Ricerca pedagogica e strumenti tecnologici

Ricerca pedagogica e strumenti tecnologici: le tecnologie
stanno cambiando il modo di fare ricerca?
LORELLA GIANNANDREA*, LAURA FEDELI**, HELGA FIORANI***
Keywords: technology, research, methodological approach.
Abstract: The use of technology can change the way we approach and organize the
research even in the didactical and pedagogical fields. Those areas are traditionally
meant to be very far from a strong use of technological tools, but nowadays a contamination within methodologies and strategies are more and more frequent so that
the boundaries between qualitative and quantitative approaches, between ethnography
and experimentation, between use and construction of models are vanishing.
The contribution aims at proposing a partial analysis of the literature in relation to
the use of technologies in pedagogical research, in order to highlight some significant paths of reflections. Three main lines of interest will be presented as “changing agents” within the field of research: the use of tools for the management of data
and sources; the process of peer review as a methodological resource and the role of
technology as a mediator in fields of qualitative and quantitative research. Finally, a
reflection on the role played by the software “NVIVO” will be presented. The use of
the software, utilized to support a qualitative research developed within a phenomenological approach, shows how such a tool has affected the research itself.
Introduzione
L’ingresso delle nuove tecnologie nella ricerca educativo-pedagogica ha
rivoluzionato le modalità di fare ricerca, interponendosi in maniera decisiva
tra il ricercatore e l’oggetto della ricerca, fornendo un supporto prezioso per
interpretare dati e comunicarli.
Il presente lavoro intende indagare se e come l’uso delle tecnologie possa
* Università
degli Studi di Macerata - [email protected]
degli Studi di Macerata - [email protected]
*** Università degli Studi di Macerata - [email protected]
** Università
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influenzare l’atteggiamento del ricercatore modificando l’approccio all’analisi
e all’interpretazione dei dati rispetto ai tradizionali strumenti utilizzati nella
ricerca pedagogica.
Secondo la prospettiva co-evolutiva, la scienza, la società e la tecnologia
evolvono in maniera correlata: “Ogni fenomeno sociale implica il ricorso a
un insieme di tecnologie; ogni forma di sviluppo tecnologico fa riferimento a
fenomeni sociali” (D’Andrea et al., 69).
Il ruolo del ricercatore viene “potenziato” dalle possibilità che la rete offre,
per la selezione bibliografica e la ricerca di partner, per il confronto con la
comunità degli attori coinvolti e dei ricercatori che aumentano la riflessività
e l’intersoggettività (Calvani, 1999). Ma quali sono gli aspetti centrali che
influenzano il processo di ricerca che avviene mediante lo strumento tecnologico?
Un’ulteriore prospettiva relativa alla correlazione tra ricerca e nuove tecnologie è quella aperta da Rabardel negli anni ’90.
Lo studioso rielabora il concetto di strumento-artefatto, come enunciato
nella riflessione epistemologica di Wartofsky (1979).
Per Wartofksy possiamo parlare in tre modi di artefatto:
– Artefatti primari: gli strumenti “tecnici”, orientati verso l’esterno, che
servono cioè al soggetto per agire sulla realtà circostante.
– Artefatti secondari: gli strumenti psicologici orientati verso l’interno.
Potremmo dire che sono conseguenti ad una prima rielaborazione
concettuale degli artefatti primari.
– Artefatti terziari: il sistema di regole formali sganciato dall’artefatto
primario. Sono modelli concettuali che sembrano non avere più alcun
collegamento con gli artefatti primari e secondari, ma che derivano
dall’attività del soggetto con gli strumenti tecnici.
Rabardel propone una lettura dinamica della riflessione di Wartofsky; innanzitutto l’artefatto non è mai concettualmente neutro (Rabardel, 1995b).
Lo strumento tecnologico è un artefatto, il cui utilizzo rispetta quelli che lo
studioso definisce gli schemi d’uso individuali o sociali propri.
Tale considerazione è incentrata sul processo attraverso cui alcuni artefatti
vengono realizzati, utilizzati e successivamente modificati. L’attività cognitiva e sociale umana si fonda sull’uso di strumenti ed è perciò inserita in questo
processo che viene chiamato di genesi strumentale (Rabardel, 1995a).
Gli artefatti, da strumenti per modificare la realtà, divengono strumenti
per elaborare modelli concettuali, socialmente condivisi, inseriti in processi
generativi e di trasformazione. Di conseguenza l’attività dei soggetti vive una
continua tensione che modifica l’attività con gli strumenti pensata dal proget260
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tista1. Infatti, dal modello d’uso standard di un artefatto, che prescrive una
serie determinata, pre-organizzata e prescrittiva di azioni con l’artefatto medesimo, l’attività del soggetto tende a riorganizzare e ristrutturare gli artefatti
in funzione delle sue necessità, al punto di generare un processo di trasformazione dell’artefatto medesimo.
1. Le tecnologie nella ricerca pedagogica
L’uso delle tecnologie influenza la struttura stessa della ricerca in modi
differenti. Perkins (1985) individua due grandi categorie di effetti che modificano il modo di pensare e di agire degli individui e dei ricercatori: una prima
tipologia di effetti definita “di primo livello” immediata, ed una seconda tipologia che agisce in maniera più profonda sui nostri comportamenti.
Gli effetti di primo livello si riscontrano nel cambiamento della velocità,
della facilità di svolgimento di una particolare azione, ma non modificano il
contenuto o lo scopo dell’azione stessa. Pensiamo ad un calcolo complesso
svolto attraverso carta e penna o eseguito con la calcolatrice; sicuramente la
mediazione dello strumento renderà l’operazione da svolgere più veloce, più
facilmente eseguibile, ma non verrebbero ad essere modificati i risultati finali
o le finalità per le quali si stava svolgendo l’operazione stessa.
Gli effetti di secondo livello legati all’utilizzo di una particolare tecnologia
sono più profondi e difficili da indagare: essi modificano l’azione stessa e soprattutto influiscono sul nostro modo di comprendere ed interpretare le azioni
che svolgiamo.
È possibile che ogni azione tecnologicamente mediata produca nel tempo
effetti di primo livello ed effetti di secondo livello, che si manifestano nella
lunga durata e nella consuetudine all’utilizzo sociale dello strumento stesso.
Lo scopo di questo lavoro è proprio quello di andare ad indagare le ricadute
“di secondo livello” di alcuni strumenti tecnologici frequentemente utilizzati
negli ambiti di ricerca pedagogici e nelle scienze dell’educazione, per promuovere una riflessione sugli avanzamenti simmetrici della ricerca in educazione e delle tecnologie dell’educazione che questa impostazione favorisce e
promuove.
Nella nostra esperienza le tecnologie producono un cambiamento trasformativo in tre settori emergenti:
a. l’uso di tool per la gestione di fonti, risorse, dati;
1 Va precisato che, sebbene le attività di ricerca condotte da Rabardel siano state interamente realizzate in contesti aziendali, in cui venivano inseriti strumenti tecnologici all’interno
dei cicli di produzione, oggi tale prospettiva di ricerca è ampiamente utilizzata anche in ambito
didattico.
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b. l’uso della peer review come risorsa metodologica;
c. l’uso della tecnologia come strumento mediatore tra ambiti di ricerca
qualitativi e quantitativi.
La ricerca in Internet è diventata la fonte irrinunciabile per il lavoro di
molti ricercatori e si pone così il problema di gestire la grande quantità di
informazione disponibile attraverso strumenti che permettano l’archiviazione, il reperimento e la consultazione rapida dei documenti reperiti. Accanto
alle procedure di gestione della conoscenza si sente l’esigenza di strumenti
che permettano la condivisione, la messa in comune di repertori e risorse. È
questo il caso di due tool cognitivi per il supporto alla ricerca: “Zotero”2 e
“Connotea”3.
Questi strumenti non permettono semplicemente di organizzare al meglio
le proprie referenze bibliografiche, ma consentono una gestione condivisa e la
creazione di una comunità di ricerca con i propri colleghi.
Nonostante la loro indubbia utilità, gli effetti dell’uso di questi strumenti
sulla ricerca restano, a nostro parere, collocati al primo livello, quello di amplificare le potenzialità già sperimentate negli archivi digitali.
Una esemplificazione legata al secondo campo di indagine proviene da
un ambito apparentemente distante rispetto a quello della ricerca pedagogica.
Due articoli apparsi recentemente su Nature Physics (Nielsen, 2009) indagano
l’uso dei blog e di altri social software da parte di studiosi e scienziati affermati in ambito matematico e fisico. L’autore sostiene che gli effetti apprezzabili
si collocano principalmente a due livelli: in primo luogo le interazioni che si
compiono all’interno del blog diventano testi pubblici, visibili ad una comunità molto ampia e permettono di fare ricerche al proprio interno attraverso gli
strumenti di data-mining. Le scientific conversations che avvengono al loro
interno permettono la pubblicizzazione e la diffusione delle idee in corso di
sviluppo all’interno di un contesto potenzialmente mondiale, non solo limitato
al piccolo gruppo di ricerca che sta seguendo quella particolare analisi.
I blog, come altri social software, permettono di pubblicare idee “troppo
piccole o incomplete per essere pubblicate, ma che contengono semi promettenti per un progresso futuro” (Ivi, p. 238). Lasciare che una comunità di ricercatori possa trarre beneficio da queste idee, condividendole e ampliandole,
significa dare spazio a quell’intelligenza collettiva descritta da Levy (1994) e
alla base delle riflessioni sul web 2.0.
2 Zotero (http://www.zotero.org/ ) è uno degli “add-on” di Mozilla Firefox. Una volta installato permette di salvare le citazioni con un click e di esportarle nello stile prescelto.
3 Connotea (http://www.connotea.org/) è uno strumento che permette di annotare, taggare
e condividere riferimenti bibliografici.
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Il terzo ambito di riflessione riguarda l’uso di software che per le loro
particolari caratteristiche si presentano come strumenti mediatori tra ambiti
differenti nei percorsi di ricerca. Rientrano in queste tipologie, ad esempio, i
software per la Social Network Analysis, quelli per l’analisi testuale e quelli
che supportano attività di codifica. Alcuni software si fondano sull’analisi statistica degli elementi del testo, svolta in maniera automatica dal software (es.
“Taltac”) e sull’esame dei dati basato sulla linguistica computazionale. In questo caso l’interazione con lo strumento si colloca sul piano dell’amplificazione
degli effetti di primo livello: le analisi statistiche vengono rese più veloci ed
agevoli, ma non vengono modificati scopi ed obiettivi.
Una seconda tipologia di software raccoglie strumenti che supportano attività di codifica svolte sui testi o su documenti audio o video (“NVIVO”,
“ATLAS.ti”), in cui la responsabilità della codifica e dell’interpretazione dei
dati resta fondamentalmente in carico al ricercatore.
È in questa seconda tipologia di software che si colloca la nostra analisi,
con lo scopo di indagare come l’uso dello strumento vada a modificare lo
sviluppo della ricerca.
Un problema ampliamente dibattuto nel campo della ricerca qualitativa
è quello della “vicinanza ai dati” (“closeness to the data”) (Richard, 1998;
Fielding, Lee, 1998). La nostra ipotesi di ricerca è che la mediazione di un
software nella codifica possa influire sulla percezione del ricercatore rispetto a
questa complessa dinamica di avvicinamento/allontanamento che costituisce
il cuore stesso di tutte le metodologie etnografiche e qualitative.
Il fenomeno è già stato indagato da diverse ricerche, che però tendono
principalmente a mostrare come l’uso dello strumento evolva sulla base del
tempo e della familiarità del ricercatore con lo stesso.
Gilbert (2000, 2002), prendendo ad esame uno di questi software4 sostiene che si possano individuare alcune fasi del processo di familiarizzazione
con gli strumenti utilizzati per la ricerca, che influenzano in modi differenti il
comportamento e l’atteggiamento del ricercatore. Tale processo consisterebbe
in tre momenti principali, generalizzabili in tre fasi.
La prima fase si focalizza sugli aspetti percettivi del trattamento dei dati:
in un primo momento la perdita del contatto diretto con i materiali cartacei a
cui si era abituati produce una sensazione di spaesamento che viene definita tactile-digital divide. In questa fase prevale la percezione della distanza,
dell’estraneità ai dati rafforzata anche dalla loro digitalizzazione e dalla perdita del contatto fisico con i documenti da codificare.
Nella seconda fase, si assiste ad un ribaltamento dell’atteggiamento del
4 Il software oggetto delle ricerche è programma “NUD*IST”, che si è evoluto nell’attuale
“NVIVO”, cfr. nota successiva.
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ricercatore: la facilità nella codifica e l’immersione nel corpus completo dei
dati producono una percezione di “immediatezza”, di eccessiva “vicinanza”
ai dati, che può condurre alla coding trap, la trappola di una codifica infinita,
che coinvolge il ricercatore in un’attività di codifica che sembra non avere
mai fine.
La terza fase, chiamata metacognitive shift, vede lo viluppo di strategie
metacognitive che permettono di utilizzare il software con le stesse procedure
riflessive che si mettono in atto per la codifica manuale (ad esempio cercare di
individuare errori nella codifica o nei criteri). In questa fase ritorna una moderata presa di distanza dai dati, intesa come comprensione e controllo su di
essi, che ne permette l’interpretazione anche durante l’utilizzo del programma
specifico.
In sintesi per Gilbert la “distanza analitica” nel processo di ricerca viene
raggiunta solamente dopo avere attraversato le tre fasi sopra descritte.
Altre ricerche (Welsh, 2003) sostengono che “NVIVO” non sarebbe “affidabile” rispetto alla validità delle questioni affrontate nella ricerca qualitativa,
e ritengono che sia importante affiancare all’uso del software l’analisi manuale.
Secondo questo punto di vista, l’analisi qualitativa dei dati può essere considerata una impression analysis, poiché mancherebbe di controllo e di dettagli sul
processo di interpretazione, sarebbe cioè troppo influenzata dalla soggettività
della persona e scarsamente inseribile in processi di controllo (Ibidem).
L’uso del software, secondo questa prospettiva renderebbe più “sicuro” il
ricercatore, facendo emergere una maggior fiducia nell’analisi dei dati, non
giustificata dai dati stessi, ma generata dalla procedura di elaborazione. In
questo modo, se la procedura di ricerca non è adeguatamente supportata da
una riflessione che parte da una progettazione tradizionale, manuale, l’intero
processo di ricerca potrebbe risultare compromesso.
A tal proposito Welsh suggerisce di integrare entrambe le modalità di lavoro, creando prima “manualmente” un disegno dei collegamenti, che permetta
di avere una mappatura della struttura interna dei singoli temi. Potrebbe inoltre essere utile scrivere un sommario all’interno di ogni singolo nodo creato,
per rendere più esplicita a trasparente la modalità di ricerca (Ibidem).
Le istanze emerse in questa riflessione fanno emergere alcuni aspetti problematici legati alla ricerca con le nuove tecnologie: se da un lato il ricercatore
entra in processi che amplificano le sue potenzialità (riflessività, partenariati,
aumento della comunicazione), bisogna anche tenere presenti i rischi e i possibili limiti connessi all’uso di strumenti tecnologici, tra i quali la tendenza
al decentramento rispetto alla ricerca, il rischio di una distorsione (a volte
inconsapevole) dei dati, la presenza di forme conversazionali che possono
intralciare il ruolo del ricercatore legate alle potenzialità che internet e gli
artefatti di nuova generazione offrono (MacMillan, Koenig, 2004). Accanto ai
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rischi, vale la pena di inserire anche le difficoltà che il ricercatore incontra nel
far propri gli schemi d’uso dell’artefatto rispetto agli obiettivi specifici della
sua ricerca. Da questo punto di vista è legittimo chiedersi quali caratteristiche proprie dell’artefatto, legate principalmente alle sue procedure operative,
influenzano il processo di ricerca: fino a che punto l’artefatto costituisce un
potenziale per l’analisi dei dati, qualitativa o quantitativa che sia?
Fino a che punto, invece, l’artefatto può essere un ostacolo, che restringe il
campo d’azione del soggetto, nella ricerca?
Per indagare più da vicino queste problematiche si è scelto di analizzare
come case-study un percorso di ricerca condotto nell’ambito del Dottorato in
E-learning e Knowledge Management dell’Università degli Studi di Macerata. La ricerca, documentata nella tesi di dottorato, si proponeva di indagare
l’embodiment nel mondo virtuale “Second Life”, esplorando all’interno di un
percorso di formazione le caratteristiche della conoscenza costruita e la relazione di questa conoscenza con gli aspetti fisici e contestuali dell’ambiente e
dei soggetti che agivano all’interno di esso.
Il presente lavoro non si focalizzerà sul percorso e sugli esiti della ricerca,
ma cercherà di riflettere sull’influenza dello strumento utilizzato per l’analisi
delle interazioni (il software “N- NVIVO 8”) rispetto all’atteggiamento del
ricercatore e agli obiettivi della ricerca. In particolare verranno indagati il rapporto presenza-distanza e la questione della “vicinanza ai dati” come elementi
problematici caratteristici di ogni percorso di ricerca in ambito qualitativo.
2. NVIVO: analisi di un case-study
Nell’ambito dei processi che regolano l’interpretazione dei dati in ricerca
qualitativa Lofland and Lofland (cit. in De Laine, 2000, p. 54) intravedono il
dilemma del ricercatore nell’assumere una posizione di opportuna distanza rispetto alla realtà sociale, condivisa dai partecipanti alla ricerca e oggetto dello
studio stesso, e lo sforzo di comprendere quella stessa realtà immergendosi nel
contesto. La distanza dai dati qualitativi assume una rilevanza prioritaria alla
luce della necessità di condurre un’analisi critica e un’interpretazione dei dati
che soddisfi criteri di affidabilità e credibilità.
Il quesito che ci si pone in questa sede è se le tecnologie possano agevolare
il ricercatore nell’assunzione di una posizione di equilibrio nel superare il
dilemma distanza/immersione.
L’obiettivo del presente paragrafo è contestualizzare la funzione svolta da
un software per l’analisi qualitativa in una ricerca di approccio fenomenologico e riportare le riflessioni sull’impatto determinato dal software nelle fasi di
organizzazione, codifica e interpretazione dei dati raccolti.
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Il software utilizzato è “NVIVO 8” (QRS International5), classificato
nell’ambito dei software di analisi testuale6 come software generico di analisi
del contenuto.
“NVIVO” insieme ad “ATLAS.ti”, “MAXQDA”, “AQUAD” e molti altri
offre, infatti, la possibilità di codificare essenzialmente dati testuali; ogni singolo software si avvale di una varietà di funzioni consentendo al ricercatore
di scegliere il prodotto più appropriato in base agli obiettivi e alla tipologia di
dati a disposizione (alcuni software consentono anche l’analisi e la codifica di
dati provenienti da file audio e video).
I dati raccolti, nell’ambito della ricerca svolta nel mondo virtuale “Second
Life”, fanno riferimento a tre tipologie di documenti: questionari, interviste e
focus group. Nelle operazioni di organizzazione, analisi e codifica il software
si è rivelato uno strumento estremamente flessibile grazie alle seguenti caratteristiche:
– elevata usabilità: personalizzazione dell’interfaccia di lavoro; accesso
a tutti gli elementi relativi al proprio progetto attraverso una barra di
navigazione centrale; funzionalità “drag and drop” per spostare velocemente dati da una cartella all’altra; possibilità di tornare indietro nelle
proprie azioni attraverso una funzionalità “multi-level undo”;
– varietà di formati testuali e audiovisivi supportati: possibilità di importare file di testo nei formati Microsoft Word (.doc e.docx), Adobe
Portable Document Format (.pdf), rich text (.rtf) o plain text (.txt); foto
e immagini digitali in formato.bmp,.gif,.jpg,.jpeg,.tif o.tiff;
– editing: tutti i documenti possono essere modificati usando l’editor di
testo interno al software;
– organizzazione e classificazione: possibilità di organizzare gli elementi
in “sets” e “cases”; due opzioni di classificazione (gerarchica e libera);
usi di “attibuti” per i dati demografici del campione; possibilità di inserire in una cartella “externals” le informazioni che non possono essere
importate (siti web, libri);
– annotazioni: le funzionalità “memos” e “annotation” permettono al ricercatore di trascrivere pensieri e percezioni durante la fase di organizzazione e classificazione dei dati attraverso link e commenti;
5 La società “Qualitative Solution and Research” (QRS) nasce ufficialmente nel 1995 anche se le sue origini coincidono con la produzione del software “NUD*IST” nel 1981, prima
versione dell’attuale software “NVIVO”: http://www.qsrinternational.com/default.aspx#tab_
you.
6 Una dettagliata classificazione di software per l’analisi testuale è accessibile nel sito web
“Text Analysis Info”: http://www.textanalysis.info/.
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– codifica: ogni informazione (parola, sintagma, frase, paragrafo o porzione di testo) può essere associata a una categoria; ogni informazione
codificata può essere facilmente visualizzata non solo all’interno del
paragrafo in cui compare ma in un contesto più ampio attraverso la
funzione “View context”;
– visualizzazione e esplorazione dei dati: i dati possono essere collegati
e messi a confronto attraverso lo strumento “relationship” per esplorare le relazioni tra elementi, categorie e attributi; la funzione “matrix”
permette di mettere a confronto elementi e individuare pattern; la funzionalità “model” consente di visualizzare il progetto in progress attraverso una mappa; le opzioni di creazione di grafici in 2 o 3 dimensioni
permettono il salvataggio e l’esportazione in diversi formati.
Le opzioni descritte hanno supportato e facilitato il lavoro di analisi dei
dati e hanno fornito un terreno di mediazione per superare l’opposizione distanza/partecipazione; come chiaramente espresso in Bazeley (2007, 8):
«Recent software has been designed on the assumption that researchers
need both closeness and distance: closeness for familiarity and appreciation of
subtle differences, but distance for abstraction and synthesis – and the ability
to switch between the two […] Moving between these tools, from the general
to the specific, and from the specific to the general, back and forth, exploiting
both insider and outsider perspectives, is characteristic of qualitative methods
and contributes to a sophisticated analysis».
Le opzioni di visualizzazione hanno consentito al ricercatore di stabilire un
contatto profondo con i dati e, contestualmente, con i partecipanti: ogni dato
codificato è, infatti, immediatamente riconducibile agli “attributes”, ossia alle
informazioni di carattere demografico che caratterizzano ogni singolo membro del campione (Figura 1).
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Figura 1. Interfaccia del software relativa all’organizzazione delle categorie e alla
visulaizzazione dei dati relativi ad un elemento del campione.
Tale opportunità di immersione nei dati serve a trasmettere una sensazione
di “presenza” tale da consentire al ricercatore di comprendere il punto di vista
con un’ottica interna al gruppo.
Nella sua espressione estrema tale tendenza dà luogo all’atteggiamento
che in letteratura viene definito “go native” (Holloway, 1997, 79), un’espressione che trae la propria origine nella ricerca in ambito antropologico e che
è, attualmente, ampiamente utilizzata anche in diversi approcci della ricerca
qualitativa:
“When they ‘go native’ researchers adopt the values and perspectives of
people they study and identify with them so much that they are unable to sustain their previous identity as researchers. This prevents them from maintaining their research roles and eliminates any element of objectivity”.
Una mediazione tra presenza e distacco è possibile attraverso un approccio
ai dati che possa consentire anche un distanziamento con l’acquisizione di un
punto di vista “estraneo” da parte del ricercatore:
“Spradley assumed that being made to feel “strange” would better facilitate
a capacity to unearth tacit rules and implicit meanings” (De Laine, 2000, 55).
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Un approccio più oggettivo ai dati si è realizzato attraverso la funzionalità
“query” per interrogare il database e/o per la costruzione di matrici in cui
dati relativi alle categorie “codes” sono stati triangolati con dati relativi agli
“attributes”.
Le funzioni di visualizzazione hanno consentito, inoltre, di acquisire una
visione complessiva dei dati attraverso la loro sintesi in mappe e grafici 3D.
Tale opportunità non deve far pensare a una negazione del ruolo che la soggettività svolge in una ricerca di approccio qualitativo. La costruzione di una
cosiddetta “progressive subjectivity” (Shenton, 2004) da parte del ricercatore
è, infatti, supportata dalla possibilità di esprimere “reflective commentary”
attraverso la funzione “memo” e “annotation”. Queste funzioni forniscono
un monitoraggio dello sviluppo dei processi interpretativi del ricercatore, elementi critici nello stabilire la credibilità di un processo di analisi e codifica.
3. Conclusioni
L’esperienza documentata ci ha permesso di analizzare sul campo le problematiche e le positività legate all’uso di uno strumento tecnologico come
canale all’interno del quale collocare un percorso di ricerca in ambito pedagogico.
La codifica portata avanti attraverso le procedure previste all’interno del
software ha permesso un contatto più efficace e diretto con i dati da analizzare,
rafforzando la “vicinanza ai dati” e consentendo un’immersione nel contesto
e nel corpus dei dati che una codifica realizzata manualmente non avrebbe
raggiunto.
Da un diverso punto di vista, lo stesso software, attraverso gli strumenti
di visualizzazione e le potenti possibilità di riorganizzazione dei dati e degli
output grafici, ha consentito un atteggiamento di presa di distanza dal corpus
dei dati, che ha facilitato una visione integrata e reso possibili diverse interpretazioni.
Un elemento importante da sottolineare riguarda gli aspetti metodologici
dell’uso del software: la possibilità di reificare criteri ed indicatori utilizzati,
rende la metodologia utilizzata esplicita e “trasparente”. Questo permette al ricercatore di essere consapevole dei limiti dei criteri utilizzati e lo facilita nella
riflessione e nella revisione della codifica e dei procedimenti adottati.
Nello stesso tempo, disporre di criteri che possono essere discussi e negoziati all’interno di un gruppo di ricerca, o addirittura all’esterno, nel caso
di ricerche condotte in collaborazione tra gruppi diversi di ricercatori, rende
possibile una peer review continua che permette di migliorare le interpretazioni iniziali grazie al contributo degli altri soggetti coinvolti nella ricerca. Un
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atteggiamento di questo tipo limita i problemi, messi in evidenza da Welsh,
relativi all’eccessiva soggettività nella codifica a favore di un approccio collaborativo nella ricerca, spesso invocato, ma difficile da mettere in atto.
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