i rapporti più importanti sono quelli
tra esseri umani, mentre nella società moderna – e in particolare in quella che convenzionalmente e
in maniera un po’ approssimativa chiamiamo la moderna società occidentale – i rapporti tra esseri
umani sono subordinati ai rapporti tra uomini e cose. In altre parole, il valore che orienta l’agire non
è più identificato nelle relazioni tra persone, anche quando si scambiano cose, ma è localizzato
proprio nelle cose prodotte in sé stesse.
LA SOCIETÀ DI MERCATO E I SUOI VALORI
Nei lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, è possibile rintracciare la genesi della società di
mercato e dell’ideologia economica moderna. Questi autori hanno mostrato come la moderna
società di mercato si sia andata costituendo attraverso una separazione radicale, una
“scorporazione” degli aspetti economici dal più ampio tessuto sociale e quindi una loro costituzione
in un ambito a se stante. L’economia si è costituita come ambito relativamente autonomo rispetto
alla società o alla politica. Nelle società tradizionali gli aspetti economici erano innestati o
incorporati (embedded) nel sociale, e dunque una distinzione tra l’economico e il politico non era
nemmeno comprensibile.
Il liberalismo economico, che ha accompagnato questa trasformazione, è stato innanzitutto una
“rivoluzione nei valori” come l’ha chiamata Dumont; è stato cioè l’invenzione e la legittimazione di
un sistema di valori emancipato dalla morale e dalle forme di solidarietà tradizionali. In particolare,
a partire da Adam Smith, si iniziò a pensare che nel campo economico, e inizialmente solo in
quello, il motore della ricchezza e del benessere fosse l’interesse individuale, il puro e semplice
egoismo. Ai fini del benessere economico collettivo non conterebbe la solidarietà o l’altruismo,
quanto quell’"armonia naturale degli interessi" che agisce come una “mano invisibile” dando forma
al bene comune.
Da allora il processo a cui abbiamo assistito è stato un vero e proprio ribaltamento, tale per cui sono
il sociale e il politico che in gran parte sono stati incorporati nell’economico, e non viceversa. Allo
stesso tempo, il primato dell’interesse individuale – dell’utilitarismo – uscendo dall’isolamento del
puro ambito economico, si è andato talmente affermando che si è addirittura imposto come
ideologia globale e pervasiva della società contemporanea.
Come ha sottolineato Dumont, il risultato di queste trasformazioni è che noi oggi siamo abituati a
pensare alla società come qualcosa che si risolve essenzialmente nelle sue dimensioni economiche e
materiali, e al bene sociale come qualcosa di connesso alla crescita e allo sviluppo. Lo stesso
benessere dei cittadini, è misurato in termini economici e monetari proprio perché le persone sono
concepite come individui, ovvero esseri umani privati di ogni caratteristica sociale. Oggi non siamo
abituati a chiederci, da questo punto di vista, se la prosperità individuale, raggiunta a prezzo del
degrado sociale generale, sia in sé un fatto positivo o socialmente accettabile. Quello che la
modernità ci ha consegnato, dunque, è un idea di prosperità che è al contempo materiale,
economica, utilitaristica ed individualistica. La prosperità, il benessere, sono diventati sinonimo di
ricchezza.
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IL FILO CHE TESSE LA RELAZIONE
La centralità dell’ideologia economica attuale, è tale da proporsi come il vero universalismo nei
nostri rapporti con altre culture e civiltà. Noi siamo convinti che l’unico modo di guardare le cose,
quello “realistico”, sia attraverso la lente dell’interesse e dell’utile.
“L’utilitarismo – scriveva Alain Caillé il principale animatore del Mauss (Movimento
Antiutilitarista nelle Scienze Sociali) – non rappresenta un sistema filosofico particolare o una
componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società moderne. Piuttosto, esso è
diventato quello stesso immaginario; al punto che, per i moderni, è in larga misura incomprensibile
e inaccettabile ciò che non può essere tradotto in termini di utilità e di efficacia strumentale. Nel
migliore dei casi, quel che appartiene al campo peraltro enorme del non-utilitario, è pensato nel
registro del lusso, più o meno del superfluo, o dell’ideale inaccessibile, perché non di questo
mondo”.
Eppure negli anni venti, l’antropologo francese Marcel Mauss scrisse un saggio, il celebre “Saggio
sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche” (1923-24) destinato a diventare un
punto di riferimento per tutti i successivi studi antropologici e sociologici sul dono che poneva, a
questo proposito, alcune questioni chiave. Non solo studiando materiali sulle tribù indigene sia
americane che del pacifico, metteva in luce la centralità del dono e della reciprocità nelle loro
società seppure in forme diverse (il Potlàc delle tribù indiane del Nord ovest americano, o il Kula
diffuso attorno alle isole Tobriand, vicino alla Nuova Guinea); non solo Mauss sottolineava – prima
ancora di Polanyi e Dumont – che l’idea dell’uomo come “animale economico” era in realtà
un’invenzione recente e tipica delle società occidentali ovvero che l’homo oeconomicus non è
inscritto nella nostra storia e nella nostra antropologia, ma è una creazione artificiale: “L’uomo è
stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi, una macchina
calcolatrice”. Ma soprattutto sottolineava per primo, che il perseguimento brutale degli scopi
individualistici nuoce al benessere dell’insieme e “di rimbalzo” all’individuo stesso, e che la logica
del dono, per fortuna, è ancora presente nella nostra società. Essa ha ancora a che fare con un
intramontabile principio di saggezza, quello dell’uscire da se stessi, del dare assieme “liberamente e
per obbligo”. Lo spirito del dono, infatti, si basa su una triplice obbligazione: l’obbligo di dare,
l’obbligo di ricevere, l’obbligo di ricambiare. Il dono è un circolo. Il dono è il filo che tesse la
relazione, che costruisce l’amicizia, il legame sociale, perché “obbliga” nel tempo, ci rende
costantemente e irrinunciabilmente dipendenti gli uni degli altri.
Noi moderni, tuttavia, sembriamo non essere attrezzati culturalmente per riconoscere l’importanza,
e tanto meno la presenza del dono nella nostra vita reale. In un certo senso, per noi il dono non
esiste, poiché ogni forma di gesto gratuito non sarebbe altro che egoismo mascherato, oppure
qualcosa che si da solo come caso eccezionale, come parziale trasgressione alla normalità degli
scambi basati generalmente sul principio dell’utilità.
Sarebbe facile concludere, dunque, che il dono non è altro che un residuo di una mentalità del
passato, di un modo di concepire le cose adeguato a società tradizionali e oggi del tutto
anacronistico nell’epoca della globalizzazione e dei flussi finanziari. Da questo punto di vista, si
pongono immediatamente due questioni.
La prima questione fondamentale è dunque comprendere se una società può tenersi insieme
solamente grazie al perseguimento di obiettivi economici privati ed individualistici di imprenditori,
lavoratori e consumatori, oppure se l’erosione della concezione sociale sottostante ad ogni società,
non coincida in qualche modo con l’erosione della società stessa e delle possibilità di una reale
convivenza.
La seconda questione, connessa alla precedente, è se effettivamente il dono sarebbe un residuo
destinato via via ad esaurirsi man mano che si diffonde l’economicizzazione del mondo. O
piuttosto, se il principio del dono rappresenta un altro senso delle cose, un altro spirito che continua
a essere presente – anche se scarsamente riconosciuto – anche nelle nostre società moderne – e
qualcosa, per giunta, che continua a riprodursi e a confrontarsi dialetticamente con altre forme di
scambio.
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Nell’ipotesi di Karl Polanyi, per esempio, esistono diverse forme di scambio – reciprocità (dono),
redistribuzione (stato) e mercato – e ogni società, compresa quella contemporanea, conterrebbe in
se tutte queste forme, in misura maggiore o minore. Da questo punto di vista, molti degli studiosi
contemporanei che fanno riferimento al movimento antitutilitarista sostengono, da questo punto di
vista, che il dono è tanto arcaico quanto moderno. Che non solo non è scomparso dalle nostre
società, ma costituisce ancora oggi il fondamento implicito e dato per scontato del vivere comune.
Certo, un fondamento che è necessario riconoscere se non si vuole mettere in crisi le condizioni
stesse della convivenza.
IL DONO ALLA BASE DELLA SOCIETÀ
Per Jacques T. Godbout il dono – ovvero, secondo la sua definizione, ogni prestazione di beni o
servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame
sociale – “non concerne soltanto momenti isolati e discontinui dell’esistenza sociale, ma la sua
stessa totalità. Ancor oggi non è possibile avviare o intraprendere alcunché, niente può crescere e
funzionare se non nutrito dal dono”. Il dono è assolutamente presente nelle società contemporanee:
c’è il dono in famiglia, nel gesto della madre verso il bambino, o negli innumerevoli servizi, aiuti e
gesti quotidiani compiuti da membri della rete familiare verso altri membri, o anche nelle famiglie
che adottano un bambino. C’è il dono in amore: donarsi tempo, emozioni, felicità; il dono in
amicizia, gli aiuti e il sostegno, le cose e gli oggetti che circolano fra amici; il dono in occasione di
eventi: nascita, compleanni, esami, fidanzamenti, matrimoni, ecc.; il dono in occasione di festività
come il Natale, la Befana, la Pasqua, e le varie feste della donna, degli innamorati; il dono agli
ospiti e agli stranieri, il dovere dell’accoglienza, dell’offrire cibo, vino, ospitalità che in molti posti
è ancora molto forte. C’è il dono nella forma del volontariato sociale, volontariato con anziani,
bambini, immigrati, poveri, persone vittime di violenza; il dono in gruppi di aiuto reciproco, i
gruppi di autoaiuto, gli alcolisti anonimi, basati sul principio che non si può riuscire da soli, che c’è
bisogno dell’aiuto degli altri e del dono di una forza superiore che si riceve e si trasmette ad altri; il
dono agli sconosciuti, ovvero quel dono senza legame tra donante e ricevente, che è in gran parte
una specificità moderna e che si ritrova per esempio nel dono del sangue, degli organi, nella
beneficenza, nelle sottoscrizioni; il dono. C’è il dono perfino nello spazio del lavoro, nel tempo e
nel sostegno che si rivolge ai colleghi, alla ditta o all’impresa.
Dunque, il dono è estremamente diffuso anche tra di noi, seppure non trova spesso un adeguato
riconoscimento simbolico. Il dono è alla base della nostra società moderna, molto più di quanto non
pensiamo. L’importante è saper riconoscere la presenza del dono nelle nostre società. Da questo
punto di vista, la sfida è rompere lo schermo dell’utile, dell’interesse come criterio di
riconoscimento, interpretazione, valorizzazione della realtà ambientale e sociale, e della definizione
delle priorità politiche e sociali. È importante portare alla luce le dimensioni dello scambio sociale e
dell’azione individuale e sociale non dettate principalmente dall’interesse. Si tratta infatti di un
passaggio fondamentale nel tentativo di limitare e contrastare il dominio dei criteri del profitto e
della competizione economica. Si deve continuare a interrogarsi su cosa tiene insieme una società,
su cosa costituisce il benessere reale o la qualità della vita delle persone e anzi risottolineare
l’importanza delle persone, delle relazioni in quanto tali, e non come strumenti o scopi per
qualcos’altro.
IL MAUSS
Il Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali (MAUSS) nasce a Parigi nel 1981. Ne fanno
parte numerosi intellettuali di spicco francesi, ma non solo, tra cui Alain Caillé, Gérald Berthoud,
Serge Latouche, Jacques Godbout, Jean-Luc Boilleau. Caillé in particolare è l’animatore del
movimento, il direttore della rivista La revue de Mauss e autore del manifesto dell’antiutilitarismo
“Critica della ragione utilitaria”. Il nome del movimento rappresenta anche un chiaro riferimento
all’antropologo Marcel Mauss, il cui saggio sul dono come “fenomeno sociale totale” costituisce un
punto di riferimento cruciale. Per la divulgazione del pensiero antiutilitarista in Italia un ruolo
importante è stato giocato da Alfredo Salsano che fa parte del Mauss e ha fatto pubblicare per
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Bollati Boringhieri vari autori e testi antiutilitaristi. Recentemente è stata fondata anche
un’associazione italiana – autonoma ma in accordo con il Mauss internazionale – denominata
“Associazione Anti-Utilitarista di critica sociale”.
rigenerazioni - Proposta per un soggetto politico non elettorale
Questo documento costituisce la rielaborazione di una proposta già presentata il 31 maggio 2009 al
seminario "La crisi globale e la risposta della decrescita. Come e cosa possiamo fare da subito per
affrontare la transizione"; organizzato a Firenze presso Terra Futura dalla Rete per la Decrescita e
dalle riviste Altreconomia, Carta, Valori insieme alla Fondazione Banca Etica.
«Sono tempi difficili. Se tutti vogliono il potere,
chi renderà tacito servizio?»
(M.K. Gandhi)
«Gli uomini anche se devono morire, non sono nati
per morire ma per incominciare»
(H. Arendt)
In questi anni abbiamo assistito a un degrado sempre più vistoso della qualità della vita politica e
istituzionale nel nostro Paese, senza sapere come rispondere, frenare e invertire questo fenomeno. A
scandali e forme di degenerazione, strumentalizzazione e corruzione sempre più sistematica delle
istituzioni si sono alternati momenti di indignazione e ondate di antipolitica che senza modificare il
paesaggio della vita pubblica si sono sedimentate in un sentimento diffuso e radicato di sfiducia e in
un giudizio cinico e disincantato sulla “casta” e sul funzionamento del processo politico. Anche i
movimenti sociali, l’associazionismo e le forze sindacali hanno separato i loro percorsi da quelli
della rappresentanza istituzionale che si è andata sempre più inaridendo. In breve, l’Italia è
diventata un Paese sempre più fatalista.
I. Partiti politici e movimenti sociali. Tra autoreferenzialità e impotenza
Il fatto è che una così bassa visione della politica produce una bassa motivazione al coinvolgimento
in prima persona; contemporaneamente una partecipazione sporadica e di scarsa qualità al processo
politico produce uno scarso impegno che a sua volta si “autogiustifica” in una spirale di passività,
insofferenza e rifiuto.
Non mancano i segni di questa trasformazione. In Italia, come in molte democrazie storiche, è
cresciuta la sfiducia verso le istituzioni e verso una ormai autoreferenziale classe politica. In quasi
tutti i Paesi europei la fiducia nei politici e nelle istituzioni è andata declinando in maniera piuttosto
netta negli ultimi decenni. Il dato sull’astensione nelle ultime elezioni europee del giugno 2009 è
davvero impressionante: in media la non partecipazione al voto in Europa è stata poco sotto il 57%.
Contemporaneamente gli iscritti ai partiti tendono a scemare ovunque. In Italia nell’ultimo decennio
i partiti hanno perso oltre due milioni di iscritti. Più in generale i partiti si presentano oggi come
strutture organizzative ridotte con un livello sempre più scarso di democrazia interna e una
centralità crescente del leader. La stessa la progressiva spettacolarizzazione della politica ha
modificato drasticamente il ruolo e l’importanza delle organizzazioni politiche di tipo tradizionale.
Certamente, a fianco di questo, abbiamo visto negli ultimi anni anche manifestarsi un impegno
sociale e politico in senso più ampio da parte di uomini e donne attivi/e in circoli, associazioni,
Ong, centri sociali, movimenti. Secondo Pawl Hawken, che ha avviato un impressionante lavoro di
censimento, esistono al momento più di un milione di organizzazioni che operano per la
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sostenibilità ecologica e la giustizia sociale. E certamente queste realtà hanno avuto un ruolo
importante – che non va assolutamente sottovalutato - nel determinare rilevanti trasformazioni
politiche, sociali e culturali o nell’arrestare, almeno in parte, il degrado sociale, culturale e politico.
Questo non ha frenato tuttavia nei cittadini la crescente sensazione che le decisioni che contano
siano prese sopra la propria testa e talvolta contro la propria opinione e contro i propri interessi.
Nel contesto italiano, un momento chiave nell’emersione di questa contraddizione, si è avuta nel
corso del 2003 quando nonostante la maggioranza della popolazione avesse espresso nei sondaggi e
nelle strade la propria contrarietà alla guerra in Iraq il governo ha proceduto nel suo appoggio
all’operazione militare senza tener minimamente conto del sentimento popolare.
Questo ci fa capire quanto la politica istituzionale sia divenuta sempre più autoreferenziale e –
perlomeno in certi casi – impermeabile all’opinione pubblica. Tuttavia non si può evitare di
riconoscere come ci sia stata una sottovalutazione nell’attività di controllo, vigilanza e giudizio
sull’operato delle istituzioni e un oggettiva debolezza rispetto alla capacità di intervento in quei
processi decisionali generali che riguardano la nostra vita e le sorti del nostro Paese, a partire da una
delle scelte più importanti, quali la decisione di partecipare a una guerra.
A questo si aggiunge una semplificazione del quadro politico istituzionale con una deriva forzata
verso forme di bipolarismo, di presidenzialismo, di spettacolarizzazione della politica, con crescenti
aree di delusione e non partecipazione al voto e la scomparsa delle aggregazioni politiche
ambientaliste e di sinistra radicale dall’arco parlamentare.
Questi pochi accenni bastano per ricordare la gravità del momento e per suggerire la
consapevolezza che i tradizionali schemi dualistici che parlavano di “politica dal basso e politica
dall’alto” diffusi tra pacifisti, no-global e alter-mondialisti, o quello “politica prima/politica
seconda” avanzato da una parte del femminismo, pur avendo svolto in passato una importante
funzione critica, non siano più adeguati per interpretare le esigenze e le sfide del momento attuale.
In altre parole, a prescindere dal declino sempre più evidente dei partiti tradizionali, quello che è
mancato ai movimenti politici e sociali è una riflessione consapevole sull’importanza cruciale del
momento “istituente” della politica, inteso sia come istituzione di significati (Cornelius Castoriadis)
che come creazione di forme istituzionali che incorporino e riflettano coerentemente questi
significati. Quello che è necessario dunque è una sperimentazione creativa che non si rinchiuda né
nell’antagonismo verso le istituzioni né nella sottovalutazione dei processi istituzionali ma che si
metta al centro del processo politico rinnovandolo alla radice nelle sue diverse dimensioni di
relazione, di confronto, di autoeducazione, di conflitto, di riconoscimento, di solidarietà, di
decisione.
II. Vecchi e nuovi cleavages: la trasformazione del sistema politico
Una seconda questione riguarda la difficoltà di riuscire a far entrare questioni preminenti come
quelle della crisi ecologica, del riscaldamento globale, della tutela della biodiversità e dei beni
comuni, della conservazione del territorio, della critica allo sviluppo, della decrescita, del governo
della finalità della produzione, della rilocalizzazione della produzione e del consumo, ma anche
questioni antiche e sempre riemergenti quali i fenomeni migratori, le diversità culturali e la
differenza sessuale e le relazioni tra i sessi, all’interno dei programmi dei partiti e al centro
dell’attività di un governo.
Ci sono probabilmente diverse spiegazioni a questa difficoltà, ma tra le altre si può prestare
attenzione a un fatto. Questi temi non trovano rappresentazione non solo a causa di una sordità
individuale dei politici o delle dirigenze dei partiti ma perché il sistema politico e i partiti
corrispondenti sono nati storicamente attorno ad altri conflitti o cleavages che pur indeboliti
continuano a stabilire i confini del confronto politico.
Il termine cleavages, usato per primo dal politologo norvegese Stein Rokkan, sta a indicare le linee
di frattura, ovvero le opposizioni fondamentali che strutturano un sistema politico. Secondo Rokkan
i sistemi politici europei si sono andati costruendo attorno a quattro fondamentali fratture: le prime
due, nate dai processi di unificazione nazionale, sono l’opposizione centro/periferia e l’opposizione
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Stato/Chiesa; le altre due sono nate in seguito ai processi di industrializzazione capitalista e
riguardano l’opposizione campagna/città (gli interessi legati all’agricoltura e quelli legati
all’industria), e infine quella tra capitale/salariati. Oggi queste rigide opposizioni sono sempre più
inadatte a dar conto del mutamento sociale, mentre i nuovi conflitti emersi nella seconda modernità,
a partire dai processi di globalizzazione, non trovano adeguata rappresentazione nello spazio
politico attuale.
Quello che sosteniamo è che processi quali la globalizzazione, la crisi ecologica, i fenomeni
migratori, l’informatizzazione, la trasformazione e la svalorizzazione del lavoro, la precarizzazione,
la fine del patriarcato, la libertà e il protagonismo delle donne (e le resistenze che incontrano) nel
lavoro e nella società, stanno creando un nuovo quadro politico che vede definirsi – seppure ancora
in modo confuso - nuovi soggetti, nuove identità, nuovi valori, nuovi spazi pubblici, nuove forme di
organizzazione, nuove pratiche di azione e soprattutto nuove richieste.
Da questo punto di vista il processo attuale va letto come lenta formalizzazione di nuovi cleavages,
nuove fratture o opposizioni fondamentali che spingerebbero a ridisegnare gli attuali sistemi politici
delle democrazie occidentali che ovviamente cercano di resistere o ritardare questo cambiamento.
Oggi più di ieri una parte di questa resistenza è dovuta alla crescente ignoranza di ciò che sta
davvero accadendo. Mai come oggi le classi che si auto-definiscono dirigenti sono disinformate su
ciò che si muove sul terreno economico, ecologico, scientifico e persino politico-sociale, incapaci di
collocare le conseguenze delle loro decisioni (o delle loro rimozioni) in una prospettiva storica o
sociale più ampia, seppur tutto sommato ravvicinata.
Diventa sempre più chiaro, per esempio, il conflitto tra globale e locale, tra flussi e luoghi, tra
crescita e sostenibilità, tra soggetti che vengono contrapposti e messi in competizione nel mercato
del lavoro, tra generazioni attuali e generazioni future, tra le logiche della produzione e logiche
della riproduzione e della rigenerazione. Queste opposizioni si mostrano talvolta attraverso soggetti
definiti. Da una parte abbiamo delle élites economiche e politiche globalizzate, che si appoggiano a
organizzazioni e istituzioni precise (corporations, istituzioni internazionali, WTO, BM, FMI,
governi liberisti) e dall’altra le comunità locali: gente comune che è radicata nei territori e nelle
città, lavoratori e lavoratrici immigrati/e o precari/e in lotta per il diritto al lavoro, ma anche
lavoratori e lavoratrici della terra e soggetti economici legati alle specificità locali, movimenti di
consumatori che portano avanti la tutela della qualità dei prodotti rispetto alle logiche
dell’economia industriale, gruppi ambientalisti e femministi impegnati nella salvaguardia della
biodiversità assieme a comunità indigene e di villaggio legate in maniera profonda all’ambiente
naturale in cui vivono. In questa frattura sono in gioco interessi diversi, legati all’uso e alla
distribuzione dei beni naturali, che attraversano non solo le relazioni tra Paesi ma anche il rapporto
tra élites nazionali “sviluppiste” e comunità locali legate alla terra e alla conservazione del
patrimonio locale o all’uso equilibrato della natura. La frattura si conferma anche sul piano
dell’integrazione e della costruzione di legami. Mentre le élites globali spingono per una
strutturazione di barriere materiali o immateriali – le nuove enclosures - che regolino attraverso
l’accesso economico la definizione di chi è dentro e di chi è fuori, molti soggetti locali invece
lottano per la conservazione di spazi e beni comuni – nuovi commons materiali e immateriali –
accessibili a tutti e coltivati assieme per il bene della comunità intera. Infine la frattura definisce
anche uno scontro culturale che oppone da una parte la competizione individualistica, il primato
delle merci e la creazione di ricchezza economica per una minoranza e dall’altra i legami di
solidarietà e cooperazione, il primato delle persone e la creazione di ricchezza sociale collettiva.
Con questo non si vuole naturalmente rimuovere il fatto che questa frattura attraversa le nostre vite
e noi stessi e che occorre per questo anche un processo collettivo che ci sostenga e ci accompagni
nell’affrontare quotidianamente e coraggiosamente la necessaria trasformazione delle nostre
abitudini e dei nostri stili di vita.
Ora nei sistemi politici attuali partiti e schieramenti sono rappresentanti dei clevages storici che pur
contando ancora hanno tuttavia fortemente diminuito la loro significatività. Non trovano invece
posto forze politiche che assumano esplicitamente e radicalmente l’opposizione tra gli interessi
delle popolazioni locali e quelli del capitale globale. Il problema maggiore è che questa nuova
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frattura non si aggiunge semplicemente alle altre, ma taglia trasversalmente tutte le appartenenze
tradizionali e implica in questo senso una riconfigurazione completa dei sistemi politici nazionali e
un superamento dello spazio politico, sindacale e culturale tradizionale.
Del resto molte delle categorie tradizionali per identificare gli schieramenti destra/sinistra sono
oramai ambigue e fuorvianti. Ha ancora valore, per esempio, la distinzione conservatori e
progressisti e rispetto a che cosa? Le nostalgie identitarie non colpiscono entrambi gli estremi?
L’idolatria del nuovo e la continua obsolescenza del nostro patrimonio materiale e tecnologico a
quale schieramento vanno imputati? Chi è a favore del libero mercato e chi dell’intervento statale?
Dove collocare i difensori della crescita e dello sviluppo e coloro che parlano di decrescita e di
sostenibilità? Chi difende la guerra e chi la nonviolenza? L’universalismo è di sinistra e il
relativismo è di destra o viceversa? Siamo per l’uguaglianza o per il rispetto delle differenze?
Siamo materialisti o post-materialisti? Fanaticamente antireligiosi o laicamente dubbiosi e curiosi?
E infine, intendiamo affidare acriticamente le scelte sul nostro futuro alla presunta razionalità degli
scienziati oppure visto che «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le
decisioni urgenti» pretendiamo - nell’ottica di quella che è stata definita “scienza postnormale” –
che anche i non tecnici, i cittadini interessati, possano partecipare alla raccolta delle informazioni, al
controllo delle valutazioni, all'assunzione di decisioni in nome non di un’“indiscutibile verità” ma
più prudentemente di una possibile “saggezza”?
Sarebbe facile continuare con queste domande, ma forse sono sufficienti per ricordarci che l’attuale
paesaggio politico è complesso e articolato e le categorie e le opposizioni classiche non ci aiutano
granché o solo fino ad un certo punto. Per quanto cerchiamo di farci stare dentro la realtà, c’è
molto, troppo, che resiste ai tradizionali schematismi. Crediamo che nuove istanze possono
coagularsi e farsi spazio soltanto rompendo vecchi schemi, scindendo vecchie unità e creandone di
nuove, e spesso non per contiguità ma per rimescolamenti.
Non si tratta dunque di ancorarsi a una difesa assiologica dei valori della sinistra né d’altra parte di
rassegnarsi a una liquidazione e omogeinizzazione di questi valori nel senso di un adattamento
pragmatico a un contesto post-ideologico (o presunto tale), ma al contrario di lottare per ridefinire il
campo e la cornice che solo può dare senso a nuove opposizioni e conflitti.
Inoltre rimane da esplorare la connessione tra il ripensamento dei contenuti fondamentali della
politica (quelli che Marco Revelli chiama “meta-valori”) e il ripensamento delle forme
organizzative della partecipazione. Siamo convinti che l‘introduzione di questi nuovi temi richieda
anche nello stesso tempo una reinvenzione delle forme dello stare insieme, del relazionarsi fra
diversi e, più in generale, delle “pratiche politiche”.
Da questo punto di vista crediamo che il vero passo in avanti possa venire dal tentativo di costruire
percorsi politici che mettano in discussione le vecchie organizzazioni partitiche e sindacali, non solo
sui temi e sulle pratiche ma anche simbolicamente nel delineare un terreno di gioco differente, in
cui parole, esperienze, pratiche magari già esistenti acquistino improvvisamente un senso e
un’evidenza nuova.
III. Una nuova tipologia di attore politico
Sarebbe interessante da questo punto di vista il tentativo di mettere in scena una nuova tipologia di
soggetto politico che non competa per il potere, inteso come dominio sugli altri, nemmeno
attraverso la conquista elettorale degli apparati statali, ma che si proponga e agisca in uno spirito di
servizio. Pensiamo a organizzazioni che non si muovano nella logica delle competizioni elettorali,
ma che scelgano di agire in una dimensione politica differente e più ampia, di autoformazione e
autoeducazione, di maturazione e trasformazione personale, e insieme di cura delle relazioni, di
cambiamento culturale e di mutamento sociale.
Recentemente Serge Latouche, rigettando l’idea di un possibile “partito della decrescita”, ha scritto:
«il lavoro di auto-trasformazione in profondità della società e dei cittadini a noi sembra più
importante delle scadenze elettorali». Siamo d’accordo. Ma propongo di riflettere sul fatto che forse
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è venuto il momento di uscire dallo stallo e di cercare una soluzione creativa tra il rischio di
istituzionalizzazione e burocratizzazione delle istanze della decrescita e il rischio di assumere un
atteggiamento indifferente e passivo verso i processi istituzionali e le decisioni che in quei contesti
vengono assunti. Occorre forse arrischiarsi a sperimentare modelli eccentrici e innovativi di
impegno ma soprattutto di attività politica che mentre cambiano l’esistenza di coloro che ne fanno
parte, contribuiscano contemporaneamente a modificare le forme e le condizioni della vita politica
per tutti.
In particolare pensiamo a un soggetto – lo chiameremo provvisoriamente “attrattore politico” in
omaggio alla teoria del caos – che si impegni in una prospettiva di decrescita, di transizione e di
rigenerazione politica, ecologica e sociale. Tale “attrattore” dovrebbe caratterizzarsi per alcuni
specifici elementi:
- porre all’attenzione della gente e al centro del dibattito temi e proposte innovative o lungimiranti
per essere facilmente recepibili o adottabili da forze tradizionali;
- stimolare e agevolare una transizione del sistema politico promuovendo nuovi obbiettivi, nuove
linee di conflitto e nuove possibilità di aggregazione su altre basi;
- risultare per sua natura e funzionamento non ricattabile o corruttibile e conquistarsi così più
facilmente la fiducia della gente. Costruirsi una propria credibilità non essendo legato a spartizioni
di poltrone ma indirizzato all’obiettivo di realizzare alcuni risultati concreti;
- stimolare la passione e il desiderio verso il confronto e l’impegno politico ma anche l’interesse
verso le istituzioni democratiche, attraendo persone che non si riconoscono negli attuali
schieramenti, che non votano o che lo fanno oramai da troppo tempo unicamente secondo la logica
del meno peggio;
- offrirsi come spazio di azione e relazione conviviale, libero, poroso e facilmente accessibile ogni
qualvolta ci sia un progetto o un’azione che si ritiene interessante, senza obbligo di associarsi e
senza bisogno di tessere di nessun genere. Offrire uno spazio di cura delle relazioni e di
trasformazione di sé e delle proprie relazioni col mondo che contrasti i processi di
individualizzazione e le chiusure egoistiche;
- sperimentare e testimoniare nuove forme di relazione tra uomini e donne orientate al
riconoscimento della differenza e al rispetto delle diverse soggettività, delle diverse scelte sessuali,
delle diverse forme di unione, della libertà di ciascuno e ciascuna;
- impegnarsi in un tipo di comunicazione «orientata a persuadere l’altro piuttosto che a
sottometterlo in un rapporto di gerarchia»;
- accrescere la capacità di lavorare assieme tra diversi, curando la comunicazione, la condivisione,
lo scambio, la valorizzazione reciproca tra persone, promuovendo l’abitudine a federarsi insieme tra
gruppi ed esperienze differenti;
- portare avanti campagne e iniziative a livello transnazionale, mostrando e anticipando una
modalità di azione che spinga le persone a pensarsi al di fuori delle identità nazionali e a costruire
rapporti e confronti tra diversi Paesi e comunità;
- sostenere esperimenti politici a livello locale a partire da città e amministrazioni particolarmente
sensibili ai temi dell’ecologia, della transizione e dell’autogoverno democratico. Promuovere una
forma di impegno civico basato sull’amore del luogo e sulla cura dei beni comuni;
- impegnarsi ad articolare e coniugare in modo nuovo temi quali l’equità e la giustizia sociale, la
sobrietà e la sostenibilità, il riconoscimento delle differenze sessuali e culturali, la libertà di
espressione e la solidarietà, il rispetto per le generazioni a venire e per tutte le specie viventi;
- sostenere il mondo del lavoro non solo relativamente agli aspetti redistributivi e salariali, ma
anche nella realizzazione di relazioni più umane, nel riconoscimento delle differenti soggettività,
nella valorizzazione dei talenti, nella produzione di senso e significato, nel diritto a decidere sulla
qualità e la redistribuzione dei prodotti, nella convinzione che i diritti del lavoro e la democrazia nei
luoghi di produzioni siano la premessa per poter lottare con successo per il cambiamento;
- aprire e rilanciare conflitti politici mantenendo una prospettiva e una modalità di azione
esplicitamente e convintamente nonviolenta, avendo fiducia nella mediazione come pratica
eminentemente politica;
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- in prospettiva fornire un contributo al ripensamento del “paradigma politico della modernità” e
alla costruzione di un “nuovo paradigma politico”.
Ci si può domandare che cosa differenzierebbe un simile soggetto da un tradizionale partito
politico. Per un verso un tale “attrattore politico” potrebbe effettivamente svolgere alcune funzioni
che i partiti non compiono in realtà più: l’intercettazione di bisogni e desideri diffusi tra i/le
cittadini/e; l’elaborazione di politiche pubbliche; il coinvolgimento e l’integrazione delle persone; la
formazione di personale impegnato politicamente; la costruzione di un senso di appartenenza
collettivo. Per un altro verso un simile soggetto si differenzierebbe nettamente da un partito politico
per il fatto di non mirare alla raccolta dei suffragi, di non competere con altri soggetti per il potere o
per l’occupazione di incarichi istituzionali. Inoltre per la volontà di sottrarsi a una logica
rappresentativa e per l’intenzione invece di promuovere una logica partecipativa (di
coinvolgimento) e relazionale (di creazione e cura dei legami tra persone). E ancora per il fatto di
non distribuire ai partecipanti né posti né opportunità di carriera e dunque di scoraggiare persone
orientate al potere e al carrierismo. Un simile soggetto dovrebbe inoltre puntare su una autorità
dinamica e circolare piuttosto che rigida e fondata sulle figure tradizionali di leader e portavoce.
Analogamente ci si può domandare cosa differenzierebbe questo progetto da un’associazione o un
tradizionale gruppo di pressione. In qualche dimensione potrebbe riprendere modalità e
metodologie di azione e comunicazione già impiegate in movimenti sociali: la strutturazione
reticolare, la capacità di mobilitazione, la tendenziale orizzontalità, la capacità di attivare passioni e
forme di coinvolgimento personale, un’attenzione alle esperienze soggettive ed esistenziali, la
rapidità di intervento attraverso azioni simboliche e dimostrative. Tuttavia a differenza di un gruppo
di pressione orientato a portare avanti e imporre un tema specifico all’interno dello spazio politico
tradizionale, tale soggetto dovrebbe impegnarsi ad elaborare una prospettiva più generale e a
modificare le strutture fondamentali e le forme stesse del sistema e del processo politico. In altre
parole non si occuperebbe solamente di spingere in cima all’agenda politica un tema specifico ma
promuoverebbe piuttosto un insieme di nuovi temi che nel complesso configurino un’altra visione
della politica; o detto altrimenti si occuperebbe della connessione tra alcuni temi e sfide emergenti e
la necessaria trasformazione e adattamento delle forme politico-democratiche. In prospettiva
potrebbe dotarsi di strumenti di auto-organizzazione leggeri e diffusi il più possibile nei diversi
territori.
Fondamentalmente, si tratterebbe dunque di uno spazio e di una forma ibrida che utilizzerebbe
aspetti e caratteristiche sia dei partiti che dei movimenti che dei gruppi di pressione.
IV. Ampliare il campo delle azioni politiche
Cosa potrebbe fare concretamente un simile soggetto?
Potrebbe svolgere diversi tipi di azioni: di sensibilizzazione, di vigilanza, di indagine, di pressione,
di interdizione, di giudizio, di innovazione socio-politica. Di seguito ipotizzo alcuni esempi, fermo
restando la convinzione che una volta liberatici dagli schemi che ci impediscono di pensare, siano
molte altre le idee e le iniziative che si potrebbero promuovere o sperimentare.
· Sperimentare nuovi strumenti partecipativi e di autorganizzazione che coinvolgano i singoli
cittadini, anche quelli non associati ed organizzati nella formazione di agende politiche, nella
formulazione di obiettivi sociali e nell’istituzione di significati collettivi; che promuovano un
superamento della tradizionale opposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta in
favore di processi di apprendimento e deliberazione fondati su un’idea di interazione costante e di
copilotaggio.
· Promuovere forme di attività politica favorevoli alla partecipazione di entrambi i sessi a partire
dalle diverse soggettività, e da sensibilità, esperienze, bisogni e desideri molteplici e differenti.
Denunciare qualsiasi forma di machismo, di dominio e sottomissione sessuale, di sfruttamento e di
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violenza contro le donne, di svalorizzazione dell’immagine femminile e di quella maschile. Favorire
processi politici basati su un idea flessibile, mobile e dinamica dell’ autorità tendenzialmente ostile
all’irrigidimento, alle gerarchie e alle pratiche di potere. Assumere e mettere al centro la capacità
“femminile” di riconnettere personale e politico, di fondare le pratiche e le scelte politiche sulle
esperienze relazionali ed esistenziali fondamentali, di ricomporre con sensibilità e intelligenza i
diversi frammenti – interiori ed esteriori - della nostra vita. Promuovere dunque un’attività politica
non fondata sull’angoscia e la paura dell’altro (nelle diverse forme del razzismo, del sessismo, del
fondamentalismo) ma viceversa sul desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con
gli altri.
· Impegnarsi a costruire un nuovo “spazio pubblico socio-ambientale” promuovendo un’idea di
democrazia come autoformazione e autoeducazione. Da un punto di vista concreto si potrebbe a)
lanciare una campagna di un anno di informazione, formazione, educazione e servizio sui temi
dell’ecologia e della sostenibilità (esaurimento risorse, riscaldamento globale, perdita di
biodiversità, conflitti ambientali ecc.); b) lanciare l’idea di un periodo di servizio civile ecologico
per tutti i residenti sul territorio nazionale, italiani e immigrati, come percorso di accesso alla
cittadinanza; c) lottare per imporre alcune regole e alcune garanzie sul piano dell’informazione e
comunicazione scientifica e ambientale nei media e nei giornali; d) sostenere sul piano sociale,
culturale e politico nuovi stili di vita individuali e sociali, nuovi modi di produrre, consumare e
viaggiare; e) più in generale introdurre nuovi temi al centro della discussione pubblica e ottenere
una modificazione dell’attenzione e delle priorità non solo nell’agenda politica ma anche nei
processi formativi ed educativi.
· Diffondere un’idea differente del territorio, né identitaria né escludente, proponendo quello che si
potrebbe chiamare un “Territorialismo solidale”. Una concezione basata sulla centralità del
territorio in senso non egoistico e non localistico, sia promuovendo legami e reti tra soggetti
territoriali sia promuovendo un terreno di scambio e di collaborazione di tipo transnazionale.
Mostrare quindi che si può fare politica con un approccio non solo nazionale e internazionale ma
anche autenticamente transnazionale.
· Lanciare l’idea di un “patto tra generazioni” e promuovere a questo proposito un radicale
ampliamento dell’orizzonte temporale dell’azione e della responsabilità politica. In termini concreti
lanciando alcuni progetti e iniziative che abbiano come obiettivi o ricadute le generazioni a venire e
spazi temporali molto ampi anche di secoli o addirittura millenni. Per esempio progetti intestati alle
generazioni a venire di conservazione delle risorse e dei territori, di cura e promozione della
biodiversità, di conservazione delle conoscenze e della memoria, nello spirito della comunicazione
e del dono a coloro che verranno dopo di noi. Sul piano delle attività di vigilanza e interdizione si
dovrebbero monitorare le attività, le norme, i provvedimenti, e i progetti delle istituzioni locali,
nazionali ed europee su alcuni temi, produrre inchieste e rapporti su temi rilevanti e contrastare
qualsiasi iniziativa che, per fare un esempio, proiettasse un evidente impatto negativo sulle
generazioni future. Per esempio un uso sconsiderato delle risorse non rinnovabili, o progetti come
quello di rilancio del nucleare che a causa dell’irrisolto problema delle scorie radioattive
rappresenta uno scaricare i problemi a chi verrà dopo di noi. Il soggetto politico di cui stiamo
parlando potrebbe presentarsi come un’agenzia civica di osservazione, di indagine e giudizio,
nonché sviluppare forme di veto e interdizione politica. Forme di attività politica di interdizione
sono l’ostruzionismo, le occupazioni, i presìdi, manifestazioni pubbliche teatralizzate ecc. Si
potrebbe anche immaginare una modalità di conservazione dei dati relativi alle scelte ad alto
impatto ambientale e sociale in modo che si conservasse una memoria nel tempo delle
responsabilità individuali e collettive rispetto a certe scelte, e pian piano emergesse l’idea di poter
essere giudicati dalle generazioni future.
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· Promuovere un ripensamento del demos e della cittadinanza attiva in modo da tenere conto: a)
delle nuove forme di mobilità globali, estendendo i diritti di cittadinanza anche ai migranti che
risiedono in un determinato territorio per un certo periodo di tempo; b) delle generazioni future e
del legame di responsabilità tra generazioni; c) della necessità di ampliare la sfera dei diritti e delle
garanzie anche alle altre specie viventi promuovendo una forma di cittadinanza ecologica tra tutte le
forme di vita appartenenti alla comune “famiglia terrestre”.
· Promuovere un’accelerazione del mutamento istituzionale in modo da passare da modelli
ecologicamente e socialmente irresponsabili a forme di responsabilità e di riflessività politicaistituzionale. Iniziative di questo tipo potrebbero prevedere: a) la lotta per l’affermazione di diritti
procedurali in campo ecologico per porre sotto il controllo della popolazione locale progetti di
infrastrutture, di grandi opere o di azioni di grande impatto ambientale; b) la lotta per l’imposizione
di forme di responsabilità intergenerazionale e di norme di garanzia per le generazioni a venire; c)
aprire un dibattito sull’opportunità di promuovere riforme costituzionali o processi costituenti in
vista di nuovi testi fondamentali basati sull’idea di sostenibilità e di rigenerazione; d) promuovere
l’idea di un rinnovamento ed ampliamento dei fori di discussione, confronto e deliberazione fondati
sul criterio della ”base territoriale appropriata” a livello di specifici ecosistemi (una valle, un bacino
idrografico, una area montana, un area costiera, ecc…) che si aggiungano e si integrino con le arene
decisionali tradizionali (comuni, provincie, regioni, nazioni) e in prospettiva aiutino a ripensarle.
Questo documento è un tentativo di aiutarci a pensare al di fuori degli schemi e delle categorie
tradizionali per aprire delle porte e incamminarci su nuovi sentieri. La speranza è che, al di là dei
singoli aspetti più o meno discutibili, possa liberare l’immaginazione e rilanciare la discussione su
un piano differente.
Giugno-luglio, 2009
Marco Deriu, Paolo Cacciari, Mario Agostinelli, Daniele Barbieri, Chiara Marchetti, Maurizio
Ruzzene, Ferruccio Nilia, Mauro Bonaiuti, Dalma Domeneghini, Gianni Tamino, Auretta Pini,
Enrico Moriconi.
1 Cfr. Pharr Susan J., Putnam Robert D. (a cura di), Disaffected Democracies. What’s Troubling the
Trilateral Countries?, Princeton University Press, Princeton, 2000; Colin Hay, Why We Hate
Politics, Polity Press, Cambridge, 2007; Gerry Stoker, Perché la politica è importante. Come far
funzionare la democrazia, Vita & Pensiero, Milano, 2008.
2 In Italia l’astensione ha raggiunto il 33.5%; Slovacchia, Lituania, Romania, Polonia, Repubblica
Ceca e Slovenia oscillano tra il 70% e l’80%; anche Germania, Francia e Spagna raggiungono
percentuali di astensione tra il 55 e il 59% dell’elettorato attivo.
3 Sul tema della spettacolarizzazione della politica o della “democrazia spettacolare” si veda il testo
scritto a più mani “Carta della democrazia insorgente”, Carta, 21 maggio 2009 e l’articolo di
Pierluigi Sullo “Lo show della barbarie contro le nuove comunità”, Carta, 3 luglio 2009.
4 Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché
nessuno se ne è accorto, Edizioni Ambiente, Milano, 2009. Si veda anche la piattaforma online
World Index of Social and Environmental Responsability (WISER): www.wiserearth.org
5 Cfr. Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna, 1982; Stein Rokkan, Stato,
nazione e democrazia in Europa, Il Mulino, Bologna, 2002. Si potrebbero naturalmente rintracciare
altre opposizioni storiche, per esempio tra l’ideale emancipatore del “progresso tecnologico
scientifico” e forme di resistenze economiche-sociali-culturali, spesso lette semplicisticamente
come “reazionarie”, ma tali opposizioni non hanno trovato una declinazione politica definita.
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6 Come è noto, recentemente alcuni governi dell’America Latina – in particolare l’Equador e la
Bolivia - hanno introdotto nelle loro costituzioni e leggi fondamentali, importanti riferimenti alla
Madre Terra e alla tutela della natura e delle diverse specie viventi.
7 Funtowicz, Silvio and Jerry Ravetz; "Post-Normal Science." In: Encyclopedia of Earth. Eds.
Cutler J. Cleveland (Washington, D.C.: Environmental Information Coalition, National Council for
Science and the Environment). http://www.eoearth.org/article/Post-Normal_Science; Joan Martinez
Alier, Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, Milano, 2009.
8 Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Roma-Bari, 2007.
9 Serge Latouche, “La decrescita non è un partito”, Carta, 12 giugno 2009.
10 “Carta della democrazia insorgente”, cit.
11 Marco Revelli, op. cit.
12 Si veda a questo proposito il bel libro di Stewart Brand, Il lungo presente. Tempo e
responsabilità, Mattioli 1885 Fidenza, 2009.
13 Sui poteri di sorveglianza, interdizione e giudizio si veda Pierre Rosanvallon, La politica nell’era
della sfiducia, Citta Aperta, Troina, 2009.
14 Su questa idea rimando ancora a Stewart Brand, op. cit.
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