Da www.mymovies.it François Truffaut Data nascita: 6 Febbraio 1932 (Acquario), Parigi (Francia) Data morte: 21 Ottobre 1984 (52 anni), Parigi (Francia) Garzantina del Cinema Regista francese. Esce da un'adolescenza difficile e segnata da un pessimo rapporto con la madre grazie alla passione per lo schermo e all'amicizia di A. Bazin, che lo introduce ai «Cahiers du Cinéma» e lo avvia alla critica cinematografica. La compagine della rivista è allora ricca di personaggi divenuti poi registi di gran rango, quali C. Chabrol, J.-L. Godard, J. Rivette, E. Rohmer. Dopo aver condotto una battaglia critica piuttosto tenace nel rivendicare un cinema preminentemente d'autore, T. passa dietro la mdp, scrivendo e dirigendo Les mistons (1957), un tenero cortometraggio sulle pulsioni d'amore adolescenziali. Si affianca poi a J.-L. Godard nella direzione di un altro corto, Une histoire d'eau (1958), e l'anno successivo gira il suo primo lungometraggio I quattrocento colpi (1959), un'opera che condivide con Fino all'ultimo respiro (1960) di Godard (peraltro cosceneggiato da T. stesso) una primazìa indiscussa nell'avvento della Nouvelle vague. I quattrocento colpi è interpretato da un giovanissimo J.-P. Léaud, all'inizio di un sodalizio con il regista che durerà a lungo. Léaud è per la prima volta Antoine Doinel, personaggio principale di tanti film successivi, figura emblematica e riflesso in qualche modo autobiografico del regista. Capelli a spazzola, volto imberbe, Léaud riesce a dar vita con la freschezza propria dell'età ai fantasmi del passato infelice di T., vissuto con sofferta amarezza. Il piccolo Antoine, quasi ignorato da genitori distratti, risponde a un'evidente mancanza di affetto con atti di ordinario rifiuto delle consuetudini civili e finisce in riformatorio. È come se T. reinventasse la propria adolescenza e proiettasse sé stesso nella figura del ragazzo, intrappolato in un disagio ribelle nei confronti di un universo familiare estraneo e sordo, fino allo struggente carrello finale che accompagna Antoine in fuga lungo una strada bianca e polverosa. Il film mette in scena una storia vissuta, che però non rimane invischiata nella rete consolatoria dell'autobiografismo ma, anzi, trova nelle ossessioni personali materia per un'innovazione linguistica inaudita nel cinema francese (e mondiale) di allora. Di lì in avanti la vena truffautiana – purtroppo prematuramente interrotta – produrrà film memorabili, piccoli-grandi raffinati gioielli visivi, stilisticamente irripetibili, dal tocco a volte leggero, a volte graffiante, carichi di fascino e di emozioni, intensi, sofferti, tragici, divertiti, ironici. T. gira il suo secondo lungometraggio nel 1960, Tirate sul pianista, storia di un musicista gentile e timido che rimane incastrato suo malgrado in una vicenda gangsteristica. L'anno successivo realizza il suo film forse più straordinario, Jules e Jim (1961), una di quelle opere che bastano da sole a segnare la statura di un autore, capaci di sfidare il tempo, radicarsi nella memoria e caricarsi di un'aura quasi «sacrale». Jules e Jim sono amici-rivali. Amano Catherine, che a sua volta vorrebbe amare ambedue. Tutti e tre vivono intensamente la «vie de bohème» parigina degli anni precedenti la prima guerra mondiale. Catherine decide di sposare l'austriaco Jules, e di andare a vivere con lui a di là delle Alpi. Scoppia la guerra e Jim viene arruolato. Dal fronte manda lettere agli amici, e alla fine del conflitto va a raggiungerli in Austria. Jim non ha mai cessato di amare la donna; Jules lo sa, e accetta senza drammi che l'amico e Catherine divengano amanti. Catherine a sua volta si divide tra l'amante, il marito, e qualche avventura di passaggio. I due uomini vivono con dolce amarezza gli umori imprevedibili e la disperata inquietudine della donna. Un giorno Catherine invita Jim per una gita in macchina, e sotto gli occhi di Jules si getta con lui da un ponte nel fiume sottostante. Appassionante, profondo, amaro e lancinante, Jules e Jim esibisce un raro equilibrio di forma, linguaggio e materia tematica. Catherine è interpretata da una J. Moreau eccezionale, capace di calarsi fino in fondo in una figura di donna libera e indecifrabile, scissa in un doppio amore impossibile. Già sperimentata con L. Malle in Ascensore per il patibolo, e soprattutto in Les amants, è nell'incontro con T. che la grande arte drammatica della Moreau raggiunge un livello altissimo, ripetendosi più avanti in La sposa in nero (1968). Intanto, con La calda amante (1964), T. non riesce a conferire la medesima intensità drammatica a un altro triangolo amoroso, e successivamente si misura con un testo di fantascienza, Fahrenheit 451 (1966, da un romanzo di R. Bradbury), inquietante affresco di una futura società tirannica, che non tollera la libera conoscenza e allestisce roghi di libri. Con Baci rubati (1968) realizza invece un film frizzante, fresco, ironico e ammaliante. I personaggi si incrociano, si rincorrono, si amano, si abbandonano senza ragioni apprezzabili e senza un apparente filo logico. Esibiscono distacco e disincanto, passioni travolgenti e furori improvvisi. Dice Truffaut: «Ho corso il rischio di abbandonare Baci rubati quindici giorni prima dell'inizio delle riprese, per la vergogna e il disagio. Pensavo: ho delle buone sceneggiature da girare, ci sono dei romanzi magnifici, e io sto per fare in quindici giorni un film dove non si racconta assolutamente niente». Non c'è discorso che renda meglio il senso di questo film, che sembra un pretesto per una delle tante varianti del solito personaggio di Antoine Doinel, dove è arduo rintracciare un canovaccio di trama, un qualunque percorso narrativo, per non parlare del cosiddetto «messaggio». E tuttavia, a dispetto della sua frammentarietà, Baci rubati risulta un film compatto, solido, privo di cadute di tono o di cambiamenti di ritmo. Anzi, l'idea di «messa in scena» che T. esibirà in tutto il suo cinema assume qui una valenza quasi paradigmatica. Nel merito, del resto, il cineasta aveva le idee chiare, e non mancava di consegnarle alle pagine dei suoi amati «Cahiers du Cinéma»: «Per me il cinema è un'arte della prosa. Definitivamente. Si tratta di filmare la bellezza senza averne l'aria o senza averne alcuna aria. A questo tengo enormemente... la poesia mi esaspera, e quando qualcuno mi manda poesie per posta, le cestino immediatamente. Amo la prosa poetica, ma solamente la prosa: Cocteau, Audiberti, Genet e Queneau. Amo il cinema perché è prosaico, è un'arte indiretta, inconfessata, occulta nel momento stesso in cui si mostra». Il film che segue, La sposa in nero, si avvale per la seconda e ultima volta della bravura di J. Moreau, qui nelle vesti di una donna che decide di vendicarsi dei cinque uomini che hanno causato la morte del suo promesso sposo. Ne uccide quattro, ma non sa come fare con il quinto, che nel frattempo è finito in prigione. Un noir dall'equilibrio perfetto e dalle tonalità algide e insieme grottesche. È poi la volta di La mia droga si chiama Julie (1969), un altro splendido noir dai toni vagamente melodrammatici, che gioca con i generi e risulta un'ulteriore ficcante incursione nei territori dell'«amour fou». Non drammatizziamo... È solo questione di corna (1970) è ancora storia di Antoine Doinel, una sorta di apologo, a metà strada tra il serio e lo scanzonato, sul matrimonio e sui tradimenti coniugali, in cui una giovane coppia di sposi riesce a consolidare la propria unione solo dopo un'avventura di lui con una sfolgorante fanciulla giapponese. J.-P. Léaud, il marito fedifrago, resta sempre un personaggio dai toni un po' stravaganti: al ristorante con la bella giapponesina, si annoia e sfoga la sua delusione borbottando al telefono con la moglie. T. ha già realizzato quasi metà della sua opera complessiva quando accantona temporaneamente la sua esplorazione del rapporto fra i sessi dirigendo Il ragazzo selvaggio (1970), storia «illuministica» della rieducazione di un bambino ritrovato allo stato primitivo nelle foreste dell'Aveyron. Con Le due inglesi (1971, uscito inizialmente in una versione più breve e rieditato poi nella versione integrale nel 1984) torna ai suoi scenari di passione trasgressiva, con l'amore di un uomo per due sorelle britanniche, giocando sul contrasto tra la Parigi cosmopolita di inizio Novecento e la pruderie perbenista di un'Inghilterra periferica e puritana. Quest'ultimo è un film che non soddisfa T., tanto che finisce lui stesso con lo scorciarlo senza remissione (lo ricostruirà integralmente poco prima di morire). Dopo aver diretto un tiepido Mica scema la ragazza (1972), realizza una delle sue opere più raffinate e più cinefile, Effetto notte (1973), un tentativo di rendere esplicita l'avventura del cinema come metafora della vita, tra citazioni, autocitazioni e omaggi ai maestri (Hitchcock, Ophüls, Welles ecc.), esibiti con tono fresco e affascinante. Due anni dopo con Adele H., una storia d'amore (1975) porta sullo schermo la struggente vicenda della figlia secondogenita dello scrittore V. Hugo, Adele (I. Adjani), consumata da un amore ossessivo, paranoico e disperato per un uomo che la rifiuta. Successivamente, a cavallo tra Gli anni in tasca (1976) e L'amore fugge (1979), dirige L'uomo che amava le donne (1977), ficcante ritratto di un ganimede intellettuale e narciso, e La camera verde (1978), un'altra ossessione amorosa dai tratti sommessi e cupi. Nel pieno della maturità creativa, realizza uno dei suoi capolavori, L'ultimo metrò (1980). Al teatro Montmartre, in una Parigi occupata dai nazisti, si manda in scena una nuova commedia. Coprifuoco, strade buie e deserte, l'ultimo metrò da prendere. La direttrice del teatro (C. Deneuve) ha nascosto nei sotterranei il marito, un ebreo. È lui in realtà che dirige per interposta persona. Costretto al chiuso, ricercato dai nazisti, l'uomo si sente schiacciato dal peso della solitudine. Le periodiche visite della moglie non bastano. La sua mente comincia a sviluppare piccole ossessioni e acute gelosie. In realtà è l'arrivo di un giovane attore (G. Depardieu) che lo inquieta, e con ragione, perché fra quest'ultimo e la moglie scatta ben presto un'attrazione travolgente. La donna, peraltro, riesce magnificamente a giocarsi il triangolo e a prolungarlo anche dopo il ritorno alla normalità. L'ultimo metrò è un limpido modello di come un cinema costruito sulla base di un'unità di luogo squisitamente teatrale non necessariamente impoverisca il linguaggio della mdp. Una regia sofisticata, un sapore di trasgressione intrigante, un icastico affresco d'epoca, in definitiva, un autentico tocco di classe. Anche La signora della porta accanto (1981), penultima opera di T., porta il segno di una straordinaria finezza registica e di una consumata perizia narrativa, oltre che di un certo sentimento della tragicità dell'esistenza. È la storia di una passione irresistibile, di un amore coinvolgente fino all'estremo atto. Un uomo e una donna (F. Ardant e G. Depardieu), ex amanti, si ritrovano vicini di casa. Sono ormai sposati, sono maturati con gli anni, ma ben presto l'antico fuoco torna a risvegliarsi. Si avvia una trama di incontri clandestini, tanto fugaci quanto febbrili, intensi, quasi violenti. I due scoprono tuttavia che la vita li ha irrimediabilmente divisi. Ma l'attrazione reciproca è così totalizzante che non resistono alla verità e si uccidono durante un ultimo, distruttivo amplesso. Un melodramma raffinatissimo e agghiacciante, abitato da una carica di erotismo sottile e rovente, girato con eleganza stilistica suprema. Il male che lo ucciderà è già in agguato quando T. realizza la sua ultima regia, Finalmente domenica (1983), scegliendo la fotografia in b/n. Affidato alla frizzante interpretazione di F. Ardant, che si improvvisa detective, senza lesinare colpi gobbi e ammiccamenti sexy per trarre d'impaccio l'uomo di cui è innamorata (J.-L. Trintignant), il film è una commedia dalla confezione deliziosa, che rivisita in forme estremamente brillanti certi modelli di noir hollywoodiano in salsa agrodolce. T. muore l'ottobre dell'anno dopo.