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Liceo Scientifico “Giorgio Asproni” Iglesias
Uomo - misura
Interprete della realtà e soggetto giudicante
Marco Melis
Classe 5a D
ANNO SCOLASTICO 2015/2016
La scuola di Atene, Raffaello Sanzio
(1509 - 1511)
« Si deve filosofare o non si deve: ma per decidere di non filosofare è
pur sempre necessario filosofare: dunque in ogni caso filosofare è necessario »
(da Aristotele, Protrettico)
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Marco Melis
Uomo - misura
«L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto
sono, e di quelle che non sono in quanto non sono»
(Platone, Teeteto)
Questa celebre asserzione contenuta nel Teeteto, un dialogo di Platone (428 a.C./427 a.C. 348 a.C./347 a.C.), racchiude in poche e semplici parole il fulcro tematico della filosofia di
Protagora (486 a.C. - 411 a.C.), di tutti i sofisti il più famoso. La volontà di Platone nello
scrivere tale dialogo era quella di mettere in luce come ogni conoscenza non fondata sull’idea, l’essenza autentica delle cose, non possa essere in alcun modo vera conoscenza. Ma la
nostra attenzione è rivolta all’affermazione protagorea. Questa può essere in fin dei conti considerata una vera e propria tesi, intorno alla quale gravitava la scuola sofista del V secolo a.C.
In base ad una prima lettura e analisi possiamo affermare che Protagora abbia voluto sottolineare come l’uomo sia il metro, la misura, il soggetto giudicante di tutto ciò che lo circonda,
della sua realtà o irrealtà e del suo significato. Risulta evidente quanto molteplici siano le
possibili interpretazioni della massima di Protagora, poiché ciò che volesse intendere il filosofo con le parole "uomo" e "cosa" è difficile stabilirlo. Nonostante ciò l’asserzione nei secoli
è stata sottoposta a tre interpretazioni differenti ma allo stesso tempo complementari:
• uomo - misura come “individuo”
• uomo - misura come “comunità” o “civiltà”
• uomo - misura come “umanità” o “natura umana”
3! Anno Scolastico 2015/2016
Marco Melis
La prima interpretazione, risalente allo stesso Platone, associa al termine “uomo” il significato di individuo singolo, mentre al termine “cose” gli oggetti percepiti empiricamente dai sensi. Ciò implica che ogni individuo vede quella che solitamente viene chiamata realtà in modo
differente e personale, a seconda dello stato psichico, fisico e morale. In questo senso ha pertanto valore il passo estratto sempre dal Teeteto di Platone:
«quali le singole cose appaiono a me, tali sono per me e quali appaiono
a te, tali sono per te: giacché uomo sei tu e uomo sono io»
(Teeteto, 152a, Platone)
Ma se da un lato Platone sosteneva la possibilità di una conoscenza autentica in funzione delle “idee”, la tesi di Protagora sembrerebbe sottolineare invece l’impossibilità di una verità
certa e assoluta. L’individuo giudica gli oggetti in base al proprio metro di giudizio. Ne deriva che le prospettive sono molteplici e polivalenti. A questa visione si riallaccia il relativismo
di stampo sofistico.
Per la seconda interpretazione l’ ”uomo” sarebbe la comunità o la società in un determinato
contesto storico e in precise coordinate geografiche del pianeta. Tale modo di intendere la
massima protagorea si rifà ovviamente allo schema di valori assunto da ogni civiltà. Non esistono pertanto valori assoluti e universalmente accettati da tutta l’umanità, ma ogni gruppo
sociale giudica il mondo e la morale in modi distinti, contrapposti e il più delle volte antitetici. Gli individui in ogni civiltà vedono e giudicano le “cose” secondo il senso comune assunto dalla comunità stessa. I valori nascono e si sviluppano differentemente in ogni società,
vengono insegnati ai nascituri e in questo modo conservati e tramandati.
Infine la terza interpretazione attribuisce alla parola “uomo” il significato universale di
“umanità” o specie umana, mentre alla parola “cose” il significato più vasto di “realtà”. In
questo senso la tesi di Protagora sembrerebbe affermare che gli individui giudichino la realtà
tramite parametri comuni tipici della specie cui appartengono. Da questo punto di vista molti
studiosi hanno tentato di accostare il sofista di Abdera a Kant.
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Marco Melis
La critica ha oscillato tra questi tre modi di intendere la tesi di Protagora, ma come affermano
Abbagnano e Fornero, essi presi singolarmente sono insufficienti, mentre si caricano di verità
solo se combinati insieme. Per questo motivo “l’uomo protagoreo è misura delle cose ai vari
livelli della propria umanità: in primo luogo come singolo, poi come comunità o civiltà, infine come specie” (la filosofia 1A, Abbagnano, Fornero).
Da ciò, lo scopo della suddetta relazione è quello di mettere in luce con una serie di opportune e giustificate argomentazioni la validità della pensiero protagoreo, con un’analisi, rivolta
ad indagare anche le conseguenze del concetto di uomo - misura, interprete della realtà e
soggetto giudicante. A sostegno di questa posizione richiameremo, oltre ai filosofi, anche alcuni scrittori, artisti, scienziati e fisici.
Uomo - misura: Individuo
Come già affermato, la prima interpretazione che è stata fornita della tesi di Protagora è
l’uomo misura di tutte le cose in quanto individuo che percepisce ciò che lo circonda in modo
differente e personale. Da ciò ne consegue che anche i giudizi che l’uomo muove nei confronti del mondo intero sono soggettivi e dettati da particolari condizioni fisiche e circostanziali. Esplicativo a tal proposito è lo scritto anonimo Ragionamenti doppi (IV secolo a. C.)
ove è possibile dimostrare come le stesse cose possono essere buone o cattive, belle o brutte,
giuste o ingiuste a seconda del contesto e del soggetto giudicante. A questo proposito prendiamo in considerazione la prima parte di quello che dall’autore anonimo viene considerato
una summa dell’insegnamento sofistico:
« Ragionamenti doppi intorno al bene e al male vengono sostenuti in Ellade da parte di coloro che seguono la filosofia. Infatti gli uni dicono che altro è il bene, altro è il male; altri che bene e male sono la
stessa cosa, o che la stessa cosa sarebbe per lo stesso individuo ora bene ora male. […] Quanto a me,
[…] ne ricercherò le prove nella vita umana, le cui cure sono il mangiare, il bere e i piaceri sessuali;
poiché questi soddisfacimenti per l’ammalato sono un male, ma per chi è sano e ne ha bisogno, un
bene. […] E così la malattia per i malati è un male, ma per i medici è un bene. E ancora, la morte per
chi muore è un male, ma per gli impresari di pompe funebri e per i becchini è un bene. E che l’agricoltura dia abbondante raccolto, è un bene per gli agricoltori, ma per i commerciati è un male. Così
pure, che le navi onerarie si scontrino e si fracassino per l’armatore è un male, ma per i costruttori è un
bene. E ancora, che il ferro si corroda e si spezzi è male per gli altri, ma per il fabbro è bene. […] E
così pure nelle gare ginniche e nelle musicali e belliche: per esempio, nella gara della corsa allo stadio,
la vittoria è un bene per chi vince, ma per chi perde è un male. »
(Dissoi Logois, anonimo, traduzione: Diels, 90,
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Marco Melis
Procedendo oltre questa semplice ma illuminante elencazione di esempi desunti dalla realtà
quotidiana, è doveroso riallacciarci alla visione del mondo di un letterato ben più vicino ai
giorni nostri: Pirandello.
Luigi Pirandello (1867 - 1936)
Il Relativismo conoscitivo
Alla base del pensiero pirandelliano vi è una concezione vitalistica, affine alle posizioni di
alcune filosofie contemporanee (George Simmel e Henri Bergson). La realtà che ci circonda
è un “perpetuo movimento vitale” in eterno divenire, un “flusso continuo, incandescente e
indistinto”. Quel che si stacca da questo flusso si irrigidisce. Ciò avviene infatti all’identità
personale dell’uomo, che tende a fissarsi in una forma individuale. Questo vale per tutti gli
uomini che credono di essere “uno” ma per il mondo intero sono “centomila”. Ciascuna di
queste “forme” risulta essere una costruzione fittizia, una “maschera”. Sotto questa maschera
non c’è un individuo definito e unico, ma un fluire indistinto di stati che Pirandello racchiude
nel concetto di “nessuno”. Pirandello sostiene che nell’ individuo coesistono più persone differenti che emergono in modi e momenti inaspettati. Tornando alla nostra tesi di partenza, dal
vitalismo pirandelliano seguono necessarie conseguenze sul piano conoscitivo. Partendo
dunque dal concetto di realtà in perenne ed eterno divenire, noi non possiamo fissare e paralizzare il mondo entro forme a noi congeniali. Il desiderio di ognuno di noi di dare una forma
a ciò che ci circonda non è altro che una nostra soggettiva e personalissima proiezione. Il reale, di per sè, non ha forma, ma ha molteplici forme, è dunque polivalente. Non esiste di conseguenza una privilegiata prospettiva dalla quale poterlo giudicare. Pilastro costitutivo della
visione pirandelliana è quindi un radicale Relativismo conoscitivo. Nel mondo non domina
di conseguenza una verità oggettiva e universale per tutti, fissata a priori. Ognuno è portavoce
della propria verità e la realtà è vincolata al relativismo. Per cui ciascun aspetto del mondo
viene percepito differentemente non solo dai diversi individui ma anche da uno stesso individuo a seconda del determinato momento e a seconda del contesto.
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Marco Melis
L’Umorismo
Il relativismo conoscitivo di stampo pirandelliano sta alla base di un saggio dal titolo “L’umorismo” pubblicato dall’autore nell’anno 1908. Il volume è composto da due parti: la prima
dedicata alla trattazione storica dell’arte umoristica, la seconda definisce invece il concetto
stesso di umorismo nella poetica di Pirandello. In quest’ultima sezione infatti viene affermato
che se l’opera d’arte nasce dal “libero movimento della vita interiore” ove la riflessione resta
invisibile, nell’opera umoristica la riflessione mostra tutto il suo carattere giudicante. Per
questo motivo se il comico è definito come l’ “avvertimento del contrario”, attraverso la riflessione, Pirandello definisce l’umoristico come il “sentimento del contrario”. Il tutto può
essere spiegato attraverso un esempio fornito dall’autore stesso. Immaginiamo una “vecchia
signora” con i capelli ritinti, goffamente imbellettata e “parata con abiti giovanili”. La reazione più spontanea sarebbe quella di mettersi a ridere perché tale signora incarna l’esatto opposto di quello che dovrebbe essere. Da ciò il comico, come avvertimento del contrario. Ma se
facciamo intervenire la riflessione, probabilmente riusciremmo a capire che l’anziana donna
si atteggia in quel ridicolo e patetico modo per tenersi stretta l’amore di un compagno molto
più giovane. Da ciò passiamo all’umorismo, il sentimento del contrario. Ne deriva che il
componente fondamentale dell’umorismo pirandelliano è la possibilità di cogliere il carattere
molteplice e contradditorio della realtà, che possiamo analizzare da una molteplicità infinita
di punti di vista. Ciò ci costringe a vedere il mondo da prospettive inedite e polivalenti, per
poter andare oltre l’apparenza e giungere alla radice delle cose.
La lanterninosofia (dell’individuo)
Probabilmente la visione pirandelliana del relativismo conoscitivo e la tesi da noi sostenuta
dell’uomo-misura come individuo trova piena esplicazione nella teoria filosofica della Lanterninosofia, contenuta nel romanzo Il fu Mattia Pascal (1804). In un passo dell’opera l’autore lascia ampia libertà al pensiero di uno dei suoi personaggi: Anselmo Paleari. Egli sostiene che ogni uomo possiede uno proprio strumento che “proietta tutto intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce”. Tali lanternini, come vengono definiti, rimangono accesi fintanto che restiamo in vita e permettono di illuminare il mondo oscuro che ci circonda. I loro
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Marco Melis
molteplici colori sono un’allusione alla loro diversità che permette ad ogni individuo di vedere e giudicare la realtà in modo differente rispetto a qualunque altro. Il cerchio di luce proiettato dal lanternino allude al carattere fittizio che è proprio del nostro io e all'inconsistenza della realtà oggettiva, una proiezione del nostro sentimento soggettivo. Paleari sostiene quindi
che non esiste alcuna certezza conoscitiva e gnoseologica della realtà, ma tutto ciò che noi
sappiamo del mondo è dettato dal nostro personalissimo modo di vedere le cose. L’uomo non
conosce nulla di dato e oggettivo, ma costruisce il mondo sulla base della propria immaginazione e percezione. Un esempio di tale visione è, secondo Pirandello, la crisi delle certezze
che domina gli anni del primo Novecento. In uno scompiglio di lanternini tutti vanno in direzioni distinte, a volte tentano di aggregarsi ma l’ ”improvviso buio” vince anche questa speranza.
Le conseguenze di questa posizione sono lampanti. Se non esistono prospettive assolute e
universali dalle quali poter mirare il mondo, ne deriva una inevitabile incomunicabilità tra
tutti gli individui. È emblematico a tal proposito un passo desunto dall’opera “Sei personaggi
in cerca di autore”, in cui Pirandello mostra il carattere fittizio della comunicazione, minata
dall’imperante relativismo:
«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo
intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono
dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che
hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo
mai!»
(Sei personaggi in cerca di autore, Pirandello)
Escher: Relativity
Passando a questo punto al campo artistico, troviamo un illuminante parallelismo nell’opera
di Maurits Cornelis Escher (1898 - 1972), celebre incisore olandese. Alla base della sua
grandezza vi è la volontà di scomporre il reale in una molteplicità di piani, presentando in
questo modo costruzioni impossibili. Il risultato è un’arte enigmatica, labirintica, e intricata,
in cui a volte è quasi impossibile individuare il punto di fuga. Ma uno dei tratti costitutivi che
delineano il pensiero dell’artista in questione è la sua concezione relativistica della realtà,
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priva di valenza oggettiva o universale. Ciò appare nell’opera intitolata “Relativity” (1953)
nella quale Escher riesce a comunicarci un pensiero profondo: esistono più piani della realtà
che l’uomo deve analizzare. In Relatività Escher utilizza tre punti di fuga distinti che rappresentano tre mondi, fra i quali è impedita qualsiasi comunicazione. Il surreale ambiente sembra popolato da creature plastiche dalle sembianze umane.
Nell’ opera una parete diventa un pavimento, una finestra una botola, le scale mutano verso a
seconda di come vengono vissute. Lo spazio infatti è primariamente vissuto dai personaggi,
che danno l’idea del punto di fuga, della molteplicità polivalente delle prospettive. L’intersezioni di tre piani distinti determina l’impossibilità della convivenza tra gli uomini che giacciono sulle diverse superfici, poiché essi hanno un concetto diverso di ciò che è orizzontale o
verticale, come se vivessero la propria vita su mondi differenti e lontani.
«Sulla scala superiore procedono due persone, una accanto all’altra nella stessa direzione.
Evidentemente è impossibile che queste persone entrino in contatto perché vivono in due
mondi diversi e, per questo, l’uno non è a conoscenza dell’esistenza dell’altro.»
(citazione di Escher, Relatività, 1953)
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Ci perdiamo in un mondo multiforme, che può essere giudicato da più punti di vista, dove
non esiste vero o torto, giusto o sbagliato. Il mondo di ogni individuo è perfetto e coerente,
ciò che non ha senso è la prospettiva altrui, che non si riesce a comprendere. Evidente è quindi il tema dell’incomunicabilità fra gli uomini, che concepiscono lo spazio in base al loro
modo di vedere le cose e di giudicarle.
Escher sembra quindi sostenere che il nostro concetto di ciò che è reale è sempre relativo,
creato da noi stessi. Ma l’incomunicabilità che traspare dall’opera può essere superata da un
modo più positivo di vedere la questione. Una apertura a più punti di vista può farci vedere le
cose in modo diverso da come le abbiamo sempre concepite. Possiamo quindi giungere alla
scoperta di mondi inesplorati, poiché la realtà non deve avere alcun limite. Ed è in questo
senso che comprendiamo appieno il significato della coppia che cammina abbracciata nell’angolo destro della litografia. Ciò infatti ci permette di intravedere una speranza, quella di
ritrovarsi tra le caotiche e multiformi prospettive: un incontro per un punto di vista comune.
Uomo - misura: Civiltà
La seconda interpretazione, dell’uomo misura di tutte le cose come comunità, trova adito anche in questo caso in alcuni esempi contenuti nei “Dissoi logoi” (Ragionamenti doppi). Nella
seconda parte dell’opera anonima in questione sono menzionate ed analizzate una grande
molteplicità di usanze relative a vari popoli dell’epoca. Siamo quindi nell’ambito di ciò che si
suole definire Relativismo culturale, che va ad indagare la differenziazione tra le varie civiltà umane sulla base dei loro costumi e dei loro valori. Nel caso in questione si fa riferimento
ai Macedoni, ai Greci, agli Egizi, indagando quali sono le più lampanti differenze nella concezione di ciò che è giusto o sbagliato, bello o brutto. Prendiamo l’esempio degli Sciti, popolazione in cui è radicata l’usanza per chi uccide un uomo di scuoiarne la testa e portarla in
giro come segno di vittoria. A detta dell’autore un’ usanza di questo tipo non solo viene
aspramente criticata, ma “nessuno vorrebbe entrare nella casa di uno che ha compiuto tali
cose”.
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E ancora:
“I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l'esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando
morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. I Persiani reputano bello che anche gli uomini si adornino come donne, e si congiungano con la figlia, con la madre, con la
sorella; per i Greci son cose turpi e contro legge. “
(Dissoi Logois, anonimo, traduzione: Diels, 90, 2)
Ciò che si vuole affermare con questo riferimento è che alla base del giudizio dell’uomo sul
mondo vi è la profonda influenza della società alla quale si appartiene, delle leggi morali a
cui ogni individuo è stato educato e dei relativi valori. Per questo motivo, come continua
l’opera, se tutti gli uomini dovessero riunire le leggi considerate brutte per poi scegliere quelle che ogni popolo e ogni individuo considera giuste e belle, tutti si ripartirebbero tutto e nulla resterebbe. Una considerazione analoga è espressa dal famoso Erodoto, antico storico greco, il quale sostenne che se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere tra le varie leggi quella più giusta, dopo una lunga riflessione, sceglierebbero tutti quella del proprio paese.
Si giunge dunque alla conclusione che nel giudizio relativistico perde senso la questione su
quale sia il costume più giusto e morale.
Montaigne
Grandissimo sostenitore del Relativismo culturale fu Michel de Montaigne (1533 - 1592),
eminente filosofo di origine francese. Parallela alla posizione di Erodoto, secondo il quale
ognuno ritiene migliore la legge del proprio paese, è quella di Montaigne, ben esemplificata
da una affermazione contenuta ne I Saggi:
“Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi»
(I Saggi, Michel de Montaigne)
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Con ciò il filosofo vuole evidenziare la diversità fra le varie civiltà, per approdare alla constatazione che non esiste in alcun modo un criterio di scelta di un valore assoluto, che possa essere da tutti condiviso o accettato. La diversità fra popoli sembra essere il frutto di usi e costumi insiti nelle varie civiltà, ma dato che non esiste metro di giudizio universalmente valido, il punto di vista dell’altro è semplicemente diverso, non necessariamente inferiore. Montaigne inaugura così un nuovo modo di guardare ai costumi dei popoli lontani, che devono
essere studiati con lo sguardo di chi cerca di comprendere e non di giudicare. In questo modo,
con un’indagine critica della società del suo tempo, giunge, nel saggio “Dei cannibali”, ad
analizzare specialmente i pregiudizi che nel corso del Cinquecento erano maturati in Europa
intorno ai brasiliani. Montaigne ritiene infatti che l’uomo dell’Occidente (del suo tempo) non
abbia altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni
e degli usi del paese in cui vive. Noto è a questo proposito il passo del saggio in cui Montaigne mette a confronto le usanze di alcune popolazioni autoctone (in particolare il cannibalismo) con quelle europee, concludendo in favore delle prime. Egli infatti giunge ad affermare
che sembra più barbaro “mangiare un uomo vivo che mangiarlo morto, lacerare con supplizi
e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai
cani e dai porci, che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto” (Dei cannibali, Michel de
Montaigne).
Queste posizioni sembrano avvicinare Montaigne all’ideale della tolleranza. Egli invita
l’uomo a comprendere piuttosto che giudicare, ad analizzare mondi e costumi non solo con la
mentalità e con l’educazione che ci è stata impartita, ma da nuovi punti di vista, più aperti.
Ciò ovviamente non ci deve spingere ad affermare che tutto può trovare una giustificazione.
Ma è l’analisi dell’altrui prospettiva ad arricchire la nostra.
Pirandello: la lanterninosofia della società
A questo proposito riprendiamo in questione Il fu Mattia Pascal, in particolare le pagine dedicate alla teoria delle Lanterninosofia. Anche in questo caso possiamo trovare una corrispondenza con la tesi sostenuta. Secondo Anselmo Paleari, personaggio del romanzo e autore
della teoria, data la moltitudine di colori dei cosiddetti lanternini, è possibile che in un determinato periodo storico, si determini il predominio di un colore sugli altri. Nella moltitudine
caotica delle luci di ogni individuo si stagliano i grandi lanternoni, le grandi ideologie, che
caratterizzano un contesto storico o geografico. I lanternoni di cui parla Paleari sono quindi
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strumenti alimentati dal sentimento collettivo e intorno a cui gravita un’idea comune. Queste
ideologie caratterizzano e costituiscono la mentalità di una determinata epoca, il modo di vedere il mondo dell’umanità in precisi periodi storici. Se per tutto il Medioevo e oltre la certezza dominante è stata che la Terra si trova al centro dell’universo, ferma e immobile, con i
vari astri che le girano attorno, a partire dalla seconda metà del Seicento la percezione umana
è stata completamente ribaltata, in favore di una soluzione meno antropocentrica: la Terra
imperfetta, in movimento attorno al suo astro, il Sole.
Uomo - misura: Umanità
L’ultima interpretazione vede l’uomo misura di tutte le cose come umanità che giudica la
realtà in funzione di parametri comuni caratterizzanti la specie. In questo senso Protagora, da
molti studiosi e critici è stato accostato a Kant, per quanto riguarda ovviamente la percezione
del reale da parte dell’uomo.
Kant: Critica della Ragion Pura
Nella Critica della Ragion Pura (1781), Immanuel Kant (1724 - 1804) intende portare
avanti un’analisi critica dei fondamenti del sapere. Operando dunque un’indagine gnoseologica, egli formula la sua ipotesi relativa alla conoscenza, intesa come sintesi di materia e forma.
Per “materia” della conoscenza si intende la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni
sensibili, relative all’esperienza. Per “forma” della conoscenza invece si intende l’insieme
delle modalità, comuni a tutti gli uomini in quanto specie, di ordinare le impressioni caotiche
dell’esperienza.
Il pensiero di Kant si basa sulla credenza che gli uomini percepiscano il reale, in base a forme
a priori, che hanno validità universale e necessaria perché tutti le applicano allo stesso modo.
Alcuni studiosi hanno voluto a tal proposito paragonare tali strumenti interpretativi a delle
lenti colorate, o occhiali permanenti, attraverso cui l’uomo analizza il mondo. Analogamente
è stata paragonata la mente dell’uomo ad un computer, che analizza e sintetizza dati provenienti dall’esterno attraverso schemi fissi e immutabili.
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In questo senso è Kant stesso a parlare di una Rivoluzione copernicana nel mondo della filosofia. Come Copernico aveva ribaltato i rapporti tra lo spettatore e le stelle, Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti tra soggetto che percepisce e oggetto percepito. Pertanto non è
la mente che si modella sulla realtà in modo passivo, ma è la realtà che percepita dal soggetto
si modella sulla mente umana. Ed è esattamente in questo senso che possiamo avvicinare Protagora a Kant, evitando tuttavia le possibili contraddizioni fra i due. In questo caso infatti
l’uomo non è più misura di tutte le cose in quanto individuo, ma in quanto specie, che percepisce, analizza e struttura il reale utilizzando, quadri mentali come spazio e tempo e le 12 categorie.
Ma quest’ultima interpretazione della massima protagorea apre le porte alla dottrina filosofica
del fenomenismo, in quanto noi non abbiamo mai a che fare con la realtà in se stessa, ma con
il fenomeno, ossia la realtà quale appare a noi. Celebre è la posizione di Kant a tal proposito.
Egli infatti sostiene una netta distinzione tra fenomeno e cosa in sé. Il fenomeno è la realtà
come appare a noi attraverso le forme a priori della nostra struttura conoscitiva. Il noumeno o
cosa in sé è invece la realtà considerata indipendentemente da noi, al di la delle nostre possibilità di conoscenza.
Nasce spontanea una domanda: noi abbiamo una valida percezione del reale, o, come sostiene
Kant e il fenomenismo in generale, facciamo solo esperienza del fenomeno?
Donald Hoffman: Riusciamo a vedere la realtà così com’è?
Questa domanda, maturata da Kant, analizzata da vari filosofi, ha trovato in parte risposta nelle teorie dei neuroscienziati contemporanei. A questo proposito viene in nostro aiuto lo scienziato cognitivo Donal Hoffman, docente alla University of California (Irvine). In particolare,
come traspare dal suo libro “How We Create What We See” (W.W. Norton, 2000) e dalla
conferenza TEDx, egli cerca di dare risposta alla domanda “Riusciamo a vedere la realtà così
com’è?”. Qual è dunque la relazione che sussiste tra cervello ed esperienza cosciente? È possibile che la nostra mente nel percepire la realtà sbagli e ci dia un’immagine deformata di ciò
che ci circonda e con cui interagiamo? Hoffman sostiene, sulla base dell’evidenza storica, che
ciò è già successo. I greci dell’età arcaica hanno immaginato una Terra piatta, perché di fatto
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è quello che deduciamo dall’esperienza sensibile. Ci è voluto (secondo alcune fonti) Pitagora
per convincerci che eravamo in errore. Ma la questione non finisce qui. Analogamente pensavamo che la Terra fosse immobile e al centro dell’Universo, ma Copernico ha smentito tale
teoria. Hoffman cita a questo punto un’affermazione che definisce a dir poco scioccante, pronunciata dal famoso Galileo, compagno di Copernico nella lotta alla teoria geocentrica:
«Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale
ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo
sensitivo, sí che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità.»
(Il Saggiatore,G. Galilei)
È possibile a questo punto trovare un risvolto scientifico a tale affermazione. Secondo i neuroscienziati infatti circa un terzo della nostra corteccia cerebrale sembra essere impegnata
nella vista. Il fatto di guardaci attorno implica l’utilizzo di miliardi di neuroni e trilioni di sinapsi. Ciò è alquanto strano se pensiamo che la vista lavori in parte come una macchina fotografica che cattura l’immagine, attraverso circa 130 milioni di fotorecettori. Dunque, cosa
comporta un uso tanto elevato di neuroni e sinapsi? Gli scienziati hanno scoperto che la mente nel momento in cui catturiamo un’ immagine è impegnata a ricreare e a ricostruire tutte le
forme, gli oggetti, i colori e i movimenti che vediamo.
Hoffman fa l’esempio di un pomodoro rosso: l’esperienza della visione è data dalla ricostruzione mentale di tutte le qualità relative a quel determinato pomodoro.
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Una teoria di questo tipo trova un parallelismo anche nel mondo animale. Hoffman infatti
racconta di aver svolto una serie di test, che definisce “giochi evolutivi”, su vari organismi
che si distinguevano per la loro capacità di percepire il reale. Il concetto chiave in questo caso
è l’adattamento. Hoffman fornisce l’esempio di una bistecca. Essa per un leone affamato è
funzionale all’adattamento, per un leone sazio non è necessaria, mentre per un coniglio è
completamente inutile al miglioramento dell’adattamento. Quest’ultimo quindi non dipende
dalla realtà così com’è ma anche dall’organismo. Mettendo vari organismi dinanzi al compito di procurarsi del cibo si è scoperto che in quasi tutte le simulazioni, gli organismi che non
hanno alcuna visione della realtà ma che sono sintonizzati solo sull’adattamento, portano
all'estinzione tutti quelli che percepiscono la realtà. Non è la realtà a stare alla base dell’evoluzione, ma l’adattamento. Si deduce che l’evoluzione non favorisce una visione più accurata
del mondo. I test sono stati svolti sugli animali, ma lo stesso vale per l’uomo. La mente umana dunque ricostruisce la realtà in basi ai propri schemi mentali per una questione di utilità e
funzionalità.
Stephen Hawking: abbiamo torto noi o i pesci rossi?
Domande analoghe vengono poste anche da Stephen Hawking, celebre astrofisico britannico
noto per gli studi sull’Universo e sui buchi neri. Nel libro “Il grande disegno” (scritto con
Leonard Mlodinow) egli fornisce un esempio molto singolare. Nel 2004 il consiglio comunale di Monza vietò ai proprietari di animali da compagnia di tenere i pesci rossi in delle vasche
curve, perché avrebbero avuto una visione distorta della realtà. Ma noi come facciamo a sapere se la nostra visione è quella giusta? Abbiamo già sostenuto che la percezione dell’uomo
relativa al mondo non è in alcun modo esatta. Quindi, afferma ironicamente Hawking, potremmo trovarci noi stessi all’interno di una grande boccia di vetro. Pertanto se in base alla
nostra visione un corpo si muove in linea retta, un pesce rosso all’interno di una teca curva
vedrebbe il corpo in un moto curvilineo. Ma se il pesce fosse
in grado di formulare un sistema di leggi relative al moto
sulla base della sua percezione, noi non potremmo sostenere
che quel sistema è sbagliato, anzi per il pesce rosso è perfettamente valido.
Tornando a quanto affermato in precedenza, un esempio famoso di differenti descrizioni della realtà ci è offerto dalla
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vicenda del modello della struttura del cosmo introdotto intorno al 150 d.C. da Claudio Tolomeo (c.85 - c.165 d.C.), sulla base del precedente pensiero aristotelico.
Il suo pensiero è spiegato nel trattato in tredici libri “Almagesto”. Egli spiegò le ragioni per le
quali si deve pensare che la Terra sia sferica, immobile, posta al centro dell’Universo, come
nell’immagine al lato.
Gli astri che sembravano muoversi attorno ad essa sono dunque incastonati in complesse sfere concentriche che attraverso i cosiddetti epicicli spiegano il variare apparentemente irregolare del loro moto. Al di là della teoria eliocentrica proposta in precedenza da Aristarco, solo
Copernico con il suo “De revolutionibus orbium coelestium“, propose un modello alternativo.
Egli descrisse un Sole immobile, al centro del sistema, con i vari pianeti che gli girano attorno in orbite circolari, teoria che in buona parte (ad eccezione delle orbite) condividiamo tutt’oggi. La domanda sorge dunque spontanea, qual è il sistema più giusto fra i due? Hawking
afferma criticamente che sebbene capiti di dire che Copernico dimostro che Tolomeo era in
errore, di fatto la questione non si risolve così semplicemente. Come nel caso precedente del
pesce rosso, entrambe i modelli sono validi per spiegare ciò che ci circonda. In questo senso
si parla di modelli nel mondo fisico, perché non avendo una visione esatta della realtà siamo
costretti a interpretare ciò che percepiamo, inevitabilmente in modi differenti. Se ne deduce,
come afferma Hawking, che la realtà non è separata dal soggetto che la percepisce, in questo
caso dall’uomo. Riallacciandoci dunque alla tesi di Protagora dell’uomo misura di tutte le
cose, nella fisica moderna qualunque distinzione tra mondo osservato e soggetto che osserva
non ha alcun significato di rilievo.
Protagora e Nietzsche: il prospettivismo
Abbiamo dunque analizzato, sulla base delle tre interpretazione, l’affermazione protagorea
dell’uomo misura di tutte le cose, ricavando le relative conseguenze. A questo punto molti
critici hanno individuato nella dottrina Nietzscheana del prospettivismo delle radici risalenti
al relativismo sofistico. Ma possiamo constatare che il pensiero del filosofo in questione trova
riscontro in molti punti della tesi protagorea. Alla base del prospettivismo di matrice Nietzscheana vi è la convinzione che non esistano cose o fatti ma solo interpretazioni circostanziate di cose o di fatti. La conseguenza è dunque che il mondo non ha un solo e unico senso,
assoluto e universalmente valido, ma innumerevoli e differenti sensi, relativi ai vari angoli
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prospettici. Troviamo dunque un parallelismo con l’uomo-misura individuo. Il mondo è dunque caos per Nietzsche, l’interpretazione umana fornisce una forma a questo caos, attraverso,
come direbbe Kant, quadri mentali e categorie dell’intelletto. Bisogna tuttavia sottolineare,
per evitare incomprensioni, che l’unico collegamento che troviamo tra Kant e Nietzsche nasce dalle varie interpretazioni fornite alla tesi di Protagora, perché se per Kant la chiave di
lettura del mondo è una sola, per Nietzsche sono innumerevoli.
Nietzsche afferma dunque nei Frammenti postumi (1885 - 1887) che “sono i nostri bisogni
che interpretano il mondo”. La verità non esiste, è una illusione. Nasce dunque un conflitto
con il fine della scienza che vede Nietzsche un fervente antipositivista. Ma il filosofo non
sembra negare radicalmente la validità della ricerca scientifica. Egli piuttosto sembra scagliarsi contro la scienza moderna (del suo tempo) e contro la sua visione meccanicistica. La
considerazione della realtà non può che essere libera e plurale. Ma ciò è quanto già abbiamo
affermato analizzando la visione di Hawking. La scienza fornisce modelli e interpretazioni,
necessariamente valide, ma non necessariamente vere. Aggiunge Nietzsche che gli oggetti
della scienza non sono entità esistenti a priori nel mondo, ma sono il prodotto della mente
dell’uomo, della sua interpretazione del reale. La scienza non si limita dunque a decodificare
la realtà, sembra invece crearla. L’uomo non è soggetto a se stante, separato dall’oggetto che
percepisce e analizza, l’uomo è misura di tutte le cose.
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Bibliografia
Protagora:
- la filosofia 1A (dalle origini ad Aristotele), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero
- Teeteto (386-367), dialogo di Platone
Uomo - misura: Individuo
- la filosofia 1A (dalle origini ad Aristotele), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero
- Dissòi lógoi (IV secolo a.C.), anonimo
Pirandello
- la letteratura, volume 6 (Il primo Novecento e il periodo tra le due guerre), Guido Baldi,
Silvia Giusso, Mario Razzetti, Giuseppe Zaccaria
- Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello
- L’umorismo (1908) di Luigi Pirandello
- Sei personaggi in cerca d’autore (1921) di Luigi Pirandello
Escher
- “Attraverso le ombre” (2013, youcanprint) di Andrea Bonavoglia
Uomo - misura: Civiltà
- la filosofia 1A (dalle origini ad Aristotele), Nicola Abbagnano e Giovanni Forner
- Dissòi lógoi (IV secolo a.C.), anonimo
Montaigne
- Saggi (1580, 1582, 1588) di Michel de Montaigne
- La razza come mito 1. Montaigne: il relativismo culturale (da Enciclopedia Treccani online, link: http://www.treccani.it/scuola/lezioni/scienze_umane_e_sociali/razzismo_01.html
- La varietà dei costumi tra popoli (da Zanichelli.it, link: http://online.scuola.zanichelli.it/
lezionidifilosofia/files/2010/01/U3-L01_zanichelli_Montaigne.pdf )
Uomo - misura: Umanità
- la filosofia 1A (dalle origini ad Aristotele), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero
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Immanuel Kant
- la filosofia 2B (dall’Illuminismo a Hegel), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero
- Critica della ragion pura (1781) di Immanuel Kant
Donald Hoffman
- conferenza TEDx: “Do we see reality as it is?” (link: https://www.ted.com/talks/donald_hoffman_do_we_see_reality_as_it_is)
Stephen Hawking
- “Il grande disegno” di Stephen Hawking (con Leonard Mlodinow), 2011 Arnoldo Mondadori, Milano
Tolomeo e Copernico
- “Il grande disegno” di Stephen Hawking (con Leonard Mlodinow), 2011 Arnoldo Monadori, Milano
- Almagesto (150 d.C.) di Claudio Tolomeo
- De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Niccolò Copernico
Friedrich Nietzsche
- la filosofia 3A (da Schopenhauer a Freud), Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero
-
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Frammenti postumi (1885 - 1887) di Friedrich Nietzsche
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Indice
- Uomo misura: introduzione ____________________________________________ 3
- Uomo - misura: Individuo _______________________________________ 5
- Luigi Pirandello:
- Relativismo conoscitivo _________________________________________ 6
- Umorismo ___________________________________________________ 7
- Lanterninosofia dell’individuo ____________________________________ 7
- Escher: Relativity ______________________________________________ 8
- Uomo - misura: Civiltà ________________________________________ 10
- Montaigne __________________________________________________ 11
- Pirandello: la laterninosofia della società __________________________ 12
- Uomo - misura: Umanità _______________________________________ 13
- Kant: Critica della Ragion Pura _________________________________ 13
- Donald Hoffman: Riusciamo a vedere la realtà così com’è? ____________ 14
- Stephen Hawking: abbiamo torto noi o i pesci rossi? _________________ 16
- Protagora e Nietzsche: il prospettivismo ___________________________ 17
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