INCARNAZIONE E POSTMODERNITÁ: PER UNA LETTURA PLURIDIMENSIONALE DEL DOGMA Scopo di questo corso è guardare al contatto umano-divino nell’ottica della TF, alla luce del dialogo di questa con il mondo attuale ed in particolare del mondo delle comunicazioni. INTRODUZIONE AL TEMA: UN APPROCCIO PLURIDIMENSIONALE L’incarnazione è tema che ha sfumature infinite, ma stranamente poco affrontato dai cristiani, tanto che la stessa solennità dell’Annunciazione, che la celebra, è la più bistrattata e fraintesa dell’anno liturgico, a riprova del fastidio che ci provoca ancora l’incarnazione. Essa è spesso confusa e sostituita con il Natale, in cui è chiaro il “per noi”, come questa nascita sia “gioia per noi”, l’apparizione del “sole” (che se appare però esisteva già!). Natale è così mistero di gioia, venuta, manifestazione, l’apparire della luce, tanto che Paolo dice che «È apparsa per noi la grazia apportatrice di salvezza», dove si vede proprio l’apparire e la sua funzionalità. Su questo tema se ne innestano poi tanti altri, quali ad es. promesso, ma inatteso. La stessa liturgia di Natale è poi divisa in quattro e richiede quattro atteggiamenti diversi: quella della vigilia è incentrata sullo stupore, quella del mattino è riflessione matura che diventa contemplazione. E questo è tutto vero, ma cosa c’è dietro? C’è la realtà corporea intessuta nel grembo di una donna e che è allo stesso tempo è anche Luce che è generata da un’altra Luce e che viene alla luce. L’incarnazione è così mistero non detto, il più bistrattato e collaterale della fede cristiana. Lo stesso “sì” di Maria, anche a livello predicazione, è commentato solo dai mistici, solo loro hanno cercato di incunearsi nello spazio tra la parola dell’angelo e quella di Maria, vedendo in questo spazio l’attesa che aiuta a scoprire e a scoprirsi. L’incarnazione è dunque, in fondo, la celebrazione del silenzio, che nasce nel silenzio. Rahner dice che questo mistero è talmente importante che dovrebbe essere contenuto in tutti i saggi di cristologia e di mariologia, ma come mai è così dimenticato? E cosa c’entra l’umanità con questo mistero di cui i protagonisti sono due parole, quella di Dio e quella di Maria? Quali sono dunque le sfumature del concetto che emergono nei testi? La devozione popolare lega poi spesso l’incarnazione e la cristologia anche ad un altro tema: l’Eucaristia. Certo anche con essa c’è un legame, il problema è quando c’è identificazione stretta. Così guardando al testo dell’Adoro te Devote, esso gioca sull’umanità che si nasconde nel mistero, ma cosa perdiamo del mistero se continuiamo a difendere ciò che già sappiamo? Guardando al prefazio di Natale I, le realtà invisibili sono viste come punto di arrivo, ma in che senso? Presa così sa molto di neoplatonismo! Uno deve dunque chiedersi: cosa siamo io e Dio senza l’umanità assunta? L’umanità di Gesù è certamente funzionale, ma non solo e non primariamente! Tanto che chi sottolinea troppo la funzionalità non capisce bene come mai Gesù sia ancora corpo. L’iconografia orientale, la predicazione patristica e certe poesie si sono poi soffermate a lungo sullo stupore della presenza del macroscopico nel microscopico, dell’infinito nel finito, dell’immensità imprigionata nel ventre di una donna … è il filone dell’antinomia che genera il carattere del sacro. Tutto questo sta dunque a mostrare l’incapacità del pensiero di ingabbiare il mistero dell’incarnazione che continua ad essere scandalo e stoltezza: come pensare questo connubio? L’infinito e il finito separatamente sono stati ben scandagliati, ma come sintetizzarne il rapporto? E soprattutto non tanto quello dell’infinito sul finito, ma del finito sull’infinito? Qualche apertura e spiraglio li offre il Page Lingua, che è il testo più provocatorio ed attuale, perché contempla il mistero che si deve lodare, all’interno di un’economia salvifica, che è il punto che mancava anche a Calcedonia! Così chiude dicendo che miro clausit ordine, con la sua morte l’economia si è chiusa, ma intento egli è stato effuso sulle genti (Rex effudit gentium), è stato in dialogo con il mondo (et in mundo conversatus) e ha sparso i semi della sua parola (sparso verbi semine). Proprio queste precisazioni, mettono in mostra come in Gesù Cristo non ci sia solo una presenza puntuale, ma diffusa/effusa/dissimulata. L’incarnazione resa presente e visibile, è per il mondo e verso il mondo, disseminata in esso “para-sacramentalmente”. E dopo molti secoli questo tema verrà ripreso da Teillard de Chardin e altri. L’incarnazione al di fuori del cristianesimo Già il termine stesso non è biblico, anche se soprattutto Paolo e Giovanni parlano di “carne”. Nell’oriente poi era molto diffusa l’idea della presenza divina in forme umane e/o ibride, e lo stesso mondo greco presenta dei antropomorfici. Un forte riferimento analogico con il concetto cristiano si ha soprattutto nel mondo induista, dove la presenza divina è variamente interpretata e si riassume nel concetto di avatāra, vista come instorizzazione, presenza nella storia, di vari principi divini ed ecco così che la storia è divisa in eoni a seconda del principio divino “incarnato”, che scende sulla terra per rimettere ordine e poi ritorna trionfalmente “a casa”. Questa presenza, incarnazione, è così ciclica nel tempo, c’è una nascita ed una morte, ma in un circolo glorioso, perché non è contemplata qui la sofferenza del giusto, esso assume un valore espiatorio, ma non con una dimensione sacrificale. È insomma una posizione che noi potremmo chiamare docetista, in cui la morte, facendo problema, viene vista come un’inscenata, come il semplice ingresso dell’ avatāra nella Gloria, nella sua patria, e questa mediazione temporale non ha così assolutamente intaccato la divinità. In questi avatāra ci va poi a finire di tutto, anche Gesù. Ma la storia intacca il divino o no? Questo problema l’induismo non se lo è mai posto, è il problema dell’intangibilità dell’essere supremo, del principio che si comunica e che il cristianesimo ha impiegato tanto per superare faticosamente. Il buddismo si pone meno il problema della presenza divina nel mondo, è trans-politeistico. Ancor meno se lo pongono i musulmani, per cui l’incarnazione è una bestemmia, un po’ perché non concepiscono la Trinità, e poi perché anche per loro l’intangibilità dell’essere supremo è importante, ed è stata cantata e proclamata ripetutamente dai sufi. Per quanto riguarda il mondo ebraico non è vero che non c’è riferimento alcuno all’incarnazione, perché alcune figure rendono presente per il popolo di Israele, ciò che Cristo rende presente per la Chiesa. Esistono infatti tre personificazioni che hanno valore normativo: - dabar/memra, dove quest’ultima è un termine culturale e più ampio, che comprende anche la testimonianza. Esso interpella la storia. - Sapienza, che non è solo e principalmente una prefigurazione di Cristo, ma il frutto di una matura riflessione sulla creazione, avvenuta dopo l’Esodo, per cui il carattere sacro non è visto anzitutto nella creazione, quanto anzitutto nella storia. - L’angelo del Signore, che assume “spessore” con la nube del’Esodo. TERMINOLOGIA E UTILIZZO CONCETTUALE: L’INCARNAZIONE COME ATTO/EVENTO, PROCESSO E STATO Terminologia patristica I padri per riflettere sul mistero dell’incarnazione usarono molti termini. Tra i tanti i principali sono: Sárkosis, e molti altri che facevano riferimento alla “carne” (sarx), per evidenziare la realtà di questa presenza divina nel mondo. Enanthropêsis, e molti altri che facevano riferimento agli “uomini” (anthropos), per evidenziare la presenza come uomo tra uomini. Ensomátosis, dove con soma si intende il riferimento relazione con gli altri. Lêpsis, usato per dire che il corpo è stato assunto, preso. Parousía, intesa come venuta che appare, manifestazione e quindi concetto molto simile a quello di epífania. Qui si inserisce il concetto di illuminazione dell’anima, della mente, che vanno intesi però in senso biblico e che stanno quindi ad indicare la recettività spirituale dell’uomo, che è stata scoperta con l’incarnazione. Epidemía, che indica l’inabitazione, il dimorare, il prendere casa per inglobare la massa. Hēnosis Krâsis, che indica la mescolanza e che è stato un termine molto abusato. Problema sempre presente In fondo ancora oggi si oscilla molto, attorno ai primi due filoni e anche un po’ del terzo, e a ben vedere tutti questi termini si possono sintetizzare e raggruppare su due livelli: o Puntuale. È il tema classico di Gesù Cristo persona, evento, atto ecc. fissato dai concili e celebrato nella liturgia, dove l’incarnazione viene vista legata alla cristologia. o Estensivo. È un tema già trattato dai Padri, ma che ha preso piede soprattutto nell’epoca moderna, perché che senso ha questo mistero, nel rapporto tra Dio e l’umanità? Non solo con l’umanità di Cristo, ma con tutti gli uomini! Ma è proprio questo che oggi fa ancora problema! Come pensare questa mediazione allargata sia a livello temporale che spaziale? Come Dio può aver contatto con tutti gli uomini? Come è possibile dire che Dio sia presente, aliquo modo, a tutti gli uomini? Come tenere Gesù Cristo in questa visione? Uno dei libri che scatenò la questione fu quello di J. Hick, Il mito del Dio incarnato, ripreso dopo vent’anni in La metafora del Dio incarnato. Per il gruppo che redasse il libro, la presenza di Dio in Gesù Cristo va interpretata infatti in modo estensivo, non tanto a livello ontologico, quanto di individui ed essi presentano il tema dell’esemplarità, perché è il linguaggio dell’amore che ci fa vedere in lui Dio e che ci stimola ad imitarlo, perché come ha fatto lui facciamo anche noi. Certo, è un’eresia pesantissima, perché la santità è interpretata solo moralmente e la grazia è inesistente, ma è una provocazione forte al ripensamento di questo livello spesso dimenticato. È in fondo in questo bacino che vanno inserite le varie vite di Gesù dell’epoca moderna ed il problema del Gesù storico, rivoluzionario, zelota ecc. Anche se non è riducendo lo spessore ontologico di Gesù che si riesce nel tentativo legittimo e sacrosanto di ridurre il divario tra Lui e gli uomini. Queste esagerazioni ed eresie, hanno insomma aiutato a capire, che si può essere uomini in tanti modi e che ci possono essere tanti modi di essere uomo di Dio. Problemi aperti Detto ciò perché non è possibile che Dio si incarni più volte o che si incarni in un gruppo di persone? Solitamente si risponde, che Colui che si incarna è una Persona della Trinità, e come tale non può che incarnarsi in un individuo e che dalla Rivelazione emerge che il nostro rapporto con Dio è una relazione io-tu, ma cosa si intende per “persona”? Quest’ultima posizione è poi basata sull’odierno personalismo, per cui: “umanità” è qualcosa di astratto e ciò che determina l’uomo è la relazione io-tu. Questa posizione si scorda però che la personalità emerge nell’interconnessione e poi se si parla di “spiritualità cosmica” perché non si può parlare di “umanità”? Certo bisogna capire cosa e come intenderla! Inoltre se è vero che io mi scopro nel “tu”, è anche vero che, come dice Sartre, l’altro per me è l’inferno! L’io-tu non esiste, esige sempre il terzo che è costitutivo! E poi si deve tenere conto del fatto che Gesù era un uomo ebreo, galileo, giudeo: come dire l’Umanità senza l’umanità concreta? Oggi c’è infatti un revival della questione del Gesù storico e si fa molto attenzione alla cultura, al contesto culturale in cui si è formato l’uomo Gesù, perché si è capito che tutto ciò non è solo “esterno” alla persona, ma ne fa parte integrante. L’economia salvifica è infatti storia di condivisione divino-umana, e perché si possa parlare veramente di unità, è necessario pensarla come un compito comune, in un regime di mutuo apprendimento. Questo è tutto il filone del Gesù che viene visto crescere in “età, sapienza e grazia”. L’impatto culturale ha di fatto determinato il modo di Gesù di vivere la sua divinità, perché ci sono tanti modi di essere Dio, di vivere la divinità tra gli umani! Riassumendo lo status questionis, l’incarnazione è vista come: Atto-evento, storica puntuale. Stato, che consegue a questo evento e a tutta la storia di Gesù. Ma come intendere questa storia? Umanamente? E se sì, è umana fino alla Croce o fino all’Ascensione? Come intendere l’umanità del dopo-ascensione, l’umanità escatologica? Processo, concetto umano generale di “venire nella carne”. C’è chi parla ad esempio di “incarnazione trionfale”, perché ognuno può incarnare la presenza divina e chi invece parla di “incarnazione kenotica” (Vattimo, Natoli ecc.) dove ognuno è chiamato ad incarnarsi nella “caritas”, a ritrovarsi “solidale con”. E queste tre dimensioni sono affrontate da tutti, anche fuori dai contesti religiosi. Sulla difficile mediazione uomo-Dio Rahner ha delle pagine stupende nel suo “Corso fondamentale sulla fede” (p.262ss). Egli cerca di comprendere l’umanità particolare in Cristo e si chiede come essa vada vista. Come un’umanità “migliorata”? Oppure come il modello in cui ogni uomo può avere accesso a Dio, vista la sua vocazione costituzionale? Certo Gesù è un caso “unico” ed irripetibile, ma non “particolare” e quindi che legame c’è con tutta l’umanità? L’incarnazione non è infatti solo dato strumentale, ma in Gesù l’umanità ha lo stesso peso della divinità. La grazia dell’incarnazione di Gesù Cristo è così per tutti, ma data attraverso l’umanità particolare di Gesù e intesa non solo come mezzo, come lo “strumento congiunto” di Tommaso d’Aquino! E le difficoltà di trovare una quadra, vengono da due problemi collaterali: - La preesistenza eterna, di cui molte letture sono inficiate dall’ellenismo. - L’arretramento protologico, di cui parla Cantalamessa, che vede la diffidenza verso la preesistenza, legata alla diffidenza verso l’incarnazione. Questo concetto è infatti emerso con l’inculturazione del cristianesimo, perché con il diffondersi del Vangelo è sorto spontaneo porsi domande sugli inizi di questo Gesù, sulle fondamenta, sull’origine. E notare che non si arretra solo fino all’incarnazione, ma anche a prima! “Arretramento” che ha creato non pochi problemi all’iniziale atto di fede nella Resurrezione di Cristo, sia per il troppo devozionalismo, che per la troppa miticità, legata alle origini. Come comprendere dunque il dialogo interno tra umanità e divinità senza perdere i due? Si è sempre insistito sull’homo capax Dei, ma si può parlare di un Deus capax homo? Riguardo al legame tra Incarnazione e momento in cui questa è esistenzialmente appropriata da Gesù, il momento del Battesimo, i Padri li hanno visti sempre uniti, perché la loro mentalità era «Dimmi da dove vieni e cosa fai e ti dirò chi sei»! Per loro il chi/che cosa non può essere espresso direttamente, ma ci dice solo la provenienza, l’origine e l’agire: origine e azione sono legate. CALCEDONIA: TERMINOLOGIA, LIMITI E VERITÁ ESSENZIALI Su Calcedonia molti autori, ma guardare soprattutto Sesbouè e Alliette. Nell’affrontare il tema va subito detto che la semplice affermazione di Calcedonia fa, ed ha prodotto, più danni che altro, è importante che essa sia accompagnata da una teologia soggiacente: cerchiamola. Cosa dice / non dice e cosa significa Calcedonia? Calcedonia è in fondo un proto-dogma, la struttura di base per la formulazione di tutta la fede, è il dogma “originario”. Lo stesso Concilio era stato indetto per confermare Nicea e non aggiungere nulla, ed i padri furono “costretti” a tirar fuori una nuova definizione. Questa non va dunque sovraccaricata eccessivamente, è un codice linguistico-regolativo, un limite, un margine che emerge dal tentativo di riassumere le questioni aperte da Apollinare e Nestorio, un tentativo di compendio/compromesso delle posizioni del momento per bloccare la deriva teologica in corso. O’ Collins dice che esso è dunque come una rete di sicurezza, tipo quelle del circo. Solitamente si riassume tutto il documento in «una persona in due nature» ed i quattro avverbi seguenti (senza confusione ecc.) che sono esplicativi e che esprimono delle verità fondamentali: “lo stesso Gesù Cristo” (tema insistente) è veramente Dio e veramente uomo; perfettamente Dio e perfettamente uomo; co-appartenente alla sfera divina e a quella umana; la doppia nascita. Soprattutto sul penultimo problema, quello della consustanzialità, non si è specificata la differenza tra le due “appartenenze”, perché un conto è essere consustanziale dell’unica sostanza divina, ed un conto è essere consustanziale con l’umanità! Sembra quindi che questa consustanzialità vada interpretata in senso analogico. Si voleva insomma bilanciare Nicea per salvaguardare l’umanità da un doppia deriva: come conseguente alla divinità e come ipostasi a sé. Obiezioni critiche alla formula calcedonense Sesbouè riassume le obiezioni in sette categorie: 1) linguaggio inadeguato, formale ed essenzialista; 2) schema dualista che giustappone le nature; 3) dissoluzione dell’unità personale del Cristo, senza dare per altro risposte alla cristologia alessandrina (la “binaria” logos-sarx, il cui rischio è l’apollinarismo) e quella atiochena (la “ternaria” logos-antropos, il cui rischio è il nestorianesimo); 3) carattere discendente, tipico della cristologia dall’alto; 4) inconcepibile assenza della personalità umana del Cristo; 5) misconoscimento della storia della salvezza, anche se a dire il vero nel proemio ne tratta ampiamente, pur con gravi carenze escatologiche e di riferimento all’umanità concreta di Gesù; 6) mancanza del riferimento alle Scritture; 7) mancanza di conclusività, tanto che molti ci hanno visto, forse esageratamente, il concilio della “banca-rotta” teologica. Riletture di Calcedonia Sulla rilettura di Calcedonia si è espressa la teologia di ogni epoca, ma nell’ultimo periodo, la necessità di rivisitarne le categorie si è fatta impellente. Innanzitutto va precisato che parlare di Calcedonia come di definizione dogmatica è ambiguo e contraddittorio, è forse meglio parlare di orizzonte che da un lato costituisce un limite costitutivo (anche se più io mi muovo, più l’orizzonte si muove con me) e dall’altro testimonia anche l’apertura. Calcedonia è così prospettiva e promessa, che va ripensata con grande coraggio. Un primo tentativo di rilettura fu fatto dal Concilio Costantinopolitano II del 553, che disse che queste due nature sono unite kata sintesis: della serie “hai detto tutto, hai detto niente”. San Tommaso nella sua lettura di Calcedonia partirà da questa lettura costantinopolitana per il modello delle formule re-duplicative, per cui due nature stanno insieme si può dire dell’una ciò che si può predicare dell’altra, per analogia. Certo alcune cose sono tipiche solo di una natura. Anche questo tentativo risolve ben poco, perché non dice niente in merito al “come”. Calcedonia invece ci provò con la particella “in due nature” che è cosa ben diversa di “attraverso due nature”: esse vanno tenute insieme. Una lettura matura di Calcedonia la fece il movimento neocalcedonense il cui massimo esponente fu Massimo il Confessore. La persona non è “a partire dalle”, ma “nelle” nature, è da esse che scaturisce il concetto di persona, concetto che è pericoloso, perché è molto vicino all’umano e rischia di non esprimere bene questa unione. Persona per noi poi oggi vuol dire: essere individuale, soggetto che si determina nell’agire e con una destinazione morale precisa, condizionato da una psicologia del vissuto ecc. tutti elementi che nel termine “persona” di un tempo non entravano. È perciò più che mai legittimo pensare ad un adattamento, ad un tentativo di rilettura anche perché come questa persona può essere allo stesso tempo Logos e Logos incarnato? La domanda vera è dunque cosa sta alla base della categoria di “persona” ed in particolare di persona divina che assume la natura umana, tanto che la persona generata sia divinamente che umanamente da Maria è solo divina e non umana! A Tommaso arriva la teologia agostiniana dietro cui sta la teoria dell’Assunzione. Come funziona? Il Logos assume la carne che non pre-esiste, perché nel caso dell’incarnazione Dio assumendo crea e creando assume. Perciò la realtà che viene ad esistere non è autonoma, ma esiste unita a ciò che la pone. La relazione non è dunque composta con la sostanza, ma creata ed assunta. La Tradizione teologica che è seguita si è limitata a commentare tutto ciò e soprattutto i termini an-ipostasi ed enipostasi: la natura umana esiste in Cristo in maniera impersonale, non ha persona propria, ma la riceve (anipostasi) e la correlazione è che assume personalità nella persona divina (enipostasi). Tutto ok, ma in questo procedimento le due nature vengono modificate? Quella umana è chiaro che è “intaccata” da quella divina, perché è plasmata da essa e ad essa. Almeno operativamente poi quella divina si plasma sull’uomo per parlargli. Come è possibile dire dunque che Dio e l’uomo si alterano reciprocamente senza compromettere l’unità nella differenza? Bisogna rimettere in discussione lo schema calcedonense ed in fondo già i padri di Calcedonia sapevano che lo schema era impositivo, una regola, che spesso però ha facilitato una cristologia dall’alto, che preservasse la priorità ontologica divina. Come impostare la relazione in maniera bi-univoca? L’umanità è solo passiva? Calcedonia non l’ha mai detto, però spesso è stato letto così. Schoonenberg è il primo che ribalta lo schema, dicendo che la personalità del Figlio e quella dello Spirito, vengono recepite dopo l’esperienza di Gesù di Nazareth, quando si recupera tutta la storia salvifica: è dunque la natura umana che “modella” quella divina, dall’umanità concreta di Gesù di Nazareth capiamo e conosciamo quella del Figlio. Egli verso la fine arriva anche a parlare di enipostasi reciproca, se però è la natura umana a conferire qualcosa a quella divina, si scade allora nell’adozionismo, che suppone la pre-esistenza della natura umana. Questo difficile equilibrio non è stato risolto neanche dalle proposte recenti, la sintesi migliore al momento è ancora quella di Massimo il Confessore e Sesbouè dice che questo problema è legato a quello eminentemente filosofico dell’uni-dualità. FENOMENOLOGIA DELL’UNI-DUALITÁ: PARTECIPAZIONE, RAPPRESENTANZA, INABITAZIONE, INTER-ESSE Uni-dualità in generale e nel caso dell’incarnazione Il tema dell’uni-dualità è quello classico di unità e differenza, omogeneità ed eterogeneità ecc. e cristologicamente si pone nell’unità offerta dalla persona e nella dualità offerta dalle due nature, nel predicato dell’unità che è Dio come persona ed i predicati della differenza che sono le nature. Massimo il Confessore è molto moderno e, rileggendo Calcedonia, parla di una unità piena di differenze e di una dualità compositiva e costitutiva dell’unità. La persona divina non ha infatti due nature, ma è le due nature, ma solo da Gesù Cristo in poi? E prima? Se le epoche passate avevano una forte sensibilità verso l’unità, oggi la si ha verso le differenze, per cui qualsiasi ricerca dell’unità deve tener conto di esse e le tensioni che ci sono e che si vengono a creare, restano e devono restare ed è proprio laddove è massima la differenza che si coglie l’unità: ciò va approfondito, conosciuto ed esposto. La natura dell’unione ipostatica è quindi quella di generare l’unito/duale. Parlando di incarnazione, unirsi e l’effetto di ciò, la dualità, vanno pensate insieme ed il modello uni-duale ci aiuta, perché unione e diversità sono in questo caso la stessa cosa, l’identità di Cristo è l’essere uno-diverso. La differenza è così generata costituzionalmente dal processo incarnazionistico, Dio desidera e realizza l’unità nella differenza, nella dualità, che non è connotata negativamente, è supposta da Dio. Hegel riassume tutto ciò dicendo che la dualità è intrinseca all’uno, Rahner dicendo che l’uomo viene fuori quando Dio decide di diventare ciò che non è. Tutto ciò ricordandosi che la perfezione umano-divina della persona di Cristo va poi intesa in senso dinamico in cui lo vede la lettera agli Ebrei (imparò l’obbedienza … reso perfetto) e non statica. Per parlare del rapporto uni-duale c’è una costellazione di metafore: anima-corpo, sposo-sposa ecc. e le modalità del pensiero per parlarne sono tante. Ma cosa Dio ha detto di questo rapporto? Cosa l’economia divina ne dice? L’insistenza sul Logos sta ad indicare la trasparenza della realtà, la sua struttura intimamente logica e comunicativa, esprimente lo “on” che è trinitario. La vitalità trinitaria si esprime così nella struttura logica del mondo ed ecco così che capiamo che la grammatica del limite nell’uni-dualità, non è identificativa, ma compenetrativa tra piani distinti: presenza e sacramentalità; istituzione e carisma; visibilità ed invisibilità; unità e differenza ecc. Immagini attuali approssimabili allo schema calcedonense A questo punto è bene vedere una serie di immagini presenti nella cultura odierna, che tentano di spiegare questa uni-dualità, immagini che non sono risolutive, ma che cercano di sviluppare, ognuna a suo modo, lo stesso tema e che quindi si avvicinano a ciò che Calcedonia ha detto. Osmosi Termine molto ambiguo e molto usato, che è circa uguale alla commistione, perché è facile passare da un termine all’altro o che i due si possano mescolare, ma la commistione non è ammessa da Calcedonia. Essa aiuta però a pensare l’incarnazione in rapporto alla condizione creaturale, all’unione pan-umana, traducendo in fondo il concetto classico nella teologia di partecipazione. Cosa si intende con questo termine? È un termine della biologia cellulare, dinamico, che include il processo e non solo l’effetto, realizza un correre l’uno verso l’altro: le due nature sono così in dialogo, tra esse c’è uno scambio continuo. In fondo esiste un processo anche nella persona del Cristo, perché è obbligatorio dire l’uomo dicendo Dio e dire Dio dicendo l’uomo. Questo tradizionalmente viene fatto con la dottrina della communicatio idiomatum1, anche se l’osmosi è ben di più di una comunicazione analogica e si può tranquillamente dire che questo rapporto dinamico della dualità esiste non solo nella fenomenologia ordinaria, ma anche nella persona di Cristo, perché le due nature sono in movimento l’una rispetto all’altra, l’importante è cercare di tenere insieme singolarità e pluralità, orientare le varie direzioni l’una verso l’altra. Empatia Meno usato in teologia e più interessante. Esso non è solo un vissuto emozionale, ma operativo. Il pathos ha infatti una natura attiva, è uno sforzo performativo. Heschel negli anni ’50-’60 scrisse sul 1 Vedi tesi PUG sulla communicatio idiomatum pathos in Dio ed ancora oggi è uno degli agganci più vivi nella teologia, perché mostra come il coinvolgimento di Dio con la storia umana esprima qualcosa del suo essere uni-duale. Dio ha infatti una presenza nascosta e dinamica e nella realtà del mondo esprime la gloria del suo Nome; tutelare il proprio Nome non è infatti per nasconderlo, ma per dare una presenza dell’assenza, per mostrare il vissuto viscerale di Dio con il suo popolo (cf P. Gamberini ed il suo commento). La radice della differenza e dell’unità sta dunque in un vissuto che diventa anonimo ed in cui ci entra di tutto. Che luce getta l’empatia sull’uni-dualità? La tensione tra le due nature coinvolge una dimensione operativa e nascosta, e che è una condivisione reale. Pericoresi Per alcuni il primo uso di questi termini prima che trinitario è tra le due nature in Cristo. Alcuni parlano in questo caso però, purtroppo, di interpretazione asimmetrica, perché dicono che se il Logos penetra totalmente la natura umana, non è vero il contrario! C’è certo un’asimmetria, ma che non rompe la biunivocità penetrativa, altrimenti si scade nell’umanità come semplice instrumentum conjunctum. Se è blasfema la simmetria assoluta, lo è altrettanto la asimmetria radicale, perché renderebbe impossibile qualsiasi scambio bi-direzionale. Esempio di pericoresi delle due nature è il miracolo che esprime la divinità, ma che intanto è posto dall’umanità del Cristo. E così vale anche per tutti gli altri misteri di Cristo. I miracoli quindi non li fa Dio attraverso l’uomo, ma il DioUomo! L’azione delle due nature è congiunta, in questo consiste la “danza”, mentre le dottrine della communicatio idiomatum e della re-duplicazione, non lo permettono. E la pericoresi aiuta anche a tener meglio insieme l’unità, come nel caso delle due volontà. Parentesi: Calcedonia poco soteriologico? Molti hanno criticato Calcedonia di essere poco soteriologica, ma Ladaria 2 fa notare che c’è un modo di intendere la natura divina da un punto di vista funzionale che è proprio dell’essere del Cristo, che “è per”: è questa la salvezza. Il dogma include dunque la dimensione soteriologica, perché dire l’unione delle due nature nel Cristo, è dire la salvezza, la solidarietà divina. Cristo infatti è venuto per noi, ci salva e ciò comporta che ci sia prossimo in tutto e ogni uomo nel suo lavoro può così essere simile a lui (cf GS 22). La solidarietà è dunque un concetto generale che implica molte cose, ma nel caso dell’incarnazione invoca innanzitutto l’unione ipostatica; incarnazione che va però letta alla luce della croce, perché in fondo sono un unico evento strutturale, e perché ciò permette di cogliere la portata salvifica del Dio-uomo, il suo “essere così per”. Bisogna insomma evitare facili contrapposizioni tra ontologia e soteriologia, anche perché è possibile un’economia salutis solo perché c’è un’ontologia salutis; l’accusa mossa a Calcedonia di essere poco soteriologico è dunque una mezza verità, perché l’assumere in sé stesso è già evento salvifico, tanto che l’adagio patristico è che ciò che non è assunto non è redento, la solidarietà scaturisce da qui. C’è chi poi si spinge oltre, sulla scia di Eb 4, e dice che la solidarietà con noi non è solo homoousios (anche se per l’umanità si può usare analogicamente), ma anche perché è homopeperisasmos, ha cioè sofferto come noi in tutto e solidale con noi anche nella sofferenza dunque. Ma questo secondo senso, pur importante, è solo morale, l’assunzione è di più! Rappresentazione inclusiva Immagine classica e fondamentale ancora fino a 10/15 anni fa, ma ora un po’ trascurata per esigenze di dialogo inter-religioso. L’ultimo grande ad averne fatto uso in lungo e in largo è von Balthasaar. Essa dice che Cristo si è fatto uomo per creare posto per noi e in Lui io sono chiamato a rappresentare il mandato di Cristo e il mio, ma l’analogo di questa immagine non è la sostituzione. Egli infatti ha rappresentato l’umanità in tutto perché è capace di coinvolgere l’umanità per la salvezza e così la salvezza che Cristo dona, non è la sua, ma la nostra. Tecnicamente non esiste infatti una salvezza da Dio, ma solo maturata sul tronco dell’umanità. Cristo prende il posto dell’altro limitando non l’altro, ma sé stesso, lo assume non per farsi spazio, ma per lasciare spazio. Concetto teologico affine a questa immagine è dunque quello di communio. Partecipare a questo “gioco” è dunque un con-cedere, non solo facendo fare, ma avendolo accanto in un cammino 2 in L. Ladaria, La recente interpretazione della definizione di Calcedonia, Path 2/2 (2003) 321-340 comune. Il problema per l’uso di questa immagine nel dialogo inter-religioso è legato alla domanda “chi rappresenta che cosa?”, è insomma il problema della mediazione. Inabitazione o nascita/crescita in Dio Immagini entrambe fondate nella Scrittura: nell’opera giovannea; in Paolo che dice che lo Spirito, e addirittura Gesù Cristo, abita in lui; in Ezechiele; nella tenda dell’Esodo ecc. È un concetto interessante che afferma l’intimità (casa), il rapporto stretto e vivissimo, ma al contempo la distanza, perché il soggetto che viene ad abitare è comunque altro da me. Concetto che ha avuto uno sviluppo enorme soprattutto in teologia spirituale e quindi molto fecondo. Esso riflette quello del nascere in Dio e la co-naissance, il nascere con Dio, stare con Lui e vivere con Lui, perché generati da Lui, fatto che ci permette di chiamare Dio Padre, il principio di ogni principio. Questa immagine implica la solidarietà-comunione con Dio, che è un dono ricevuto e partecipato, a me resta solo da onorarlo come origine (per lo stesso motivo si devono onorare il padre e la madre) e ciò porta alla sua conoscenza. Proprio perché Dio è “nostro” possiamo conoscerlo: nascere è dunque l’unico modo per conoscere 3 . E questa è comunque esperienza di immediatezza mediata, perché è l’esperienza propria dell’umanità che trasmette il divino 4 e non a caso questo concetto è stato reintrodotto dalla sacramentarla. Certo va preso con tutte le ambiguità del caso perché la carne ha una voce amorfa, è esperienza cupa e oscura, difficile da decifrare e facilmente fraintendibile. Ma oggi soprattutto i non credenti dicono che è la carne a dare il rapporto con l’esterno, anche con Dio. FIL 2,6-11: IL NOME, LA KENOSI, LA PREESISTENZA “ETERNA” (DEUS CONVENIENS) Partiamo ora con l’analisi di due testi che formano un unico grande momento dialettico, vanno tenuti sempre insieme, perché hanno prospettive diverse e complementari: più sull’umanità trasfigurata quello paolino e più sulla divinità occultata nella carne quello giovanneo. L’inno nella lettera ai Filippesi è un inno cristologico, quasi sicuramente pre-paolino5 ed il soggetto sembra espresso al v.5 “Cristo Gesù”. Abitualmente è diviso in due parti: umiliazione fino al v.8 e poi esaltazione, la cerniera tra questi due momenti è il diò kai, il “per questo”. A livello concettuale però la ripartizione è triplice: uguaglianza con Dio, kenosi e esaltazione. Ed è bene dare un’occhiata ad ognuno di questi tre momenti. Il problema è già come vada intesa quell’uguaglianza, come la pre-esistenza di qualcosa che “entra” nella carne? E chi è Cristo Gesù? Il Signore glorificato del v.11? Il Logos o un principio divino trascendentale? Il Cristo storico? La Tradizione dice che è lo stesso, ma noi nel linguaggio di fede non diciamo che Cristo Gesù esiste prima, ma che esiste con l’incarnazione. Chi è contro la preesistenza del Logos fa appello a questo inno, dicendo che il riferimento è al Cristo storico. E la kenosi come va intesa? Essa è espressa dai termini spogliare e umiliare, perciò è quanto meno doppia: l’atto con cui l’essere divino assume la condizione umana che sembra non essere sua e l’esperienza dell’umiltà. Per comprendere l’incarnazione ci si deve rifare dunque ad un atto puntuale e a tutta la vita di Cristo, anche perché la croce spiega e realizza l’incarnazione, ma pure la glorificazione è importante ed esprime la stessa realtà. Ecco allora che Incarnazione (in senso stretto) – Vita – Morte – Resurrezione sono un unico momento strutturale ed ognuno di questi momenti (“misteri”) illumina l’altro6 e in tal contesto non va dimenticato che il mistero proto-tipico di tutto ciò è Maria, che in fondo è dunque la prima propaggine della teologia fondamentale. Di Dio che possiamo dire se non Gesù Cristo? Da qui nasce sto inno. E quindi il “nome” da esaltare e adorare, non è tanto quello di JHWH, di Signore, quanto più quello dell’uomo Cristo Gesù. Se cf G. Mazza, Incontro al Dio che viene: esperienza del nascere e mistero dell’incarnazione continua del Verbo, Ricerche Teologiche 15 (2004) 77-110 4 cf X. Tillette, La christologie philosophique de Michel Henry, Gregorianum 79 (1998) 369-379 5 Per un’analisi dettagliata delle varie esegesi del testo cf N. Capizzi, L’uso di Fil 2,6-11 nella cristologia contemporanea (1965-1993), PUG, Roma 1997 6 Vedasi a tal proposito la Cristologia di Bordoni e il suo principio strutturale combinato e J.I. Gonzalez Faus, Cristo, estructura de la realidad. Intento de sintesis cristologica, Iglesia viva 47-48 (1973) 453-474 3 infatti la condizione umana, l’esperienza del divenire è stata “presa” da Dio, vuol dire che ci deve essere un rapporto tra le due, che il divenire dell’uomo è in fondo da sempre presente nel divenire di Dio che lo fonda e lo illumina. Ma quell’uomo Cristo Gesù è anche Signore e proprio per questo si può adorare e così inizio e fine di questo inno si richiamano e si leggono a vicenda. Per poter essere un Signore esaltato da adorare, deve essere un umano! E in tutto questo si tenga conto che l’originale greco parla di morfè Teou per l’uguaglianza divina e morfen doulou per la condizione di servo e così in Cristo ci sono i radicalmente diversi, e dove morfè non è la gestalt, la forma, ma molto di più, è ciò che esteriormente manifesta una verità profonda. Ma poi si parla di skemati antropos, qual è la differenza tra morfè e skema? L’essere che si manifesta come Dio si manifesta come uomo e in che senso? Proprio questo bisticcio e la fine gloriosa aprono però l’inno al necessario completamento giovanneo, alla pre-esistenza di questo uomo glorificato che merita il titolo di Signore, il titolo unico di JHWH. Logos giovanneo e morfè paolina si richiamano. Il Dio che esiste da sempre esiste infatti in un modo diverso da quello incarnato? Cosa può dire la dinamica del divenire su Dio? Qualcosa della sua esistenza è esposto alla nostra temporalità? Se sì, che cosa? Cosa dice insomma di Dio l’evento Gesù Cristo? Il dibattito sulla pre-esistenza è insomma solo una parte dell’esistenza eterna, della vita divina, termine che per altro è improprio e che può essere letto diacronicamente come si fa di solito (pre-esistenza → umanità – glorificazione → post-esistenza, ma come si implicano questi tre momenti?) e sincronicamente, che è il senso del prologo giovanneo che ora andiamo a vedere. GV 1,1-18: LA PARABOLA NOMADICA DI UNA PROCESSUALITÁ IMPURA (DEUS PRO-VENIENS) L’inno è strano, se ne ignora la matrice e nonostante i vari influssi ed interventi, ha uno straordinario equilibrio. Scritto in greco impuro, compromesso, tipico del modo di scrivere giovanneo, ha però una ricchezza letteraria tale che mostra come esso sia maturato in ambiente giudaico e ne fa un pezzo unico nel suo stile. L’inno si rifà a Gn 1,1 (luce, tenebre e vita), alla Sapienza (Pro 8) ed infine al Logos, innesto che è tipicamente giovanneo e che non può essere inteso come amore per l’esoticità, ma come un preciso messaggio. Perché dunque il Logos? In latino è stato tradotto con Verbum, Parola-Verbo, ma è una traduzione limitante, perché nell’ellenismo significava tante cose. In generale esso è una figura di interesse cosmologico, un principio ordinatore con la funzione di ratio, che lega questo inno all’inno paolino ai colossesi, ma non è solo quello. Questo Logos è sostanzialmente il contrassegno di una relazione, di un Dio che si pro-pone, che si sbilancia, si sporge. Perciò piuttosto che tradurre meglio lasciare Logos! Questo carattere della sporgenza divina emerge da subito, dal v.1 che è in fondo il concetto liofilizzato che viene espanso in tutto l’inno e che diventa vincolante per tutta la teologia cristiana. Quale è il legame tra logos e Teos? Emerge un legame di intimità, vicinanza ed il fatto che si usi il verbo imperfetto, significa che si esprime un’azione iniziata in un passato e che continua oggi, che ha effetto sull’oggi. Il Logos dunque, principio e regola, modello, elemento vitale viene legato all’essere in archè e ciò vuol dire che il suo effetto è normativo e determinante, riferimento a qualcosa di vitale, che dà inizio. In questo caso un grosso aiuto alla comprensione ce lo dà, stranamente, Hegel, che mostra come il principio sia l’origine, ma non solo. Qualsiasi narrazione sacra infatti, si deve rifare alle origini, ma qui nell’inno giovanneo “principio” non ha solo questo senso di fondamento dell’essere e di scaturigine, ma di rapporto dinamico su cui si innesta l’eventualità della paternità. Chi dà inizio (Dio) non viene infatti separato da ciò che ha originato (Logos), dalla sua costituzionale esposizione, grembo aperto che partorisce tutte le cose. E qui viene Hegel, perché Dio è così principio che originandosi si determina in ciò che origina e così il Logos è una forza processuale del dire, come a dire «In principio Dio era il processo e il processo era Dio» e così il Logos è eterno principio, regola e modello che scaturisce da quel principio che determina sempre una nuova origine e che noi chiamiamo Padre. Dio è così Colui che dà continuamente inizio. L’errore di Hegel è stato quello di aver posto l’inizio come assoluto che ha a che fare con le determinazioni e che si trova ricapitolato in esse, Assoluto che è tale solo quando si determina … ma allora non è Assoluto! Il carattere della paternità nell’inno giovanneo esprime così la necessità del dire la vita che germoglia, del Dio Assoluto che dà la vita. Per questo Pagazzi intitola un suo libro In principio era il legame, perché quando Dio genera e crea, non lo fa separandosi da ciò che genera/crea, ma legandosi! Il Logos è così principio che trova la vita in Dio per dare la vita e l’archè non è il Padre, ma la processualità interna di Dio. La paternità esprime la relazionalità generativa, l’essere principio. C’è un senso dunque, per il quale Dio è da sempre legato al mondo, anche prima dell’incarnazione. A proposito di vita poi, bisogna trattare il tema dell’eternità. Essa è un termine buono se viene intesa come durata illimitata nel tempo, ma se la usiamo per indicare un Dio distante dall’universo umano, che Egli ha scelto solo per dire la propria storia, allora bestemmiamo! Se con “eterna” traduciamo invece la presenza continuativa di Dio nella storia, allora siamo nel cuore del messaggio biblico, perché Dio è proprio la vita che nasce continuamente e la traccia di Dio nella creazione è così proprio la dinamica processuale. Per Barth Dio è così Colui che prende tempo per noi. Dire Dio e dire uomo interferisce dunque a vicenda, perché entrambi hanno a che fare l’uno con l’altro, anche perché il Dio cristiano crea qualcosa che è “suo”. L’eternità in Dio non si pensa poi senza il tempo umano e questo per una scelta di grazia. Se non facciamo tutto questo discorso non capiamo il v.3: Dio è il suo processo, perché il processo è Dio, esso dice l’identità della natura divina, che è esplosione, processo continuo. Dio equivale a ciò dice di sé e per questo esistono le processioni occidentali e le pericoresi orientali per parlare di questo “movimento” in Dio e che è Dio: dal prologo impariamo la trinitaria e non viceversa. La pre-esistenza di Dio è quindi un dono continuativo, l’essere continuamente per l’altro e la storia della salvezza ce lo fa vedere, è manifestativa di Dio. Che il nome di Gesù appaia alla fine dell’inno la dice poi lunga perché Egli può essere capito solo se si fa attenzione a ciò che accade in Dio, che da sempre ci ha amato, è un dialogo eterno, perché l’uomo ha sempre un inizio ed è Dio l’inizio! L’inno giovanneo è dunque un grande movimento che può essere sintetizzato nel “venire”, movimento che al n° 14 ha il suo compimento ultimo e in fondo di partenza-origine. La carne è dunque il fulcro della processione e il v.17 sembra ricapitolare Logos e carne perché Gesù Cristo è l’uno e l’altro. Se la carne è fulcro del “venire” divino, cosa ha a che fare con esso? La carne è vista solitamente legata la mistero del rifiuto, del non riconoscimento, ma qui è diverso, non ci sono accezioni soteriologiche, ma vetero-testamentarie e quindi più legate alla finitezza creata, con tutto ciò che ha a che fare con la caducità e l’esposizione dell’uomo. Questo riferimento alla carne è dunque riferimento al limitato, al creaturale, all’essere confinato del mistero, della gloria divina! Gloria che dunque è “sensibile” e non solo riconosciuta in lui. Il parallelo con Mt 17 e la trasfigurazione è dunque immediato e come in quel caso è un mistero di adorazione, ma chi è l’oggetto di questa adorazione? In Mt 17 il contesto è apocalittico e lì si mostra la differenza tra il contingente e ciò che in Cristo si manifesta (cf Ezechiele), perciò la radice della manifestazione è quell’individuo in carne e ossa che continua a restare con loro, che parla con loro e che li tocca: dunque il canale di accesso della gloria è e resta l’umanità. Qui nel prologo ciò è ancor più messo in risalto perché si mostra come solo la carne esprima la gloria e come la gloria sia solo nella carne. L’unico modo per adorare Dio è nella carne, non abbiamo altri modi per sperimentare Dio, mistero questo che continua nei sacramenti. Da questo inno dunque, più che un’ontologia dell’essere si può fondare un’ontologia del divenire. Il pros del v.1 significa “essere rivolti verso”, “essere sporti verso”. La volgata traduce con apud, che non implica il movimento ma lo “stare con”, l’abitare, legandolo al v.14, ma l’abitazione del Logos presso Dio non significa dire che il Logos è Dio, ma affermare solo un movimento e così questo manere ha senso se non viene fossilizzato in un istante, ma reso nel divenire esodale. Questo Dio pur abitando con gli uomini è in cammino con loro e in mezzo a loro, ed ecco perché l’immagine della tenda e non della casa! La presenza di Dio tra gli uomini è precaria intenzionalmente, perché l’altro è precario e Dio si mette al suo livello. E il “potere” del v.12 è più che altro una “energia”, infatti spesso è usato per i miracoli ed il credente entra in questo mistero. Uno “strano” Barth, in “L’umanità di Dio”, critica il totalmente altro divino, la sua presenza asintotica e argomenti analoghi, se la prende insomma contro la esclusività dell’aspetto puntuale della redenzione che rende questa alterità disumana e pure eretica, perché ciò che prescinde dall’uomo prescinde anche da Dio. Dio infatti “è per” solo perché Lui è così, anche noi “siamo per”. Il movimento del “venire” divino è così complesso e riguardo alla carne del v.14 abbiamo detto che ci sono richiami all’antico testamento e questo vale in particolare per la shekinah e nel rapporto di questa con la qabod. Il richiamo alla shekinah evoca: il carattere dinamico, mentre la qabod è più che altro richiamo alla “pesantezza”, al rendersi presente in maniera evidente ed ecco perché questo termine è usato soprattutto all’inizio dell’esodo; il legame alle seffirot giudaiche, che sono un analogo delle nostre qualità divine e che sono volte alla manifestazione della sua presenza (sapienza ecc.) e di queste la shekinah è quella di grado “inferiore”, tanto che più che con il Sinai e le superteofanie ha a che fare con la quotidianità. Dio è dunque così dinamicamente presente nella quotidianità, da far risplendere la sua gloria dove meno te lo aspetti, nella ferialità più nascosta e qui è grande il legame alla presenza nell’oscuro e quindi a Gn 1-3 anche in questo senso, o meglio dando a questo senso il legame letterale del “principio”. L’UMANITÁ DI DIO (E-VENTUM DEI) Per questo inno non esiste dunque un principio che precede Gesù Cristo e diverso da Lui, ma come il Logos è legato a Gesù Cristo? Perché questo nome compare solo al v.17? Forse per rendere ragione del carattere processuale di Dio e comunque colpisce il legame al “nome” di Fil 2. Perché insomma se Dio è da sempre “per” ci vuole questa umanità incarnata? Perché Gesù Cristo? Per rispondere ed affrontare questo tema ci mettiamo in compagnia di S. De Ausejo, P. Benoit, Moingt, Kushel, K. Rahner, W. Kasper, L. Bouyer, Moltmann, Pannenberg, Jungel, Barth ecc. L’umanità del Verbo non può infatti essere solo un caso particolare, non può essere vista solo lì, come dire insomma che il Logos non è che un altro nome di Gesù Cristo? Come dire che il Figlio in qualche modo è da sempre unito alla carne? Una delle soluzioni è che questa umanità non sia “materialmente” esistente, ma vada intesa come destinazione teleologica: è il primum volitum primum cognitum scotista, che ricorda come non esista che un’umanità sognata da sempre da Dio, quella del Figlio, soluzione questa che è avanzata e che recupera anche il disegno salvifico. Siccome però noi siamo più di quello che siamo materialmente, siamo più di quello che siamo, si può supporre un’umanità del Verbo come umanità già estesa, che si manifesta nell’evento dell’Incarnazione come l’essere uomo in quel preciso momento. Si può considerare insomma l’umanità come una nota distintiva che imponiamo al Verbo: lui ha assunto qualcosa di nostro, il vero “uomo” è Dio, l’umanità non è un “bagaglio” buttato su Dio, ma una sua espressione intima. Vedendo l’umanità come una delle proprietà di Dio ,allora capiremmo meglio anche la nostra umanità, che si trova ricevuta, perché è Dio che la dona, che la concede. L’umanità è dunque in Cristo, perché da sempre è in Dio. Per questo Jungel si chiede a cosa serva la creazione se diciamo poi che l’umanità sia totalmente altro da Dio! Questo legame di Dio con la creazione non è casuale, tanto che al v.3 dell’inno giovanneo se ne parla. L’incarnazione è così “necessaria” ed è per questo che aiuta ad intravedere nella vita intra-divina e scopriamo che Dio è distinto in sé stesso e proprio per questo può distinguersi dalla creazione, questa “distinzione interna” è insomma la garanzia della possibilità della creazione, garanzia che è garantita da un “terzo” dallo Spirito, che lascia essere, già in Dio, ciò che Dio non è! Dalla differenza intra-divina scaturisce l’essere differente che è il creato, da quella relazione scaturisce il dono. Vedasi in tal senso anche V. Vitello, filosofo molto legato ai focolarini, che in “Il Dio possibile” dice che «creare è sempre separare … chi divide, divide in quanto già diviso e così l’uno non è mai stato perfetto e compiuto». Il problema dunque è legato a quello filosofico del come porre l’essere nella necessità e nella libertà, domanda posta da Hegel, che diede una risposta sbilenca, ma la cui domanda rimane e rimarrà sempre ed è quanto mai feconda per il cristianesimo. Questa distanza intra-divina è poi legata al divenire, divenire che in Dio è diverso da ciò che intendiamo noi, ma che è possibilità e fondamento del nostro! Il cosmo, ed in particolare l’uomo che ne è l’apice, è così “sacramentale” della differenza intradivina ed è in Dio. Così la creazione è capita intra-divinamente e in questo senso il Figlio e solo il Figlio si può incarnare! [Ho saltato una lezione, e siccome in classe nessuno prende troppi appunti, è possibile che manchino dei concetti, anche se a dire il vero i seguenti appunti contengono anche un miniriassunto che il professore ha fatto e dunque mi sembra che si perda poco] DIO NELLA CARNE: RACCOGLIERE LA SFIDA DELLA POSTMODERNITÁ (CARO PRAE-VENIENS / IN-VENIENS) a partire dal commento dell’articolo di Giuseppe Mazza, Immagini del Nome: uni-pluralità, pseudonimia e trans-figurazioni del Logos incarnato, Ricerche Teologiche 19 (2008) 1,79-94 L’articolo è la verifica iconologica del mistero dell’incarnazione visto come kenosi-svuotamento, tema molto sentito in ambito anglo-sassone, letto nell’ottica dell’alterazione del Logos. L’uno a partire dalla molteplicità nella filosofia Questo angolo di lettura mette in luce come l’incarnazione vada letta anche come coniugazione e come disseminazione del Logos in molti nomi, perché esponendosi alla frammentazione del creato, il Logos ne testimonia la sezionalità. Non è un caso infatti che oggi molte ontologie partano dalla realtà come distinzione per dire che esista una sorgente, il Logos, perché in ogni inizio storico esiste un Inizio, un’Origine che resta irraggiungibile, ma di cui se ne deve postulare l’esistenza, perché l’esistenza frammentata, proprio in quanto tale, è capacità di ritrovarlo nella compresenza delle realtà umane. Il discorso di Tommaso e delle cinque vie ha così i suoi pregi e i suoi limiti, perché più che indurre dall’esistenza un principio primo, si può dire che esso sia esperibile nei principi che esse portano a trovare, co-esperibile e quindi in continua relazione con il mondo senza mai identificarsi con esso: tutte le formule di teologia naturale e teodicea che sfuggono a questo fatto non sono semplicemente cristiane. L’uno a partire dalla molteplicità nel fenomeno dell’Incarnazione La nominazione/alterazione del Logos è dunque una forma kenotica del donarsi nel nascondimento, nel camuffarsi apparentemente nel creato: in questo modo inclusivo si può interpretare la proesistenza del Logos. Già l’inno giovanneo ce lo mostra sbalzato in una dimensione dia-logica a mostrarci che il destino del Logos è andare al di là di sé, elemento che connota dunque il cristianesimo in radice, perché lo obbliga ad andare oltre sé stesso, nel senso di superarsi, inverarsi (senza annullarsi!) nell’antropologia, compresa come culmine di verità della teologia che resta però sé stessa. La possibilità di dire la verità dell’umano e di Dio insieme, vuol dire che la prima forma di essere del cristiano, è essere umano! Verità questa inscritta nel Logos, che sta oltre sé stesso e fa del rimando all’umano un vincolo ed una dimensione costitutiva del suo stesso procedere. Usando il luogo comune dell’immagine, dell’icona, che testimonia la distanza, il darsi nella differenza7, capiamo che la realtà si dà indifferentemente e la dinamica della visibilità si risolve nell’unità di Dio, perché la legittimità delle immagini vere, è tale solo perché partecipano della verità del Logos e della sua unità. Ma che dire del rapporto tra unità e unicità o unitarietà? Dio è uno, ma le immagini che ne rappresentano l’unità sono molte, perciò unità e pluralità ci fanno chiedere se questo Uno è unico o unitario. L’Unico non fa ipotizzare l’esistenza di un altro, mentre l’unitario dice che quell’Uno è compatto e perciò ipoteticamente indivisibile. Ora leggere il rapporto unità-differenza con il concetto di moltiplicazione non ha più senso (Gesù moltiplicava infatti i pani dividendoli!) e quindi il problema di dire la parola dell’Uno in maniera una e unica rimane. Il mistero dell’Incarnazione lo dice, perché essa è il modo di coniugare questi due estremi, ma è da intendere non come un’eccezione, bensì come un caso culmine ed unico. Uno, unicità ed immagini Cerchiamo di vedere come leggere questo caso culmine ed unico. Il destino ultimo del Logos non sono le immagini, perché c’è una circolarità tra Uno, Unico e categorie di immagini che non lo Anche in senso drammatico, tanto che Sartre ha fatto della visione il massimo dell’oggettivazione e per questo l’altro veniva da lui visto come l’inferno, perché il suo sguardo è capace di uccidere! 7 esauriscono e non lo assorbono. Il destino del Logos è infatti il dia-logo, dove il ' sta proprio a significare il passare attraverso, a dire che è proprio del Logos il superarsi, il macerarsi, il distruggersi, l’andare oltre sé stesso. Un filosofo che ha approfondito questo tema è Cacciari. La Parola ha così segnato nel suo destino l’incenerirsi nelle parole. Ma se il Logos va oltre le sue immagini, dove va? Come nessuna parola esaurisce LA Parola di Dio, così le immagini mi dicono qualcosa, mi testimoniano l’Uno che nutre e custodisce le stesse immagini, ma che è un nucleo oscuro che dà loro senso ed è lo stesso per tutte, le accomuna, verificando allo stesso tempo il fatto che sono creaturali. Questo nucleo che va oltre queste forme, ci dice anche qualcosa di loro. Così l’unicità di Dio si po’ capire anche a partire da questo fondo delle immagini che è un Uno, fondo che non è nella totalità delle immagini, forse forse rintracciabile nella rete di esse. Dio è così nelle immagini, ma anche oltre di esse. Ma se l’Uno non sta lì dove sta? Nell’esperienza. La carne luogo di inveramento dell’Uno Ed è qui che viene la volta della carne che leggiamo grazie ai lavori soprattutto di Merleau Ponty (testimone del tardo esistenzialismo cristiano “il visibile nell’invisibile”) e della sua ripresa fatta da Marion (“Dio senza essere”) e Henry (“Incarnazione” e “La Parola nelle parole”), grandi fenomenologi della carne. Essi vedono la carne in un modo che va oltre il concetto biologico e biblico, il che è molto interessante, anche se non scevro da problemi, tanto che Tilliette di questi personaggi dice che con loro siamo ai limiti della gnosi. Ok, spesso rischiano di cadere nel monismo, in un sistema chiuso, ma il loro discorso merita attenzione. Cosa c’entra però la carne con le immagini? Sono molti i modi per vedere il passaggio dall’Uno all’Uno, il viaggio da Dio a Dio ed uno di questi modi è la carne, che ora ci apprestiamo ad “analizzare”. Abbiamo visto come il vero destino della kenosi sia andare oltre l’icona, nell’essere differenza che accoglie la differenza e quindi di una logica che va al di là della logica, c’è dunque bisogno di superare certi modelli concettuali. Può esistere una logica al di là della logica? Il Logos è solo la massima espressione della logica? Più che un Logos questo è Ratio o Ordo! Il cristianesimo non può dunque essere cristallizzato nella triade Dio-Uomo-Mondo, come spesso si è fatto, e vedere così l’Incarnazione come il bullone essenziale per tenere in piedi tutta l’impalcatura di certa teologia naturale, di un impianto che a ben vedere al suo interno ha molti trucchi. Il logos giovanneo non ha questa esistenza ricapitolatrice, dice la sua funzione di accoglienza e di fondamento, ma non razionale, né irrazionale, bensì meta-razionale. Questa logica fondantefondamentale gode così di una certezza non solo morale, ma materiale! Corpo e carne Cos’è la carne per questi autori? È un concetto che include come caso limite il dato biologico e quello biblico e sta ed esprimere il luogo del sentire, della prova della soggettività. Prova in tutti i suoi sensi di provare-assaggiare, tentare di verificare, provarsi, mettere alla prova. “Sentire” che è difficile da esporre in idee chiare e distinte, perché è fortemente legato alla soggettività, all’individualità e dunque spesso all’arbitrarietà, perché se so come “sento” io mi è difficile capire come “sente” l’altro, il sentire è un’esperienza indeterminata che non è misurabile. Marion a tal proposito dice che l’esperienza della carne è l’esperienza del sé profondo che nessuno può mai dimettere, è la nostra intimità, la capacità del venire a sé stessi, del rientrare in sé stessi che la Scolastica chiamò Reductio in sé ipsum, attività che nessuno può fare al posto di un altro. Se la carne è questo allora essa ci fa sempre compagnia e la triade Io-Dio-me stesso è perenne. Solo nel provarmi continuamente mi confronto e cresco. Siamo anzitutto con noi stessi dunque, con la parte di noi che parla di noi e poi con Dio ed ogni tanto portiamo davanti a Lui noi stessi. Siccome però il corpo, la “struttura funzionale” che appare di noi, è imperforabile, pena il farsi male, è facile che si identifichino spesso “sentire” ed “apparire”. Inoltre il rientrare in sé stessi è un mito, un limite mai raggiunto veramente, un asintoto a cui tendere. Il corpo non esaurisce dunque la “carne” e neanche ciò che dice di noi, e dunque di Dio, e non è così il vedere Dio l’importante, ma il “sentirlo”, non solo e non tanto nel senso emozionale, ma in un profondo vissuto antropologico. Carne e Vita Ciò che dice dunque la verità di Dio e dell’uomo è la vita. Sotto il pensiero di Henry è facilmente rintracciabile oltre ad un continuo e spasmodico riferimento all’inno giovanneo, anche al fatto che Gesù è Via, Verità e Vita. L’accedere così all’autenticità dell’essere divino personalmente, è possibile solo attraverso la propria vita. Così stando al livello delle immagini, del vedere, del molteplice capiamo, ma per comprendere si deve arrivare al livello della carne, del sentire, dell’Uno ed una cosa così è certa non se è vera, ma se è viva, se è radicata nell’esperienza del provare. Il “sentire” la vita permette dunque di raggiungere il grado più alto di certezza ed è la realtà più comune, il cui fondamento è in fondo Dio, la realtà più certa di tutte. Solo a partire dalla vita dunque la verità ha senso e ciò è un commento indiretto a quanto detto prima. Il primato infatti non è della parola o della verità, perché essa è generata, procede dalla vita che è esperibile solo nella carne. Se la Vita però coincide con Dio e questa Vita si esperimenta nella carne, allora l’unico modo per Dio di farsi presente a noi è a sua venuta nella carne8. La carne è così il mistero che genera la parola e non sono dunque le immagini concrete il termine ultimo, ma l’esperienza comune della carne, il “sentire” la presenza. In questa linea il mondo ci dice dunque poco di Dio. Per questi autori dunque più ci si scopre e si scopre Dio! È un discorso molto new age, ma tant’è. La carne ha poi il pregio di non essere un’esperienza kairologica, ma un elemento continuo, che si da a noi continuamente e quindi la certezza che ne deriva è un fondo comune, simile al respiro che faccio, ma che mi previene sempre. Sarebbe così un assurdo dire che la carne non c’è e con essa che non c’è Dio, presenza che c’è pure essendo nascostissima, tanto nascosta che la si può anche negare e mettere in discussione. Carne che essendo un elemento continuo è anche un eterno presente che ha una memoria immemorabile ed allo stesso tempo, essendo continuità sensata, è anche garanzia della libertà rispetto alla distinzione, al senso di schiavitù che abbiamo stando sul piano delle immagini. Proprio la qualificazione di nominazione del nome divino ci fa pensare che la Parola possa darsi nelle parole e il culmen et fons di tutto ciò, di questa possibilità, è la carne. Non a caso il punto di arrivo dell’inno giovanneo è il nome del v.14, punto in cui si parla anche di gloria, perché senza il mistero di questo nome non si può dire niente di Dio, senza la carne Dio è innominabile. Tutte le mediazioni feriali si fondano così sulla dinamica silenziosa che è la carne, mistero archetipale a tal punto che carne e vita sono come due facce della stessa medaglia. Il limite di queste interessanti visioni è la difficoltà a distinguere tra Vita e vita, tra principio eternamente generato e nostra vita. La loro è una grande filosofia dell’epifania, del Tabor, che dimentica però due cose: il principio di individuazione, il capire come facciamo a distinguerci dalle altre immagini, che Henry cerca di rendere con il concetto di “ipseità”, ma che non convince; c’è poi la gloria, ma manca il riferimento all’evento storico, il riferimento cristico, perché loro dicono di non fare teologia, ma sullo sfondo è chiara la matrice di cui considerano solo ciò che vogliono. L’incarnazione stessa è infatti verifica e superamento di ‘sta visione, perché assume tratti precisi, tratti davanti a cui ci capiamo la nostra carne e la nostra vita. Henry a pag. 97 del suo libro dice che l’accesso alla vita si ha solo nella, per la e dalla vita, solo nel provarsi la vita viene a sé stessa. Così Dio ad esempio si conosce solo in Dio. Come però abbiamo accesso alla vita? Avendo accesso a noi stessi ed è così che siamo venuti a noi stessi nell’eterno processo della vita che viene a sé. Il mistero di Dio dunque si può sperimentare nella vita ed io posso accedere a me stesso perché percepisco lui. Di sicuro è un pensiero vitale fortissimo che si presta a critiche, ma bisogna prenderne atto. Il principio unificante per Henry è la vita. In cordata … Idea la sua, sviluppata anche grazie agli aiuti della psicologia dinamica, ma che non è nuova, è il continuo recupero di Gv 1 e 1 Gv 1 che già la patristica e poi la filosofia idealista hanno preso. Tertulliano ad esempio nel De Resurrectione Christi considera la carne sorella di Dio e lo stesso Ireneo nella sua ingenuità è consapevole del carattere plurivoco della carne. Carne che come abbiamo detto si oggettiva poi nel corpo, ma non solo: è l’eterno problema della presenza reale. Lo 8 Questi ultimi passi mettendo in parallelo Vita e Dio gli autori non li fanno, li facciamo noi, ma in fondo in fondo si capisce che essi intendono dire questo stesso K. Rahner ha dato una buona lettura, come quando dice che l’uomo emerge quando Dio vuole essere non Dio, e lo stesso vale per la carne, che emerge quando la parola vuol dire sé stessa. Carne che esiste dunque come potenza della parola, il cui fondamento è nella parola che esce da sé e che è legata alle profondità di Dio che esiste ek-sistendo, è il principio della paternità. Una trinitaria molto buona, a tal proposito, che fa lo status questioni attuale, è quella di Gamberini (ed. Città Nuova) e molto buoni sono i lavori di P. Coda, Hemmerle (tutti legati ai focolarini!). Ciò ci fa anche rivedere l’eterno discorso della potenza in Dio, perché la natura potenziale, vista come essere in desiderio, è insita in Dio, che non è solo un atto puro! Se l’ipotesi della carne è punto di arrivo del desiderio della Parola, anche essa troverà dunque il fondamento ed il suo destino fuori di sé, in Dio: l’Incarnazione è fine, ma tesa alla Glorificazione. La carne è cioè fatta per perdersi e per trovarsi nel mistero originario che si rifà in lei. E la pneumatologia?9 Manca un legame con essa, perché gli autori guardati non lo trattano e quando altri lo fanno è comunque sempre solo uno sfondo. Marion dice che la presenza pneumatica è una presenza collaterale e nello Spirito, carne e corpo diventano una sola cosa, grazie a lui si conciliano. Il problema della sua visione è limitare ciò alla fase escatologica, al solo corpo del Risorto, il “corpo spirituale” di cui parla Paolo. In generale poi quando se ne parla si tende più al monismo che non a cercare due principi, anche se in fondo ce li hanno in nuce. Si potrebbe però sviluppare il fatto che c’è una dimensione risorta che sperimentiamo quotidianamente e che è la dimensione pneumatica che fa sì che la Incarnazione tenda alla Risurrezione e viceversa. L’altro lato della medaglia da tenere in conto in questo discorso viene dal legame tra scienza e fede. Chi lo sviluppa bene è Pannenberg per cui lo Spirito è energia correlativa che rende visibile la corporeità visibile del cosmo. Lui usa nel suo discorso le teorie di campo fisiche. Lo Spirito è visto come una presenza di “rete” (e questo lo diceva nel ’70 quando ancora non esisteva il web!). L’aspetto critico della presenza nella corporeità è infatti il problema del frammento, dell’individuazione e certe idee come quella di Pannenberg ci aiutano. Studi tecnici si trovano anche in Ganoczy che scrive su teologia naturale e sacramenti. Da vedere è il suo “Il creatore trinitario” in cui usa il concetto di sinergia sulla base di Basilio Magno. Detto questo manca una trattazione sistematica e quando c’è attorno al mistero dell’incarnazione si va subito sul discorso ecclesiologico. Corollari o prospettive limite: M. Taylor e Deleuze-Guattari “Erring – a/teologia moderna” di M. Taylor Insegnate di Chicago è violentemente anti-cristiano. Il suo è un pensiero nomade, dell’erranza, che vuole abbandonare ogni capo-saldo del pensiero occidentale: Dio, Io, Storia e Libro (nel senso di ricerca scientifica e metodo). Egli, come erede di un movimento de-costruzionista, propone un superamento offrendo un pensiero limite e transitorio. Ecco così i suoi primi quattro capitoli: morte di Dio, scomparsa dell’io, fine della storia e chiusura del libro. Su queste basi fonda la sua ateologia riprendendo i quattro punti e concludendo invece che con una conclusione, con un interludio, a dire che il libro continua! Curiosa è la sua mazing grace dove maze è un labirinto pluriviale, a differenza di labyrinth che è il labirinto uni-viale10. Tema del labirinto che è cruciale per molta letteratura del ‘900. Grazia labirintica dunque, a mettere in luce l’importanza della scelta. Guardare anche M. Mafesoli “Per una sociologia dell’erranza”. Ma Taylor come critica i quattro? - Propone un superamento del concetto assoluto di Dio, che non si dona se non nella scrittura, come atto di mediazione dell’io che va a mutare. La scrittura infatti è un pensiero chiuso, 9 In seguito alla mia seguente domanda «Questo discorso della vita mi sembra molto simile a quello della Sapienza nell’Antico Testamento, dove ci si può vedere il Figlio o lo Spirito. Fino ad ora noi abbiamo parlato del rapporto carne e “principio Figlio”, ma non c’è qualcuno che parla anche dello Spirito e di un qualcosa ad esso legato? 10 Labirinto questo molto usato nel Medioevo e che si trova in molte cattedrali. Esso era legato al pellegrinaggio come fenomeno di iniziazione. Entrando in esso si abbandonano infatti le coordinate cartesiane per arrivare al centro, percorso che porta ad arrivare al centro profondo di sé stessi in cui si trova Dio (nei riti non-cristiani in questo centro c’era anche lo specchio per vedersi). E poi si prendeva la strada per uscire. mentre essa è sempre incompiuta. Le stesse biografie, e pure quelle di Dio 11 , sono da terminare, perché sono solo un tentativo di riscatto dell’esperienza umana del fluire della storia: non è ciò che sopravvive! C’è un racconto continuo che testimonia il fluire della vita. - L’io è una grande schiavitù, è il princeps analogatum che va lasciato per cercare i segni e le traccia, che sono ciò che sopravvive della crocifissione del sé12. Impostazione che è dunque contro il simbolo che è unificatore, perché traccia e segno sono ambigui e destinati a sparire. - La storia è così segnata dalla mobilità e piena di errori e mutamenti. - Il libro scompare in favore del testo. Se il libro è una struttura, il testo è invece quanto di più plastico esista e cresce con i lettori, perché vive nelle loro recezioni e interpretazioni. Si veda a tal proposito anche la tesi dottorale di O. Rush sulla recezione estetica del Vaticano II Taylor è dunque un assertore della carnalità come esperienza erratica del sé, fenomeno carnevalesco. Dà poi una lettura molto interessante per la fenomenologia eucaristica, perché dice che il dramma della parola è l’auto-consumarsi, l’incenerirsi, il disseminarsi, la parola è la crocifissione dell’io individuale ed inferisce una ferita che da luogo a segni erratici e tracce d’erranza! Il problema è che per lui come per altri, dopo la morte, dopo la disfatta del corpo non c’è altro: ciò che per loro è punto d’arrivo, per noi è punto di partenza. Deleuze Seguace di Arteaux, anche lui fortemente anti-cristiano, ha scritto tante cose sul superamento dell’io e da qui la sua proposta di “corpo senza organi”. Il corpo rappresenta infatti l’unità e l’identità, principio funzionale di organi vari e che rappresenta l’io lavoratore per eccellenza, il mito dell’armonia produttiva. Per questo dice di riscoprire il corpo senza organi, perché il suo valore va oltre la funzionalità e l’identificazione. Lui ce l’ha su dunque sull’identificare umanità e corporalità e propone di vedere così l’uomo, che è un frammento-frammentato sottoposto alle passioni, più che come personalità come im-personalità e così l’incarnazione è possibile solo cosmicamente. Egli critica così l’ambito antropologico e dunque anche quello cosmologico, tanto il senso quanto il cosmo. Il cosmo per i greci è un ordine armonico, in cui le parti esistono in proporzione, ma lui contrasta questa visione e dunque anche quella di ordine come bellezza. Proprio per questo propone la sua idea di corpo senza organi, di una personalità impersonale, di un uomo senza il microcosmo degli organi, visione questa che rende il corpo solo una parte del progresso. Lo stesso corpo umano nella visione classica è infatti visto come parte del cosmo, e ha senso perché funziona. All’organismo egli sostituisce dunque il dis-organismo e al kosmos il kaosmos, entrambi ordinati sì, ma solo a livello macroscopico, perché in realtà è il caos che governa il tutto. La sua novità non è tanto ciò che dice (in scia con la scuola cominciata dall’ambiguo Derrida), ma è il tratto fortemente polemico e anti-cristiano; non dice infatti, “ragioniamo meglio”, ma critica l’io e la categoria di persona, facendo così venire meno la singolarità. Non gli interessa il divenire cosmico in ottica antropologica, ma solo un divenire slegato dall’essere umano, anzi di cui ne fa parte e da cui è governato, plasmato e orientato. La sua è in fondo una delle affermazioni più violentemente vitaliste dopo quella di Nietzsche e propone di riscoprire il carattere multi-personale, perché noi siamo cosmo. Tutto ciò sfocia ovviamente nel nichilismo più assoluto. Se Taylor è più un sistematico, Deleuze è proprio acido. LE “DIMORE” MUTEVOLI: CORPO, VOCE, PAROLA, SPAZIO, TEMPO (DEUS ADVENIENS) Paradossalmente però proprio il pensiero di Deleuze ci aiuta a cominciare questa parte, perché il suo pensiero lascia spazio alla mistica trascendentale. L’idea che esista un concetto kenotico della corporeità, un corpo vuoto, in linea con il corpo debole e spezzato di De Certaux, un corpo costituito dal non essere, che si lascia determinare e vulnerabile è in fondo un principio di corpo vicino a quello cristiano, che vede il corpo come soglia, principio dell’innesto dell’umanità di Dio! Se noi biologicamente siamo solo ciò che funziona e produciamo, non è a questo tipo di corpo che 11 12 Vedasi i lavori di J. Miles “Dio” e “Gesù Cristo” o i lavori di S. Quinzio, in cui Dio è sempre uno sconfitto. In Italia Zarone è uno che scrive molto su ciò. Guardare la rivista “Filosofia e teologia” deve guardare il cristiano, ma ad uno privo di funzionalità che come tale è principio di dono. È in fondo il riconoscere Gesù nel corpo che si sottrae, come corpo che appare e che è però scandalosamente assente: ecco perché la presenza negli scarti della società e nei sacramenti! Corpo Spunti da “Noli me tangere – Saggio sul levarsi del corpo” di Jean Luc Nancy L’idea di questo autore è in continuità con tutto ciò, perché parla dell’incontro tra il Risorto e la Maddalena, dove si vede come la presenza più autentica del Risorto è quella fuggevole. Paolo prova a spiegare la novità di questo corpo in 1 Cor 15,35-58, ma dice in fondo poco. L’autore fa tutto ciò poi partendo dall’arte e fa notare come sia velatamente presente in molti quadri lo sfiorare. Proprio questo riferimento al tatto ha fatto sì che quest’autore si attirasse le critiche di Derrida & co. La presenza viene comunque sancita dove c’è l’assenza assoluta e non a caso uno dei segni più eloquenti della risurrezione è il sepolcro vuoto, il vuoto! Non è la presenza del risorto che abbaglia, ma il buio del sepolcro a cui abituarsi, per vedere il risorto, un morto risorto. È un morto che resta morto, ma che è vivo. È dunque nella morte che si verifica l’esperienza del levarsi, dell’alzarsi sul sepolcro, del morto che vive, di colui che ha distrutto la morte morendo. Gesù non supera infatti la morte, ma se la porta con sé per sempre: è il crocifisso per sempre, risorto. Ciò è così anche una forte polemica contro l’intoccabilità del corpo, legata alla stessa dinamica eucaristica in cui noi possiamo toccarlo con le mani, anche se poi ci sfugge e viene in noi. Bloomenberg in “Leggibilità del mondo”, dice infatti che il mondo è leggibile grazie al mito cristiano del mangiare Dio, anche se allo stesso tempo è presenza non possedibile. Esiste dunque una religiosità del contatto e del sensibile, che fa pandan con il “noli me tangere”. L’eucaristia ha in sé tutto ciò, il problema dibattuto soprattutto dai protestanti è però quello della statio eucaristica, e cioè non dell’eucaristia come presente, ma come presenza, che è data, che si può gestire, mentre il presente esiste fuori di sé. Per questo per loro il mistero che esprime veramente la presenza è la voce, che è presenza sfuggevole e per Lutero la presenza di Cristo nell’Eucaristia era solo fino alla fine della messa! D’altronde è vero che l’esagerazione della stazionarietà da parte della pratica cattolica va contro la dinamica eucaristica che è sempre “nell’attesa della tua venuta”! La verità fondamentale del libro di Nancy è comunque che la verità è intrattenibile e la sua caratteristica è il fuggire e il continuo desiderio di essa è l’unico modo di essere con la verità e cioè il partire con lei, l’essere processo nel processo. L’inabitazione non è più così un concetto facile, ma problematico e abitare la presenza divina è dura. Dio nel mondo si da sì come principio, ma in fuga. E dall’abitare di Dio in questo mondo ne viene anche su come esserne cittadini. Corpo e letteratura contemporanea A questa dinamica del corpo come abitazione, la letteratura di oggi ha dato molto peso. Stupendo è “La casa di Asterione” di Borges. Asterione è il Minotauro (e dunque c’è anche il discorso del labirinto!) e il racconto è un suo monologo sull’abitare e sul corpo. Andiamo a stralci. Tutti lo accusano di non aver lussi donneschi. Per lui non è l’ordinarietà ordinata che costituisce l’esperienza “abitata”, lui infatti vive in un labirinto e ne è contento, è una struttura per lui buona! Dice infatti che “ho anche meditato sulla casa … tutto esiste infinite volte, solo due cose sono uniche: in alto il sole e in basso asterione”. Il vero problema è il labirinto, il disagio che ci portiamo dentro. Si chiede anche come sia fatto il suo redentore, se sia un toro con testa di uomo o altro. E verso la fine del racconto si capisce essere Teseo! Anche Italo Calvino ha molto riflettuto sul disagio di trovarsi a casa. D’altronde riflettere sul corpo infranto e spezzato, la polemica eucaristica, il corpo che deve svuotarsi ecc. ci fa pensare che al di là delle strutture classiche, c’è una meta-corporalità, ed oggi più che mai, nell’epoca virtuale, ciò è importante. Tutto ciò ci aiuta a pensare il corpo glorioso! Perché il corpo? Abbiamo visto il problema della carne → per poi analizzare le fenomenologie critiche → analizzare il corpo come luogo dell’abitare come casa. Ora viene da chiedersi: perché il corpo? Tema questo da visitare, per avere un certo sentore della carne. Il corpo infatti è presenza visibile della carne, anche se pur lui è di passaggio, ed è in fondo la prima traccia dell’alterità dell’identità della persona. Il corpo cambia ed è esso stesso un mistero di passaggio, che si offre tra due fronti: nascita () e morte (). Entrambe sono sempre presenti sia a livello biologico, che a livello teologico, perché il corpo esprime sia l’incarnazione che la Pasqua! Il corpo è così destinato a perire e a rinascere e testimonia l’esistenza. La sua fenomenologia è performativa e proiettante (), ma allo stesso tempo resiste a questo passaggio, perché c’è una verità in lui che la precede () e che fa di questo corpo lo stesso corpo. Il corpo così esiste e resiste perché in lui nasce sempre qualcosa. Questa dialettica nascita morte è in fondo la fenomenologia della compieta. La vita si preserva come dono che rinasce, ma che è dono. E questa è una dinamica fortemente cristologica, perché Cristo riceve la vita dopo la sua morte, la vita eterna è un dono del Padre. Certo nessuno gli strappa la sua vita, è egli a darla, ma il dono che riceve non è scontato! Solo perché si consegna totalmente, Dio lo risorge e gli dà il Nome che è al di sopra di ogni altro nome: Cristo è il primo risvegliato. Così la vita continua, si dona, resiste come dono ed è questo in fondo il concetto di incarnazione continua. Proprio nella presenza pseudonima la presenza così si ritrova ed il carattere archetipale è l’adventum humanitatis unito al mistero della sua promessa, della sua passione corporale progettata: entrambi procedono l’uno dall’altro. Ed è qui che si inserisce la pneumatologia, perché la vita cristiana esiste solo nello Spirito: solo da Cristo in poi è possibile concepire al vita autentica e cioè la vita nello Spirito, che è la dinamica del venire di Dio. Dio infatti si ritrova in sé stesso solo nella mediazione dello Spirito, che è la vera ed unica casa abitata da Dio. Se c’è dunque un modo per dire Dio oggi, questo è lo Spirito Santo e la dualità è così da affermare: corpo migrante e corpo ricevuto. Dall’altro lato però la presenza esposta è un fenomeno ambiguo. Nel dogma dell’incarnazione non si parla infatti di corpo, ma di carne, ma il pensiero dell’ultimo secolo ha visto nel corpo da un lato la possibilità di dire e di fare, la parola più autorevole del linguaggio e dall’altra il principio dell’azione. Entrambi vengono però dopo, perché il mistero che Dio ha assunto, è la carne che diventa parola e la parola che diventa carne. In questo processo egli si frammenta, si spezza, si dissemina e diventa così parola nel mondo. La carne non è così altro dalla parola, e Dio assume un corpo di carne per farne la sua parola: bisogna fare attenzione dunque, da questo punto in poi, a dire la Parola senza la carne! Autori che cercano di trattare il tema corpo-carne-parola Il primo è C. Pagazzi in “In principio era il legame”, dove si parla dei sensi del Cristo e dei suo bisogni, come di sensi e bisogni di Dio. Il Figlio è infatti il vero es. del con-tatto tra Dio e il mondo «nessuno è appartenuto al mondo come Gesù e a nessuno è appartenuto il mondo come a Lui». La sua posizione è molto più matura di quella però più famosa di P.A. Sequeri in “L’estro di Dio”. Lui ha tanti pregi, soprattutto nel tentare un riavvicinamento tra passioni e cristianesimo, ma lo fa purtroppo in maniera difettosa. Il suo progetto generale è quello di proporre un criterio di credibilità della fede, riscoprendo il valore della presenza estetica come atto dell’intellectus fidei. Il problema però è che quest’ultimo non è tutto l’atto di fede, come non è neanche solo una parte funzionale o strumentale. Così a p. 34 si arriva a scoprire il suo sottofondo, quando tentando di riconciliare intellectus fidei ed affectus fidei, dice che (Benedetto XVI nella sua enciclica andrà per fortuna oltre) si deve «sottrarre l’eros alla deriva epocale del desiderio senza trascendenza … delle passioni senza forma [è il suo grande dilemma, e la forma è quella cristica!] … l’eros va liberato dalla menzogna delle potenze … no ad un eros senza nomos e senza logos … eros solo in agape perde la sua passionalità distruttiva … l’intellectus fidei deve così gettare fasci di luce» e in questa luce legge l’accende lumen sensibus! Ma lo Spirito fa proprio il contrario, accende le passioni! Andarsi a sentire l’ottava di Mahler (detta “la sinfonia dei mille”), fenomenologia che compone sublimemente sacro e profano e la cerniera è la dossologia che scaturisce proprio dopo l’accende lumen sensibus! Voce Sul tema: S. Gaburro, “La voce della Rivelazione”, Cretienne in Francia e molto c’è in campo inglese, anglicano e protestante, anche perché il tema è molto legato a quello della predicazione. Perché la voce? Tra Carne, Voce e Parola c’è una circolarità ermeneutica al cui centro c’è il Corpo, perché su di essa si affaccia, per dirne qualcosa, con una mistica elementare, che è riferimento diretto con i fondamenti meta-logici di questa dinamica. L’essere umano non può dunque parlare di incarnazione senza questi quattro elementi, elementi caratterizzanti l’uomo stesso, e per questo l’incarnazione dice anche qualcosa dell’uomo. Ma veniamo al rapporto tra voce e incarnazione. La voce ci parla di pro-vocazione, e-vocazione e ci dice del rapporto tra Carne e Parola, ne è infatti il linguaggio, ciò che esprime il carattere di dono di inafferrabilità. L’essere umano è infatti simbolico e niente come la voce ce lo ricorda, ed una sua registrazione o un suo scritto non sono la stessa cosa, perché sono cristallizzazioni della voce, che non la donano più. Ascoltare la voce è una operazione che così ci concede di accedere al mistero incarnato ed il silenzio ha un ruolo centrale, tanto che l’annunciazione è in fondo un silenzio pieno di Dio e per questo Maria è la piena di grazia! Ascoltare la voce è assistere, ogni volta di nuovo, a questo evento. Voce e fenomenologia della carne Bisogna tornare dunque un attimo alla fenomenologia della carne. La carne è infatti meta-logica, viene prima delle parole, perché le realizza e per farlo ha una voce, che l’aiuta ad uscire da sé stessa. La carne si esprime così in grammatiche complesse e densissime, ha un suo linguaggio in cui ci sono anche le parole. Nel suo esprimersi però, si frammenta e così abbiamo più grammatiche che la declinano nonostante essa sia una e ciò che ci individua. La carne è fondo immutevole che si esprime nell’esperienza del corpo, che è la presenza della carne, che per rendersi presente deve negare il passato ed il tempo. Proprio questo esserci continuo dell’uomo è così la testimonianza dell’eternità (non dell’immortalità) dell’uomo. Il presente vero della carne è il corpo e perché ciò avvenga, essa deve interrompe la temporalità, iniettando lo spazio nel tempo. La richiesta dell’essere umano è dunque quella del sapersi essere. Cosa però lo spazio ci dice della carne? Testimonia il mistero originario della carne, che rappresenta il mistero sorgivo, ma che per rendersi presente ha bisogno di una fenomenologia: la Voce. Tornando alla voce La Voce viene prima della Parola, e la fonazione ha così un carattere demiurgico. Prima della realizzazione del fenomeno voce, c’è però il mistero della Voce. Ciò emerge anche nella Rivelazione che, grazie all’incarnazione, non è solo uno svelamento, un dirsi/darsi, in quanto la vera natura dell’incarnazione è il testimoniare il mistero che si nasconde: la Parola incarnata è la Parola assoluta che diventa Parola disseminata. L’incarnazione non spiega così niente e la voce di Dio, appartenente al mistero della carne, ne è in fondo solo il filtro. E questa riabilitazione della Voce dice anche, perché gli inserti del Battista stanno bene nell’inno giovanneo. Il donarsi di Dio, il suo dire, non dice tutto, e la Voce fa presente proprio questo scarto, ricorda che la natura del passaggio carne-corpo-parola, è dia-logica. La voce è così la parola affidabile per eccellenza, che si confonde, si incenerisce. Qui importante è la fenomenologia di von Balthasaar e di Bruno Forte, anche se la sua mistica del silenzio è un po’ strana, visto che il silenzio è mistero primario solo perché approdo del dialogo, elemento che ricorda come il compimento della parola sia sempre oltre sé stessa. La voce parla di un’eredità eterna, è in fondo la zavorra assoluta, il ricatto del dirci e del darci del corpo. La voce cambia infatti con il corpo, è timbro e carta d’identità, principio di individuazione che quasi ci imprigiona. In questo darsi ed essere storiograficamente testimonianza di noi, la voce coglie il carattere proiettivo e testimonia la morte, perché anch’essa si spegne, in fondo è fatta per questo e per questo la parola finale di Nietzsche è da prendere sul serio. Come si esprime la voce? Quali sono le fenomenologie della voce? Grido e musica/melodia. Dietro ad entrambe c’è il carattere meta-logico, primario dell’essere, la Carne. Il grido non va infatti ridotto a parola, è un’altra cosa e al grido è legato lo spirare (vedasi Gesù sulla croce, ma anche una mamma che partorisce, una coppia nel rapporto sessuale ecc.). Il grido è così legato ad un’esperienza viscerale, in cui la carne si rende presente in maniera vitale, e dunque è la fenomenologia più prossima al mistero primario della Voce. Riguardo alla musica/melodia, Iankelevich dice che essa non dice in fondo nulla, è l’esperienza del senza perché, perché non ha un fine, se non l’essere fenomenologia che termina, ciò che resta di un’ esperienza unica. Anche qui c’è il mistero del soffio che si fa presente. Quando dunque il suono è affidato alla melodia, è suono puro, privo di senso, pura dinamica. Riassumendo Tutto ciò ci aiuta nel compito di declinazione della Parola nelle parole, perché il filtro è la voce, che esprime l’intimità della carne ed entrambi sono così filtri necessitanti. In questo senso Dio e Parola sono necessari in ogni parola, perché mistero continuamente sorgivo. A proposito di ciò si veda G. Steiner “Grammatica della creazione” e “Presenze reali”: è bello leggerlo in inglese. Egli è anche molto bravo nella filosofia della musica. In tutto ciò ci si ricordi però che il passaggio Parola – parole non è mai indolore, comporta la perdita dello spirito, il carattere umido della respirazione ecc. anche perché il parto originario del Logos è fatto dall’Archè, il Padre è sorgivo e non il Figlio! Concludendo Si potrebbe dire dunque, che in principio è la musica! Una bella lettura trascendentale della musica contemporanea, è quella di E. Morricone. Il primo tema della colonna sonora di mission, Gabriel’s oboe, può essere tranquillamente letto in chiave pneumatologica e trinitarista. Il suono dell’oboe ritma infatti il mistero della creazione che va svolgendosi e solo dopo un po’ arrivano i cori. La voce è dunque prima ed è la corale che fa da supporto alla melodia e non il contrario! Il suono originario è un mistero genetico e quando l’oboe raggiunge il picco ecco le voci. Di questa dinamica partecipa tutto il corpo, perciò è importante il carattere cosmico dell’incarnazione, un carattere esteso e dominante. Il mistero sorgivo resta dunque tale. E siccome il linguaggio poetico, e soprattutto quello delle poesie d’amore, è l’unico ad esprimere bene il mistero della carne, ecco che chiudiamo con una poesia di P. Neruda (uno dei suoi 101 sonetti), perché lui è il poeta della passione, dietro a cui c’è il mistero della carne. Testi letti oltre al libro: P. Gamberini, Il “pathos” di Dio nel pensiero di Abraham Joshua Heschel, in La Civiltà Cattolica 149/2 (1998), 450-464 N. Ciola, “Disagi” contemporanei di fronte al paradosso dell’incarnazione, in PATH 2 (2003), 443-471 L. F. Ladaria, La recente interpretazione della definizione di Calcedonia, in PATH 2 (2003), 321340 K. Barth, L’umanità di Dio. L’attualità del messaggio cristiano, Claudiana, Torino 1975, 77-123 G. Mazza, Immagini del Nome: uni-pluralità, pesudonimia e trans-figurazioni del Logos incarnato, in Ricerche Teologiche 19 (2008) 1, 79-94 G. Mazza, Incarnazione, in Dizionario di futura stampa G. Borgonovo, Incarnazione del Logos. Il Logos giovanneo alla luce della tradizione giudaica, in La Scuola Cattolica 130 (2002) 43-75 A. Cozzi, Il Logos e Gesù. Alla ricerca di un nuovo spazio di pensabilità dell’incarnazione, in La Scuola Cattolica 130 (2002) 77-116 S. Grasso, «In principio era la comunicazione»: polisemantica del termine logos nel Quarto Vangelo (Gv 1,1), in S. Grasso – E. Manicardi (a cura di), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18), EDB, Bologna 2006, 109-121 P. Coda, Il Logos e il nulla. Trinità religioni mistica, Città Nuova, Roma 2003, 7-11.64-74.190Testi analizzati, ma non troppo approfonditamente: M. C. Taylor, Erring. A postmodern A/theology, The University of Chicago Press, Chicago 1984 O. D. Crisp, Divinity and Humanity. The incarnation Reconsidered, Cambridge University Press, Cambridge 1987, 1-33